"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
A FOGGIA LA DOPPIA PROTESTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO
Neri di rabbia. Le due manifestazioni dopo la strage dei braccianti stranieri. I campi chiusi per sciopero
di Gianmario Leone, il Manifesto 09.08.18
Una giornata di protesta e di lotta come non si vedeva da tempo. Uno sciopero che ha avuto un’adesione totale da parte dei braccianti stagionali e due grandi manifestazioni che hanno riempito le strade di Foggia e della sua provincia. Per dimostrare che nonostante l’indifferenza e un sistema difficile da debellare, fatto di caporalato, di sfruttamento dei migranti in molte aziende agricole, dell’ombra della mafia e degli interessi enormi della filiera della grande distribuzione, c’è ancora voglia di lottare e non arrendersi.
LA GIORNATA è iniziata molto presto. Alle 8 è infatti partita dal ghetto di Rignano, nel comune di San Severo, cuore della protesta, la marcia dei berretti rossi organizzata dall’ Usb e Rete Iside alla quale ha partecipato anche il governatore Michele Emiliano. «È stata totale l’adesione dei lavoratori allo sciopero. Nessuno è al lavoro nei campi intorno al ghetto di Rignano» hanno assicurato dall’Usb. Centinaia di lavoratori hanno sfilato con i cappellini indossati dalle vittime, distribuiti da Usb e Rete Iside «per aiutare i braccianti a proteggersi dal solleone e idealmente dallo sfruttamento e dalla mancanza di diritti». Le rivendicazioni della marcia sono state le stesse esposte un mese fa al ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, «che aveva accolto le richieste – sottolinea il sindacato – promettendo un tavolo che non c’è mai stato. Chiediamo sicurezza, diritti e dignità per tutti i lavoratori agricoli».
«BASTA MORTI sul lavoro», «schiavi mai» alcuni degli slogan che hanno accompagnato la manifestazione mattutina, giunta davanti alla prefettura di Foggia dove centinaia di migranti, sostenuti da cittadini e associazioni, si sono radunati durante l’incontro che la delegazione ha avuto con il prefetto. All’arrivo è stato osservato un minuto di silenzio per ricordare i 16 morti nei due incidenti stradali avvenuti negli ultimi giorni sulle strade foggiane e tutti i caduti sul lavoro, compresi gli italiani morti nella miniera di Marcinelle l’8 agosto del 1956.
ABOUBAKAR SOUMAHORO, sindacalista italo-ivoriano dell’Usb, al termine della riunione ha raccontato di «risposte immediate» ricevute da prefetto e questura. Aggiungendo che il prefetto si è impegnato a «convocare dopo ferragosto una conferenza sul lavoro», mentre sul rinnovo dei permessi di soggiorno, che in tanti aspettano da mesi, «la questura ha dato la disponibilità a ricevere un elenco che l’Usb presenterà ogni due settimane per affrontare i casi di rinnovo».
IN PIÙ DI DUEMILA hanno invece sfilato per le strade del capoluogo dauno nella seconda manifestazione organizzata da Cgil, Cisl, Uil, con l’adesione di Arci, Libera e altre associazioni. In marcia, accanto a sindacalisti e migranti, ancora il governatore Emiliano e poi l’europarlamentare pugliese Elena Gentile, il deputato Roberto Speranza e l’attore Michele Placido. «Un senso di sconfitta è quello che si avverte quando accadono queste tragedie immani» hanno sottolineato i sindacalisti, per i quali «questa manifestazione è il momento del cambiamento, per dire basta a morti ammazzati di lavoro».
IL MOMENTO PIÙ TOCCANTE c’è stato quando sul palco ha preso la parola Mohamed, lavoratore migrante: «Non è una pacchia lavorare tutto il giorno per pochi euro o pagare 5 euro per salire sui furgoni della morte – ha gridato -. Come siamo giunti a questo punto? Come siamo passati dall’accoglienza diffusa al degrado diffuso? Chiediamo diritti, non l’impossibile. Vogliamo pari diritti per pari doveri».
UN ALTRO LAVORATORE ha ricordato il dramma vissuto da ogni singolo migrante: «Le famiglie di quelle 16 persone in Africa soffrono per i loro cari che avevano lasciato tutto per venire in Italia a lavorare. Prima sono stati trattati come animali e poi sono morti». Sul palco si sono poi alternati gli interventi dei segretari di Cgil, Cisl, Uil, le cui delegazioni sono giunte da tutta Italia, e dei presidenti delle associazioni che hanno aderito alla manifestazione. «Non sono incidenti, sono omicidi. Siamo stanchi – le ultime parole dal palco – di chi incita all’odio e ci accusa di buonismo».
La strage silenziosa dei campi, dove italiani e migranti muoiono insieme
Negli ultimi sei anni i braccianti caduti sono più di 1.500. Immigrati e italiani. Nell’indifferenza generale. Il sindacalista Soumayla, ammazzato in Calabria il 2 giugno, lottava per i diritti di questi lavoratori.
di Antonello Mangano
Becky è morta tra le fiamme. Sacko, pochi giorni fa, è stato ucciso a fucilate mentre cercava delle lamiere per le baracche. Paola è morta di caldo. Marcus di freddo. Negli ultimi sei anni, almeno 1.500 lavoratori sono deceduti nei campi: bruciati vivi negli incendi dei ghetti, investiti da un treno, ammazzati dalla fatica o dai “padroni”.
Da Nord a Sud, l’agricoltura nel nostro Paese ha il volto della guerra. Muoiono italiani, romeni, africani, arabi. Di caporalato, come i polacchi in Puglia. Di mafia, come gli algerini a Rosarno. E italiani, magari per incidenti col trattore. Storie che finiscono nelle cronache locali per poi essere dimenticate in fretta, invisibili alle statistiche ufficiali, registrate come “difetti in itinere”.
Fiamme nel ghetto
«Fuoco, fuoco, fuoco». Sono le due di notte del 27 gennaio 2018. Chi si sveglia all’improvviso. Chi prova a uscire dal torpore del sonno. La plastica diventa incandescente. I riflessi delle fiamme illuminano la notte. Duemila persone corrono più forte che possono. Ma Becky Moses, 26 anni, non ce la fa a uscire dalla baracca di legno, plastica e cartone. E muore arsa viva. Nella bara di zinco finiscono i pochi resti carbonizzati, portati via tra le lacrime delle altre nigeriane e gli sguardi attoniti degli uomini.
Becky viveva nel ghetto vicino a Rosarno, uno dei tanti dove vivono in condizioni infernali i braccianti impegnati nelle raccolte. Arance in Calabria, pomodori in Puglia.
Dalla stessa baraccopoli, o da quello che ne restava dopo il rogo, è partito domenica scorsa Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali, per andare a cercare delle lamiere per le baracche dei suoi compagni in una vicina fabbrica abbandonata. Qualcuno lo ha puntato col fucile e gli ha sparato colpendolo dritto in testa. Più fortunati sono stati i due ragazzi che erano con lui, presi anche loro di mira in questo tiro al bersaglio, ma riusciti a scappare. E a denunciare quanto successo.
Le campagne rosarnesi sono un grande cimitero. Raccontano storie di ghanesi disperati che si impiccano nelle fabbriche diroccate o di braccianti investiti mentre tornano dal lavoro in bici su strade male illuminate.
Dominic Man Addiah, per esempio, è scappato alla guerra in Liberia per morire in Europa. Dormiva in auto ai bordi del ghetto di Rosarno. Era il 2013 ed è morto di freddo. Marcus era nato in Gambia e aveva girato mezzo mondo prima di arrivare nelle campagne calabresi. Era malato: è morto alla fine del 2010 nell’ospedale di Lamezia, provincia di Catanzaro, assistito dai volontari che hanno dovuto comunicare la notizia ai familiari in Africa.
La morte di Sekine, poi, è semplicemente senza senso. Siamo ancora nel ghetto, giugno 2016, tra gli spacci informali che vendono burro di arachidi e antidolorifico in bustine. Un gruppo di agenti – sei tra poliziotti e carabinieri – interviene per sedare una rissa. Sekine Triore, 27 anni, è evidentemente fuori di testa, «in stato di alterazione psicofisica», annota il verbale. La dinamica è controversa. Avrebbe un coltello in mano, gli agenti lo affrontano. Lui ne colpisce uno all’occhio, questo reagisce. Un proiettile trafora l’addome. Sekine morirà poco dopo all’ospedale di Polistena. Il processo – “eccesso di legittima difesa”, il reato ipotizzato – è ancora alle udienze preliminari. Dopo quello sparo si teme una rivolta. Ma ci sarà soltanto un corteo con cartelli di cartone.
E le morti dei braccianti non avvengono solo d’estate. Tra Rossano e Corigliano, ogni inverno, oltre diecimila lavoratori dell’Est arrivano per la raccolta delle clementine. Nel novembre del 2012 lo scontro tra un trenino diesel e un furgone con sei rumeni di ritorno dai campi è spaventoso: l’impatto lascia un ammasso di lamiere e sangue. Poi arrivano due ditte di pompe funebri: «Li abbiamo visti prima noi», dicono, e si contendono i corpi a calci e pugni. Un cadavere rotola sul terreno. I parenti delle vittime non ne possono più: «Mettete la testa in un vaso. Vergognatevi. C’è il nostro sangue qui». Per i congiunti è l’inizio di una trafila del dolore: non avranno neanche il risarcimento Inail.
A Foggia invece gli africani ricordano le fiamme del marzo 2017. Allora i morti furono due: Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, 33 e 36 anni, entrambi del Mali. Uno ha vissuto gli ultimi istanti sulla sua branda, avvolto dalle fiamme, l’altro mentre cercava la salvezza sulla porta della baracca. Il vento ha propagato il fuoco. Poteva essere una strage. «Se la sono cercata», secondo alcuni: non avevano obbedito all’ordinanza di sgombero del ghetto e sono rimasti ostinatamente lì, dove le condizioni sono orribili ma anche dove i caporali vengono a portare lavoro.
Centinaia di desaparecidos
Asfissiati o carbonizzati, a bastonate e a coltellate, investiti da un Tir o colpiti da infarto. Persino annegati nei vasconi per la raccolta dell’acqua. Alessandro Leogrande – per una strana maledizione morto d’infarto a 40 anni lo scorso novembre – aveva raccolto in un libro le testimonianze dei parenti dei polacchi scomparsi: 119 dal 2000 al 2006. Inghiottiti dalle campagne pugliesi. Attirati da connazionali e schiavizzati a morte.
Anche a Rosarno, negli anni 90, in tanti hanno perso la vita senza un perché. Ma a differenza della Puglia, uccisi da italiani e non da connazionali. Il motivo? Difficile da decifrare. In quegli anni non c’erano né Ong sul territorio, né una particolare attenzione mediatica. Le campagne del profondo Sud erano letteralmente al buio. In pochissimi avevano a cuore la sorte di lavoratori senza volto, nome, documenti. I loro cadaveri sparivano nel fango dei campi, seppelliti in casolari, uccisi a fucilate.
Un bilancio è impossibile. Tra i pochi nomi sottratti all’oblio, due ragazzi di 20 anni. Abdelgani Abid e Sari Mabini, algerini. Attirati in auto con la promessa di un lavoro in campagna e uccisi a bruciapelo in una zona isolata. Era il 1992. Saranno solo i primi di una lunga serie di morti e feriti.
Uccisi dalla fatica
Per lo Stato, Paola si occupava di “direzione aziendale e consulenza gestionale”. Almeno è quello che dicono i registri Inail. Invece stava da mattina a sera con la testa verso l’alto e le mani protese a pulire i grappoli d’uva. E non era neanche assunta direttamente, ma “somministrata” da un’agenzia interinale. Il volto moderno del caporalato.
A 49 anni, si alzava ogni notte alle tre, prendeva un autobus da San Giorgio Jonico alle campagne di Andria e toglieva i chicchi più piccoli dai grappoli. Quelli che impediscono agli altri di crescere. Tecnicamente si chiama acinellatura. È uno dei lavori più pesanti e peggio pagati in agricoltura. In Puglia, tradizionalmente, è un lavoro da donne. Mani delicate e poche pretese. «Meno di trenta euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro», dicono i sindacalisti.
Quel giorno, sotto il tendone, c’erano quaranta gradi. Il dolore alla cervicale era forte, ma con quel lavoro è normale. Poi lo svenimento, occhi sbarrati, le urla delle colleghe. Mezz’ora sul terreno. A prenderla non è venuta l’ambulanza, ma direttamente il carro funebre.
Il 13 luglio del 2015 gli italiani scoprono un mondo nuovo. Morire di sfruttamento non è solo questione da africani che vivono nella “clandestinità”. Riguarda anche una fetta di mondo “normale”: italiani assunti da agenzie interinali.
L’estate del 2015 sarà ricordata per le temperature sopra la media. E per i caduti. Morti di fatica da Carmagnola, provincia di Torino, a Vittoria, vicino Ragusa. Almeno, la fine di Mohamed Abdullah è servita a qualcosa: raccontare il percorso dei pomodori dal caporalato alle nostre tavole. Il sudanese è morto di infarto nei pressi di Nardò. Nel corso delle indagini, i carabinieri di Lecce hanno seguito a ritroso il percorso degli ortaggi. Una piccola ditta del leccese assoldava un caporale, che formava le squadre per la raccolta. I pomodori finivano a una cooperativa di Andria che riforniva marchi importanti: una vicino Parma, una nei pressi di Bologna, un altro nel napoletano e più in là fino al mercato inglese.
Invisibili alle statistiche
La “Spoon river” dei campi italiani è fatta di uomini e donne senza volto. Ma anche di numeri evanescenti. Prendiamo il 2015. Secondo l’Inail, sono morte soltanto tredici persone nei campi. Eppure quell’anno si è registrata una vera ecatombe. Dove sono finiti Stefan, Paola, Mohamed, Zakaria, Vasile, Arcangelo, Ioan? Non li troviamo sotto la voce agricoltura, ma tra i 336 deceduti non assegnati a una categoria, inseriti nel sommerso. Del resto, i rapporti dell’Ispettorato del lavoro dicono che – nel settore primario – il 50 per cento delle imprese ispezionate risulta irregolare.
Ma allora quanta gente è morta nei campi? Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro nel 2015 sono stati 518. In agricoltura si registrerebbe il 37 per cento del totale degli incidenti mortali.
La differenza rispetto ai dati ufficiali la spiega Carlo Soricelli, anima dell’Osservatorio, un metalmeccanico bolognese in pensione che da dieci anni conta tutti gli infortuni mortali, spulciando ogni giorno la stampa: «L’Inail considera solo i propri assicurati, escludendo partite Iva, artigiani, liberi professionisti che hanno altre assicurazioni».
L’Osservatorio inserisce nelle sue statistiche anche tutti gli incidenti “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. Ma su una cosa sono tutti d’accordo. Muoiono soprattutto gli italiani. Nella fascia del sommerso – sempre relativa al 2015 – i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81 per cento). Al secondo posto i rumeni (27 casi). Terzi, a grande distanza, gli indiani (9). Anche l’Osservatorio conferma che la stragrande maggioranza dei morti è italiana. Un dato rimane costante: una vittima su cinque – in tutte le categorie – è uccisa dal trattore.
«Il terreno può nascondere insidie pazzesche: spesso sembra asciutto ma sotto è impregnato d’acqua. Il peso del trattore in un terreno in pendenza è micidiale», dice Soricelli. Così un agricoltore di Sessame, provincia di Asti, è morto decapitato: prima il ribaltamento, poi un filare che gli trancia il capo. È il maggio del 2017. Si tratta soltanto di uno dei tantissimi casi di una strage invisibile che coinvolge in gran parte italiani. La maggior parte dei quali oltre i 50 anni.
I numeri – raccolti dall’osservatorio bolognese – sono spaventosi. Centotrentotto morti nel 2017, oltre 1.400 negli ultimi dieci anni. Per evitare almeno questa mattanza basterebbe poco. Per esempio la legge europea che prevede uno specifico patentino. Ma l’applicazione è stata ritardata più volte. L’ultima, giusto un anno fa.
Tragedia sul lavoro. Stavano ripulendo l’interno quando sono stati investiti dai gas. Altri due sono rimasti feriti. I sindacati: serve una inchiesta approfondita su attrezzature e mezzi di prevenzione
Sono trascorsi quasi trent’anni dalla tragedia di Ravenna, quando nel marzo dell’87 tredici operai morirono asfissiati nella nave gasiera «Elisabetta Montanari», di proprietà della Mecnavi, mentre stavano effettuando lavori di saldatura. Una tragedia che colpì l’opinione pubblica, s’invocò, da più parti maggiore sicurezza negli ambienti di lavoro.
Un secolo è passato, ma sembra che nulla sia cambiato. Come allora, si continua a morire nei posti di lavoro. Quattro le vittime ieri a Messina, due i feriti. Come a Ravenna, anche in questo caso la camera della morte è la cisterna di una imbarcazione. I sei stavano effettuando operazioni di pulizia e di saldatura nella sentina del traghetto Sansovino della Caronte & Tourist, ormeggiato nel molo Norimberga. Quando sono stati investiti dal gas che si è sprigionato per cause che saranno accertate dalla Procura che ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e lesioni, al momento contro ignoti.
«La catena di solidarietà», così la chiamano gli esperti, è stata fatale per quattro dei sei lavoratori: quando il primo si è sentito male il compagno di lavoro ha cercato di soccorrerlo ma anche lui ha finito per inalare i gas letali, così come altri due operai.
Le vittime sono Gaetano D’Ambra, secondo ufficiale di coperta di Lipari; Christian Micalizzi, primo ufficiale di Messina; Santo Parisi, operaio di Terrasini (Pa) e Ferdinando Puccio, giovanotto di macchina, palermitano.
I vigili del fuoco, nonostante le condizioni siano apparse subito gravi, sono riusciti, grazie all’utilizzo di autorespiratori, a entrare nello stretto passaggio di imbocco dei locali sentina, a estrarre e consegnare al personale medico tutta l’intera squadra di operai che si trovava all’interno. I feriti sono il comandante Salvatore Virzì e Ferdinando Puccio, giovanotto di macchina. Il procuratore aggiunto, Giovannella Scaminaci, ha delegato le indagini alla Capitaneria di porto.
Un’inchiesta interna è stata aperta anche dall’armatore che si è detto pronto a collaborare con gli inquirenti che hanno sequestrato il traghetto. Filt-Cgil, Fit-Cisl e UilTrasporti sollecitano anche «un’inchiesta immediata da parte degli enti di controllo del ministero dei Trasporti», intanto «rileviamo che altre vite umane si aggiungono alla tragica e fitta schiera delle morti bianche, indegna di un Paese civile».
«Questo tragico evento a pochi giorni da un altro nel porto di Salerno – denunciano i sindacati – mette sotto gli occhi di tutti l’urgenza di un immediato intervento legislativo di adeguamento delle norme che disciplinano la sicurezza nei porti e sulle navi»”. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, parla di «tragedia che rappresenta un monito sulla necessità di intensificare ancora di più l’impegno per la prevenzione degli infortuni, specie dove ci sono più rischi».
Maria Carrara, esperta di sicurezza nei luoghi di lavoro, pone alcuni interrogativi che potrebbero essere utili alle indagini: «Prima che gli operai effettuassero le attività nella cisterna sono state realizzate dall’esperto nell’utilizzo delle attrezzature le misurazione sul livello d’ossigeno e sulla concentrazione di gas e sostanze pericolose? Gli operai erano stati formati sugli “spazi confinati” come obbliga il decreto 81 del 2008 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro? Inoltre, i lavoratori erano dotati degli indumenti specifici necessari per questo tipo di attività?».
Sarà la magistratura – spiega l’esperta – ovviamente ad accertare se il datore di lavoro abbia rispettato le disposizioni di legge. Purtroppo la letteratura in materia indica che spesso i lavoratori operano in ambienti pericolosi senza essere messi nelle migliori condizioni. La prevenzione, la formazione e il rispetto delle norme sono fondamentali per evitare tragedie come quella di Messina.
L’esperta aggiunge: «Prima dell’ingresso di un lavoratore in uno “spazio confinato”, come nel caso della cisterna di una nave, è necessario acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente e bisogna effettuare le attività previste come la manutenzione, la bonifica e le ispezioni». I rischi in ambienti del genere sono tanti, sottolinea Maria Carrara: asfissia per mancanza di ossigeno, intossicazione per inalazione o per contatto epidermico di sostanze pericolose per la salute come gas, vapori o fumi, incendio e esplosione. E ancora: caduta dall’alto, inciampo o scivolamento, contatto con parti abrasive o taglienti, urto, colpo o schiacciamento, contatto con parti in movimento, proiezione di parti solide o liquide, contatto con tensione elettrica.
Tre nuove morte bianche, una all’Ilva di Taranto, una a Roma e a Trieste. Scoppiano le polemiche. I sindacati proclamano a Taranto lo sciopero immediato e ricordano che l’ultimo incidente nello stabilimento siderurgico, anche questo mortale, si era verificato a novembre dell’anno scorso, quando un altro operaio era rimasto schiacciato da un tubo. Ma l’Azienda ribatte: “Applicate tutte le norme di sicurezza, nessun cedimento strutturale”. Rabbia del presidente della Puglia, Michele Emiliano: “La nostra pazienza è finita”.
Dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella arriva un richiamo per la garanzia della sicurezza sui posti di lavoro. “Ogni morte sul lavoro costituisce una ferita per l’Italia e una perdita irreparabile per l’intera società. Non è ammissibile che non vengano adeguatamente assicurate garanzie e cautele per lo svolgimento sicuro del lavoro”.
“E’ inammissibile che ci siano morti sul lavoro in un Paese la cui Costituzione prevede che sia fondato sul lavoro”. Afferma anche il presidente del Senato Pietro Grasso, arrivato alla Festa dell’Unità di Roma. “Vorrei ricordare che abbiamo leggi severe e adeguate per prevenire questi infortuni, ma bisogna applicarle: purtroppo per troppe disattenzioni, o peggio colpe, accadono ancora questi avvenimenti” ha concluso.
L’incidente all’Ilva – L’operaio morto si chiamava Giacomo Campo, era di una ditta dell’appalto, la Steel Service. L’incidente sul lavoro è avvenuto nel reparto Afo4 dello stabilimento.
Società, non vi è stato nessun cedimento strutturale – Dopo l’incidente mortale avvenuto questa mattina, l’Ilva “ha immediatamente riunito il comitato di crisi, composto dai commissari, dal management e dai tecnici della Società, che in queste ore sta collaborando con le autorità competenti per approfondire la dinamica dell’incidente”. Lo riferisce l’azienda in una nuova nota dove in merito alla dinamica dell’incidente precisa che “non vi è stato il crollo di alcun carrello né alcun cedimento strutturale” La Società ribadisce che “l’operazione di pulizia del nastro, eseguita dalla ditta esterna, è avvenuta dopo che il nastro è stato disattivato e privato di alimentazione elettrica. Mentre l’operatore stava effettuando attività di pulizia sul rullo di rinvio il nastro si è mosso per cause in corso di accertamento e l’operaio è rimasto incastrato tra il rullo e il nastro”. La Società, conclude la nota, darà ulteriori aggiornamenti sulla situazione “appena si sarà fatta chiarezza e si avranno nuovi elementi”.
Sciopero nazionale di un’ora dei metalmeccanici, mercoledì 21 settembre, per dire “basta” alle morti sul lavoro. E’ quello indetto da Fim, Fiom e Uilm dopo le ultime tre tragedie di questi giorni, dal morto di Piacenza a quelli di oggi all’Ilva di Taranto e all’Atac romana. Si tratta, dicono i segretari Marco Bentivogli, Maurizio Landini e Rocco Palombella in una nota congiunta, di una situazione “drammatica” e di un dato, quello di “500 lavoratori morti mentre lavoravano” da inizio anno che è “inaccettabile”.
Un morto in agriturismo a Trieste – Una persona è morta in un incidente sul lavoro avvenuto in serata nell’agriturismo “Zollia” a Trieste, in località Samatorza, nella zona del Carso, a ridosso del confine con la Slovenia. La vittima è rimasta schiacciata mentre lavorava – secondo le prime informazioni – con una macchina operatrice. L’uomo é morto sul colpo. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118 con un’automedica e un’ambulanza, i Vigili del Fuoco, i Carabinieri e il medico legale.
Operaio muore nel deposito Atac Roma-Viterbo – Un operaio è morto in un incidente sul lavoro avvenuto in un deposito Atac sulla Roma-Viterbo. La dinamica dell’incidente, fa sapere Atac in una nota, è in via di accertamento anche da parte di una commissione interna disposta dall’azienda. L’incidente è avvenuto nella prima mattinata di oggi “nel corso di manovre di esercizio”. L’azienda esprime profondo cordoglio per l’accaduto ed è vicina ai familiari. L’operaio, un italiano di 53 anni, è stato trovato morto stamattina poco prima delle nel deposito Atac di via dell’Acqua Acetosa. Sul posto gli operatori del 118 che non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Secondo quanto si è appreso, è stato trovato vicino a una cabina elettrica e sarebbe deceduto per arresto cardiaco. Sarà l’autopsia a chiarire se è morto in seguito a un malore o per una scarica elettrica.
Fim, Fiom, Uilm e Usb di Taranto hanno proclamato uno sciopero dei lavoratori dell’Ilva a partire dalle 12 di oggi (per il secondo e terzo turno di otto ore) fino alle 7 di domani (18 settembre). Attacca il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli: “E’ assurdo, inaccettabile, una vergogna per tutto il Paese morire di lavoro nel 2016”. L’ultimo incidente mortale all’Ilva si era verificato a novembre dell’anno scorso, quando un altro operaio – Cosimo – era rimasto schiacciato da un tubo: non è passato neanche un anno e si è verificato di nuovo, “un’altra morte innocente e un’altra famiglia distrutta”.
Ira di Emiliano: “Incontenibile la rabbia della Puglia” – “Ennesimo grave incidente nel siderurgico tarantino. La nostra pazienza è finita. La fabbrica è troppo vecchia e insicura. Ci ha portato ancora una volta via un giovane di soli 24 anni. Il dolore della Puglia diventa rabbia incontenibile”. È un passaggio del post con cui il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, commenta su Facebook la morte del giovane operaio nell’ incidente nel siderurgico.
Viceministro Bellanova a Taranto per capire dinamica, è in contatto con Renzi – “Una tragedia”. Cosi la Viceministro Teresa Bellanova da Taranto, dove si è immediatamente recata dopo aver appreso della morte del venticinquenne Giacomo Campo, morto stamane nel reparto Afo4 dell’Ilva di Taranto. Il viceministro è in comunicazione, da stamane, con il Presidente Renzi che ha chiesto di essere costantemente informato. “C’è urgentissima necessità – afferma Bellanova – di comprendere come sia potuta accadere questa tragedia e per quali cause il nastro trasportatore abbia ceduto. In questa direzione siamo già impegnati con i vertici dell’Azienda. Mi auguro che dinanzi a un evento così drammatico e lacerante e che falcia una vita così giovane, nessuno – ripeto nessuno – voglia accomodarsi al tavolo degli opportunismi di qualsiasi natura”.
Arcangelo De Marco, di San Giorgio Jonico, è stato colto dal malore un mese fa mentre era al lavoro a Metaponto. Per i due lavoratori scomparsi aperta un’inchiesta. Quattro vittime pugliesi nell’agricoltura
E’ morto nell’ospedale San Carlo di Potenza – dove era ricoverato da oltre un mese – Arcangelo De Marco, il bracciante di 42 anni di San Giorgio Jonico (Taranto) colpito da un malore nelle campagne di Metaponto, il 5 agosto scorso, mentre lavorava all’acinellatura dell’uva. L’uomo era in coma. Ed era concittadino di Paola Clemente, la donna morta – sempre dopo aver accusato un malore – nelle campagne di Andria, a 49 anni, lo scorso 13 luglio. Entrambi lavoravano nei vigneti.
Sia nel caso di De Marco sia in quello di Clemente sono state aperte inchieste. Per la donna è stato il marito Stefano Arcuri a sporgere denuncia e interessare così la Procura di Trani, che ha iscritto nel registro degli indagati sia il titolare dell’azienda per cui lavorava Clemente sia il responsabile della ditta di trasporti che l’aveva portata da San Giorgio Jonico e l’autista che guidava l’autobus.
La morte nei campi si aggiunge a un lungo elenco che ha funestato l’estate pugliese: sotto il sole cocente di Nardò ha perso la vita un immigrato, stessa sorte per un tunisino a Polignano a Mare (anche in questo caso è stata aperta un’inchiesta). Una situazione che ha scoperchiato la realtà feroce del caporalato in Puglia: sono scattati i controlli per verificare la legalità del lavoro dei campi – soprattutto per le assunzioni dei braccianti – e il ministro alle Politiche agricole, Maurizio Martina, si è impegnato per approvare al più presto un testo di legge.
L’obiettivo è comparare il caporalato all’attività mafiosa, dato che l’idea di partenza della futura legge è l’immediata confisca dei beni per le aziende che sfruttano il lavoro nero nei campi. Intanto la commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato sta avviando un’indagine sulla morte di Paola Clemente e delle altre vittime del caporalato.
Padre di quattro figli, stroncato da un malore a Polignano dopo otto ore di lavoro: “Dalle cinque di mattina lavorava per raccogliere e caricare l’uva nei camion”. I precedenti di Nardò e Andria
di GABRIELLA DE MATTEIS
06 agosto 2015
Aveva cominciato il suo turno alle cinque del mattino, poi, poco dopo le 13, aveva finito la sua giornata di lavoro e aveva deciso di prendere un caffè alla macchinetta posizionata in azienda. All’improvviso, però, è stato colto da malore e si è accasciato sul pavimento. E’ morto così un cittadino tunisino di 52 anni, residente a Fasano.
L’ennesima tragedia del lavoro nei campi, questa volta, arriva da Polignano. La vittima era impiegato, con un regolare contratto di lavoro (secondo quanto emerge dai primi accertamenti dei carabinieri), in un’azienda agricola specializzata nella produzione e commercializzazione dell’uva. L’uomo, per ben otto ore, hanno raccontato ai carabinieri della compagnia di Monopoli i suoi compagni di lavoro, sotto il sole, aveva caricato le cassette dell’uva su uno dei tir che avrebbe dovuto lasciare l’azienda.
Nessuno ha saputo dire quando il cittadino tunisino abbia cominciato a sentirsi male. Soltanto un’altra bracciante ha notato che, poco dopo l’una, il collega ha lasciato la zona per il carico della merce, per andare alla macchinetta che distribuisce bevande e caffè. E’ stato un attimo: l’uomo è stato colto da malore ed è caduto a terra. La donna ha chiesto aiuto. Qualcuno ha chiamato il 118, ma per il cittadino tunisino non c’era più nulla da fare.
Era già morto. Il caso è stato denunciato ai carabinieri. Sono stati quest’ultimi a segnalare il decesso dell’uomo al magistrato di turno Grazia Errede che ha deciso di disporre l’autopsia. Un atto dovuto per capire se il malore e quindi il decesso potesse essere evitato o se invece siano riconducibili alle condizioni di lavoro, particolarmente pesanti per i lavoratori agricoli anche e soprattutto per le alte temperature di questi giorni.
I carabinieri escludono che la vittima lavorasse in nero, ma sono in corso accertamenti per capire se il contratto, con il quale il cittadino è stato reclutato nell’azienda, sia regolare. L’uomo da anni in Italia viveva a Fasano con la moglie e i quattro figli. Si tratta del terzo caso in pochi giorni dopo i due decessi ad Andria e a Nardò.
Voglio scrivere una mia personale riflessione su quello che è accaduto e sta accadendo in questi giorni per l’Expo 2015. A me fa schifo l’Expo, sono sempre stata contraria e mi fa schifo anche quello che è successo il primo maggio a Milano, non tanto perchè mi preoccupi la conta dei danni, ma perchè quelli che hanno spaccato e bruciato alla cazzo per l’ennesima volta, non c’entrano nulla con la politica. E’ solo gente che non ha niente di meglio da fare. E così rovinano tutto il lavoro dei movimenti No Expo che da tempo si davano da fare per cercare di far capire le ragioni del perchè non si può pensare di nutrire il pianeta con la merda delle multinazionali – come McDonald’s e Coca Cola, solo per fare qualche esempio – nè con lo sfruttamento gratis nascosto sotto il termine “volontariato” nè con l’inquinamento causato dalla Via d’Acqua nè con le politiche di occupazione, permettendo la partecipazione di paesi come Israele. Io sono dell’idea che le proteste per essere efficaci e sensate dovrebbero essere fatte con intelligenza, non bruciando alla cazzo, ma facendo casino in altro modo, con modi che facessero sentire la propria voce, portando per strada veri lavoratori, con l’arte, con la musica, con gli slogan, con strumenti musicali, con strumenti qualsiasi, mostrando facce pulite contro l’ipocrisia dei potenti. E questo in qualche modo è stato fatto durante il corteo dai movimenti No Expo. Ma, sì sa, i media preferiscono dare spazio alle immagini di violenza e questo fa sì che episodi simili coprano la vera faccia dei movimenti. Io penso che se poi proprio si volessero fare delle azioni dimostrative avrebbe più senso farle invece che contro vetrine e macchine a caso, contro le sedi delle istituzioni per esempio. Ma credo pure che queste siano cose che lascerebbero il tempo che trovano e che l’invito al boicotaggio e a seguire percorsi alternativi, su modelli di produzione sostenibili, resterebbe, nel lungo periodo, la forma migliore per un progetto politico dal basso.
Detto questo, mi preme ora evidenziare quelle che per me sono diverse forme di violenza. Credo non ci sia solo la violenza dei black block. C’è la violenza dei media che sbattono sulle pagine di tutti i giornali foto e un’intervista fatta chissà come di un vecchio compagno anarchico, Lello Valitutti, presente in questura durante l’omicidio di Pinelli. Un compagno che nonostante l’età e la disabilità da una grande testimonianza essendo presente alle più importanti mobilitazioni e che si è visto prima picchiato e minacciato di morte da parte della polizia – come lui stesso riferisce – e poi etichettato dai giornali come il black block in carrozzina. C’è la violenza di una legge fascista da codice Rocco, come quella del reato di devastazione e saccheggio per cui sono previste pene fino a 15 anni di carcere, che gli arrestati di questi giorni (ammesso siano colpevoli) adesso rischieranno. Si ripete così lo stesso copione degli arresti per il g8 2001.
C’è, inoltre, una violenza ancora più taciuta: quella della morte di un giovane ragazzo di soli 21 anni di origine albanese, Klodian Elezi. Klodian lavorava al cantiere della Teem, la tangenziale est esterna milanese, una delle tre opere infrastrutturali di Expo. A poche settimane dall’apertura dell’Esposizione Universale, Klodian è morto cadendo da più di dieci metri d’altezza mentre smontava un ponteggio. Secondo diverse testimonianze, l’azienda per cui lavorava, la Iron Master, non avrebbe fornito né imbracatura né casco di sicurezza.
Per un evento mondiale, che pretende di nutrire il pianeta attraverso lo sfruttamento di giovani al servizio di multinazionali, un ragazzo è morto per mancanza di sicurezza sul lavoro. Ma nessuno ha tempo per pensarci. C’è una città da ripulire e un grande evento da portare avanti, anche se i padiglioni sono fatiscenti e cadono a pezzi, come le illusioni che nascondono.
Il Gup di Reggio Calabria, Massimo Minniti, ha rinviato a giudizio tutte le persone coinvolte nell’indagine per far luce sulla morte del giovane Matteo Armellini, il ragazzo morto a Reggio Calabria il 5 marzo 2012 mentre svolgeva il suo lavoro di rigger nell’allestimento del concerto di Laura Pausini che era in programma in città al PalaCalafiore, impianto sportivo adibito per le competizioni sportive. Primo ok all’impianto accusatorio portato avanti dal sostituto procuratore di Reggio Calabria, Rosario Ferracane che, con il coordinamento dell’aggiunto Ottavio Sferlazza, aveva chiesto il rinvio a giudizio per le persone che avrebbero omesso di adottare tutti i controlli e le cautele doverose che avrebbero potuto impedire il collasso della struttura metallica di quasi 22mila chilogrammi e composta da sei pilastri reticolari, che ha causato la morte del giovane Matteo Armellini,
Il giovane Armellini morirà in seguito al cedimento di una parte della struttura del palco.
Sette i soggetti imputati: Sandro Scalise, Franco Faggiotto, Pasquale Aumenta, Ferdinando Salzano, Maurizio Senese, Gianfranco Perri (non indagato per omicidio colposo) e Marcello Cammera.
Adesso, però, arrivano le prime risposte, con un processo dibattimentale che avrà inizio il 26 febbraio. Salzano, in particolare, quale rappresentante della F & P Group, committente esclusiva dei lavori di allestimento del palco alla Italstage, non avrebbe proceduto alla nomina di un direttore dei lavori “che avrebbe – scrive il pm Ferracane nell’avviso di conclusione delle indagini – da un lato rilevato i gravi errori e le evidenti omissioni presenti nell’elaborato redatto dall’ingegnere Franco Faggiotto, dall’altro lato vigilato sulla corretta esecuzione dell’opera”. Faggiotto, anch’egli tra gli indagati, avrebbe redatto una progettazione errata e carente, priva di alcuna verifica: “Non teneva in considerazione la possibile presenza di forze orizzontali accidentali, l’eccessiva deformabilità della struttura metallica, non prevedeva che i piedi della struttura fossero zavorrati con blocchi di calcestruzzo, non teneva in considerazione la forte deformabilità elastica del piano di posa”. In particolare, la Procura contesta l’omessa verifica della consistenza del piano di posa su cui doveva insistere l’enorme struttura necessaria per il concerto. Inoltre si sarebbe delegato tutto a un eventuale direttore dei lavori che, però, non verrà mai nominato. Ancor più dure sono le parole che il pm Ferracane riserva alla Italstage, società costruttrice, parlando di una colpa “consistita in negligenza, imprudenza, ed imperizia, nonché sulla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni”.
Proprio la Italstage, assistita dall’avvocato Marco Panella, ha chiesto e ottenuto il patteggiamento con il pagamento di 70mila euro.
Ma il nome più noto, almeno per i reggini, è quello dell’architetto Marcello Cammera, dirigente del Comune di Reggio Calabria con riferimento al Settore Progettazione ed Esecuzione dei Lavori Pubblici. Anch’egli ha ricevuto l’avviso di conclusione indagini e anche per lui il pm Ferracane ha chiesto il giudizio perché avrebbe omesso di “adottare un provvedimento di inibizione all’inizio dei lavori di costruzione della struttura metallica all’interno del palazzetto, dopo la consegna dell’impianto, di immediata sospensione dei medesimi lavori, non segnalando inoltre il pericolo grave e imminente di un crollo (poi avvenuto) della costruenda struttura metallica ai soggetti a vario titolo nell’organizzazione e realizzazione dell’evento musicale e/o alle autorità amministrative competenti”. E questo, sempre secondo le indagini, pur non avendo la disponibilità degli elaborati tecnico-progettuali relativi all’impianto sportivo, in assenza di un nulla osta della Commissione Provinciale di Vigilanza sui locali di pubblico spettacolo e intrattenimento e avendo ricevuto il progetto pieno zeppo di irregolarità.
Un concerto, quello di Laura Pausini, organizzato dalla Esse Emme Musica, di Maurizio Senese, tra gli imputati nel procedimento. La sua società, infatti, era la committente dell’intero evento, proprio insieme alla F& P Group. Tra gli indagati anche Sandro Scalise, coordinatore della sicurezza per l’esecuzione dei lavori di costruzione della struttura e nominato dalla Esse Musica di Senese. Agli atti del pm Ferracane anche le annotazioni sulla F & P Group Srl (di Ferdinando Salzano) e la Italstage Company, di Pasquale Aumenta (che, come detto, ha patteggiato): dalle omissioni raccolte dalla Procura avrebbero tratto profitto, violando peraltro le norme antinfortunistiche che avrebbero potuto salvare la vita al giovane Armellini. Qualora dovesse essere accertata la responsabilità colposa, dovrebbero risarcire il danno sotto il profilo economico.
Le chiamano “Morti Bianche” come se il tutto fosse frutto della casualità e della sfortuna.
Le chiamano morti bianche quasi non ci fossero dei responsabili dietro gli omicidi che si compiono ogni giorno sui posti di lavoro e negli incidenti stradali mentre ci rechiamo al lavoro. Bianche come qualcosa di neutro, chiaro, puro.
Bianche come il ridicolo vitalizio che un figlio, una madre, una moglie, un marito ricevono dall’Inail come rimborso spese della violenza del lavoro.
Bianche, fredde ed inutili come le parole e le dichiarazioni d’intenti che si ripetono con costanza e ripetitività per celebrare i caduti sul lavoro, i martiri li chiamano.
Di una guerra si tratta… con i suoi feriti, mutilati, reduci, ma senza prigionieri.Il giorno in cui è morto quel 17 Gennaio del 2006, Antonio Salerno Piccinino stava lavorando e faceva una consegna straordinaria, un favore personale ad uno dei suoi dirigenti, un viaggio fino ad Ostia improvvisato probabilmente per la voglia di dimostrare affidabilità.Antonio è morto perchè andava troppo veloce a causa dei ritmi inarrestabili e delle pressioni emotive costanti che ci vogliono disponibili, sorridenti e veloci, sempre.
Antonio era un pony exspress, il contratto di lavoro era scaduto a fine dicembre e formalmente, quando è morto sulla Cristoforo Colombo non gli era ancora stato rinnovato.
Antonio era in nero. Il suo lavoro di merda era quello di corriere addetto ai ritiri presso gli ambulatori veterinari, percorreva sulle strade di Roma 130Km al giorno. 14 ritiri al giorno, 3 euro per ogni ritiro in città, 5 euro per ogni ritiro oltre il Grande Raccordo Anulare e 6 euro per ogni ritiro nella zona mare comprendente Ostia, Torvajanica e Fiumicino. E’ indispensabile andare veloce perché l’equazione è semplice: aumentare il numero di ritiri per aumentare la propria busta paga.
Qui invece, dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro, una vecchia intervista alla madre di Antonio, Franca Salerno, che lo partorì in carcere:
L’8 agosto 1956 morirono 262 minatori, di cui 136 italiani
Redazione ANSA BRUXELLES
News
(ANSA) – BRUXELLES, 8 AGO – Con i 262 rintocchi della campana Maria Mater Orphanorum, accompagnati dall’elenco in ordine alfabetico delle vittime, si é tenuta in Belgio al Bois du Cazier la 58ma commemorazione della tragedia di Marcinelle nella quale, l’8 agosto 1956, persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani. Alla giornata hanno partecipato per l’Italia il sottosegretario agli Esteri Mario Giro, l’ambasciatore Alfredo Bastianelli ed il presidente del consiglio regionale dell’Abruzzo Giuseppe Di Pangrazio.