FOCUS UCRAINA / Il cuore dei neofascisti batte per la Russia

Imperialismi e Ucraina

di Vincent Présumey

Le interpretazioni e i commenti predominanti sugli avvenimenti in Ucraina si distribuiscono spesso su due fronti: per gli uni, l’“imperialismo” è l’“Occidente” e aggredisce “la Russia”; per gli altri, viceversa, l’Occidente è colui che libera ed è democratico e se, in minor misura, impiegano il termine, l’imperialismo sarebbe russo.

Qualunque analisi seria dovrebbe invece partire dal fatto che esistono diversi imperialismi, preoccupandosi al tempo stesso di definire quello di cui si parla. Naturalmente, se non si procede unilinearmente, occorre dilungarsi un po’ di più: è il prezzo della ricerca seria.

 

Imperialismo

 

Quello di “imperialismo“ è un termine con significati che variano. Quello che sembra attualmente più pertinente è quello che ne fa una forma del capitalismo e dello Stato capitalista. Da questo angolo di visuale, e senza soffermarci troppo su questo, il famoso libretto su L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin nel 1916, può fornire un efficace punto di partenza. Vi si enumerano cinque criteri: la concentrazione del capitale, la fusione del capitale bancario e di quello industriale nel capitale finanziario, il posto centrale dell’esportazione dei capitali, la formazione di trust mondiali e il completamento della spartizione territoriale del globo tra grandi potenze. Parla anche di “reazione su tutta la linea, soprattutto rispetto alle aspirazioni democratiche e nazionali non risolte e che la borghesia non può più risolvere nella fase imperialista, “epoca di guerre e rivoluzioni”. Quest’ultimo punto è importante nel caso ucraino, perché lì c’è una questione democratica e nazionale di primo piano, che si sviluppa in problema geopolitico europeo.

Questi elementi dell’imperialismo, soprattutto l’ultimo sulla spartizione territoriale, implicano un rapporto di fondo con lo Stato, che rimanda di fatto alla natura del rapporto sociale capitalistico. Questo rapporto fondamentale era stato colto in maniera più globale, prima di Lenin, da Nikolaj Bucharin, che parlava di “trust capitalistici di Stato”, ed era stato tra l’altro descritto in maniera notevole, da angolazioni diverse, da Rosa Luxemburg ne L’accumulazione del capitale.

Il modo di produzione capitalistico si riproduce di per sé una volta costituitosi, ma lo Stato non è qualcosa di estraneo rispetto a questa riproduzione. Gli Stati ne costituiscono componenti indispensabili, per conservare il predominio del capitale sui lavoratori, l’esproprio permanente della massa umana rispetto alla terra e ai mezzi di produzione, la continuità dei rapporti di mercato (rispetto dei contratti, pagamento dei debiti) e, di più, la concorrenza, leale o meno, con gli altri trust e gli altri Stati, che si riproduce quale che sia lo stadio di interpenetrazione mondiale dei diversi capitali. Quando il capitale perviene allo stadio “imperialista” di concentrazione e mondializzazione, gli Stati svolgono un ruolo fondamentale nel processo. Vi sono dunque Stati capitalistici che diventano imperialisti, e tra di essi esiste una gerarchia, con altri Stati che, pur volendo, non raggiungono quello stadio e sono più o meno dominati dai primi e dal loro capitale interno. Essendo il pianeta completamente ripartito ormai da oltre un secolo, gli spazi costano.

 

Gli imperialismi: Stati Uniti, Germania, Francia

 

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’imperialismo nordamericano (gli Stati Uniti) è dominante, pur non essendo l’unico né essendolo mai stato.

La principale struttura militare di dominazione messa in piedi dagli USA è la NATO. Con il pretesto della “lotta al comunismo” la Nato ha innanzitutto consentito agli Stati Uniti di istituzionalizzare e perpetuare la sottomissione militare e quindi politica delle altre potenze imperialiste europee, Inghilterra e Francia, poi, a partire dal 1955 e dal suo reinserimento nel concerto delle potenze, la Germania, con la presenza militare in quel paese (come in Giappone), la preponderanza nucleare e la direzione del comando integrato della NATO, che garantisce la dominazione. È noto che l’imperialismo francese sotto De Gaulle aveva cercato di contestare quel dispositivo, pur continuando a parteciparvi regolarmente. Se si capisce questo ruolo della NATO, si capisce anche che questa non poteva sparire con la scomparsa dell’Urss, che era servita da pretesto per la sua creazione. Il suo mantenimento e la sua espansione in Europa centrale e orientale tengono sotto tiro la Russia, ma puntano anche a tenere a bada l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui UE ed euro sono praticamente diventate le forme del predominio continentale e della preponderanza di quest’ultimo.

I crimini dell’11 settembre 2011 hanno permesso all’imperialismo nordamericano di portare avanti un’offensiva mondiale che lo ha di fatto, a medio termine (su scala del decennio 2000), seriamente “affaticato” e indebolito, ma che ha anche avviato l’accerchiamento della Russia, con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, con le basi in Asia centrale e, sul continente europeo, il precedente intervento in Kosovo, il sistema di missili antimissili destinati a neutralizzare il potenziale offensivo-difensivo della Russia (nel nucleare, qualsiasi difensiva è offensiva), raddoppiando l’estensione della NATO e coprendo quella dell’UE, rendendo anche qui manifesto l’obiettivo del contenimento della Germania. A partire dalla metà del 2000, gli USA procedono apertamente verso l’estensione della NATO all’Ucraina. la Moldavia e la Georgia.

Quest’aggressività ha suscitato l’opposizione russa e una prima guerra si è verificata in Georgia nel 2008. Causata da una provocazione ispirata dai servizi USA, essa ha visto una vera e propria invasione della Georgia da parte dell’esercito russo, e la mediazione dell’imperialismo francese dava soddisfazione a Mosca, con la copertura della retorica “occidentale”, quanto al controllo dell’Abcasia e dell’Ossezia meridionale. Questo episodio ha stabilito un equilibrio precario e temporaneo. Ucraina e Georgia non rientravano nella NATO, ingresso cui si era opposta la Germania, ma la Polonia rientrava nel dispositivo “antimissili”. Le lotte di fazioni oligarchiche in Ucraina, connesse alle alleanze e alle bustarelle delle potenze straniere al paese, non potevano non pesare sulla conservazione o il crollo di quel fragile equilibrio.

Maggio 2008 vuol dire anche il fallimento di Lehman Brothers e l’aprirsi della crisi finanziaria mondiale e, poco dopo, l’elezione di Obama. L’indebolimento e lo squilibrio dell’imperialismo nordamericano sono andati crescendo, incluso con la nuova irruzione di importanti movimenti sociali in terra statunitense. Vi hanno contribuito anche gli avvii di rivoluzioni in diversi paesi arabi a partire dal 2011. La situazione è sfociata di recente in importanti sviluppi. La velleità di una grande ostentazione militare in Siria a fine agosto-inizio settembre 2013 (appoggiata a fondo e addirittura scavalcata dall’imperialismo francese, per sue specifiche motivazioni di vecchia potenza mediterranea e africana) si è sgonfiata, in condizioni di eccezionale gravità per la Casa Bianca. È il presidente Putin che ha tirato fuori il presidente Obama dal vicolo cieco che lo avrebbe portato alla sua sconfessione da parte del Congresso. In seguito a questo, gli Stati Uniti siglavano l’accordo con l’Iran (la cui prima vittima è il popolo siriano, che non hanno mai appoggiato contro Bashar al-Assad). Il tutto, entro una strategia globale in cui l’accerchiamento della Cina è diventata la preoccupazione principale, esplicitamente dichiarata, dell’esecutivo USA, nella speranza, non irrealistica, di contrapporre Russia e Cina.

Questi sono richiami indispensabili: è impossibile analizzare una crisi come quella dell’Ucraina senza inserirla nel quadro dei rapporti di forza mondiali, in cui la lotta di classe è il fattore principale, anche se spesso sotterraneo. Sono state soprattutto la resistenza della classe operaia americana e le “rivoluzioni arabe” a determinare l’indebolimento e le esitazioni dell’imperialismo nordamericano, e anche la profonda divisione dei suoi esponenti politici, che si riflette fin nell’apparato di Stato, in quello militare, e quindi nella NATO, e in alcuni servizi diplomatici; una divisione tra quelli che vogliono gradatamente ritirarsi e quelli che vorrebbero riprendere mano libera per provocazioni e avventure, e combinazione di entrambe.

Allo stesso modo, gli sviluppi che conosce l’Ucraina dal novembre 2013 non si riescono assolutamente a capire se non si prende atto della realtà dell’“inopinata” e “inattesa” sollevazione popolare (come sempre lo sono le sollevazioni popolari).

Questi sviluppi erano inattesi per l’imperialismo americano, diviso tra quelli che vogliono sfruttarli e quelli che ne temono le conseguenze. Di qui l’aver “surfato” tra emissari ufficiali autoproclamati (ad esempio, il repubblicano McCain) e, a partire da metà gennaio quando fallisce il tentativo di schiacciare le masse con lo stato d’emergenza, l’appoggio al governo che si installa al posto del presidente Yanukovyč. Ma non è stato un colpo di Stato della CIA ad aver prodotto questo insediamento, che tra l’altro non ha soddisfatto del tutto la folla di Maidan, che ha subito manifestato clamorosa disapprovazione per la maggior parte dei membri del nuovo governo. In questa questione, non vediamo l’imperialismo americano prendere l’iniziativa, ma inseguire gli avvenimenti con l’intenzione palese di recuperarli, il che non significa evidentemente che non abbia sul posto le sue spie, i suoi mercenari, ecc. Per combattere l’imperialismo occorre capire in che condizione si trovi.

Alla vigilia della fuga di Yanukovyč, i ministri degli Esteri tedesco, francese e polacco avevano imposto la firma di un accordo per un governo di unità nazionale tra lui e i tre partiti autoproclamatisi esponenti di “Maidan”: quello di Tymošenko e Yacenjuk, quello del puglie Klyčko e quello di Svoboda. Non era quella la linea dell’imperialismo americano, che riteneva si dovesse subito puntare sulla caduta di Yanukovyč e che era molto irritato dalla politica della UE, vale a dire dalla politica tedesca, come è emerso agli occhi dell’opinione pubblica da una conversazione registrata e divulgata dai servizi russi, in cui la diplomatica Victoria Nuland, vicesegretaria di Stato USA, esclamava “Fuck the UE” [“Vada a farsi fottere l’UE”]. L’episodio è stato massicciamente utilizzato per dimostrare la manipolazione americana degli avvenimenti ucraini, mentre dimostra soprattutto le contraddizioni tra Stati Uniti e Germania, e la pubblicazione rivela piuttosto la volontà russa di sfruttarle.

Yanukovyč ha deciso di scappare da Kiev, pensando di ritornarvi, nella notte seguita a quell’intesa, mentre gli scontri armati si intensificavano nel centro della città e il suo stesso partito, il Partito delle Regioni, vedeva i suoi dignitari esigerne la partenza per salvare la propria pelle e le proprie prebende. Di colpo, il governo messo in piedi altro non era che il governo di unità nazionale previsto con Yanukovyč, ma senza di lui. Non è minimamente l’espressione del movimento Maidan, la cui sola vittoria è la fuga di Yanukovyč. Questo governo coinvolge solo fazioni acquistate dagli imperialismi occidentali, non fazioni filorusse (Julija Tymošenko, che fa il doppio gioco, ne è d’altronde diventata l’oppositrice). Dunque, si rimettono sul tappeto l’associazione dell’Ucraina all’UE, i suoi legami con la NATO, come quelli della Moldavia, enclave tra Ucraina e Romania, rompendo il precario equilibrio del 2008: ed è questo che l’imperialismo russo rifiuta.

L’analisi della politica delle potenze imperialiste presuppone che si distinguano fatti e dichiarazioni. Per quanto riguarda i fatti, Obama ha reso noto a più riprese che non si ritiene pensabile qualunque intervento militare. E invece gli agenti e i mercenari convergono verso l’Ucraina. Gli Stati Uniti hanno gesticolato parecchio a proposito della Crimea, ma non avevano la minima intenzione di fare alcunché, tanto più che quest’annessione non cambia i rapporti di forza militari e marittimi nel Mar Nero. Il 17 aprile, hanno firmato un accordo con la Russia e la Germania (quest’ultima sotto copertura dell’UE) e imposto al governo di Kiev un accordo che, di fatto, consentiva la prosecuzione dell’installazione di paramilitari legati alla Russia nelle prefetture e negli oblast [suddivisione amministrativa degli Stati slavi più o meno equivalente a regione, o provincia, o area] del Donbass e di Lugansk. Se un rapporto di forza esiste tra Stati Uniti, Germania e Russia, riguarda la spartizione delle zone di influenza in Ucraina. Ho già dettagliatamente commentato questo accordo chiave del 17 aprile in un mio articolo del 5 maggio.

I conflitti e le contraddizioni interimperialiste “occidentali” svolgono un ruolo importante nei loro atteggiamenti reali verso l’Ucraina. È evidente che la contraddizione principale contrappone Stati Uniti e Germania e per la Germania significa una vera e propria sfida, una scelta politica tra l’allinearsi agli Stati Uniti, oppure un’alleanza russa, perlomeno una politica più autonoma rispetto agli Stati Uniti e alla NATO, che sostengono naturalmente Schröder e Schmidt, e che rappresenta di fatto il ministro degli Esteri SPD del governo di coalizione, Stermeier. La fonte o il principale avallo delle voci su “chi ha sparato su Maidan”, fa peraltro risaltare questo ruolo della Germania o di determinati settori tedeschi. Sembrerebbe infatti che la maggioranza del padronato industriale e finanziario tedesco sia su una linea “continentale” di stretta collaborazione con Putin. Le divisioni si ripercuotono sui posizionamenti della Polonia, dei Paesi baltici, dell’Ungheria, della Romania e della Bulgaria.

Gli Stati Uniti utilizzano questa pressione sulla Germania in favore del Trattato di libero scambio transatlantico. Su questo argomento, tuttavia, loro stessi sono divisi: Obama non ha acquisito l’appoggio del Congresso. La crisi di dominazione nordamericana è senz’altro sistemica e, invece di feticizzare ogni loro progetto come complotto malefico la cui attuazione avrebbe conseguenze apocalittiche, sarebbe meglio analizzare concretamente, anche qui, le condizioni reali dell’oggetto reale “imperialismo nordamericano”.

Quanto alla Francia, che non può avere qui la sua zona d’influenza, gesticola e si associa alle manovre, in realtà molto limitate, della NATO nel Mar Nero. Anche nei confronti dell’imperialismo francese, per combatterlo occorre tener conto e delle dichiarazioni e dei fatti. Ad esempio, la visita di François Hollande in Azerbaigian, Armenia e Georgia è stata, fin dall’inizio, o un atto “coraggioso” contro la cattiva Russia o, viceversa, un atto “di aggressione” contro la povera Russia accerchiata (sono le due versioni simmetriche dei discorsi che prevalgono). Ma è proprio in quel viaggio che si è confermata l’intenzione francese di vendere un numero rilevante di navi da guerra Mistral alla Russia (compresi dispositivi di trasmissione high tech), il cui significato in termini di forza d’urto è perlomeno altrettanto forte dell’invio di qualche fregata in Mar Nero nel quadro della NATO: Washington ha vivamente protestato, e Parigi ha vivamente risposto a Washington replicando anche sul piano siriano con la “rivelazione” di altri impieghi di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, per denunciare la “codardia” USA. Anche l’imperialismo francese cerca di giocare la sua carta, e questa per il momento passa per un fruttuoso commercio di armamenti con la Russia. Combattere l’imperialismo presuppone, ancora una volta, che si tenga conto sia delle ostentazioni verbali, sia dei fatti concreti, specie se si tratta del “nostro” imperialismo.

 

Gli imperialismi: Russia

 

E la Russia?

Sommariamente: l’imperialismo Russo viene fuori direttamente dalla burocrazia staliniana, la quale a sua volta deriva dal fallimento storico della rivoluzione socialista europea, l’obiettivo per cui si era costituito il vecchio movimento operaio, fallito nel 1914: nonostante questo, la rivoluzione esplodeva in Russia nel 1917. Facciamo notare – ed ha la sua importanza – che l’Ucraina sovietica, le cui frontiere vanno fino al Donbass e a Lugansk incluso, fu il risultato e una conquista di quella rivoluzione. L’apparato di Stato (la burocrazia) si è autonomizzato rispetto alla classe operaia, riflettendo in particolare il ritorno dello sciovinismo dominante grande-russo nei confronti dei georgiani, dei tatari e degli ucraini. A partire dal 1923, sfuggiva completamente a qualsiasi controllo della classe operaia. A partire dal 1929, sotto il nome di “collettivizzazione” e di “pianificazione”, effettuava l’esproprio dei contadini e generalizzava il lavoro salariato. Nella seconda metà degli anni Trenta stermina fisicamente i residui delle organizzazioni della classe operaia che avevano fatto la rivoluzione del 1917, Partito bolscevico in testa, di cui il PCUS non era la continuazione ma la negazione tramite sterminio. In quel sistema sociale, i rapporti mercantili, che affiorano da tutti i pori, vengono sostituiti dal controllo dello Stato chiamato in modo fittizio “socialismo”. Con la perestrojka questi rapporti trionfano e, per preservare ed estendere i propri privilegi di fronte a un rinascente movimento operaio e alle aspirazioni democratiche, i burocrati si costituiscono un capitale privato. Il processo si compie sotto El’cin con un generalizzato saccheggio predatorio.

Nel corso degli anni, questa fase di accumulazione privata con saccheggi e messa all’asta dei beni di Stato vede svilupparsi la crisi implosiva di questo Stato, cominciata con l’esplosione dell’URSS e l’indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche nel 1991. Probabile sbocco di questa crisi era il formarsi di un capitalismo di secondo piano, commerciale e largamente infeudato all’imperialismo nordamericano. Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, la resistenza vitale della classe operaia, espressa materialmente dai picchetti di minatori calati a Mosca proprio nel momento in cui crollavano i corsi della recentissima Borsa di Mosca, ha evidenziato i pericoli di fondo per l’ordine capitalista della semicolonizzazione del paese. Quel che gli Stati Uniti avevano rinunciato a fare in Europa occidentale dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo averci pensato (piano Morgenthau di deindustrializzazione della Germania, lasciato alla fine cadere in favore del Piano Marshall), si rivela al di là delle loro forze anche nel caso della Russia.

La svolta da El’cin a Putin, dall’alcolista al pugile, si situa in quel momento. Putin però non esprime la resistenza del popolo russo all’asservimento, ma la piena e integrale restaurazione di un capitalismo russo sfuggito al predominio imperialista, essendo imperialista a propria volta. Il suo consolidamento avviene sulla base della sconfitta dei movimenti sociali e nazionali della fine degli anni Novanta: si tratta del barbaro schiacciamento del popolo ceceno (e della promozione di uno strato di “askari caucasici” che collaborano con il potere russo), e della rimessa in riga della classe operaia con un nuovo codice del lavoro che atomizza i lavoratori e mette fuori legge la maggior parte degli scioperi. L’elemento chiave del nuovo consolidamento di El’cin al servizio del capitale è l’assenza di partiti, e anche di strutture sindacali nazionali autonome e non legate allo Stato, che rappresentino, legittimamente o anche in modo deformato, la classe operaia. Quest’assenza è l’eredità conservata dello stalinismo incarnata dalla persistenza dei vecchi “sindacati” ufficiali. Su queste basi Putin è riuscito, tramite l’arresto simbolico di vari oligarchi come Federovskij e alla fine Chodorkovskij, a concludere la strutturazione dello strato capitalista dominante, come strato sia indipendente dal capitale straniero, sia posto su un piano di relativa parità nei confronti del centro dello Stato in base alla stabilizzazione delle leggi e dei contratti – cosa che non impedisce, anzi al contrario, di avere propri conti in Svizzera, alle Bahamas, a Cipro (fino al gennaio 2013), propri operatori finanziari a Londra, e proprie ville in Costa Azzurra.

Gli attacchi agli operai sferrati da Putin negli anni 1999-2003 hanno del resto fatto della Russia uno Stato per certi aspetti molto più “commercializzato” (rispetto ad esempio a quel che resta dei servizi sociali, della Sanità e dell’Istruzione) di parecchie altre ex repubbliche sovietiche tra cui l’Ucraina, dove il permanere di fazioni oligarchiche negli anni di El’cin in Russia è andato di pari passo con una minore realizzazione delle privatizzazioni e commercializzazioni, soprattutto nella parte orientale del paese. È così, ad esempio, che era preferibile, finora, essere minatore nel Donbass ucraino (regione di Donetsk) che non nella vicina zona russa (regione di Rostov-sul-Don), dove la disoccupazione di massa è peggiore che in Ucraina e dove le miniere non sono più sovvenzionate dallo Stato oligarchico…

Il fatto che un capitalismo russo si affermi come indipendente dall’imperialismo nordamericano dominante, come l’affermarsi del capitalismo imperialista cinese oggi più potente di quello russo, e come in generale l’ascesa di potenze capitaliste regionali a vocazione imperialista, i cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), non vuol dire assolutamente che si tratti di fenomeni progressisti, se non per lo sviluppo della classe operaia che generano – e si noterà al riguardo che quest’ultimo aspetto è proprio quello che è stato assente nella Russia e nell’ex URSS passate per la deindustrializzazione.

Totalmente legati al modo capitalistico di produzione nello stadio imperialista, questi nuovi sviluppi sono portatori di guerra. Feticizzare il rapporto sociale capitalistico nella forma di uno Stato, di un popolo o di una cultura considerati “abominevoli” – quelli ad esempio “occidentali” o degli “anglosassoni”- apre la strada non alla rivoluzione emancipatrice ma allo sciovinismo, alla sant’alleanza, al razzismo e alla guerra imperialista.

Le caratteristiche sommarie dell’imperialismo elencate da Lenin, sopra richiamate, si ritrovano tutte nel caso russo contemporaneo, compreso il punto chiave dell’esportazione dei capitali e della ricerca di campi d’investimento per questi ultimi, precisando in oltre che la finanziarizzazione è immediatamente spinta al parossismo, a immagine del capitalismo come realtà mondiale. La peculiarità del capitalismo “putiniano” negli anni 2000 è quella di basarsi sull’esportazione di energia e di materie prime, intorno a due imprese, Rosneff e, al primo posto, Gazprom, che è direttamente il “trust” di Stato del petrolio (creato nel 1954) convertito in impresa petrolifera mondiale, che associa capitali europei e soprattutto interessi tedeschi, simboleggiati dal seggio occupato dall’ex cancelliere tedesco Schröder. Così come per Yukos [prima impresa petrolifera russa, sottratta a Chodorkovskij e confluita in Rosneff]. Queste caratteristiche esportatrici fanno dell’imperialismo russo un imperialismo di secondo piano, abbastanza largamente dipendente dai prezzi mondiali, che erano in rialzo negli anni 2000. La dipendenza rafforza l’incidenza relativa delle componenti militari e politiche nella sua equazione specifica.

La crisi mondiale apertasi dal 2008 accentua per l’imperialismo russo la necessità di passare a una nuova fase, in cui un settore industriale produca maggior plusvalore in loco, una transizione cui lavora il potere russo in vista di sviluppare i settori militare, delle infrastrutture e dei trasporti. I cantieri legati ai Giochi Olimpici di Sochi illustrano questa intenzione. Questo imperialismo, non giovane ma “resuscitato”, è altrettanto “marcescente” dei suoi rivali, non può avere sbocchi e soprattutto campi sufficienti di investimenti propri al di fuori di una proiezione politico-militare. È stretto e soffocato dall’imperialismo nord-americano, anch’esso non particolarmente in forma, e sorretto dalla sua forza militare come stampella della preservazione del suo predominio economico.

Di seguito riassumo le principali tappe di questo accerchiamento.

Dal 2008-2010, la reazione russa consiste soprattutto nel cercare di costituirsi una zona di investimenti che aggreghi alla Russia varie ex repubbliche sovietiche, in una “unione euroasiana” con l’Ucraina, il Kazakistan, la Bielorussia, l’Armenia. Il presidente dittatore eternamente rieletto del Kazakistan, Nazarbaëv, che rappresenta la totale continuità dello Stato e del capitale (era primo segretario del PC kazako sotto Gorbačëv), svolge qui un ruolo chiave. L’unione doganale euroasiana, per imperialista che sia, è su scala mondiale un’impresa relativamente limitata, dal momento che non copre neppure il campo dell’ex Unione sovietica.

Altrettanto importanti sono dunque l’inserimento del capitale russo nei circuiti finanziari mondiali e, sul piano politico – con le conseguenze che questo comporta in materia di potenza e di soft power – il fatto che la Russia di Putin si ponga come fattore di ordine sociale e di reazione. In larga misura lo ha fatto, suo malgrado, rispetto all’indebolimento e alle esitazioni nordamericane. Un punto critico si è raggiunto nell’estate 2003. Il crollo della presidenza islamista in Egitto, causato dalla maggiore ondata di manifestazioni della storia, non era nei piani degli USA e si è assistito allora all’intrecciarsi di contatti inattesi tra militari egiziani, servizi sauditi e Russia. Come ho già ricordato, Obama ha cercato di reagire montando un vero e proprio pseudo-intervento contro Bashar al-Assad, intrappolandosi nelle sue stesse contraddizioni, da cui è stato Putin a tirarlo fuori. L’aiuto militare russo ha un ruolo importante nel progressivo schiacciamento militare del popolo siriano, ad oggi la principale vittoria controrivoluzionaria nei paesi arabi dal 2011. Putin si afferma come un pilastro dell’ordine mondiale, in proporzione al calo del credito degli USA, senza però disporre dei mezzi, più di qualsiasi altro imperialismo, per sostituirsi al ruolo del gendarme mondiale che gli Stati Uniti non riescono più a svolgere correttamente. Tuttavia, facendo questo, i suoi specifici interessi hanno ottenuto una bella promozione.

Se è ricorrente la denuncia della russofobia spesso palese e ridicola dei nostri mezzi di comunicazione di massa, soprattutto da qualche mese a questa parte, conviene rendersi conto di come essa comporti anche un misto di ostilità e di fascino che le imprime la sua tonalità isterica particolare, e che il fascino per l’ordine sociale, la disciplina, la presunta salvaguardia dei “valori” religiosi e familiari ha, nel regime di Putin, un’influenza crescente in larghi strati borghesi e piccolo borghesi dei paesi “occidentali”. È importante quindi spendere due parole sulle costruzioni ideologiche coltivate da questo potere, o meglio dai suoi think tanks e altre cerchie satelliti, perché, imitando i neoliberisti, Putin ha saputo costruire o attrarre a sé reti analoghe, a immagine della sfera culturale, mediatica e ideologica del neoliberismo negli Stati Uniti.

In partenza Putin è uno spento burocrate e un poliziotto privo di ideali, ben lontano dall’immagine del superuomo che gli hanno forgiato i suoi comunicatori. Al consolidamento dello Stato russo come Stato capitalista corrispondeva l’adesione ufficiale a una retorica neoconservatrice piuttosto ultraliberista, tendente a presentare la storia russa su una linea di continuità: tutti i dirigenti russi sono buoni per definizione, e i dissidenti del passato (non gli attuali) anche loro lo sono in quanto hanno spianato loro la strada; l’unico momento spiacevole della storia russa è la rivoluzione del 1917, la figura di Lenin è condannabile (non però le sue statue ieratiche di fattura staliniana, che fanno parte del patrimonio allo stesso titolo delle icone), quella di Trotski deve rimanere all’inferno, Stalin va bene e anche gli zar vanno bene. Questa visione della storia era stata promossa in occasione dell’850° anniversario di Mosca, nel 1997, con la denominazione di “sintesi rosso-bianca”, dalla rivista Zavtra di tendenza “eurasiana”, ed era quotata sia tra i monarchici sia nella cerchia del dirigente del PC russo Žuganov.  Anche i legami tra Stato e Chiesa ortodossa sono sulla stessa linea.

Il think tank politicamente più attivo e più produttivo al servizio dell’apparato di Putin è quello del teorico “euroasiano” Alexandre Dugin, che dispone di potenti sponsor fra i capitalisti del complesso militar-industriale ed è anche legato al presidente del Kazakistan, Nazarbaëv. Dugin, animatore di Pamjat, associazione di destra stalin-zarista nata sotto la perestrojka, poi co-dirigente del “Partito nazional-bolscevico” di Limonov, si avvicina a Putin come consigliere ufficioso fin dal 1999-2000. Il suo “euroasianismo” (che non è l’unica variante di questa corrente, ma attualmente la più influente) combina un po’ di salsa occultista-esoterica con concezioni geopolitiche e razziste basate sulla contrapposizione tra paesi della terra (la Russia) e paesi del mare, commercianti e predatori (gli anglosassoni): La sua concezione della società, capitalista e religiosa, privilegia le esperienze fasciste e naziste. Il nazismo era nel complesso una buona idea tranne il fatto che ha commesso un errore, quello di attaccare l’Unione Sovietica, potenza della terra, insieme agli anglosassoni. Quanto al genocidio degli ebrei, non era per niente un errore: l’antisemitismo esplicito è rientrato ed è una componente fondamentale di questa ideologia. Il ristabilimento delle potenze terrestri e tradizionaliste, con l’instaurazione di una forma corporativa e ben regolata di capitalismo, passa per la potenza russa e la sua assimilazione dei popoli della steppa, turco-mongoli. Oltre agli ebrei, cosmopoliti che ispirano la finanza e le potenze marittime anglosassoni, due popoli si trovano nel mirino degli “eurasiani” versione Dugin. I tatari, soprattutto quelli di Crimea, perché costituiscono un ostacolo all’allineamento dei popoli turco-mongoli e caucasici allo statuto degli harkis [in Italia diremmo ascari] della santa Russia: ebraizzanti, sarebbero dei”Kazari”. Poi gli Ucraini, che non esistono e hanno la faccia tosta di aspirare all’esistenza nazionale, e che vanno inseriti, nella loro maggioranza, nel complesso pan-russo, con quelli del Donbass che sono in realtà russi e quelli di Galizia che si possono lasciare ai polacchi e all’Unione Europea (questo apre la possibilità di un’intesa per spartirsi l’Ucraina con l’estrema destra ucraina). Queste laboriose costruzioni ideologiche russe sono state di recente oggetto di una massiccia pubblicazione in francese, dal titolo La quatrième théorie politique, con una prefazione di Alain Soral, che si presenta come il nazional-socialista francese.

Assumendo l’etichetta di “eurasiano” ci si riferisce a un’importante componente intellettuale dell’emigrazione bianca degli anni Venti e Trenta, quella che fin dal 1921, con Ustrialov, sosteneva che l’apparato del PC al potere sarebbe stato fatalmente indotto a russificarsi e a incarnare gli interessi nazionali, cosa che li ha portati a sostenere la NEP ma anche la collettivizzazione. Non si trattava di una corrente marginale, ma rappresentava un consistente settore della borghesia russa emigrata – di fatto, più o meno tutto quello che aveva potuto produrre come intellighenzia, al di fuori delle religioni e delle mistiche che avevano spesso del resto idee politiche vicine. Con l’“eurasismo”, l’oligarchia rappresentata da Putin, prodotta dalla burocrazia staliniana, realizza dunque una duplice operazione ideologica: giustifica i propri appetiti di dominazione e si assegna la discendenza diretta dalla vecchia borghesia, quella che la rivoluzione d’Ottobre aveva espropriato, quella dell’epoca degli zar.

Malgrado la sua natura di delirio ideologico, si tratta di una costruzione coerente, è non è marginale. C’è da temere che la frenetica denuncia dei “nazisti ucraini”, cioè i riferimenti fascisti e nazisti della parte della destra nazionalista ucraina cosiddetta “banderista” (di fatto compattata soprattutto da cinque decenni di regime staliniano durante i quali gli ucraini si sono fatti trattare da nazisti), non serva soprattutto a dissimulare l’emergere di un’ideologia di stampo vicino al nazismo, concepita volutamente in questo spirito, nell’ottica di giustificare le imprese imperialiste russe.

Considerare questa ideologia che – con adattamenti, tende a essere dominante nello Stato e nei mezzi di comunicazione russi di oggi – una semplice reazione alla pressione occidentale (cosa che fa, ad esempio, Jean-Marie Chauvier, che fornisce molte informazioni al riguardo, ma la giustifica come “una reazione muscolosa all’espansionismo occidentale”, in Le Monde Diplomatique di maggio 2014), sarebbe un “errore” dello stesso tipo di quelli degli storici revisionisti tedeschi, che cercarono di presentare il nazismo come una reazione al “comunismo” o al trattato di Versailles: in questo modo si passano sotto silenzio la natura imperialista della Russia e l’aspetto di fondo di giustificazioni ideologiche di questo imperialismo.

 

La distruzione dell’Ucraina, programma dell’Imperialismo:

“reazione su tutta la linea”

 

Per l’ideologia imperialista russa di prima del 1914, l’Ucraina non deve esistere, perché non ne ha motivo, esiste la piccola Russia o, per riprendere un’espressione anche questa resa popolare da Alexandre Dugin, bisogna farla a pezzi, costruendo sulle sue rovine una “Nuova Russia” che comprenda il Donbass, Lugansk, Odessa e la Transnistria. Il termine “Novorossija” è semplicemente zarista: indica le steppe del Sud strappate con la forza ai cosacchi zaporoghi, vale a dire agli ucraini, e ai tatari. Ora, questo termine è stato ripreso da Putin in persona nel suo discorso del 17 aprile e suonava come incoraggiamento ai paramilitari a spingersi verso Odessa, con le conseguenze ben note del 2 maggio scorso.

La distruzione dell’Ucraina che si fa passare fra i nostalgici che ancora si immaginano che l’URSS costruisca il socialismo come un modo per rifare l’URSS, in realtà approfondisce la controrivoluzione. L’Ucraina, come altri 13 Stati dell’Europa centrale e orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale, è una repubblica sorta dall’ex URSS, altrettanto quanto la Russia, e i suoi confini sono il frutto della rivoluzione del 1917, e del suo sviluppo in rivoluzione contadina e nazionale ucraina che ha permesso ai rossi di sconfiggere i bianchi. Sono questi confini del 1920 che Putin ha dichiarato assurdi, imposti alla vecchia Russia, quella del tempo degli zar. Mettere in piedi repubbliche posticce paramilitari nel Donbass e a Lugansk è in assoluto un’impresa controrivoluzionaria, che si colloca completamente nella prospettiva imperialista “eurasiana”, quella per cui il decoro “sovietico” serve solo a valorizzare gli stendardi zaristi, i nastri di San-Giorgio, le insegne dei Cento Neri e la società che a questo corrisponde.

La distruzione dell’Ucraina significa la “reazione su tutta la linea” nell’accezione di Lenin nel 1916, ed è il terreno di possibile intesa tra imperialismi russo, americano e tedesco. È con questo che si scontra la nazione ucraina, con al suo centro la classe operaia, come tendono a dimostrare gli sviluppi recenti nel Donbass, che contrappongono in modo crescente i minatori ai paramilitari “anti-Maidan”. Se le parole internazionalismo proletario” devono rinnovare il proprio significato originario mettendosi al tempo stesso in sintonia con il XXI secolo, si deve cominciare dalla solidarietà con la nazione ucraina in lotta per la propria sovranità democratica e la propria unità.

(24 maggio 2014. Traduzione di Titti Pierini).

Fonte:

http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1788:imperialismi-e-ucraina&catid=57:imperialismi&Itemid=73

 

RUSSIA: Il nastro di San Giorgio e l’invenzione della tradizione

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«Tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta». Così scriveva nel 1983 lo storico Eric Hobsbawm nel suo L’invenzione della tradizione, a proposito di casi quali il tartan dei clan scozzesi. Tali tradizioni inventate sono fondamentali per il consolidamento di un’identità di gruppo nei processi di costruzione della nazione e dello stato (nation-building e state-building) come “comunità immaginate“, nel termine usato da Benedict Anderson.

Tale è anche il caso del nastro di San Giorgio, la georgevaskaya lenta: il nastro nero e arancione nato ai tempi dello zar (fu creato dalla zarina Caterina dopo la prima guerra di Crimea, quella del 1769) e i cui colori probabilmente richiamano lo stemma imperiale dei Romanov, l’aquila nera su sfondo oro. Abolito dai bolscevichi, fu riesumato negli anni ’90 e volutamente confuso con la medaglia sovietica dagli stessi colori, quell’Ordine della Gloria “per la vittoria sulla Germania nella Grande Guerra Patriottica del 1941-45″ (За победу над Германией) conferita a tutti i reduci del fronte orientale al termine del conflitto. Oggi, il nastro di San Giorgio sta acquisendo sempre più valore di un simbolo nazionalista russo, e la sua ricezione negli altri stati post-sovietici sta cambiando.

La stessa celebrazione del Giorno della Vittoria è una “tradizione inventata” in una doppia sequenza trentennale, spiega Adrien Fauve, ricercatore dell’area post-sovietica a SciencesPo Parigi. ”Il 9 maggio, Giorno della Vittoria, è un elemento fondante della società russa e degli altri stati post-sovietici.”  La Russia infatti è solo uno degli stati successori dell’Unione sovietica, e su un piano di parità con gli altri, dall’Ucraina al Kazakhstan, i cui cittadini hanno partecipato allo sforzo bellico sul fronte orientale. Anche per questo motivo, alcuni elementi di legittimità del regime precedente, quali il Giorno della Vittoria, sono serviti da elemento di legittimazione per i nuovi stati indipendenti.

La sacralità della celebrazione del 9 maggio risale al periodo brezhneviano degli anni ’70, quando inizia ad essere celebrato il culto della forza incarnato nel sacrificio dei soldati e nell’eroismo della vittoria. Essa riceve poi nuovo slancio in Russia sotto Putin a partire dal 2005, sessantennale della vittoria, momento nel quale viene ripescato anche il nastro di San Giorgio quale simbolo patriottico. Da allora, il nastro di San Giorgio è distribuito e indossato liberamente dai civili come atto di commemorazione, secondo il motto “ricordiamo, ne siamo fieri!”.

In Kazakhstan, come in altri stati post-sovietici, la celebrazione del 9 maggio si trasforma oggi in una tradizione popolare e familiare di ricordo dei parenti caduti durante il conflitto; le coccarde arancio e nere, pur presenti su poster ed oggetti celebrativi ufficiali, non sono indossate dalla maggioranza dei convenuti. Dal 2014, poi, il governo kazako ha deciso di bandirne l’uso, per la connotazione nazionalista che hanno assunto a partire dagli eventi in Ucraina orientale: “il minimo segno materiale innesca una reazione di posizionamento politico”, continua Fauve. La stessa decisione è stata adottata dalle autorità bielorusse, secondo cui tale simbolo in Ucraina sarebbe attualmente utilizzato “da militanti e terroristi”

In Ucraina, gli stessi veterani del conflitto mondiale (i pochi ancora in vita) hanno contestato l’uso politicizzato del nastro di San Giorgio fatto da nazionalisti e separatisti filo-russi nell’est del paese, ricordando come lo sforzo bellico contro gli occupanti nazi-fascisti sia stato un’impresa comune dei diversi popoli sovietici, e non possa essere appropriato dalla sola Russia, come avvenuto nel momento in cui i membri della Duma russa hanno celebrato l’annessione della Crimea occupata indossando il nastro di San Giorgio.

Foto: liveinternet.ru

 

Fonte:

http://www.eastjournal.net/russia-il-nastro-di-san-giorgio-e-linvenzione-della-tradizione/42836#!prettyPhoto/0/