Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht

Dal blog di Salvatore Ricciardi:

 

Rosa Luxemburg (5 marzo 1871 – 15 gennaio 1919)
Rivoluzionaria comunista polacca, nata il 5 marzo 1871 a Zamoshc. Da giovanissima aderì a Proletariat, formazione clandestina rivoluzionaria socialista; costretta ad abbandonare la Polonia russa per sfuggire ad un arresto, studiò economia politica e legge (1889-1896) a Zurigo, sostenendo posizioni decisamente internazionaliste fra i gruppi socialisti polacchi in esilio.
Trasferitasi a Berlino aderì al Partito socialdemocratico, prendendo posizione, assieme a Karl Kautsky, contro il revisionismo teorico di E. Bernstein e rappresentando, con Karl Liebknecht, l’ala sinistra del partito. Contro Bernstein è dedicato lo scritto “Riforma sociale o rivoluzione?” del 1899. Per la Luxemburg l’azione riformista poteva essere solo un mezzo di alcune fasi della lotta di classe, ma la strategia riformista non avrebbe fatto che appoggiare la borghesia dominante.
Prese il dottorato nel 1898 e successivamente conobbe molti socialdemocratici russi come: Georgy Plechanov e Pavel Axelrod. Epresse però forti differenze teoriche con il partito russo sulla “questione nazionale” in particolare sull’autodeterminazione polacca. La Luxemburg era convinta infatti che l’autodeterminazione potesse solo indebolire il movimento socialista internazionale, aiutando la borghesia a rafforzare il suo ruolo di classe dominante sulle nuove nazioni indipendenti. Mentre il partito russo e quello polacco erano d’accordo nel considerare legittimi i sentimenti di autodeterminazione delle minoranze nazionali all’interno dell’impero russo.
In questo periodo la Luxemburg incontrò Leo Jogiches, colui che sarà suo compagno per tutto il resto della sua vita e col quale condividerà un’intensa relazione tanto personale quanto politica. [vedi: Rosa Luxemburg, Lettere a Leo Jogiches (a cura di Lelio Basso), Feltrinelli, 1973]
Nel 1902-04 lavorò alla Gazeta Ludowa (Giornale del popolo). Nel 1904 subì la prima detenzione, di tre mesi, per lesa maestà; tornò in carcere per qualche mese l’anno successivo, quando si recò a Varsavia in occasione della prima rivoluzione russa. Nel 1905, scoppiò in Russia una rivoluzione che si espanse alla Polonia russa e a tutti gli angoli dell’impero zarista, la Luxemburg espresse il suo più pieno appoggio al partito bolscevico contro menscevichi e socialrivoluzionari e rivolse le sue attenzioni ed i suoi sforzi nell’appoggio al partito socialdemocratico di Polonia e Lituania (SDKPiL); pur non riuscendo a lasciare la Germania fino al dicembre 1905 svolse ugualmente il suo ruolo di principale analista politico del SDKPiL, scrivendo per esso un vasto numero di opuscoli; fu inoltre molto occupata dal problema di fornire un’educazione marxista di base alle migliaia di nuovi attivisti del partito, che nel giro di meno di un anno passarono da poche centinaia ad oltre 30.000. Non appena giunta a Varsavia, nel 1906, venne però arrestata.
Sempre nel 1906 scrisse “Sciopero di massa, partito politico e sindacato“, in cui esaltava l’importanza dello sciopero generale, ed attaccava con violenza il conservatorismo della burocrazia istituzionalizzata dei sindacati. A causa di questa sua visione dello sciopero di massa come il più importante strumento rivoluzionario nelle mani del proletariato, scaturì un duro conflitto nella socialdemocrazia tedesca, soprattutto con August Bebel e Karl Kautsky.
Dal 1907 al 1914 insegnò economia politica alla scuola di partito di Berlino, pubblicando una delle sue opere fondamentali, “L’accumulazione del capitale” (1913), lavoro volto a spiegare l’inesorabile movimento del capitalismo verso la sua fase imperialistica.
Trovandosi sempre più a sinistra in seno ad una socialdemocrazia tedesca, che andava sempre più accentuando il suo carattere opportunistico, finì per polemizzare, sul tema della riforma elettorale allora in discussione, col vecchio amico di un tempo, quel Karl Kautsky che era ancora considerato all’interno dell’Internazionale il rappresentante della più pura ortodossia marxista. (La rottura tra Lenin e Kautsky avviene successivamente a quella di Rosa).
Allo scoppio della prima guerra mondiale la Luxemburg si oppose ardentemente alle posizione social-scioviniste assunte dalla socialdemocrazia tedesca, che appoggiò apertamente l’aggressione tedesca e le sue annessioni. Insieme a Karl Liebknecht (l’unico parlamentare socialdemocratico che aveva spezzato la fedeltà al partito rifiutando di votare a favore della concessione dei crediti di guerra), abbandonò il partito socialdemocratico e partecipò alla formazione del Gruppo Internazionale (che presto muterà nome in Lega Spartaco) allo scopo di contrastare il socialismo nazional-sciovinista e di incitare i soldati tedeschi a rivoltare i loro fucili contro il loro governo per abbatterlo.
A causa di questa loro agitazione rivoluzionaria, la Luxemburg e Liebknecht vennero arrestati e imprigionati. In carcere la Luxemburg scrisse quella disamina del movimento socialista, nota come Junius Pamphlet (1916). Il Junius Pamphlet divenne il fondamento teorico della Lega di Spartaco.
Sempre dal carcere la Luxemburg scrisse il suo famoso libro “La Rivoluzione Russa”, nel quale critica il potere del partito bolscevico. In questo testo la Luxemburg spiega il suo punto di vista a proposito della teoria della dittatura proletaria: “Sì alla dittatura! Ma questa dittatura consiste in un modo di applicare la democrazia, non nella sua eliminazione, in un energico e risoluto attacco ai ben-consolidati diritti e relazioni sociali della società borghese, senza i quali la trasformazione socialista non può essere realizzata. Questa dittatura dev’essere opera della classe, e non di una parte che agisce in nome della classe – cioè, essa deve procedere passo dopo passo per mezzo dell’attiva partecipazione delle masse; essa dev’essere sotto la loro diretta influenza, completamente soggetta al controllo dell’attività pubblica; essa deve scaturire dalla crescente consapevolezza politica della massa del popolo“.
Pur criticando l’eccessivo potere del partito bolscevico sul governo sovietico, la Luxemburg riconobbe il fatto che, sotto le pressioni della violenta guerra civile in corso in Russia, tale atteggiamento dei bolscevichi risultava necessario: “Si chiederebbe qualcosa di sovrumano a Lenin ed ai suoi compagni se ci si aspettasse da essi che facciano apparire d’incanto, in tali condizioni, la più raffinata democrazia, la più esemplare dittatura del proletariato e la più fiorente economia socialista. Con la loro determinata posizione rivoluzionaria, la loro esemplare forza nell’azione e la loro indistruttibile lealtà al socialismo internazionale, essi hanno contribuito nel miglior modo possibile data la diabolicamente ardua situazione nella quale imperversa la Russia. Il pericolo inizia solo quando essi fanno di necessità virtù e vogliono cristallizzare in un completo sistema teorico tutte quelle tattiche che essi sono costretti a sostenere a causa di queste fatali circostanze, raccomandando così il medesimo atteggiamento al proletariato internazionale come modello di tattica socialista”.
La Luxemburg successivamente si oppose allo sforzo compiuto dal governo sovietico per raggiungere la pace a tutti i costi, sforzo ‘terminato’ con la firma del Trattato di Brest-Litovsk con la Germania.
Nel novembre 1918 il governo tedesco concesse, con riluttanza, libertà alla Luxemburg; al che ella poté riprendere immediatamente la sua attività rivoluzionaria, formando con Karl Liebknecht e Wilhelm Pieck il Partito comunista tedesco (Kpd) e ponendosi alla direzione del Die Rote Fahne (Bandiera Rossa).
Con Liebknecht e Pieck venne catturata e condotta presso l’hotel Adlon di Berlino, i corpi inermi della Luxemburg e di Liebknecht vennero trasportati lontano su una jeep militare, fucilati e gettati in un fiume, Pieck riuscì a trovare la via della fuga, era il 15 gennaio 1919. Il suo corpo, gettato in un canale, fu trovato solo alcuni mesi dopo; le autorità riuscirono a impedire che fosse sepolto a Berlino, per timore di manifestazioni e incidenti.

Karl Liebknecht (13 agosto 1871-19 gennaio 1919)
«Il nemico principale è in casa nostra!»
Nato a Lipsia, figlio di Wilhelm uno dei fondatori del Partito socialdemocratico tedesco.
Come avvocato, Karl Liebknecht spesso difese altri socialisti che venivano processati per reati come la diffusione di propaganda socialista in Russia. Divenne membro dell’SPD nel 1900 e fu presidente dell’internazionale socialista giovanile dal 1907 al 1910; Liebknecht scrisse estesamente contro il militarismo, e uno dei suoi scritti, “Militarismus und Antimilitarismus” (“militarismo ed antimilitarismo”) lo portò ad essere arrestato nel 1907 ed imprigionato per diciotto mesi a Glatz, in Slesia.
Nel 1912 Liebknecht venne eletto al Reichstag come socialdemocratico, si oppose alla partecipazione tedesca nella prima guerra mondiale e fu uno dei principali critici della più moderata leadership socialdemocratica di Karl Kautsky.
Alla fine del 1914, Liebknecht, assieme a Rosa Luxemburg, Leo Jogiches, Paul Levi, Ernest Meyer, Franz Mehring e Clara Zetkin formò la cosiddetta Spartakusbund (“Lega Spartachista“). La Lega Spartachista pubblicizzava i suoi punti di vista attraverso un giornale intitolato Spartakusbriefe (“Le Lettere di Spartaco“), che venne ben presto dichiarato illegale; Liebknecht venne arrestato e inviato sul fronte orientale durante la prima guerra mondiale, per il richiamo del gruppo agli argomenti dei bolscevichi russi per una Rivoluzione proletaria. Rifiutandosi di combattere, prestò servizio seppellendo i morti, e a causa della sua salute che si stava deteriorando rapidamente, gli fu permesso di ritornare in Germania nell’ottobre 1915.
Liebknecht venne arrestato di nuovo a seguito di una dimostrazione contro la guerra tenutasi a Berlino il 1 maggio 1916 che fu organizzata dalla Lega Spartachista, e condannato a due anni e mezzo di prigione per alto tradimento, che vennero in seguito portati a quattro anni e un mese; venne rilasciato nell’ottobre 1918, quando Max von Baden garantì un’amnistia per tutti i prigionieri politici. Dopo il suo rilascio, Liebknecht portò avanti le sue attività nella Lega Spartachista; riprese la direzione del gruppo assieme a Rosa Luxemburg e pubblicò il suo organo di partito, Die Rote Fahne (“Bandiera Rossa“). Il 9 novembre, Liebknecht dichiarò la formazione della “freie sozialistische Republik” (libera repubblica socialista) da una balconata del Castello di Berlino, due ore dopo la dichiarazione di Philipp Scheidemann della “Repubblica tedesca” da una balconata del Reichstag; il 31 dicembre 1918 / 1 gennaio 1919, partecipò alla fondazione del Partito Comunista Tedesco (KPD).
Assieme a Rosa Luxemburg, Leo Jogiches e Clara Zetkin, Liebknecht fu tra i protagonisti della Sollevazione Spartachista di Berlino del gennaio 1919. Questo tentativo rivoluzionario venne brutalmente represso dal nuovo governo socialdemocratico tedesco guidato da Friedrich Ebert, con l’aiuto dell’esercito e dei Freikorps; per il 13 gennaio, la sollevazione era stata schiacciata, e Liebknecht, assieme a Rosa Luxemburg, venne rapito dai soldati del Freikorps, portato all’Hotel Eden di Berlino dove venne torturato ed interrogato per diverse ore prima di venire ucciso, il 15 gennaio 1919.

 

 

Fonte:

http://contromaelstrom.com/2012/01/15/il-15-gennaio-di-93-anni-fa-la-socilademocrazia-assassinava-rosa-luxemburg-e-karl-liebknecht/

 

 

9 Novembre 1974 – Muore Holger Meins

 Domenica 09 Novembre 2014 09:15
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Holger Meins – militante della RAF, morì il 9 novembre 1974 a Wittlich a seguito del nutrimento forzato nel corso di uno sciopero della fame contro le condizioni annientanti dei detenuti politici.

Fu arrestato il 1 giugno 1972 assieme ad Andreas Baader e Jan-Carl Raspe. Questi tre detenuti, assieme a Gudrun Ensslin e Ulrike Meinhof, furono presentati dallo stato come “i capi principali della RAF“ e accusati per le azioni del maggio 1972 contro le basi americane a Heidelberg e Francoforte.

Immediatamente la morte di Holger venne vista come un suicidio imposto dalle condizioni inumane in cui i detenuti politici erano costretti a vivere.

Nel corso della conferenza-stampa dopo la morte, l’avvocato parlò senza mezzi termini di assassinio, documentando le sue affermazioni portando esempi concreti.

Ne riferiamo qui solo qualcuno: il Ministro regionale della giustizia, Martin, arrivò al punto di ordinare il blocco della distribuzione dell’acqua agli “scioperanti della fame”, dichiarando che chi non voleva mangiare non aveva diritto a bere. Solo l’immediata reazione del collegio di difesa e di parte dell’opinione pubblica costrinse il ministro Martin a ritirare il provvedimento. Sempre sulla scia dell’insegnamento nazista si pose il medico incaricato di nutrire forzatamente i detenuti: egli si servì infatti di una canula di dimensioni pari a quelle del tubo digerente, che provocò agli imputati lesioni interne inguaribili.

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3142-9-novembre-1974-muore-holger-meins

A 25 ANNI DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO, LA PALESTINA DICE: “ABBATTERE IL MURO”

Sabato 8 novembre attivisti hanno dato fuoco ad una torre militare e checkpoint appena a est della città di Nablus e disegnato graffiti. Gli attivisti hanno detto:

Da Berlino alla Palestina abbattere le mura.

L’azione ha segnato il 25 ° anniversario dell’abbattimento del Muro di Berlino Est che aveva separato famiglie tedesche per decenni. Il Muro dell’Apartheid che imprigiona i palestinesi nella West Bank palestinese e li divide dalla Palestina storica e dalla loro capitale è molto più lungo del Muro di Berlino, condannato dal mondo. 10 anni fa la Corte Penale Internazionale (ICJ) ha stabilito nel proprio parere consultivo che il Muro era illegale e dovrebbe essere buttato giù. La Corte Internazionale di Giustizia ha inoltre dichiarato che non si dovrebbe legittimare il Muro e lavorare per la sua rimozione.

SFP è sicuro che non aspetterà altri 10 anni perché il mondo faccia cadere le mura che cercano di imprigionarli e dividerli. Invitiamo le persone di tutto il mondo a aiutarci a abbattere il Muro e porre fine all’apartheid.

 

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17 ottobre 1977: i “suicidi” di Stammheim

Venerdì 17 Ottobre 2014 05:04

 

La notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977 i militanti della Rote Armee Fraktion Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe furono 17 ottobretrovati morti nella loro cella.
Il primo ucciso da un colpo di pistola alla nuca, la seconda impiccata ad un filo elettrico, il terzo trovato in fin di vita in cella a causa di una botta in testa, morì il giorno seguente in ospedale.

Inoltre Irmagard Moller, altra militante della RAF venne salvata in ospedale nonostante le gravissime ferite (quattro coltellate al petto).

Il 5 settembre 1977 la RAF rapì a Colonia il presidente della confidustria tedesca, nazista, era stato gestore dell industrie di Boemia e Moravia ai tempi dell’occupazione nazista, Hans-Martin Schleyer.
La RAF comunicò che l’ industriale sarebbe stato tenuto prigioniero fino alla liberazione dei sei detenuti a Stammheim.

La reazione dello Stato tedesco fu dura, per legge, venne decretato il totale isolamento di tutti i militanti della RAF detenuti nelle carceri della Germania Federale.
Il 9 maggio 1976 dopo anni di duro isolamento e di sciopero della fame collettivo dei mebri della RAF contro le condizioni inumane della loro detenzione Ulrike Meinhof fu trovata impiccata alle sbarre della cella.

Anche in questo caso la polizia e la direzione del carcere parlarono di suicidio collettivo, fu da subito evidente che non poteva trattarsi di un suicidio.
Sia perchè non era credibile che dei detenuti in regime di isolamento, che giornalmente venivano cambiati di cella e che erano sorvegliati a vista dai secondini, fossero riusciti a far entrare armi nel carcere e sia per le modalità con cui si sarebbero ammazzati.

Il 19 ottobre con una lettera inviata al giornale francese Liberation, la RAF annunciò di aver posto fine, dopo 43 giorni, alla “miserabile e corrotta esistenza” di Hans-Martin Schleyer.
Il giorno successivo la legge che imponeva l’isolamento per i militanti della RAF in galera fu revocata dal presidente tedesco.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2896-17-ottobre-1977-i-suicidi-di-stammheim

GAZA, DALL’INIZIO DELLA TREGUA SI CERCANO I MORTI SOTTO LE MACERIE: ARRIVATI A 1000

AGGIORNAMENTI:

ore 12:55 – DA QUANDO INIZIATA LA TREGUA DI 12 ORE RECUPERATI 81 CORPI. BILANCIO CHE SALE A 961 VITTIME

ore 12:45 – GUARDA VIDEO – CASA COLPITA NEL CAMPO DI AL-MAGHAZI

– See more at: http://nena-news.it/gaza-tregua-di-12-ore-nuovo-massacro-khan-yunis/#sthash.Ylj5hvJR.dpuf

Da Nena News:

AGGIORNAMENTI:

ore 15:20 –  Beit Hanoun (FOTO: COSIMO CARIDI)

Beit Hanoun

ore 15:15 – 7 MINISTRI ESTERI: “ESTENSIONE TREGUA UMANITARIA”

I ministri degli Esteri di sette nazioni , riuniti a Parigi, hanno chiesto una estensione del cessate il fuoco umanitario di 12 ore attualmente in vigore nella Striscia di Gaza.

Il Ministro francese Laurent Fabius ha esortato gli israeliani e i palestinesi a negoziare una tregua di lunga durata che possa soddisfare sia la richiesta di sicurezza dello stato ebraico , ma che possa anche accogliere la proposta palestinese di aprire i confini della Striscia in modo da rilanciare lo sviluppo economico nel piccolo lembo di terra palestinese.

Tra i diplomatici presenti vi erano quelli d’Inghilterra, Germania, Italia, Turchia, Qatar e Usa.

Il ministro francese ha, inoltre, espresso preoccupazioni per i civili gazawi e quelli israeliani.

ore 14:50 –  TV PANARABA AL-MAYADEEN: “I MORTI SONO ARRIVATI A 1.000″

ore 14:35 – BANCHE APERTE A GAZA

Banche aperte a Gaza in queste 12 ore di cessate il fuoco umanitario che dovrebbe terminare alle 20. Le banche sono state per lo più chiuse da quando è iniziata l’operazione “Bordo Protettivo”. Soprattutto dall’inizio dell’operazione terrestre.

ore 13: 55  –  CAMPO AL-MAGHAZI (FOTO: MICHELE GIORGIO)

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CAMPO AL-MAGHAZI (FOTO: MICHELE GIORGIO)

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ore 13:40 – GISGIORDANIA. NABLUS: GRUPPO ARMATO RIVENDICA OMICIDIO SOLDATO ISRAELIANO

Il braccio armato dei Comitati di Resistenza popolare Brigate al-Nasser Salah al-Din hanno detto di avere ucciso un militare israeliano, ieri, vicino la città di Nablus, in Cisgiordania. La Rivendicazione è arrivata da Gaza e il gruppo ha affermato di avere aperto il fuoco su una jeep israeliana verso l’una di notte, nei pressi dell’insediamento Itamar. Il gruppo ha aggiunto che le operazioni armate in Cisgiordania proseguiranno in risposta all’offensiva israeliana contro Gaza. le Forza armate israeliane non hanno commentato la rivendicazione.

Oggi le Brigate dei Martiri di al-Aqsa hanno detto di avere aperto il fuoco contro i militari israeliani ieri sera al check point di  Qalandia, ferendo un numero imprecisato di soldati nello scontro a fuoco.

ore 13:16 –  POLIZIA ISRAELIANA: “HAMAS NON È RESPONSABILE OMICIDIO COLONI”

L’omicidio dei tre giovani coloni, a giugno, che ha scatenato l’offensiva israeliana su Gaza non è responsabilità di Hamas. Lo dicono le dichiarazioni raccolte ieri da un giornalista della Bbc, Jon Donnison che ha intervistato il portavoce della polizia israeliana, Mickey Rosenfeld. Secondo il funzionario, i ragazzi sarebbero stati uccisi da affiliati di Hamas che avrebbero agito di propria iniziativa.
Il premier israeliano Benjamin Natanyahu aveva subito puntato il dito contro il movimento islamico, scatenando settimane di rastrellamenti in Cisgiordania, con centinaia di arresti tra i palestinesi, e, l’8 luglio, la campagna militare che sta falcidiando la popolazione della Striscia. Dichiarazioni che contraddicono.

ore 12:55 – DA QUANDO INIZIATA LA TREGUA DI 12 ORE RECUPERATI 81 CORPI. BILANCIO CHE SALE A 961 VITTIME

ore 12:45 – GUARDA VIDEO – CASA COLPITA NEL CAMPO DI AL-MAGHAZI

 

 

Fonte:

 

http://nena-news.it/gaza-tregua-di-12-ore-nuovo-massacro-khan-yunis/

NETANYAHU ACCETTA TREGUA DI 12 ORE DA DOMANI MATTINA, INTANTO CONTINUANO I BOMBARDAMENTI SU UN OSPEDALE. IL BILANCIO DELLE VITTIME SALE A 865 MORTI E OLTRE 5.730 FERITI. UCCISO UN PALESTINESE A HEBRON, UN ALTRO A BETLEMME

 Da Nena News:

AGGIORNAMENTI:

Ore 00.20 – GAZA, ANCORA BOMBE SU OSPEDALE: MEDICI E PAZIENTI INTRAPPOLATI

Le truppe israeliane si sono posizionate a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, e da prima della mezzanotte bombardano un ospedale della zona. All’interno c’è il personale medico (60 persone), tre pazienti e alcuni attivisti stranieri. Si contano diversi feriti, tra cui un cittadino svedese. La maggior parte dei pazienti sono stati evacuati.

“C’è il caos”, ha detto a Haaretz l’attivista svedese Fred Ekblad, “i soldati ci sparano direttamente e non è semplice spostare i pazienti. Siamo tutti molto spaventati”. (Haaretz)

Il bilancio delle vittime è salito a 865 morti e oltre  5.730 feriti tra i palestinesi. 35 i soldati israeliani morti. Stasera le Brigate al-Qassam hanno detto di avere ucciso 10 militari israeliani in un’imboscat a Beit Hanoun. L’esercito di Tel Aviv non ha confermato

ORE 00.05 – PALESTINESE UCCISO DA ESERCITO ISRAELIANO VICINO BETLEMME DURANTE MANIFESTAZIONE

ORE 22.45 – NETANYAHU HA ACCETTATO LA TREGUA DI DODICI ORE DA DOMANI MATTINA ALLE 7

ORE 22.40 – GAZA, MEDICI FANNO NASCERE UN BAMBINO DA MADRE MORTA SOTTO BOMBARDAMENTO. TREGUA DI 12 ORE ANCORA AL VAGLIO DEL GABINETTO ISRAELIANO PREVEDE RICERCA DEI TUNNEL “SENZA FARE FUOCO”

Il personale medico dell’ospedale di Deir al-Balah ha annunciato di aver fatto nascere un bambino da una donna morta sotto bombardamento israeliano.

Secondo i media israeliani, l’accordo sulla tregua di 12 ore ancora al vaglio del gabinetto israeliano prevede che l’esercito continui la ricerca dei tunnel a Gaza senza però farli esplodere né aprire il fuoco.

Massiccia manifestazione a Jenin, nel nord della Cisgiordania: i presenti parlano di circa 5 mila persone. Manifestazione anche a Betlemme: l’ambasciata Usa in Israele ha emesso un ordine che vieta al proprio personale di recarsi a Betlemme questa sera, oltre a un avvertimento ai propri cittadini a stare lontani dalla città vecchia di Gerusalemme per tutta la giornata di oggi.

ORE 22.15 – INCERTA LA TREGUA DI 12 ORE. DOMANI RIUNIONE DI EMERGENZA A PARIGI PER CESSATE IL FUOCO IMMEDIATO. NASRALLAH APPARE IN PUBBLICO IN SOLIDARIETÀ CON GAZA

Secondo un funzionario israeliano citato da Haaretz, Netanyahu e Yaalon starebbero ancora discutendo la proposta di una mini-tregua di 12 ore formulata da Kerry dopo il rifiuto israeliano di un cessate il fuoco di 7 giorni. Intanto la Francia ha annunciato che domani ospiterà un meeting internazionale per un “cessate il fuoco immediato”: Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Italia, Qatar e Turchia hanno fatto sapere che saranno a Parigi, come anche l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton.

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha fatto una rara apparizione questo pomeriggio a Beirut, sul palco montato per le celebrazioni del “Jerusalem Day”, organizzate l’ultimo venerdì di Ramadan. Il capo del Partito di Dio si è affacciato da una tenda sul palco di Dahiye e ha dichiarato che “quest’anno il Jerusalem Day è dedicato alla solidarietà con la gente e la resistenza di Gaza”. “La Palestina – ha aggiunto Nasrallah – è ancora la causa più importante nel mondo musulmano”. Quella di oggi è stata la sua quinta apparizione dal vivo dal 2006, anno dell’attacco israeliano in Libano: Israele minaccia da quasi un decennio di assassinarlo.

ORE 21.40 – HAMAS TENTA DI CATTURARE SOLDATO ISRAELIANO, SALVATO DAL FUOCO DEL CARRO ARMATO. YAALON A IDF: “PREPARATEVI A ESTENSIONE OPERAZIONE DI TERRA”

L’esercito israeliano riferisce che alcuni miliziani di Hamas hanno provato a catturare un soldato trascinandolo verso un tunnel. Un carro armato ha sparato contro l’ingresso, permettendo al soldato di scappare. Il ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon ha detto all’esercito israeliano di tenersi pronto “alla possibilità che un’estensione dell’operazione via terra avverrà molto presto”.

ORE 21.15 – KERRY: “NETANYAHU HA APPROVATO TREGUA DI 12 ORE”

John Kerry ha dichiarato che il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha approvato un “acconto” di cessate il fuoco a Gaza: una pausa di 12 ore. Lo riferisce Haaretz.

ORE 21 – KERRY: “DIPLOMAZIA ANCORA AL LAVORO PER TREGUA DI SETTE GIORNI IN ONORE DELL’EID”

In conferenza stampa al Cairo il segretario di Stato Usa John Kerry ha detto che la diplomazia è al lavoro per tentare di far passare un accordo per un cessate il fuoco di sette giorni “in onore dell’Eid (domenica, festa della fine del Ramadan, ndr), per far avvicinare le persone in previsione di una tregua duratura”. Kerry ha dichiarato che “c’è ancora da lavorare sulla terminologia e sul contesto, ma nessuno smetterà di lavorare, perché siamo sicuri di avere un quadro che funzionerà”.

ORE 20.30 – CESSATE IL FUOCO RIFIUTATO ALL’UNANIMITÀ DA GABINETTO ISRAELIANO. ESERCITO UCCIDE UN PALESTINESE A HEBRON, ARTIGLIERIA COLPISCE OSPEDALE DI BEIT HANOUN

Un palestinese di trentadue anni è stato ucciso poco fa da militari israeliani nel campo profughi di al-Arrub a nord di Hebron.

L’Ap rivela che, secondo i media israeliani, il gabinetto israeliano ha rifiutato all’unanimità la proposta fatta da Kerry per un cessate il fuoco.

L’ospedale di Beit Hanoun è stato colpito poco fa dall’artiglieria israeliana. Secondo testimoni palestinesi pazienti, personale ospedaliero e volontari dell’International Solidarity Movement sarebbero intrappolati nell’edificio. Lo riferisce Haaretz.

Ore 19.40 – SFUMA LA TREGUA. ISRAELE DICE NO ALLA PROPOSTA DI KERRY. IL GABINETTO ISRAELIANO DISCUTE SU COME MIGLIORARE LE CONDIZIONI A FAVORE DI ISRAELE

Ore 19.30 – CHANNEL 10 DICE CHE  ISRAELE HA RIFIUTATO  TREGUA. ALTRE FONTI DICONO CHE NON C’E’ ANCORA IL VOTO DEL GABINETTO ISRAELIANO

Ore 19.00 – IN ATTESA CHE PARLI KERRY: SARÀ TREGUA?

C’è attesa per la conferenza stampa congiunta del segretario di Stato Usa, John Kerry, e del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in cui potrebbe essere annunciata una tregua tra Israele e Hamas, dopo una giornata di intenso lavoro diplomatico che ha coinvolto Egitto, Turchia, Qatar. La conferenza stampa è stata rinviata alle 19.30 italiane, al Cairo.

Una settimana di sospensione dei combattimenti a Gaza, da domenica, e colloqui tra i belligeranti. Le condizioni –disarmo di Hamas e mantenimento di truppe israeliane a Gaza- però non sono facili da accettare per il movimento islamico. Nel pomeriggio le dichiarazioni del leader e parlamentare di Hamas, Mushir al-Masri che ha detto che sul tavolo “non c’è alcun cessate il fuoco con Israele” e cha la resistenza sta “portando avanti la battaglia con saggezza”, hanno fatto vacillare le speranze di una tregua, dopo 18 giorni di combattimenti, oltre 800 morti palestinesi e 35 soldati israeliani.
Israele è finito al centro delle critiche della comunità internazionale in seguito alla strage di ieri nella scuola Unrwa di Beit Hanoun, dove i raid israeliani hanno fatto 16 morti tra i 1.500 sfollati che lì avevano trovato rifugio.

Intanto, la Bbc ha raccolto le dichiarazioni del portavoce della polizia israeliana, Mickey Rosenfeld, sulla morte dei tre ragazzi israeliani scomparsi il 12 giugno. Un omicidio che il premier israeliano Benjamin Natanyahu ha subito attribuito ad Hamas e che è stato la causa scatenante dell’offensiva su Gaza. Secondo Rosenfeld, i ragazzi sarebbero stati uccisi da affiliati di Hamas che avrebbero agito di propria iniziativa.

 

Ore 18.50 – OMS CHIEDE CORRIDOIO UMANITARIO A GAZA

SALE A 168 IL NUMERO DEI PALESTINESI UCCISI. MIGLIAIA IN FUGA CERCANO RIFUGIO NELLE SCUOLE ONU. OSPEDALI SENZA PIU’ MEDICINE

13 lug 2014

by Redazione

(Foto: Reuters)(Foto: Reuters)

Giorno 5 – Sabato 12 luglio

Giorno 4 – venerdì 11 luglio

Giorno 3 – giovedì 1o luglio

Giorno 2 – mercoledì 9 luglio

Giorno 1 – martedì 8 luglio

 

AGGIORNAMENTO ORE 23.15 – BOMBARDAMENTO SU RAFAH, UCCISO UN BAMBINO. I MORTI SALGONO A 168. UN RAZZO ATTRAVERSA LA FRONTIERA SIRIANA, ISRAELE RISPONDE: “CONSIDERIAMO RESPONSABILE IL REGIME SIRIANO”

AGGIORNAMENTO ORE 22.30 – INTENSI BOMBARDAMENTI SU DEIR AL-BALAH, UN MORTO

Un uomo di 65 anni è stato ucciso durante gli intensi bombardamenti israeliani su Deir el Balah. Raid anche vicino al campo profughi di Nuseirat e a ovest di Khan Younis. Il totale delle vittime palestinesi dall’inizio dell’operazione israeliana è di 167 persone.

AGGIORNAMENTO ORE 19.30 – ABBAS: “L’ONU PROTEGGA LA PALESTINA SECONDO LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI”

Il presidente dell’Autorità palestinese invierà una lettera al segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon e al coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente Robert Serry per chiedere che la Palestina venga messa sotto protezione internazionale. Secondo il comunicato diffuso poco fa dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Abbas si starebbe muovendo in questi giorni per il rispetto delle convenzioni internazionali, di cui è firmatario in quanto stato non-membro dell’Onu dal 2012.

In particolare, Abbas ha esortato la Svizzera, depositaria della quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione di civili in tempo di guerra, a chiedere ai firmatari immediate sanzioni nei confronti di Israele che, in quanto potenza occupante, è responsabile della sicurezza dei civili. Il presidente dell’Anp chiede anche una commissione di inchiesta che indaghi sui bombardamenti indiscriminati che sta compiendo l’aviazione israeliana.

AGGIORNAMENTO ore 18.45 – KERRY A NETANYAHU: “SEMPRE DISPONIBILI A TRATTARE LA TREGUA”

Il segretario di Stato Usa Kerry ha telefonato oggi al premier israeliano Netanyahu per rinnovare l’offerta di Washington di fare da mediatore per un cessate il fuoco tra Hamas e Tel Aviv, sottolineando “la preoccupazione americana per l’escalation sul terreno”. Oggi Kerry parlerà anche con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna riuniti a Vienna per discutere le modalità di intervento.

AGGIORNAMENTO ore 18.30 – MIGLIAIA IN FUGA DALLE BOMBE ISRAELIANE CERCANO RIFUGIO NELLE SCUOLE ONU

Migliaia di palestinesi residenti a Nord di Gaza stanno lasciando in queste ore le loro case cercando rifugio nelle strutture dell’UNRWA dopo aver ricevuto l’avvertimento delle forze militari israeliane. Dagli aerei sono stati lanciati volantini e in alcuni casi i residenti sono stati chiamati al telefono, avvertendo di lasciare le abitazioni entro mezzogiorno “per la propria sicurezza”.

I rifugi di fortuna, soprattutto scuole, non sono pronte ad accogliere almeno 4mila persone in questo momento in fuga: manca tutto e alcune famiglie si sono portate coperte e materassi. La foto è stata scattata da Michele Giorgio questo pomeriggio in una scuola UNRWA.

Gazawi cercano protezione in una scuola UNRWA (Foto: Michele Giorgio)

Gazawi cercano protezione in una scuola UNRWA (Foto: Michele Giorgio)

 

AGGIORNAMENTO ORE 17:30 HAMAS:“IL RUOLO DELL’ANP DEVE ESSERE PIU’ EFFICACE. TREGUA? FINORA NESSUNA PROPOSTA SERIA”

Secondo l’emittente panaraba al-Mayadeen gli israeliani vorrebbero giungere ad un accordo simile a quello siriano per le armi chimiche nell’ambito di una intesa internazionale a guida statunitense. Sempre secondo la tv gli sforzi dell’Autorità Palestinese, Qatar, Egitto e Turchia di giungere ad una tregua stanno incontrando l’opposizione di Tel Aviv che vuole continuare il conflitto.

Intanto Hamas, tramite il suo portavoce Abu Zuhri, ha bacchettato poco fa l’Autorità Palestinese: “il ruolo dell’Anp deve essere più efficace. In pratica governa la Striscia, ma assistiamo ad un vuoto governativo”. Abu Zuhri ha negato l’intenzione del suo movimento di iniziare il conflitto. “Hamas non ha scelto la guerra, l’Occupazione [Israele, ndr] l’ha voluta e deve assumersi le responsabilità. Ora prova a ricompensare la sua missione fallimentare colpendo i civili”. Poi provocatoriamente ha aggiunto:“la maggior parte dei suoi cittadini sono sotto terra, contrariamente a noi che siamo all’aria aperta”. E su un possibile cessate il fuoco ha risposto: “al momento non ci è stata presentata alcuna proposta seria nonostante le tante chiamate ricevute. Quando ciò avverrà, la studieremo. Ma fino ad allora continueremo a rispondere all’aggressione”.

AGGIORNAMENTO ORE 15:45 IL MINISTERO DEGLI INTERNI A GAZA: “L’ORDINE DI EVACUAZIONE  RIENTRA NELLA GUERRA DI NERVI CHE ISRAELE STA COMPIENDO”

Commentando l’ultimatum israeliano di stamattina secondo cui i palestinesi del nord della Striscia devono lasciare le loro case, un portavoce di Hamas ha dichiarato alla televisione del movimento islamico: “gli abitanti di Gaza non devono ascoltare gli ordini [di Israele, ndr] di abbandonare le loro case. Ci devono restare. Questa è una guerra psicologica”. Gli fa eco il Ministero degli Interni a Gaza secondo cui le telefonate e i volantini israeliani rientrano nella “guerra di nervi” che Israele sta compiendo alla luce del “fallimento della politica di occupazione”. In una nota ufficiale, il Ministero rende noto di essere “in contratto con tutte le organizzazioni internazionali e i gruppi in difesa dei diritti umani che sono attivi nella Striscia. Al momento non è stata richiesta una evacuazione dell’area”.

Il Ministero della Salute palestinese annuncia che i palestinesi uccisi dall’inizio dell’Operazione “Bordo protettivo” sono 167 e lancia nuovamente un grido di allarme per la carenza di medicinali e materiale sanitario soprattutto quello necessario per effettuare operazioni.

Nelle ultime ore sono suonate nuovamente le sirene ad Ashkelon, Ashdod e nelle aree confinanti con la Striscia. Poco fa allarme attivo anche nell’area del Gush Dan (al centro d’Israele dove vi è anche Tel Aviv) a Naharia e in Cisgiordania. Non si registrano danni né di feriti. Il sistema “Iron Dome” ha intercettato due razzi ad Ashkelon, uno a Hadera (nord di Tel Aviv) e uno ad Ashdod dove altri due missili sono caduti in territorio aperto. Da stamane sono stati lanciati più di 70 razzi verso lo stato ebraico. A riferirlo è il canale 10 israeliano secondo cui Israele non sarebbe interessata ad una invasione di terra.

Di questa possibilità si discuterà nella riunione del Gabinetto di Sicurezza israeliano che è stato posticipato alle 17:30 ore italiane.

Clima teso anche al confine tra Libano ed Israele. Al momento nei villaggi libanesi meridionali regna la calma dopo che ieri erano stati oggetto di un bombardamento israeliano. L’Unifil pattuglia l’area nel tentativo di evitare una escalation invitando l’esercito libanese e quello israeliano alla moderazione

AGGIORNAMENTO ore 13 – SCONTRI AD AL AQSA: 20 FERITI

Le forze militari israeliane sono entrate stamattina nella Spianata delle Moschee a Gerusalemme e si sono scontrate con giovani palestinesi, dopo la chiusura di Al Aqsa imposta da Tel Aviv ai fedeli musulmani. Le forze israeliane hanno sparato proiettili di gomma, mentre un gruppo di israeliani di destra veniva fatto entrare nella Spianata. Venti i feriti tra i palestinesi, molti alla testa.

Scontri anche nei quartieri di Gerusalemme Est, nella notte di ieri, a Shuafat, al-Tur e Anata. Secondo quanto riportato da Abu al-Hummus, attivista di Issawiya, dieci palestinesi sono stati feriti.

AGGIORNAMENTO ore 11.35 – NETANYAHU: “NON SAPPIAMO QUANDO L’OPERAZIONE FINIRA’”

Il premier Netanyahu è tornato a dire oggi di non sapere “quando l’operazione militare terminerà”. “Smetteremo quando la tranquillità sarà tornata”.

AGGIORNAMENTO ore 11.30 – ONU: “OLTRE 4MILA GAZAWI IN FUGA DA NORD”

Secondo le Nazioni Unite, sarebbero oltre 4mila i palestinesi in fuga dalla zona Nord della Striscia dopo l’avvertimento israeliano di un prossimo bombardamento contro Beit Lahiya.

Palestinesi in fuga da Nord (Foto: AFP)

Palestinesi in fuga da Nord (Foto: AFP)

AGGIORNAMENTO ore 11.15 – EMERGENZA SANITARIA: A GAZA NON CI SONO PIU’ MEDICINE

A Gaza City mancano i medicinali e il più grande ospedale della Striscia, al-Shifa, è ormai quasi privo di medicine e equipaggiamento sanitario. “Abbiamo usato tutte le medicine e avevamo pensato di acquistarne altre da fuori – ha detto Basman al-Ashi, direttore dell’ospedale Al Wafa, target ieri di alcuni missili – Ma poi la guerra è esplosa e abbiamo cominciato a usare le riserve. Se la guerra continua per un’altra settimana o due, non avremo più nulla per curare i nostri pazienti”.

Negli ospedali mancano la metà dei farmaci essenziali, previsti dall’Organizzazione Mondiale della Salute e 470 tipi di materiali sterili e monouso, tra cui aghi, siringhe, cotone, disinfettanti, guanti e molto altro.

AGGIORNAMENTO ore 11.00 – VALICO DI RAFAH APERTO

Le autorità egiziane hanno riaperto oggi il valico di Rafah tra Gaza e Egitto in una sola direzione per permettere l’evacuazione dei feriti gravi.

AGGIORNAMENTO ORE 9.30 – ESERCITO A PALESTINESI DI BEIT LAHIA: LASCIATE CASE STIAMO PER BOMBARDARE 

“Chiunque trascuri le istruzioni dell’esercito metterà la vita di se stesso e della sua famiglia a rischio. Attenzione”. E’ quanto si legge nei volantinilanciati dall’esercito israeliano sulla zona di Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, con l’avviso agli abitanti di abbandonare prima di mezzogiorno le case. “L’operazione dell’esercito – e’ scritto – sarà breve”.

dalla redazione

Gerusalemme, 13 luglio 2014, Nena News – Sale a 162 il numero delle vittime gazawi al sesto giorno di offensiva israeliana, “Barriera Protettiva”. Ieri è stato il giorno più sanguinoso con 56 morti; solo nella notte sono morte 21 persone, almeno 35 i feriti: 18 le vittime della famiglia Al Batch solo nel quartiere di Al Tuffah a Gaza City, quando un bombardamento ha colpito una moschea. Secondo Israele il target era Tayseer Batch, capo di polizia. Il violento attacco notturno è giunto dopo l’annuncio di Hamas di colpire Tel Aviv alle 9 di ieri sera, seguito al lancio di alcuni missili.

Ieri notte ci sono però stati i primi scontri diretti tra soldati israeliani e miliziani di Hamas. Durante un raid della marina lungo la costa della Striscia (target, un lanciarazzi di Hamas) c’è stato uno scambio di fuoco tra i due. Secondo il movimento islamista, questo avrebbe impedito ai soldati di entrare in territorio gazawi, ferendone quattro. Si tratterebbe del primo tentativo di ingresso israeliano nella Striscia. L’esercito israeliano non ha rilasciato commenti, si è limitato da riportare il ferimento dei quattro soldati. Le Brigate Al Qassam hanno confermato lo scontro a fuoco.

Vero è che Israele prosegue negli avvertimenti alla popolazione: ancora ieri il governo israeliano ha detto ai civili residenti a nord di lasciare le proprie case per l’imminenza di un’incursione terrestre.

Ieri notte si è mosso anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che dopo due giorni di attesa ha emesso all’unanimità una dichiarazione nel quale chiede l’immediato cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il rispetto del diritto internazionale, il ritorno al negoziato diretto tra israeliani e palestinesi e ai termini della tregua del novembre 2012. In questo momento i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti stanno discutendo sulle modalità di una tregua a Vienna. Nena News

 

 

Fonte:

http://nena-news.it/diretta-gaza-esercito-a-palestinesi-beit-lahia-lasciate-case-bombardiamo/

 

 

151 LE VITTIME PALESTINESI MENTRE LA SITUAZIONE SANITARIA DI GAZA E’ SEMPRE PIU’ CRITICA

 

12 lug 2014

by Redazione

Dopo il lancio di razzi su Tel Aviv, annunciato e celebrato da Hamas, scatta la rappresaglia di Tel Aviv contro una moschea di Gaza city

Palestinians gather around a house which police said was destroyed in Israeli air strikes in Khan Younis in the southern Gaza Strip, 8 July. Eight persons, including six children, were killed. (Ramadan El-Agha / APA images)

Palestinians gather around a house which police said was destroyed in Israeli air strikes in Khan Younis in the southern Gaza Strip, 8 July. Eight persons, including six children, were killed. (Ramadan El-Agha / APA images)

 

Giorno 4 – venerdì 11 luglio

Giorno 3 – giovedì 1o luglio

Giorno 2 – mercoledì 9 luglio

Giorno 1 – martedì 8 luglio

 

AGGIORNAMENTO ORE 23 – 151 MORTI, ESPLODE LA VIOLENZA A GERUSALEMME. CONFERMATO L’AVVISO DI EVACUAZIONE PER IL NORD DELLA STRISCIA DI GAZA. IDF: “NOI PAESE DISCIPLINATO, MISURA ALTAMENTE MORALE”

Il numero delle vittime palestinesi è salito a 151, dopo il raid che a Gaza City ha causato la morte di 16 persone – tra cui donne e bambini – in una moschea e in un’abitazione privata. Ci sarebbero anche alcune persone intrappolate sotto le macerie. Due razzi in provenienza dal Libano sono caduti nella Galilea occidentale e Israele ha aperto il fuoco oltreconfine. Esplode la violenza a Gerusalemme, con scontri tra esercito israeliano e dimostranti palestinesi a Issawiya, at-Tur e Qalandiya.

Le autorità militari israeliane hanno confermato che presto verrà diffuso l’avviso di evacuazione per i residenti del nord della Striscia di Gaza: secondo un alto ufficiale israeliano intervistato da Haaretz sarebbe proprio da lì che viene sparata la maggior parte dei razzi diretti in Israele. Secondo l’ufficiale, la popolazione verrà avvertita via media, telefono e volantini e una volta ripulita la zona dai civili, l’esercito rimuoverà alcune delle restrizioni alle varie unità, intensificando gli attacchi aerei. ”Questa – ha dichiarato l’ufficiale – è una misura altamente morale… L’evacuazione consente una maggiore libertà di azione nella zona. Noi, da paese disciplinato, emetteremo segnalazioni prima di colpire coloro che vogliono uccidere i nostri cittadini”.

AGGIORNAMENTO ORE 22.00

 Un nuovo raid aereo israeliano ha causato stasera a Gaza City almeno altri 15 morti, portando il totale delle persone uccise oggi nella Striscia a 45 (circa 150 da lunedì), secondo le stime dei servizi di soccorso medico locali palestinesi. L’attacco ha colpito un edificio e una moschea.

 

AGGIORNAMENTO ORE 20.30 – 135 VITTIME, 950 FERITI A GAZA. DUE RAZZI INTERCETTATI SU TEL AVIV, HAMAS: “ASPETTIAMO UN’OFFERTA PER UN CESSATE IL FUOCO”

Il bilancio delle vittime palestinesi a cinque giorni dall’inizio dell’operazione “Bordo protettivo” contro Gaza è di 135 morti: lo riferisce al-Jazeera. Gli ultimi raid dell’aviazione israeliana hanno avuto come obiettivi 4 militanti di Hamas e della Jihad Islamica che, secondo quanto riporta Haaretz, “stavano lanciando razzi contro Israele” e la casa di un dirigente di Hamas dove, sempre secondo Haaretz, erano nascosti dei lanciarazzi. Anche la casa di un miliziano della Jihad Islamica, Radwan Tapash, è stata colpita.

Continua intanto il lancio di razzi verso Israele. Haaretz riporta che due missili sono stati appena intercettati nei cieli di Tel Aviv. Sami Abu-Zuhri, portavoce di Hamas, ha dichiarato che il gruppo deve ancora ricevere una “offerta concreta” per quanto riguarda un cessate il fuoco. ”Non stiamo elemosinando una tregua.  Se dovessimo ricevere una proposta seria – ha aggiunto – la studieremo e daremo una risposta. Ma nel frattempo, le forze della resistenza continueranno a combattere l’occupazione”.

Secondo la tv israeliana Canale 10, Israele ordinerà stanotte a parte degli abitanti ‪di ‎Gaza‬ di lasciare le proprie case perché quelle aree saranno zona di combattimento.

AGGIORNAMENTO ORE 18:30 LA TV AL-MAYADEN: “IL BILANCIO DELLE VITTIME PALESTINESI SALE A 133″

 Secondo quanto riferisce la tv al-Mayadeen le vittime palestinesi sarebbero salite a 133. 950 i feriti.

Intanto a Ramallah si è riunita la dirigenza del Comitato politico dell’OLP. Tra i temi discussi la richiesta di protezione internazionale. A Londra il Ministro degli Esteri britannico,William Hague, ha dichiarato che Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Germania si incontreranno domani per discutere della possibilità di un cessate il fuoco a Gaza.

Secondo quanto riferito dai media israeliani le sirene sono risuonate ad Ashkelon ed Ashdod. Un missile avrebbe, invece, provocato due feriti a Rishon LeTzion. Due esplosioni si sono udite a Gerusalemme mentre quattro razzi sono caduti  in Cisgiordania nella zona di Hebron e Betlemme.

L’Aviazione israeliana ha annunciato di non riuscire a portare a termine la missione da sola. A dirlo è il canale 10 israeliano.

AGGIORNAMENTO ORE 16:40 ABU ZUHRI (HAMAS): “NESSUNA TREGUA SE L’AGGRESSIONE CONTINUA”

La tv al-Mayadeen riporta le parole pronunciate poco fa dal portavoce di Hamas, Abu Zuhri: “non c’è possibilità di una tregua se l’aggressione israeliana continua. Chi parla di calma è solo la stampa israeliana, ma non è la nostra posizione. L’attacco israeliano ha superato tutte le linee rosse. A Gaza sta avvenendo una guerra di sterminio”. Abu Zuhri ha poi aperto alle altre forze palestinesi: “siamo d’accordo con la proposta della Jihad islamica di convocare un incontro palestinese allargato”. E sull’ANP ha detto: “l’autorità palestinese deve assumersi le responsabilità e sentirsi ingannata dalla posizione araba”. Ha poi minacciato Tel Aviv: “non siamo né deboli né in crisi. Anzi, nei prossimi giorni dimostreremo che ad esserlo è l’Occupazione [Israele,ndr]”.

Tra i sei morti palestinesi  nel raid a Sheykh Radwan a Gaza, ci sono anche 2 nipoti dell’ex Premier di Hamas, Ismail Haniyeh. 20 sono stati i feriti. Sirene sono suonate nuovamente a Ashkelon e Hof Hashkelon

AGGIORNAMENTO ORE 15:10 127 PALESTINESI UCCISI. 940 I FERITI

Un raid militare israeliano nel quartiere di Shaykh Radwan a Gaza ha provocato la morte di 6 persone. Il bilancio dei palestinesi uccisi da stamattina sale a 21 vittime. Il Ministero della Salute a Gaza ha detto che i morti totali sono 127. 940 sono i feriti.

Continua il lancio di razzi su Israele. Due missili sono esplosi vicino a Eshkol. Altri tre sono caduti a Sha’ar HaNeghev. In entrambi i casi non si registrano danni. 3 feriti israeliani si registrano a Netivot in seguito alla caduta di un missile su una casa. A riferirlo sono i media israeliani.

Le Brigate al-Qassam dichiarano di aver colpito l’aeroporto di Tel Aviv “Ben Gurion”. Notizia però che non trova conferma da parte israeliana.

L’esercito di Tel Aviv ha detto che finora sono stati sparati dalla Striscia di Gaza 36 razzi dei quali due sono stati intercettati dall’Iron Dome. 19 sono invece esplosi nella zona di Eshkol.

AGGIORNAMENTO ore 14.45 – RIAPERTO IL VALICO DI RAFAH

Stamattina il valico di Rafah è stato riaperto dalle autorità egiziane per permettere l’evacuazione di feriti gravi, gazawi con cittadinanza egiziana e internazionali. Dall’Egitto sono arrivati anche aiuti umanitari alla Striscia. Il valico era stato aperto giovedì (erano passate solo 11 persone) e poi di nuovo chiuso venerdì.

AGGIORNAMENTO ore 14.15 –  CINQUE MORTI PALESTINESI IN UN ATTACCO ISRAELIANO A GAZA CITY

AGGIORNAMENTO ore 13 – AL ARABIYA: “MORTI DUE SOLDATI ISRAELIANI, DOPO INGRESSO A GAZA”

Secondo alcuni media arabi, tra cui al Arabiya, ieri notte truppe speciali israeliane sono entrate via terra a nord della Striscia e avrebbero ingaggiato un conflitto a fuoco con miliziani palestinesi. Sia le Brigate Al Qassam (Hamas) che le Brigate Al Quda (Jihad Islamica) hanno rivendicato l’azione in cui sarebbero morti due soldati israeliani.

AGGIORNAMENTO ore 12.15 – ISRAELE: “COLPITA UNA MOSCHEA PERCHE’ CONTENEVA ARMI”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha detto che l’aviazione ha colpito ieri notte una moschea al centro di Gaza perché probabilmente conteneva armi. In cinque giorni di operazione militare Israele ha compiuto oltre 1.160 bombardamenti aerei e ha ucciso oltre 120 persone, di cui moltissimi bambini.

AGGIORNAMENTO ore 12 – MINISTRO DELLA DIFESA: “L’OPERAZIONE PROSEGUIRA’ A LUNGO”. LUNEDì AL CAIRO SI INCONTRANO I PAESI ARABI

Il ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon ha incontrato oggi i funzionari di esercito, Shin Bet e Ministero per organizzare i prossimi giorni di offensiva: “Ci stiamo preparando  per molti altri giorni di combattimento e proseguiremo nel promuovere i nostri obiettivi: colpire Hamas e altre organizzazioni terroristiche per riportare pace e sicurezza ai cittadini di Israele”.

Lunedì i ministri degli Esteri dei paesi arabi si incontreranno al Cairo per discutere dell’escalation di violenza tra Hamas e Israele. A chiedere il meeting è stato il Kuwait, attuale presidente della Lega Araba.
AGGIORNAMENTO ore 11.30 – LE NAZIONI UNITE DIVISE SULLA CRISI DI GAZA

Prosegue in Consiglio di Sicurezza la discussione sulla bozza di risoluzione sull’attacco israeliano contro Gaza. La delegazione palestinese, insieme ad alcuni paesi sostenitori, sta cercando di far passare la condanna contro tutte le violenze sui civili e la richiesta di un cessate il fuoco immediato e duraturo. L’iniziale bozza prodotta dal Consiglio parlava di “grande preoccupazione” per l’escalation di violenza, ma i 15 membri sono estremamente divisi sulla possibilità di condanna delle azioni israeliane. Una simile risoluzione sarebbe sicuramente bloccata dagli Stati Uniti.

La proposta presentata dalla Palestina chiama entrambe le parti a rispettare gli obblighi previsti dalla Convenzione di Ginevra e la protezione di civili in tempo di guerra e insiste nella soluzione a due Stati. Si chiede il ritorno all’accordo di tregua del 2012, alla fine del lancio di missili e dell’operazione israeliana.

 

AGGIORNAMENTO ore 11 – YNET NEWS: “QATAR E EGITTO STANNO MEDIANDO LA TREGUA”

Secondo il sito israeliano Ynet News, Qatar e Egitto starebbero lavorando ad una bozza di accordo di tregua tra Israele e Hamas. Tra i punti, che sarebbero già stati presentati alle due parti, c’è la liberazione dei 56 prigionieri rilasciati con l’accordo Shalit e poi riarrestati dall’esercito israeliano.

AGGIORNAMENTO ore 10.30 – SCONTRI A GERUSALEMME E IN TUTTA LA CISGIORDANIA

È stata una notte di scontri quella appena trascorsa in tutta la Cisgiordania, tra soldati israeliani e manifestanti palestinesi. Ieri notte a Qalandiya, una molotov ha incendiato la torretta militare, i soldati hanno risposto con proiettili veri, ma non hanno provocato feriti.

A Ramallah, stamattina giovani palestinesi hanno bloccato la strada che conduce alla base militare israeliana vicino al villaggio di Sinjel. Le truppe hanno risposto con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti. A Nord di Ramallah è stata attaccato il posto di blocco israeliano a Tal al-Asour con molotov e fuochi di artificio. I soldati si sono rifugiati nel bunker e hanno attaccato i manifestanti con proiettili di gomma.

A Betlemme, un palestinese è stato colpito da un proiettile vero durante scontri nei pressi del campo di Aida. Nel campo profughi di Al Arroub, tra Betlemme e Hebron, quattro giovani palestinesi sono stati feriti negli scontri di ieri notte da proiettili di gomma. Nel campo di al-Fawwar, a Hebron, dopo la preghiera, è partita una manifestazione di protesta contro l’attacco israeliano a Gaza: i manifestanti hanno attaccato i soldati israeliani con pietre e bottiglie vuote. Stessa scena a Hebron e a Beit Ummar: un giovane è stato colpito da un proiettile di gomma, molti altri hanno sofferto per l’inalazione di gas.

A Gerusalemme Est, a Shuafat i soldati israeliani sono stati attaccati con pietre e molotov ieri notte. Scontri simili a Abu Dis e Anata, città palestinesi di Gerusalemme Est ma oggi al di qua del muro di separazione.

 

AGGIORNAMENTO ore 10 – ATTIVISTI INTERNAZIONALI PRESIDIANO L’OSPEDALE AL WAFA

Attivisti internazionali dell’ISM stanno presidiando l’ospedale di Al Wafa a Gaza City per evitare che venga bombardato dall’aviazione israeliana. Ieri droni israeliani hanno colpito vicino all’ospedale. Per evitare che divenga il prossimo target, volontari da Stati Uniti, Spagna, Venezuela, Nuova Zelanda e Australia sono da ieri dentro il centro.

 

AGGIORNAMENTO ore 9.30 – TRE MORTI A GAZA CITY, DIFFICILE L’IDENTIFICAZIONE

Il Ministero della Salute di Gaza è riuscito a identificare i tre uomini uccisi stamattina nel quartiere at-Tuffah di Gaza City: a causa dell’esplosione i tre corpi erano stati fatti a pezzi.

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dalla redazione

Gaza, 12 luglio 2014, Nena News – Nuovi pesanti raid aerei israeliani vanno avanti dalla scorsa notte su tutta la Striscia di Gaza dove solo nelle ultime ore, secondo fonti locali, hanno ucciso almeno 9 persone tra le quali, in un istituto di Beit Lahiya, due donne disabili. L’attacco più grave, con quattro morti, è avvenuto a Jabaliya dove i missili hanno colpito una abitazione. L’ultimo bilancio di vittime palestinesi è di 121, tra i quali una ventina di bambini di pochi anni.

A Gaza denunciano anche un attacco, avvenuto ieri, contro l’ospedale “Wafa” di Shujayeh dove, a protezione della struttura sanitaria, sono presenti anche alcuni attivisti stranieri dell’International Solidarity Movement. Quattro razzi di “avvertimento”, che i jet israeliani talvolta sparano prima dell’attacco vero e proprio, hanno danneggiato gravemente il quarto piano dell’ospedale.

A Khan Yunis è stata colpita la sede della Banca nazionale islamica legata al movimento islamico Hamas. La violenza dei raid aerei mette sotto pressione l’erogazione dei servizi pubblici. Il 75% del capoluogo Gaza city è senza elettricità da questa mattina e alcuni ospedali operano solo con i generatori autonomi.

Non si arrestano peraltro i lanci di razzi palestinesi verso le città israeliane, inclusa Tel Aviv. A Bersheeva una donna è rimasta ferita quando un Grad ha colpito in pieno la sua abitazione. Molti dei razzi che partono da Gaza sono fermati dall’Iron Dome e i comandi militari israeliani stanno dispiegando  altre batterie del sistema di difesa antimissile.

Uno scenario di guerra che prelude all’offensiva di terra israeliana che il premier Benyamin Netanyahu ieri ha di fatto annunciato, sottolineando che le pressioni internazionali non fermeranno le operazioni militari. Nena News

Fonte:
*
12 lug 2014
by Redazione

Gli ospedali sono vicini al collasso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala l’insufficienza di forniture mediche e di carburante per i generatori autonomi di elettricità. Condizioni che non consentono di gestire l’ondata dirompente di feriti, mutilati e invalidi.

 Gaza3

di Federica Iezzi

Khan Younis, 12 luglio 2014, Nena News – L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala la grave carenza nei serivizi sanitari palestinesi. Insufficienza di forniture mediche e di caburante per i generatori degli ospedali, rendono le strutture sanitarie della Striscia di Gaza inadatte a gestire l’ondata dirompente di feriti, mutilati e invalidi causata dall’offensiva aerea israeliana.

I risultati degli indiscriminati bombardamenti fanno salire ora dopo ora il numero di civili feriti, che si riversano caoticamente negli atri e negli affollati corridoi degli ospedali maggiori della Striscia. I pazienti arrivano negli ospedali in ambulanze, furgoni, auto private e taxi collettivi, senza nessuna forma di allertarmento. Il 23% sono bambini.

Attualmente almeno 250 palestinesi non hanno la possibilità di ricevere cure mediche adeguate, per la mancanza assoluta di letti e barelle nei centri di pronto soccorso. Bloccata le attività sanitarie in elezione.

Mancano farmaci di emergenza, antibiotici e antidolorifici, materiale monouso e materiale sterile. Mancano guanti, cateteri urinari, punti di sutura e attrezzature mediche diagnostiche. Crolla l’attività  dei laboratori. Pesante lo stato delle banche del sangue. Già in utilizzo le scorte di materiale, che diminuiscono severamente. Non ultime, mancano forniture di carburante medico-ospedaliero per fronteggiare le innumerevole ore in cui l’elettricità manca. Critiche le condizioni dei pazienti ammessi nei reparti di emergenza, nelle rianimazioni e nelle sale operatorie.

Nel centro della Striscia di Gaza, nei pressi dei campi profughi di al-Nussairat e al-Maghazi,  negli ultimi bombardamenti sono stati danneggiati un ospedale, tre cliniche secondarie e un centro di desalinizzazione di acqua. Secondo il portavoce del Ministero della Salute palestinese, Ashraf al-Qedra, mancherebbe il 30% dei farmaci essenziali per la cura dei feriti gravi. A Gaza rimane un’autonomia del 15% per il resto dei farmaci, utilizzati nelle cure croniche.

Il Primo Ministro palestinese, Rami Hamdallah e il Ministro della Salute palestinese, Jawad Awwad, hanno coordinato una spedizione via mare, dai territori cisgiordani, Ramallah e Nablus, di farmaci per cure croniche, come diabete e malattie renali, farmaci oncologici, soluzioni arteriose, sacche di sangue e materiale di laboratorio.

Il Qatar avrebbe donato 5 milioni di dollari per l’acquisto di forniture ospedaliere e per servizi di emergenza nella Striscia di Gaza. La donazione sarebbe stata annunciata da Muhammad al-Ummadi, membro del Ministero degli Esteri del Qatar, che presiede il Comitato per la ricostruzione della Striscia di Gaza.

Intanto il personale medico gazawi lavora senza sosta, con turni logoranti senza orari.

Tre giorni fa, l’European Gaza Hospital di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza, ha subito danni durante un attacco aereo avvenuto a breve distanza. Un infermeire è stato ferito. Nonostante il barbaro perpetrarsi di bombardamenti senza preavviso su case, famiglie e bambini, nei pressi dell’ospedale, il personale sanitario continua a lavorare. Divisi in tre gruppi, medici e infermieri, coprono le 24 ore.

Ormai gli spostamenti sono diventati troppo pericolosi. Alcuni non riescono ad arrivare in ospedale perché vivono troppo lontani, per affrontare, senza rischi, il cammino a piedi. A molti mancano soldi per il trasporto pubblico. L’ospedale al-Shifa, nel distretto di Rimal a Gaza City, riceve ininterrottamente da quattro giorni feriti da schegge di proiettili – pare in qualche caso anche dalle operazioni di lancio dei razzi indirizzati dai miliziani palestinesi verso Israele – vittime dei martellanti bombardamenti e dei crolli degli edifici. I 12 letti della terapia intensiva dell’ospedale sono assiduamente occupati.

Da quando, giovedì, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah, dopo estenuanti pratiche burocratiche, solo 11 pazienti con ferite gravi hanno avuto il permesso di attraversare il confine tra Striscia di Gaza ed Egitto, in ambulanza. Chiuso nuovamente ieri dopo l’opera di allertamento degli ospedali egiziani più vicini a Rafah e quelli del Sinai settentrionale. Nena News

 

Fonte:

GAZA, LUGLIO 2014: UMANITA’ DOVE SEI? – PARTE PRIMA

Se le “democrazie” di tutto il mondo – compreso lo stato italiano – forniscono a Israele armi di distruzione di massa; se i media mainstream gridano allo scandalo di centinaia di razzi lanciati – che per fortuna non hanno fatto vittime ( e spero non ne faranno) – e chiamano terroristi i palestinesi, di cui la maggior parte donne e bambini, ammazzati come mosche; se i coloni israeliani si godono lo spettacolo dei bombardamenti seduti come a un cinema all’aperto e applaudendo a ogni esplosione; se Israele continua a fare vittime innocenti, dov’è l’umanità? Negli oltre cento martiri palestinesi di questi giorni.

D. Q.

 

Qui la foto che ritrae i coloni di Sderot mentre vanno al “cinema”:

“[…] gli abitanti di Sderot, nel sud di Israele, ieri notte hanno portato le loro sedie in cima alla collina che sovrasta la Striscia di Gaza per godersi lo spettacolo “cinematografico” dei bombardamenti: secondo il giornalista Allan Sorensen, che ha postato la foto su Twitter, gli spettatori applaudivano a al suono di ogni esplosione.”

sderot cinema

Fonte: Nena News

 

Qui un articolo de il manifesto sulle armi fornite a Israele:

Ecco il contributo dell’Italia ai raid dell’aviazione di Tel Aviv

— Manlio Dinucci,

Armi. La cooperazione sancita da una legge del 2005. Coinvolte le forze armate all’interno di un vincolo di segretezza

I cac­cia­bom­bar­dieri che mar­tel­lano Gaza sono F-16 e F-15 for­niti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed eli­cot­teri da guerra), insieme a migliaia di mis­sili e bombe a guida satel­li­tare e laser.

Come docu­menta il Ser­vi­zio di ricerca del Con­gresso Usa (11 aprile 2014), Washing­ton si è impe­gnato a for­nire a Israele, nel 2009–2018, un aiuto mili­tare di 30 miliardi di dol­lari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo svi­luppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washing­ton di una sorta di cassa con­ti­nua per l’acquisto di armi sta­tu­ni­tensi, tra cui sono pre­vi­sti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inol­tre usare, in caso di neces­sità, le potenti armi stoc­cate nel «Depo­sito Usa di emer­genza in Israele». Al con­fronto, l’armamento pale­sti­nese equi­vale a quello di chi, inqua­drato da un tira­tore scelto nel mirino tele­sco­pico di un fucile di pre­ci­sione, cerca di difen­dersi lan­cian­do­gli il razzo di un fuoco artificiale.

Un con­si­stente aiuto mili­tare a Israele viene anche dalle mag­giori potenze euro­pee. La Ger­ma­nia gli ha for­nito 5 sot­to­ma­rini Dol­phin (di cui due rega­lati) e tra poco ne con­se­gnerà un sesto. I sot­to­ma­rini sono stati modi­fi­cati per lan­ciare mis­sili da cro­ciera nucleari a lungo rag­gio, i Popeye Turbo deri­vati da quelli Usa, che pos­sono col­pire un obiet­tivo a 1500 km. L’Italia sta for­nendo a Israele i primi dei 30 veli­voli M-346 da adde­stra­mento avan­zato, costruiti da Ale­nia Aer­mac­chi (Fin­mec­ca­nica), che pos­sono essere usati anche come cac­cia per l’attacco al suolo in ope­ra­zioni bel­li­che reali.

La for­ni­tura dei cac­cia M-346 costi­tui­sce solo una pic­cola parte della coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana, isti­tu­zio­na­liz­zata dalla Legge n. 94 del 17 mag­gio 2005. Essa coin­volge le forze armate e l’industria mili­tare del nostro paese in atti­vità di cui nes­suno (nep­pure in par­la­mento) viene messo a cono­scenza. La legge sta­bi­li­sce infatti che tali atti­vità sono «sog­gette all’accordo sulla sicu­rezza» e quindi segrete. Poi­ché Israele pos­siede armi nucleari, alte tec­no­lo­gie ita­liane pos­sono essere segre­ta­mente uti­liz­zate per poten­ziare le capa­cità di attacco dei vet­tori nucleari israe­liani. Pos­sono essere anche usate per ren­dere ancora più letali le armi «con­ven­zio­nali» usate dalla forze armate israe­liane con­tro i palestinesi.

La coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana si è inten­si­fi­cata quando il 2 dicem­bre 2008, tre set­ti­mane prima dell’operazione israe­liana «Piombo fuso» a Gaza, la Nato ha rati­fi­cato il «Pro­gramma di coo­pe­ra­zione indi­vi­duale» con Israele. Esso com­prende: scam­bio di infor­ma­zioni tra i ser­vizi di intel­li­gence, con­nes­sione di Israele al sistema elet­tro­nico Nato, coo­pe­ra­zione nel set­tore degli arma­menti, aumento delle eser­ci­ta­zioni mili­tari con­giunte.
In tale qua­dro rien­tra la «Blue Flag», la più grande eser­ci­ta­zione di guerra aerea mai svol­tasi in Israele, cui hanno par­te­ci­pato nel novem­bre 2013 Stati uniti, Ita­lia e Gre­cia. La «Blue Flag» è ser­vita a inte­grare nella Nato le forze aeree israe­liane, che ave­vano prima effet­tuato eser­ci­ta­zioni con­giunte solo con sin­goli paesi dell’Alleanza, come quelle a Deci­mo­mannu con l’aeronautica ita­liana. Le forze aeree israe­liane, sot­to­li­nea il gene­rale Ami­kam Nor­kin, stanno spe­ri­men­tando nuove pro­ce­dure per poten­ziare la pro­pria capa­cità, «accre­scendo di dieci volte il numero di obiet­tivi che ven­gono indi­vi­duati e distrutti». Ciò che sta facendo in que­sto momento a Gaza, gra­zie anche al con­tri­buto italiano.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/ecco-il-contributo-dellitalia-ai-raid-dellaviazione-di-tel-aviv/

 

Qui gli ultimi aggiornamenti da Nena News:

11 lug 2014
by Redazione

Israele intima a 100mila gazawi residenti a Beit Lahiya e Beit Hanoun di lasciare le proprie case. Abbas fa lo stesso appello: “Negoziati falliti”. Obama si offre come mediatore

 

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Giorno 3 – giovedì 1o luglio

Giorno 2 – mercoledì 9 luglio

Giorno 1 – martedì 8 luglio

 

dalla redazione

AGGIORNAMENTO ore 18 – ONU: “L’ATTACCO ISRAELIANO POTREBBE VIOLARE IL DIRITTO INTERNAZIONALE”

Secondo l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’operazione israeliana in corso contro Gaza solleva dubbi sul rispetto del diritto internazionale, il diritto internazionale umanitario e quello di guerra. La portavoce, Ravina Shamdasani, ha detto che l’ufficio ha ricevuto rapporti su “numerose vittime civili, compresi bambini, dovuti al bombardamento di case. Tali rapporti sollevano dubbi sul rispetto da parte israeliana del diritto internazionale”. La Shamdasani ha aggiunto che gli attacchi alle case sono una violazione del diritto di guerra a meno che non siano usate per fini militari, ma che “in caso di dubbio, se l’edificio è normalmente utilizzato per fini civili, come abitazione, non può essere considerato un target legittimo”.

 

AGGIORNAMENTO ore 17.30 – COLPITA LA MOSCHEA DI ZEITOUN

La moschea del quartiere di Zeitoun è stata colpita dall’aviazione israeliana dopo la preghiera del venerdì. Almeno sette i feriti.

 

AGGIORNAMENTO ore 15.15 – HAMAS MINACCIA: “COLPIREMO L’AEROPORTO DI TEL AVIV”

Le Brigate Al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno emesso un comunicato diretto alle compagnie aeree internazionali, nel quale avvertono dell’intenzione di colpire con i missili l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, perché sede della base aerea militare n. 27.  ”Decliniamo ogni responsabilità legale e etica per danni ai vostri passeggeri o ai vostri aerei da e per il suddetto aeroporto”, si legge nel comunicato. Secondo l’Autorità israeliana per gli aeroporti, le attività dello scalo sono state sospese per 10 minuti dopo l’allarme lanciato da una sirena di emergenza, ma tutti i voli programmati sono partiti e arrivati senza problemi.

AGGIORNAMENTO ORE 14.10: LE REAZIONI INTERNAZIONALI

OIC: L’organizzazione per la Cooperazione islamica ha condannato i continui raid israeliani su Gaza e ha esortato il  Consiglio di Sicurezza dell’Onu a impegnarsi per il cessate-il-fuoco.

TURCHIA: Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan avverte Tel Aviv: “Fermate l’oppressione, altrimenti la distensione dei rapporti tra Turchia e Israele non sarà possibile”.

Le relazioni tra i due Paesi erano precipitate ai minimi storici nel 2010, in seguito al blitz delle forze speciali israeliane sula Mavi Marmara, una delle navi della Freedom Flotilla che tentava in maniera pacifica di rompere il blocco su Gaza. Nell’assalto, avvenuto in acque internazionali, erano stati uccisi nove attivisti turchi. L’azione aveva provocato l’espulsione l’ambasciatore israeliano, la richiesta di scuse formali, di un risarcimento per le vittime e della fine dell’embargo sulla Striscia.

Lo crisi diplomatica tra i due Paesi, trasformatasi in uno stallo delle relazioni, è durata oltre un anno e la svolta, che dovrebbe portare a una normalizzazione, è arrivata con l’intervento del presidente Usa, Barack Obama.

Ieri Erdogan, candidato per le presidenziali di agosto, ha detto che sebbene le prime due condizioni – scuse e risarcimento – siano state soddisfatte, l’operazione militare contro Gaza mostra che Israele non ha intenzione di soddisfare la terza condizione posta da Ankara, cioè la fine dell’embargo. Condizione che comunque Tel Aviv non sembrava affatto intenzionata a soddisfare.  Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 13.15: L’Egitto ha chiuso il valico di Rafah dopo appena un giorno di apertura durante il quale sono riuscite a passare soltanto 11 persone. Nei raid israeliani sono stati feriti 600 palestinesi e il Cairo aveva aperto il valico ieri per consentire ai feriti gravi di curarsi in Egitto.

 

AGGIORNAMENTO ORE 13.00: LE REAZIONI INTERNAZIONALI

EGITTO: Oggi il Cairo ha stigmatizzato l’attacco israeliano a Gaza, parlando di “oppressive politiche di punizione collettiva” con un impiego “eccessivo e non necessario della forza militare” che sta provocando la “morte di innocenti”.

Una critica che arriva dopo il rifiuto egiziano di mediare una cessate-il-fuoco tra Tel Aviv e Hamas, che aveva fatto sperare in una fine delle violenze. L’intervento egiziano era stato richiesto da Abbas che ieri ha dovuto arrendersi di fronte al diniego del Cairo.

Il ministero egiziano degli Esteri ha rivolto un appello alla cosiddetta comunità internazionale per il raggiungimento di quella tregua che però il Cairo non ha voluto mediare, come accaduto nel 2012 per la precedente campagna militare contro Gaza denominata ‘Pilastri di difesa’.

Da allora la situazione in Egitto è molto cambiata. Il golpe del 3 luglio dell’anno scorso ha portato al potere il generale Abdel Fattah al-Sisi, nemicoga giurato dei Fratelli Musulmani legati ad Hamas. Soltanto ieri l’Egitto ha aperto il valico di Rafah, l’unica via di fuga oltre a Erez controllato dagli israeliani, per consentire il passaggio dei feriti più gravi. Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 12.00: Sono 11 le vittime della quarta notte consecutiva di raid israeliani sulla Striscia di Gaza, tra cui cinque membri della famiglia Ghannam la cui casa, a Rafah, è stata rasa al suolo. L’offensiva denominata ‘Barriera Protettiva’ sinora ha fatto cento morti tra i palestinesi intrappolati in questo piccolo lembo di terra e circa la metà sono donne e bambini. È la più grande operazione militare israeliana contro Hamas a Gaza dal 2012: sono stati colpiti 1.090 obiettivi, mentre i razzi lanciati dalla Striscia sarebbero 407 e altri 118 sono stati intercettati dal sistema di difesa israeliano Iron Dome, secondo quanto riferito dalle Forze armate israeliane.

Nonostante le dichiarazioni di Tel Aviv che parla di attacchi mirati, nel mirino dell’aviazione israeliana non ci sono soltanto basi di Hamas e della Jihad islamica, o gli edifici pubblici, ma le case di decine di famiglie di gazawi. Oltre 300 abitazioni private sono state distrutte o danneggiate e circa duemila persone sono rimaste senza casa.

Durante la notte la marina israeliana ha puntato i suoi cannoni sul porto di Gaza City, colpendo anche l’Arca di Gaza, l’imbarcazione già bruciata lo scorso aprile che avrebbero dovuto compiere un viaggio simbolico nel Mediterraneo per rompere l’embargo israeliano.

 

porto

 

L’allerta è alta per il timore di un’offensiva di terra. Israele ha schierato i suoi carri armati al confine, ha richiamato almeno 40.000 riservisti  e ieri ha bombardato il versante palestinese del valico di Erez. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, ha accusato di codardia gli israeliani, dicendo che un’offensiva di terra sarebbe un errore. In una dichiarazione separata, il braccio armato del movimento islamico che governa Gaza dal 2007, le Brigate al-Qassam, ha di fatto minacciato di rapire soldati israeliani: “Un’offensiva via terra sarebbe un’opportunità per i prigionieri palestinesi”.

TERRITORI OCCUPATI

C’è rabbia nei Territori Occupati per la sorte dei palestinesi di Gaza. Ieri sera Betlemme una marcia di solidarietà è finita in scontri con i soldati israeliani: almeno nove i feriti tra i palestinesi, tra cui un ragazzo colpito da un proiettile al piede. Intanto, nel secondo venerdì di Ramadan, le autorità israeliane hanno limitato l’accesso alla moschea di al-Aqsa. Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 9.30: Un razzo sparato dalla Striscia di Gaza ha colpito una stazione di rifornimento nei pressi di Ashdod, stamattina, 28 chilometri dal nord di Gaza, provocando un’esplosione in cui sono rimaste ferite tre persone, di cui una in maniera grave, secondo quanto riferito da fonti israeliane.

Nella Striscia, invece, il bilancio delle vittime continua ad aumentare. Secondo il portavoce del Servizio di emergenza di Gaza, Ashraf al-Qudra, sono circa 95 i gazawi uccisi da quando è iniziata l’operazione ‘Barriera Protettiva’ quattro giorni fa.

AGGIORNAMENTO ORE 9.00: Due razzi sono stati lanciati dal Libano, dall’area di Hasbaya, alle 6.30 di stamattina e sono caduti nei pressi dell’insediamento di Kfar Yuval, senza provocare danni, secondo quanto riferito dalle Forze armate israeliane che hanno risposto con l’artiglieria.

 

Gerusalemme, 11 luglio 2014, Nena News – L’offensiva via terra si avvicina. La tragedia che soffoca Gaza potrebbe intensificarsi ancora di più: con una serie di sms il governo di Tel Aviv ha intimato a 100mila gazawi residenti nel nord della Striscia, a Beit Lahiya, Beit Hanoun e Abasan al-Saghira, di lasciare le proprie case. Il presidente dell’ANP Abbas – dopo aver annunciato il fallimento di ogni tentativo di dialogo anche attraverso la mediazione parziale dell’Egitto – ha fatto appello alla popolazione perché se ne vada nel timore di una carneficina.

Israele ha richiamato 20.000 riservisti e stanotte è entrata in azione la marina israeliana che ha lanciato almeno due missili verso il porto di Gaza City. In fiamme anche Arca di Gaza della FreedomFlotilla.

gazaark

 

Novanta palestinesi sono morti nei raid. Ogni tentativo diplomatico è fallito. Ieri, durante una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il Segretario Generale Ban Ki-moon ha lanciato un appello al cessate-il-fuoco, mentre il presidente Usa, Barack Obama ha parlato con il premier Netanyahu offrendosi come mediatore per un cessate-il-fuoco con Hamas. Negli ultimi giorni sono stati lanciati circa 550 razzi dalla Striscia di Gaza, mentre i raid israeliani sono stati oltre 800.

Fonte:

Imperialismi e Ucraina

di Vincent Présumey

Le interpretazioni e i commenti predominanti sugli avvenimenti in Ucraina si distribuiscono spesso su due fronti: per gli uni, l’“imperialismo” è l’“Occidente” e aggredisce “la Russia”; per gli altri, viceversa, l’Occidente è colui che libera ed è democratico e se, in minor misura, impiegano il termine, l’imperialismo sarebbe russo.

Qualunque analisi seria dovrebbe invece partire dal fatto che esistono diversi imperialismi, preoccupandosi al tempo stesso di definire quello di cui si parla. Naturalmente, se non si procede unilinearmente, occorre dilungarsi un po’ di più: è il prezzo della ricerca seria.

 

Imperialismo

 

Quello di “imperialismo“ è un termine con significati che variano. Quello che sembra attualmente più pertinente è quello che ne fa una forma del capitalismo e dello Stato capitalista. Da questo angolo di visuale, e senza soffermarci troppo su questo, il famoso libretto su L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin nel 1916, può fornire un efficace punto di partenza. Vi si enumerano cinque criteri: la concentrazione del capitale, la fusione del capitale bancario e di quello industriale nel capitale finanziario, il posto centrale dell’esportazione dei capitali, la formazione di trust mondiali e il completamento della spartizione territoriale del globo tra grandi potenze. Parla anche di “reazione su tutta la linea, soprattutto rispetto alle aspirazioni democratiche e nazionali non risolte e che la borghesia non può più risolvere nella fase imperialista, “epoca di guerre e rivoluzioni”. Quest’ultimo punto è importante nel caso ucraino, perché lì c’è una questione democratica e nazionale di primo piano, che si sviluppa in problema geopolitico europeo.

Questi elementi dell’imperialismo, soprattutto l’ultimo sulla spartizione territoriale, implicano un rapporto di fondo con lo Stato, che rimanda di fatto alla natura del rapporto sociale capitalistico. Questo rapporto fondamentale era stato colto in maniera più globale, prima di Lenin, da Nikolaj Bucharin, che parlava di “trust capitalistici di Stato”, ed era stato tra l’altro descritto in maniera notevole, da angolazioni diverse, da Rosa Luxemburg ne L’accumulazione del capitale.

Il modo di produzione capitalistico si riproduce di per sé una volta costituitosi, ma lo Stato non è qualcosa di estraneo rispetto a questa riproduzione. Gli Stati ne costituiscono componenti indispensabili, per conservare il predominio del capitale sui lavoratori, l’esproprio permanente della massa umana rispetto alla terra e ai mezzi di produzione, la continuità dei rapporti di mercato (rispetto dei contratti, pagamento dei debiti) e, di più, la concorrenza, leale o meno, con gli altri trust e gli altri Stati, che si riproduce quale che sia lo stadio di interpenetrazione mondiale dei diversi capitali. Quando il capitale perviene allo stadio “imperialista” di concentrazione e mondializzazione, gli Stati svolgono un ruolo fondamentale nel processo. Vi sono dunque Stati capitalistici che diventano imperialisti, e tra di essi esiste una gerarchia, con altri Stati che, pur volendo, non raggiungono quello stadio e sono più o meno dominati dai primi e dal loro capitale interno. Essendo il pianeta completamente ripartito ormai da oltre un secolo, gli spazi costano.

 

Gli imperialismi: Stati Uniti, Germania, Francia

 

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’imperialismo nordamericano (gli Stati Uniti) è dominante, pur non essendo l’unico né essendolo mai stato.

La principale struttura militare di dominazione messa in piedi dagli USA è la NATO. Con il pretesto della “lotta al comunismo” la Nato ha innanzitutto consentito agli Stati Uniti di istituzionalizzare e perpetuare la sottomissione militare e quindi politica delle altre potenze imperialiste europee, Inghilterra e Francia, poi, a partire dal 1955 e dal suo reinserimento nel concerto delle potenze, la Germania, con la presenza militare in quel paese (come in Giappone), la preponderanza nucleare e la direzione del comando integrato della NATO, che garantisce la dominazione. È noto che l’imperialismo francese sotto De Gaulle aveva cercato di contestare quel dispositivo, pur continuando a parteciparvi regolarmente. Se si capisce questo ruolo della NATO, si capisce anche che questa non poteva sparire con la scomparsa dell’Urss, che era servita da pretesto per la sua creazione. Il suo mantenimento e la sua espansione in Europa centrale e orientale tengono sotto tiro la Russia, ma puntano anche a tenere a bada l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui UE ed euro sono praticamente diventate le forme del predominio continentale e della preponderanza di quest’ultimo.

I crimini dell’11 settembre 2011 hanno permesso all’imperialismo nordamericano di portare avanti un’offensiva mondiale che lo ha di fatto, a medio termine (su scala del decennio 2000), seriamente “affaticato” e indebolito, ma che ha anche avviato l’accerchiamento della Russia, con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, con le basi in Asia centrale e, sul continente europeo, il precedente intervento in Kosovo, il sistema di missili antimissili destinati a neutralizzare il potenziale offensivo-difensivo della Russia (nel nucleare, qualsiasi difensiva è offensiva), raddoppiando l’estensione della NATO e coprendo quella dell’UE, rendendo anche qui manifesto l’obiettivo del contenimento della Germania. A partire dalla metà del 2000, gli USA procedono apertamente verso l’estensione della NATO all’Ucraina. la Moldavia e la Georgia.

Quest’aggressività ha suscitato l’opposizione russa e una prima guerra si è verificata in Georgia nel 2008. Causata da una provocazione ispirata dai servizi USA, essa ha visto una vera e propria invasione della Georgia da parte dell’esercito russo, e la mediazione dell’imperialismo francese dava soddisfazione a Mosca, con la copertura della retorica “occidentale”, quanto al controllo dell’Abcasia e dell’Ossezia meridionale. Questo episodio ha stabilito un equilibrio precario e temporaneo. Ucraina e Georgia non rientravano nella NATO, ingresso cui si era opposta la Germania, ma la Polonia rientrava nel dispositivo “antimissili”. Le lotte di fazioni oligarchiche in Ucraina, connesse alle alleanze e alle bustarelle delle potenze straniere al paese, non potevano non pesare sulla conservazione o il crollo di quel fragile equilibrio.

Maggio 2008 vuol dire anche il fallimento di Lehman Brothers e l’aprirsi della crisi finanziaria mondiale e, poco dopo, l’elezione di Obama. L’indebolimento e lo squilibrio dell’imperialismo nordamericano sono andati crescendo, incluso con la nuova irruzione di importanti movimenti sociali in terra statunitense. Vi hanno contribuito anche gli avvii di rivoluzioni in diversi paesi arabi a partire dal 2011. La situazione è sfociata di recente in importanti sviluppi. La velleità di una grande ostentazione militare in Siria a fine agosto-inizio settembre 2013 (appoggiata a fondo e addirittura scavalcata dall’imperialismo francese, per sue specifiche motivazioni di vecchia potenza mediterranea e africana) si è sgonfiata, in condizioni di eccezionale gravità per la Casa Bianca. È il presidente Putin che ha tirato fuori il presidente Obama dal vicolo cieco che lo avrebbe portato alla sua sconfessione da parte del Congresso. In seguito a questo, gli Stati Uniti siglavano l’accordo con l’Iran (la cui prima vittima è il popolo siriano, che non hanno mai appoggiato contro Bashar al-Assad). Il tutto, entro una strategia globale in cui l’accerchiamento della Cina è diventata la preoccupazione principale, esplicitamente dichiarata, dell’esecutivo USA, nella speranza, non irrealistica, di contrapporre Russia e Cina.

Questi sono richiami indispensabili: è impossibile analizzare una crisi come quella dell’Ucraina senza inserirla nel quadro dei rapporti di forza mondiali, in cui la lotta di classe è il fattore principale, anche se spesso sotterraneo. Sono state soprattutto la resistenza della classe operaia americana e le “rivoluzioni arabe” a determinare l’indebolimento e le esitazioni dell’imperialismo nordamericano, e anche la profonda divisione dei suoi esponenti politici, che si riflette fin nell’apparato di Stato, in quello militare, e quindi nella NATO, e in alcuni servizi diplomatici; una divisione tra quelli che vogliono gradatamente ritirarsi e quelli che vorrebbero riprendere mano libera per provocazioni e avventure, e combinazione di entrambe.

Allo stesso modo, gli sviluppi che conosce l’Ucraina dal novembre 2013 non si riescono assolutamente a capire se non si prende atto della realtà dell’“inopinata” e “inattesa” sollevazione popolare (come sempre lo sono le sollevazioni popolari).

Questi sviluppi erano inattesi per l’imperialismo americano, diviso tra quelli che vogliono sfruttarli e quelli che ne temono le conseguenze. Di qui l’aver “surfato” tra emissari ufficiali autoproclamati (ad esempio, il repubblicano McCain) e, a partire da metà gennaio quando fallisce il tentativo di schiacciare le masse con lo stato d’emergenza, l’appoggio al governo che si installa al posto del presidente Yanukovyč. Ma non è stato un colpo di Stato della CIA ad aver prodotto questo insediamento, che tra l’altro non ha soddisfatto del tutto la folla di Maidan, che ha subito manifestato clamorosa disapprovazione per la maggior parte dei membri del nuovo governo. In questa questione, non vediamo l’imperialismo americano prendere l’iniziativa, ma inseguire gli avvenimenti con l’intenzione palese di recuperarli, il che non significa evidentemente che non abbia sul posto le sue spie, i suoi mercenari, ecc. Per combattere l’imperialismo occorre capire in che condizione si trovi.

Alla vigilia della fuga di Yanukovyč, i ministri degli Esteri tedesco, francese e polacco avevano imposto la firma di un accordo per un governo di unità nazionale tra lui e i tre partiti autoproclamatisi esponenti di “Maidan”: quello di Tymošenko e Yacenjuk, quello del puglie Klyčko e quello di Svoboda. Non era quella la linea dell’imperialismo americano, che riteneva si dovesse subito puntare sulla caduta di Yanukovyč e che era molto irritato dalla politica della UE, vale a dire dalla politica tedesca, come è emerso agli occhi dell’opinione pubblica da una conversazione registrata e divulgata dai servizi russi, in cui la diplomatica Victoria Nuland, vicesegretaria di Stato USA, esclamava “Fuck the UE” [“Vada a farsi fottere l’UE”]. L’episodio è stato massicciamente utilizzato per dimostrare la manipolazione americana degli avvenimenti ucraini, mentre dimostra soprattutto le contraddizioni tra Stati Uniti e Germania, e la pubblicazione rivela piuttosto la volontà russa di sfruttarle.

Yanukovyč ha deciso di scappare da Kiev, pensando di ritornarvi, nella notte seguita a quell’intesa, mentre gli scontri armati si intensificavano nel centro della città e il suo stesso partito, il Partito delle Regioni, vedeva i suoi dignitari esigerne la partenza per salvare la propria pelle e le proprie prebende. Di colpo, il governo messo in piedi altro non era che il governo di unità nazionale previsto con Yanukovyč, ma senza di lui. Non è minimamente l’espressione del movimento Maidan, la cui sola vittoria è la fuga di Yanukovyč. Questo governo coinvolge solo fazioni acquistate dagli imperialismi occidentali, non fazioni filorusse (Julija Tymošenko, che fa il doppio gioco, ne è d’altronde diventata l’oppositrice). Dunque, si rimettono sul tappeto l’associazione dell’Ucraina all’UE, i suoi legami con la NATO, come quelli della Moldavia, enclave tra Ucraina e Romania, rompendo il precario equilibrio del 2008: ed è questo che l’imperialismo russo rifiuta.

L’analisi della politica delle potenze imperialiste presuppone che si distinguano fatti e dichiarazioni. Per quanto riguarda i fatti, Obama ha reso noto a più riprese che non si ritiene pensabile qualunque intervento militare. E invece gli agenti e i mercenari convergono verso l’Ucraina. Gli Stati Uniti hanno gesticolato parecchio a proposito della Crimea, ma non avevano la minima intenzione di fare alcunché, tanto più che quest’annessione non cambia i rapporti di forza militari e marittimi nel Mar Nero. Il 17 aprile, hanno firmato un accordo con la Russia e la Germania (quest’ultima sotto copertura dell’UE) e imposto al governo di Kiev un accordo che, di fatto, consentiva la prosecuzione dell’installazione di paramilitari legati alla Russia nelle prefetture e negli oblast [suddivisione amministrativa degli Stati slavi più o meno equivalente a regione, o provincia, o area] del Donbass e di Lugansk. Se un rapporto di forza esiste tra Stati Uniti, Germania e Russia, riguarda la spartizione delle zone di influenza in Ucraina. Ho già dettagliatamente commentato questo accordo chiave del 17 aprile in un mio articolo del 5 maggio.

I conflitti e le contraddizioni interimperialiste “occidentali” svolgono un ruolo importante nei loro atteggiamenti reali verso l’Ucraina. È evidente che la contraddizione principale contrappone Stati Uniti e Germania e per la Germania significa una vera e propria sfida, una scelta politica tra l’allinearsi agli Stati Uniti, oppure un’alleanza russa, perlomeno una politica più autonoma rispetto agli Stati Uniti e alla NATO, che sostengono naturalmente Schröder e Schmidt, e che rappresenta di fatto il ministro degli Esteri SPD del governo di coalizione, Stermeier. La fonte o il principale avallo delle voci su “chi ha sparato su Maidan”, fa peraltro risaltare questo ruolo della Germania o di determinati settori tedeschi. Sembrerebbe infatti che la maggioranza del padronato industriale e finanziario tedesco sia su una linea “continentale” di stretta collaborazione con Putin. Le divisioni si ripercuotono sui posizionamenti della Polonia, dei Paesi baltici, dell’Ungheria, della Romania e della Bulgaria.

Gli Stati Uniti utilizzano questa pressione sulla Germania in favore del Trattato di libero scambio transatlantico. Su questo argomento, tuttavia, loro stessi sono divisi: Obama non ha acquisito l’appoggio del Congresso. La crisi di dominazione nordamericana è senz’altro sistemica e, invece di feticizzare ogni loro progetto come complotto malefico la cui attuazione avrebbe conseguenze apocalittiche, sarebbe meglio analizzare concretamente, anche qui, le condizioni reali dell’oggetto reale “imperialismo nordamericano”.

Quanto alla Francia, che non può avere qui la sua zona d’influenza, gesticola e si associa alle manovre, in realtà molto limitate, della NATO nel Mar Nero. Anche nei confronti dell’imperialismo francese, per combatterlo occorre tener conto e delle dichiarazioni e dei fatti. Ad esempio, la visita di François Hollande in Azerbaigian, Armenia e Georgia è stata, fin dall’inizio, o un atto “coraggioso” contro la cattiva Russia o, viceversa, un atto “di aggressione” contro la povera Russia accerchiata (sono le due versioni simmetriche dei discorsi che prevalgono). Ma è proprio in quel viaggio che si è confermata l’intenzione francese di vendere un numero rilevante di navi da guerra Mistral alla Russia (compresi dispositivi di trasmissione high tech), il cui significato in termini di forza d’urto è perlomeno altrettanto forte dell’invio di qualche fregata in Mar Nero nel quadro della NATO: Washington ha vivamente protestato, e Parigi ha vivamente risposto a Washington replicando anche sul piano siriano con la “rivelazione” di altri impieghi di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, per denunciare la “codardia” USA. Anche l’imperialismo francese cerca di giocare la sua carta, e questa per il momento passa per un fruttuoso commercio di armamenti con la Russia. Combattere l’imperialismo presuppone, ancora una volta, che si tenga conto sia delle ostentazioni verbali, sia dei fatti concreti, specie se si tratta del “nostro” imperialismo.

 

Gli imperialismi: Russia

 

E la Russia?

Sommariamente: l’imperialismo Russo viene fuori direttamente dalla burocrazia staliniana, la quale a sua volta deriva dal fallimento storico della rivoluzione socialista europea, l’obiettivo per cui si era costituito il vecchio movimento operaio, fallito nel 1914: nonostante questo, la rivoluzione esplodeva in Russia nel 1917. Facciamo notare – ed ha la sua importanza – che l’Ucraina sovietica, le cui frontiere vanno fino al Donbass e a Lugansk incluso, fu il risultato e una conquista di quella rivoluzione. L’apparato di Stato (la burocrazia) si è autonomizzato rispetto alla classe operaia, riflettendo in particolare il ritorno dello sciovinismo dominante grande-russo nei confronti dei georgiani, dei tatari e degli ucraini. A partire dal 1923, sfuggiva completamente a qualsiasi controllo della classe operaia. A partire dal 1929, sotto il nome di “collettivizzazione” e di “pianificazione”, effettuava l’esproprio dei contadini e generalizzava il lavoro salariato. Nella seconda metà degli anni Trenta stermina fisicamente i residui delle organizzazioni della classe operaia che avevano fatto la rivoluzione del 1917, Partito bolscevico in testa, di cui il PCUS non era la continuazione ma la negazione tramite sterminio. In quel sistema sociale, i rapporti mercantili, che affiorano da tutti i pori, vengono sostituiti dal controllo dello Stato chiamato in modo fittizio “socialismo”. Con la perestrojka questi rapporti trionfano e, per preservare ed estendere i propri privilegi di fronte a un rinascente movimento operaio e alle aspirazioni democratiche, i burocrati si costituiscono un capitale privato. Il processo si compie sotto El’cin con un generalizzato saccheggio predatorio.

Nel corso degli anni, questa fase di accumulazione privata con saccheggi e messa all’asta dei beni di Stato vede svilupparsi la crisi implosiva di questo Stato, cominciata con l’esplosione dell’URSS e l’indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche nel 1991. Probabile sbocco di questa crisi era il formarsi di un capitalismo di secondo piano, commerciale e largamente infeudato all’imperialismo nordamericano. Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, la resistenza vitale della classe operaia, espressa materialmente dai picchetti di minatori calati a Mosca proprio nel momento in cui crollavano i corsi della recentissima Borsa di Mosca, ha evidenziato i pericoli di fondo per l’ordine capitalista della semicolonizzazione del paese. Quel che gli Stati Uniti avevano rinunciato a fare in Europa occidentale dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo averci pensato (piano Morgenthau di deindustrializzazione della Germania, lasciato alla fine cadere in favore del Piano Marshall), si rivela al di là delle loro forze anche nel caso della Russia.

La svolta da El’cin a Putin, dall’alcolista al pugile, si situa in quel momento. Putin però non esprime la resistenza del popolo russo all’asservimento, ma la piena e integrale restaurazione di un capitalismo russo sfuggito al predominio imperialista, essendo imperialista a propria volta. Il suo consolidamento avviene sulla base della sconfitta dei movimenti sociali e nazionali della fine degli anni Novanta: si tratta del barbaro schiacciamento del popolo ceceno (e della promozione di uno strato di “askari caucasici” che collaborano con il potere russo), e della rimessa in riga della classe operaia con un nuovo codice del lavoro che atomizza i lavoratori e mette fuori legge la maggior parte degli scioperi. L’elemento chiave del nuovo consolidamento di El’cin al servizio del capitale è l’assenza di partiti, e anche di strutture sindacali nazionali autonome e non legate allo Stato, che rappresentino, legittimamente o anche in modo deformato, la classe operaia. Quest’assenza è l’eredità conservata dello stalinismo incarnata dalla persistenza dei vecchi “sindacati” ufficiali. Su queste basi Putin è riuscito, tramite l’arresto simbolico di vari oligarchi come Federovskij e alla fine Chodorkovskij, a concludere la strutturazione dello strato capitalista dominante, come strato sia indipendente dal capitale straniero, sia posto su un piano di relativa parità nei confronti del centro dello Stato in base alla stabilizzazione delle leggi e dei contratti – cosa che non impedisce, anzi al contrario, di avere propri conti in Svizzera, alle Bahamas, a Cipro (fino al gennaio 2013), propri operatori finanziari a Londra, e proprie ville in Costa Azzurra.

Gli attacchi agli operai sferrati da Putin negli anni 1999-2003 hanno del resto fatto della Russia uno Stato per certi aspetti molto più “commercializzato” (rispetto ad esempio a quel che resta dei servizi sociali, della Sanità e dell’Istruzione) di parecchie altre ex repubbliche sovietiche tra cui l’Ucraina, dove il permanere di fazioni oligarchiche negli anni di El’cin in Russia è andato di pari passo con una minore realizzazione delle privatizzazioni e commercializzazioni, soprattutto nella parte orientale del paese. È così, ad esempio, che era preferibile, finora, essere minatore nel Donbass ucraino (regione di Donetsk) che non nella vicina zona russa (regione di Rostov-sul-Don), dove la disoccupazione di massa è peggiore che in Ucraina e dove le miniere non sono più sovvenzionate dallo Stato oligarchico…

Il fatto che un capitalismo russo si affermi come indipendente dall’imperialismo nordamericano dominante, come l’affermarsi del capitalismo imperialista cinese oggi più potente di quello russo, e come in generale l’ascesa di potenze capitaliste regionali a vocazione imperialista, i cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), non vuol dire assolutamente che si tratti di fenomeni progressisti, se non per lo sviluppo della classe operaia che generano – e si noterà al riguardo che quest’ultimo aspetto è proprio quello che è stato assente nella Russia e nell’ex URSS passate per la deindustrializzazione.

Totalmente legati al modo capitalistico di produzione nello stadio imperialista, questi nuovi sviluppi sono portatori di guerra. Feticizzare il rapporto sociale capitalistico nella forma di uno Stato, di un popolo o di una cultura considerati “abominevoli” – quelli ad esempio “occidentali” o degli “anglosassoni”- apre la strada non alla rivoluzione emancipatrice ma allo sciovinismo, alla sant’alleanza, al razzismo e alla guerra imperialista.

Le caratteristiche sommarie dell’imperialismo elencate da Lenin, sopra richiamate, si ritrovano tutte nel caso russo contemporaneo, compreso il punto chiave dell’esportazione dei capitali e della ricerca di campi d’investimento per questi ultimi, precisando in oltre che la finanziarizzazione è immediatamente spinta al parossismo, a immagine del capitalismo come realtà mondiale. La peculiarità del capitalismo “putiniano” negli anni 2000 è quella di basarsi sull’esportazione di energia e di materie prime, intorno a due imprese, Rosneff e, al primo posto, Gazprom, che è direttamente il “trust” di Stato del petrolio (creato nel 1954) convertito in impresa petrolifera mondiale, che associa capitali europei e soprattutto interessi tedeschi, simboleggiati dal seggio occupato dall’ex cancelliere tedesco Schröder. Così come per Yukos [prima impresa petrolifera russa, sottratta a Chodorkovskij e confluita in Rosneff]. Queste caratteristiche esportatrici fanno dell’imperialismo russo un imperialismo di secondo piano, abbastanza largamente dipendente dai prezzi mondiali, che erano in rialzo negli anni 2000. La dipendenza rafforza l’incidenza relativa delle componenti militari e politiche nella sua equazione specifica.

La crisi mondiale apertasi dal 2008 accentua per l’imperialismo russo la necessità di passare a una nuova fase, in cui un settore industriale produca maggior plusvalore in loco, una transizione cui lavora il potere russo in vista di sviluppare i settori militare, delle infrastrutture e dei trasporti. I cantieri legati ai Giochi Olimpici di Sochi illustrano questa intenzione. Questo imperialismo, non giovane ma “resuscitato”, è altrettanto “marcescente” dei suoi rivali, non può avere sbocchi e soprattutto campi sufficienti di investimenti propri al di fuori di una proiezione politico-militare. È stretto e soffocato dall’imperialismo nord-americano, anch’esso non particolarmente in forma, e sorretto dalla sua forza militare come stampella della preservazione del suo predominio economico.

Di seguito riassumo le principali tappe di questo accerchiamento.

Dal 2008-2010, la reazione russa consiste soprattutto nel cercare di costituirsi una zona di investimenti che aggreghi alla Russia varie ex repubbliche sovietiche, in una “unione euroasiana” con l’Ucraina, il Kazakistan, la Bielorussia, l’Armenia. Il presidente dittatore eternamente rieletto del Kazakistan, Nazarbaëv, che rappresenta la totale continuità dello Stato e del capitale (era primo segretario del PC kazako sotto Gorbačëv), svolge qui un ruolo chiave. L’unione doganale euroasiana, per imperialista che sia, è su scala mondiale un’impresa relativamente limitata, dal momento che non copre neppure il campo dell’ex Unione sovietica.

Altrettanto importanti sono dunque l’inserimento del capitale russo nei circuiti finanziari mondiali e, sul piano politico – con le conseguenze che questo comporta in materia di potenza e di soft power – il fatto che la Russia di Putin si ponga come fattore di ordine sociale e di reazione. In larga misura lo ha fatto, suo malgrado, rispetto all’indebolimento e alle esitazioni nordamericane. Un punto critico si è raggiunto nell’estate 2003. Il crollo della presidenza islamista in Egitto, causato dalla maggiore ondata di manifestazioni della storia, non era nei piani degli USA e si è assistito allora all’intrecciarsi di contatti inattesi tra militari egiziani, servizi sauditi e Russia. Come ho già ricordato, Obama ha cercato di reagire montando un vero e proprio pseudo-intervento contro Bashar al-Assad, intrappolandosi nelle sue stesse contraddizioni, da cui è stato Putin a tirarlo fuori. L’aiuto militare russo ha un ruolo importante nel progressivo schiacciamento militare del popolo siriano, ad oggi la principale vittoria controrivoluzionaria nei paesi arabi dal 2011. Putin si afferma come un pilastro dell’ordine mondiale, in proporzione al calo del credito degli USA, senza però disporre dei mezzi, più di qualsiasi altro imperialismo, per sostituirsi al ruolo del gendarme mondiale che gli Stati Uniti non riescono più a svolgere correttamente. Tuttavia, facendo questo, i suoi specifici interessi hanno ottenuto una bella promozione.

Se è ricorrente la denuncia della russofobia spesso palese e ridicola dei nostri mezzi di comunicazione di massa, soprattutto da qualche mese a questa parte, conviene rendersi conto di come essa comporti anche un misto di ostilità e di fascino che le imprime la sua tonalità isterica particolare, e che il fascino per l’ordine sociale, la disciplina, la presunta salvaguardia dei “valori” religiosi e familiari ha, nel regime di Putin, un’influenza crescente in larghi strati borghesi e piccolo borghesi dei paesi “occidentali”. È importante quindi spendere due parole sulle costruzioni ideologiche coltivate da questo potere, o meglio dai suoi think tanks e altre cerchie satelliti, perché, imitando i neoliberisti, Putin ha saputo costruire o attrarre a sé reti analoghe, a immagine della sfera culturale, mediatica e ideologica del neoliberismo negli Stati Uniti.

In partenza Putin è uno spento burocrate e un poliziotto privo di ideali, ben lontano dall’immagine del superuomo che gli hanno forgiato i suoi comunicatori. Al consolidamento dello Stato russo come Stato capitalista corrispondeva l’adesione ufficiale a una retorica neoconservatrice piuttosto ultraliberista, tendente a presentare la storia russa su una linea di continuità: tutti i dirigenti russi sono buoni per definizione, e i dissidenti del passato (non gli attuali) anche loro lo sono in quanto hanno spianato loro la strada; l’unico momento spiacevole della storia russa è la rivoluzione del 1917, la figura di Lenin è condannabile (non però le sue statue ieratiche di fattura staliniana, che fanno parte del patrimonio allo stesso titolo delle icone), quella di Trotski deve rimanere all’inferno, Stalin va bene e anche gli zar vanno bene. Questa visione della storia era stata promossa in occasione dell’850° anniversario di Mosca, nel 1997, con la denominazione di “sintesi rosso-bianca”, dalla rivista Zavtra di tendenza “eurasiana”, ed era quotata sia tra i monarchici sia nella cerchia del dirigente del PC russo Žuganov.  Anche i legami tra Stato e Chiesa ortodossa sono sulla stessa linea.

Il think tank politicamente più attivo e più produttivo al servizio dell’apparato di Putin è quello del teorico “euroasiano” Alexandre Dugin, che dispone di potenti sponsor fra i capitalisti del complesso militar-industriale ed è anche legato al presidente del Kazakistan, Nazarbaëv. Dugin, animatore di Pamjat, associazione di destra stalin-zarista nata sotto la perestrojka, poi co-dirigente del “Partito nazional-bolscevico” di Limonov, si avvicina a Putin come consigliere ufficioso fin dal 1999-2000. Il suo “euroasianismo” (che non è l’unica variante di questa corrente, ma attualmente la più influente) combina un po’ di salsa occultista-esoterica con concezioni geopolitiche e razziste basate sulla contrapposizione tra paesi della terra (la Russia) e paesi del mare, commercianti e predatori (gli anglosassoni): La sua concezione della società, capitalista e religiosa, privilegia le esperienze fasciste e naziste. Il nazismo era nel complesso una buona idea tranne il fatto che ha commesso un errore, quello di attaccare l’Unione Sovietica, potenza della terra, insieme agli anglosassoni. Quanto al genocidio degli ebrei, non era per niente un errore: l’antisemitismo esplicito è rientrato ed è una componente fondamentale di questa ideologia. Il ristabilimento delle potenze terrestri e tradizionaliste, con l’instaurazione di una forma corporativa e ben regolata di capitalismo, passa per la potenza russa e la sua assimilazione dei popoli della steppa, turco-mongoli. Oltre agli ebrei, cosmopoliti che ispirano la finanza e le potenze marittime anglosassoni, due popoli si trovano nel mirino degli “eurasiani” versione Dugin. I tatari, soprattutto quelli di Crimea, perché costituiscono un ostacolo all’allineamento dei popoli turco-mongoli e caucasici allo statuto degli harkis [in Italia diremmo ascari] della santa Russia: ebraizzanti, sarebbero dei”Kazari”. Poi gli Ucraini, che non esistono e hanno la faccia tosta di aspirare all’esistenza nazionale, e che vanno inseriti, nella loro maggioranza, nel complesso pan-russo, con quelli del Donbass che sono in realtà russi e quelli di Galizia che si possono lasciare ai polacchi e all’Unione Europea (questo apre la possibilità di un’intesa per spartirsi l’Ucraina con l’estrema destra ucraina). Queste laboriose costruzioni ideologiche russe sono state di recente oggetto di una massiccia pubblicazione in francese, dal titolo La quatrième théorie politique, con una prefazione di Alain Soral, che si presenta come il nazional-socialista francese.

Assumendo l’etichetta di “eurasiano” ci si riferisce a un’importante componente intellettuale dell’emigrazione bianca degli anni Venti e Trenta, quella che fin dal 1921, con Ustrialov, sosteneva che l’apparato del PC al potere sarebbe stato fatalmente indotto a russificarsi e a incarnare gli interessi nazionali, cosa che li ha portati a sostenere la NEP ma anche la collettivizzazione. Non si trattava di una corrente marginale, ma rappresentava un consistente settore della borghesia russa emigrata – di fatto, più o meno tutto quello che aveva potuto produrre come intellighenzia, al di fuori delle religioni e delle mistiche che avevano spesso del resto idee politiche vicine. Con l’“eurasismo”, l’oligarchia rappresentata da Putin, prodotta dalla burocrazia staliniana, realizza dunque una duplice operazione ideologica: giustifica i propri appetiti di dominazione e si assegna la discendenza diretta dalla vecchia borghesia, quella che la rivoluzione d’Ottobre aveva espropriato, quella dell’epoca degli zar.

Malgrado la sua natura di delirio ideologico, si tratta di una costruzione coerente, è non è marginale. C’è da temere che la frenetica denuncia dei “nazisti ucraini”, cioè i riferimenti fascisti e nazisti della parte della destra nazionalista ucraina cosiddetta “banderista” (di fatto compattata soprattutto da cinque decenni di regime staliniano durante i quali gli ucraini si sono fatti trattare da nazisti), non serva soprattutto a dissimulare l’emergere di un’ideologia di stampo vicino al nazismo, concepita volutamente in questo spirito, nell’ottica di giustificare le imprese imperialiste russe.

Considerare questa ideologia che – con adattamenti, tende a essere dominante nello Stato e nei mezzi di comunicazione russi di oggi – una semplice reazione alla pressione occidentale (cosa che fa, ad esempio, Jean-Marie Chauvier, che fornisce molte informazioni al riguardo, ma la giustifica come “una reazione muscolosa all’espansionismo occidentale”, in Le Monde Diplomatique di maggio 2014), sarebbe un “errore” dello stesso tipo di quelli degli storici revisionisti tedeschi, che cercarono di presentare il nazismo come una reazione al “comunismo” o al trattato di Versailles: in questo modo si passano sotto silenzio la natura imperialista della Russia e l’aspetto di fondo di giustificazioni ideologiche di questo imperialismo.

 

La distruzione dell’Ucraina, programma dell’Imperialismo:

“reazione su tutta la linea”

 

Per l’ideologia imperialista russa di prima del 1914, l’Ucraina non deve esistere, perché non ne ha motivo, esiste la piccola Russia o, per riprendere un’espressione anche questa resa popolare da Alexandre Dugin, bisogna farla a pezzi, costruendo sulle sue rovine una “Nuova Russia” che comprenda il Donbass, Lugansk, Odessa e la Transnistria. Il termine “Novorossija” è semplicemente zarista: indica le steppe del Sud strappate con la forza ai cosacchi zaporoghi, vale a dire agli ucraini, e ai tatari. Ora, questo termine è stato ripreso da Putin in persona nel suo discorso del 17 aprile e suonava come incoraggiamento ai paramilitari a spingersi verso Odessa, con le conseguenze ben note del 2 maggio scorso.

La distruzione dell’Ucraina che si fa passare fra i nostalgici che ancora si immaginano che l’URSS costruisca il socialismo come un modo per rifare l’URSS, in realtà approfondisce la controrivoluzione. L’Ucraina, come altri 13 Stati dell’Europa centrale e orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale, è una repubblica sorta dall’ex URSS, altrettanto quanto la Russia, e i suoi confini sono il frutto della rivoluzione del 1917, e del suo sviluppo in rivoluzione contadina e nazionale ucraina che ha permesso ai rossi di sconfiggere i bianchi. Sono questi confini del 1920 che Putin ha dichiarato assurdi, imposti alla vecchia Russia, quella del tempo degli zar. Mettere in piedi repubbliche posticce paramilitari nel Donbass e a Lugansk è in assoluto un’impresa controrivoluzionaria, che si colloca completamente nella prospettiva imperialista “eurasiana”, quella per cui il decoro “sovietico” serve solo a valorizzare gli stendardi zaristi, i nastri di San-Giorgio, le insegne dei Cento Neri e la società che a questo corrisponde.

La distruzione dell’Ucraina significa la “reazione su tutta la linea” nell’accezione di Lenin nel 1916, ed è il terreno di possibile intesa tra imperialismi russo, americano e tedesco. È con questo che si scontra la nazione ucraina, con al suo centro la classe operaia, come tendono a dimostrare gli sviluppi recenti nel Donbass, che contrappongono in modo crescente i minatori ai paramilitari “anti-Maidan”. Se le parole internazionalismo proletario” devono rinnovare il proprio significato originario mettendosi al tempo stesso in sintonia con il XXI secolo, si deve cominciare dalla solidarietà con la nazione ucraina in lotta per la propria sovranità democratica e la propria unità.

(24 maggio 2014. Traduzione di Titti Pierini).

Fonte:

http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1788:imperialismi-e-ucraina&catid=57:imperialismi&Itemid=73