INFERNO A BEIRUT

Stanno susseguendosi ininterrottamente, da quando è avvenuta, informazioni contrastanti e incerte sull’esplosione che ieri ha devastato Beirut, sia per quanto riguarda la causa scatenante sia la natura del materiale che avrebbe provocato  quest’immane catastrofe. Pressoché tutti gli organi di stampa, sia locali sia internazionali, fanno riferimento a circa 2700/2750 tonnellate di nitrato di ammonio che sarebbero state sequestrate ad una nave nel 2013 e da allora sarebbero state stoccate, senza sicurezza, vicino al porto di Beirut. Tale informazione deriverebbe  dal sito di opensource intelligence Bellingcat, considerato come fonte attendibile:

Left: image claimed to show Ammonium Nitrate shipment at port of Beirut. Right: still from video of fire

https://www.bellingcat.com/news/mena/2020/08/04/what-just-blew-up-in-beirut/

Unica voce a sollevare dubbi sarebbe finora quella di Danilo Coppe, fra i più importanti esperti di esplosivistica in Italia, che, in un’intervista al Corriere della Sera, espone la sua tesi dell’esplosione di un deposito di armamenti:

https://www.corriere.it/esteri/20_agosto_05/beirut-esperto-esplosivi-la-nuvola-arancione-scoppi-ecco-perche-credo-ci-fossero-anche-armi-6da4a01e-d71b-11ea-93a6-dcb5dd8eef08.shtml?fbclid=IwAR3K-PRrr9vU7iWcStDtpcRkQ5pQ2FKsW6VFiue2C-oZrFgoi_2GDZ4OlcA

Sulle cause poi girano diverse ipotesi, anche da penne autorevoli, ma nessuna di queste finora  può essere definita per ora certa: né l’ipotesi di uno scoppio accidentale né quella di un attentato alla vigilia del pronunciamento del tribunale internazionale, dopo quindici anni di attesa e di depistaggi e sabotaggi, sull’assassinio del politico e imprenditore libanese Rafiq Hariri, avvenuto Il 14 febbraio 2005. Per questa strage (insieme all’ex premier rimasero uccise altre 21 persone) sono imputati quattro miliziani di Hezbollah rimasti latitanti dal giorno del rinvio a giudizio.Su queste tesi ha scritto un articolo Riccardo Cristiano:

https://formiche.net/2020/08/beirut-libano-11-settembre/?fbclid=IwAR2BmD0AsBIlHIitq53dgsy_pP-VgZgnRrTNK9ixOqPR3u__CC3lifTJhTc

Il presidente Trump pensa ad una bomba:

https://www.theguardian.com/world/video/2020/aug/05/donald-trump-claims-lebanon-explosion-looks-like-a-terrible-attack-video

Israele ed Hezbollah si accusano a vicenda:

https://www.huffingtonpost.it/entry/accuse-incrociate-di-sabotaggio-tra-israele-ed-hezbollah_it_5f2a53a0c5b68fbfc889696b

L’unica cosa certa finora è l’immensità di questa tragedia che ha colpito un popolo già duramente provato dalla pandemia, da una gravissima crisi economica e che ora rischia anche la carestia: l’esplosione ha distrutto i silos di grano che contenevano l’85% delle riserve di cereali del Libano (https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-lesplosione-ha-distrutto-i-silos-di-grano-li-cera-85-delle-riserve-di-cereali-del-libano/5890923/). Il giornalista italiano, Lorenzo Forlani, presente a Beirut, ha provato, con un suo articolo su Il Fatto Quotidiano, a raccontare la disperazione in cui è precipitata la popolazione di Beirut. Al netto delle ipotesi rimangono, infatti, una città sventrata, il numero dei morti che sale di ora in ora, così come quello dei feriti e degli sfollati e,soprattutto, il dolore dei corpi martoriati.

Qui l’articolo di Lorenzo Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-devastata-dallesplosione-visi-insanguinati-urla-e-strade-scomparse-la-disperazione-di-una-citta-senza-pace/5890370/?fbclid=IwAR0iNH2eknawxDnKbkK1KgGfP1PZwfcZmsDtYZ7-cjS_2sG6_Eun0nW11zw

A ciò si aggiunge l’emergenza sanitari negli ospedali – di cui alcuni distrutti o danneggiati dall’esplosione – che non riescono a contenere il gran numero di feriti, come si legge in quest’ altro articolo di Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-dopo-lesplosione-ora-e-emergenza-sanitaria-negli-ospedali-dimessi-anche-i-pazienti-gravi-e-in-molti-fanno-rotta-verso-tripoli/5891079/?fbclid=IwAR0nONifKKyvulG7inSs9ETm18wVRsh7yialtbsoNgohOxHHV_d9qM6ca4U

Beirut, ospedali al collasso dopo l’esplosione: feriti curati nei corridoi e nei parcheggi: “Una catastrofe”

D. Q. 

 

 

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IL LIBANO ERIGE UN MURO INTORNO A UN CAMPO PROFUGHI PALESTINESE

wallBeirut˗PIC. La scorsa settimana sono stati eretti i primi blocchi di un muro di “sicurezza” intorno al più grande campo profughi del Libano. È stato il primo passo verso la l’attuazione dei piani per la costruzione di cordoni di sicurezza e torri di vedetta intorno ad Ein al-Hilweh.

Il muro sarà completato nei prossimi 15 mesi, secondo un report del sito news al-Modon.

Per le migliaia di palestinesi che vivono nel sovraffollato campo di Ein al-Hilweh, situato a sud-est della città portuale di Sidon, la vita andrà di male in peggio a causa del muro.

I profughi palestinesi l’hanno soprannominato “muro della vergogna” e l’hanno comparato ai muri dell’apartheid israeliani nei territori palestinesi occupati.

Secondo le autorità libanesi le torri di vedetta consentiranno all’esercito di controllare meglio il campo, a causa delle dichiarazioni che circolano sui militanti che cercherebbero rifugio all’interno.

A ogni modo gli osservatori hanno comparato il muro a una prigione a cielo aperto nella quale i profughi palestinesi saranno confinati.

Il campo, che ricopre un’area di un chilometro quadrato, ospita oltre 80mila profughi palestinesi, recentemente raggiunti da migliaia di palestinesi sfollati fuggiti dalla guerra in Siria.

Traduzione di F.G.

© Agenzia stampa Infopal
“Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it”

http://www.infopal.it/libano-erige-un-muro-intorno-un-campo-profughi-palestinese/

SHIMON PERES, L’OMBRA DELLA STRAGE DI QANA

Pubblicato il:
28 settembre 2016
Elisa Bianchini

Morto l’ex premier israeliano: fu Nobel per la pace ma sul suo capo pesano anche gravi accuse per crimini commessi contro i palestinesi
Shimon Peres, ex presidente israeliano

La notte scorsa è morto Shimon Peres, colpito da un ictus alla veneranda età di 93 anni. L’ex presidente dello Stato di Israele è ricordato in tutto il mondo per il suo contributo agli accordi di pace in #Palestina, ragion per cui venne insignito dell’apposito premio Nobel. Ci sono altre testimonianze, però, che lo descrivono come uno dei più cruenti fautori di stragi e persecuzioni a carico del popolo palestinese. Il futuro presidente israeliano emigrò con la famiglia dalla Polonia in Palestina, insieme ai suoi genitori, nel 1932 quando aveva 9 anni. Nel 1947, a 24 anni, faceva parte dell’organizzazione Haganah, come responsabile per l’acquisizione di armi. Tale gruppo paramilitare è stato definito terroristico negli anni, perchè accusato di compiere atti violenti contro i palestinesi e di favorire l’immigrazione clandestina israeliana in Medio Oriente. La carriera militare di Peres è poi progredita ed egli ha occupato ruoli di primo piano nella gerarchia dele forze armate: lo ricordiamo come capo della marina israeliana, ruolo che gli permise di stringere rapporti strategici con gli Stati Uniti. Ma anche come responsabile del progetto per la costruzione della centrale nucleare di Dimona, attraverso cui permise ad Israele di acquisire armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa.

Il massacro di Qana

Con Ariel Sharon al capo del governo ebraico, Peres ebbe la possibilità di fermare con la violenza i tentativi indipendentisti palestinesi guidati da Yasser Arafat. Migliaia di persone, per lo più civili, trovarono la morte nella repressione della prima Intifada nel 1987. Inoltre Peres e Sharon favorirono la creazione, definita illegale dalle associazioni internazionali, delle colonie ebraiche su territorio palestinese, favorendo così l’acuirsi dei problemi fra le due popolazioni e l’apartheid palestinese. Uno dei casi più controversi che coinvolse il premio Nobel per la Pace fu il massacro di Qana, il 18 aprile 1996, durante il periodo della sua presidenza. Fu Peres infatti a lanciare l’operazione Grapes of Wrath contro la resistenza libanese, con lo scopo di distruggerla. Le bombe lanciate nella notte e l’intervento dell’artiglieria israeliana distrussero un palazzo di quattro piani e gli edifici circostanti. Più di 200 civili persero la vita, morte nel sonno o nei giorni successivi. Le immagini dei bambini estratti dalle macerie fecero il giro del mondo. Dopo la condanna internazionale dell’operazione, Peres parlò ufficialmente di errore, scusandosi per il dolore provocato. Un’indagine delle Nazioni Unite però dimostrò come i bombardamenti fossero premeditati da Israele, grazie a dei video girati poco prima dell’inizio delle aggressioni.

Fonte:

 

http://it.blastingnews.com/politica/2016/09/shimon-peres-l-ombra-della-strage-di-qana-001123021.html

Nell’area di Akkar gravi intimidazioni nei confronti dei profughi siriani

Da il manifesto

giovedì 14 luglio 2016

Proseguono le violenze contro i profughi siriani in Libano. Attivisti dell’associazione italiana “Operazione Colomba”, presenti nel nord-est del Paese dei Cedri, hanno riferito al <<manifesto>> che nella notte tra il 5 e il 6 luglio scorsi è stato dato alle fiamme in campo vicino al Mafra Arzla, nell’area di Miniara (Akkar), abitato da quattordici famiglie siriane originarie di Homs. L’incendio era stato preceduto da pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni giovani del campo da parte di libanesi del posto.

L’accaduto, piuttosto frequente, è la conseguenza diretta dell’atteggiamento del governo libanese che non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e, pertanto, non riconosce ufficialmente l’esistenza di campi profughi dell’Unhcr. Questo obbliga i rifugiati a dover pagare un affitto ai libanesi per poter rimanere sui terreni, nelle abitazioni o nei garage in cui vivono. <<Oltre agli interessi economici avvertiamo purtroppo un crescente sentimento di rifiuto dei profughi da parte delle popolazioni locali e delle forze maggioritarie nelle aree dove sono situati i campi – spiega Alex Zorba di “Operazione Colomba” – E’ un rifiuto trasversale che include tutti gli schieramenti politici e che rende più precaria la condizione di tante persone scappate dalla guerra e che molti libanesi vorrebbero rimandare subito indietro in Siria>>.

Di Michele Giorgio

Il calvario sessuale delle siriane in Libano

 La tragica condizione delle donne siriane rifugiate in Libano, vittime di abusi e violenze (domestiche e non)

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di Yeghia Tashjian – Nasawiya*

L’International Rescue Committee ha identificato tre sfide principali che le donne siriane rifugiate stanno affrontando in Libano: molestie e sfruttamento sessuale, l’aumento della violenza domestica (dando la sgradevole sensazione di non essere sicure a casa propria) e matrimoni forzati e precoci.

Le organizzazioni internazionali e locali stanno facendo del loro meglio per superare queste situazioni, ma c’è ancora molto da fare. Le siriane in Libano rischiano di essere molestate ogni giorno, quando vanno a comprare il pane, quando passeggiano per strada, quando vanno a scuola e persino quando vanno nei bagni dei campi profughi. Sembrerebbe che il sovraffollamento dei campi e la mancanza di privacy per le donne (che non hanno accesso a bagni e docce separati) siano alcune delle ragioni di questa situazione.

Molestie e sfruttamento sessuale

Secondo Hiba Habbani, project coordinator della Ong per i diritti delle donne Kafa, molte rifugiate siriane subiscono molestie anche quando tentano di accedere a servizi sociali. Ad esempio le donne che vengono percepite come di bell’aspetto ricevono trattamenti privilegiati nella fila per gli aiuti umanitari, a condizione di prestare determinati favori a chi di dovere.

Anche l’accesso ai servizi medico-sanitari è utilizzato come mezzo di sfruttamento. Secondo Lama Naja, Emergency Response Program Manager nella Ong Abaad, le molestie sessuali vengono compiute da parenti, da altri residenti nel campo e da persone esterne (sia libanesi che siriane). Il Libano ha, fino a un certo punto, leggi abbastanza moderne in materia di violenza domestica (soprattutto se paragonato ad altri paesi dell’Area), ma continua a trattare questi uomini e queste donne in modo ingiusto; ben pochi rifugiati siriani e siro-palestinesi sono in grado di accedere al sistema giudiziario per far valere i propri diritti quando vengono maltrattati.

Violenze domestiche

La ragione principale della violenza domestica non è la rabbia, ma una profonda struttura di potere che favorisce la mascolinità. Molti rifugiati siriani provengono da zone rurali dove la società è tendenzialmente patriarcale. È importante sottolineare che più volte le ragazze hanno dichiarato di aver subito violenza dal padre o dai fratelli maggiori. Questo le spinge a scappare dai campi profughi, esponendosi a rischi addirittura peggiori.

Matrimoni forzati

Nell’area i matrimoni precoci sono una tradizione consolidata, ma diverse associazioni hanno dichiarato di aver registrato un significativo aumento di questa pratica all’interno dei campi profughi siriani in Libano. Maria Semaan, program coordinator del Child Protection Program della Ong Kafa, ha identificato in alcune tradizioni religiose e culturali. “I matrimoni precoci hanno a che fare con la cultura”, ha detto Semaan. “Tutte le religioni qui presenti sembrano permetterli, il che ha reso la pratica perlomeno culturalmente accettata. Ed è, allo stesso tempo, considerata un modo per impedire rapporti sessuali prematrimoniali”.

Ma in questo caso specifico, sostiene Semaan, è il fattore economico a giocare un ruolo molto importante. Le famiglie giustificano le loro azioni dicendo di dover organizzare questi matrimoni per proteggere le loro figlie o per alleggerire le proprie difficoltà economiche; ma in realtà, invece di proteggere le ragazze, le conducono dritte verso l’inferno della violenza domestica. Secondo alcune Ong, molte famiglie siriane stanno usando le proprie figlie come merce di scambio per avere cibo, case in affitto, favori e beni di altro tipo.

L’instabilità economica rende le donne anche vulnerabili allo sfruttamento sessuale e all’abuso degli operatori umanitari, alla prostituzione forzata e alla tratta di esseri umani. “Le famiglie sono disperate e finiscono con l’essere disposte a fare tutto ciò che è necessario per sopravvivere”, ha dichiarato un operatore in un campo libanese che ha chiesto di rimanere anonimo. “Donne e ragazze accettano di sostenere un matrimonio temporaneo in cambio di soldi o di aiuti per ottenere visti e permessi vari”.

Secondo uno studio condotto dalla S. Joseph University, il 24 percento delle ragazze siriane rifugiate in Libano si sposano prima di raggiungere i 18 anni di età. I genitori, ridotti alla fame, non vedono alternative se non quella di trovare dei mariti per le loro figlie. Ma prendere delle scelte del genere sottopone le ragazze a seri pericoli per la salute, oltre al fatto che in questo modo non possono avere alcuna istruzione né opportunità professionale.

Hurriyah, una 12enne di Idlib fuggita 3 anni fa insieme alla famiglia, frequentava la scuola. In Libano un ragazzo di 17 ha iniziato a seguirla e a molestarla. Preoccupato dai conseguenti pettegolezzi sulla figlia, il padre ha deciso di organizzare per lei un matrimonio con uomo adulto per “proteggerla”. Un altro caso di matrimonio forzato è quello di Nour, una ragazza siriana di 13 anni costretta a sposare un uomo di 27 anni. I suoi genitori hanno detto all’Unicef che i due non si erano mai incontrati prima del matrimonio e che sono stati costretti a organizzare la cosa per motivi puramente economici, dato che il padre non era più in grado di prendersi cura di lei.

La Reuters ha mostrato che ci sono circa 500mila bambini siriani in Libano. Di questi soltanto un quinto è iscritto a scuola. Nonostante il ministro dell’Istruzione libanese abbia annunciato una campagna di scolarizzazione che avrebbe fornito educazione gratuita per circa 200mila bambini siriani, molti di loro sono ancora sparsi nella Capitale e preferiscono elemosinare per strada e aiutare le proprie famiglie piuttosto che andare a scuola.

Il governo libanese, con la cooperazione di Ong locali ed internazionali, può certamente adottare delle misure per superare queste crisi. Innanzitutto dovrebbe aumentare il numero di spazi sicuri per donne e ragazze all’interno dei campi. Le Ong dovrebbero poi fornire dei corsi, rivolti a uomini e donne, in cui vengono annunciati i diritti garantiti dalla legge (anche nei villaggi lungo il confine, dove sono concentrati molti rifugiati). Sarebbe necessario inoltre costruire centri clinici e sportelli per chi ha subito molestie sessuali, in modo da monitorare l’incidenza della violenza sessuale nei campi. È infine fondamentale che ci sia cooperazione tra il Ministero dell’Interno e quello degli Affari Sociali, in modo che entrambi possano adottare meccanismi legali per proteggere le donne che subiscono attacchi fisici o violenze dai propri famigliari.


Yeghia Tashjian è laureato in Scienze Politiche presso l’Università Haigazian di Beirut, in Libano. È un attivista politico, ricercatore e blogger armeno-libanese nonché fondatore del blog “New Eastern Politics”. È portavoce regionale del think tank Women in war e ricercatore dell’Armenian Diaspora Research Center dell’Università Haigazian. Potete seguirlo su Twitter: @yeghig

 

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/07/calvario-sessuale-rifugiate-donne-siriane-libano/

Da Tripoli a Malmoe in 16 giorni e per 5mila euro

TOPSHOTS Migrants arrive on the shore of Kos island on a small dinghy on August 19, 2015. Authorities on the island of Kos have been so overwhelmed that the government sent a ferry to serve as a temporary centre to issue travel documents to Syrian refugees -- among some 7,000 migrants stranded on the island of about 30,000 people. The UN refugee agency said in the last week alone, 20,843 migrants -- virtually all of them fleeing war and persecution in Syria, Afghanistan and Iraq -- arrived in Greece, which has seen around 160,000 migrants land on its shores since January, according to the UN refugee agency.  AFP PHOTO / ANGELOS TZORTZINISANGELOS TZORTZINIS/AFP/Getty Images ORG XMIT:

(di Lorenzo Trombetta, ANSA). Dalle coste libanesi alla Svezia in 16 giorni e per un costo di circa 5mila euro: Ahmad N., siriano in fuga dalla guerra nel suo Paese, ha trovato lavoro dopo pochi giorni dal suo arrivo rocambolesco nei sobborghi della cittadina svedese di Malmo. E ai parenti e amici rimasti oltremare ha inviato dal suo telefonino foto e racconti di un inaspettato “successo” in terra straniera.

Da un’altra terra straniera, il Libano, Ahmad è scappato a metà agosto con uno dei figli. Oltre alla moglie e ad altri due figli, il 33enne manovale siriano ha lasciato dietro di sé una tenda di plastica e cartone dove da due anni era stato costretto a sopravvivere dopo la sua fuga disperata da Homs.

Un tempo terza città siriana e principale polo industriale del Paese, Homs dal 2012 è stata devastata dalla repressione governativa delle manifestazioni popolari che un anno prima erano scoppiate inedite in varie città siriane.

Il conflitto che ne è seguito è costato la vita, secondo stime Onu, a oltre 220mila persone e ha causato l’esodo di milioni di siriani.

Il vaso dei Paesi confinanti che hanno dovuto subire l’afflusso massiccio di profughi è ormai debordato e sta invadendo il Mediterraneo e l’Europa.

“Il viaggio inizia a Beirut”, racconta all’ANSA Nidal, parente di Ahmad, ancora in attesa di partire dal nord del Libano. “Ci si ritrova di notte per andare con i mezzi pubblici fino a Tripoli”, continua Nidal riferendosi al principale porto nel nord del Paese. Da qui inizia l’avventura per mare. “All’inizio – prosegue Nidal – su ogni barca c’erano 20-25 passeggeri. Nelle ultime settimane, visto che l’affare funziona e le richieste si sono moltiplicate le barche partono anche con 125 persone a bordo”.

In Libano, paese grande quanto l’Abruzzo e con una popolazione di meno di quattro milioni di abitanti, ci sono più di un milione di siriani. I politici al governo a Beirut, direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto siriano, hanno per anni fatto finta di non vedere il problema.

Le inevitabili ripercussioni sul delicato equilibrio libanese si sono fatte sentire. E nei mesi scorsi Beirut ha introdotto delle norme draconiane per limitare l’afflusso e la presenza dei siriani in Libano.

Solo ad agosto, centinaia di famiglie di profughi accampate sul litorale vicino Tripoli sono state sgomberate con la forza dai militari libanesi. Molte famiglie, con donne e bambini anche molto piccoli, hanno dormito per settimane all’addiaccio, altre si sono spostate in montagna ma sempre in condizioni disperate.

“Non ci vogliono in Libano. In Siria non possiamo tornare, prenderemo la via del mare”, avevano detto alcuni di loro lo scorso luglio. “La prima tratta in nave, fino a Mersin, in Turchia, dura venti ore”, riprende Ahmad mentre consulta il gruppo creato su WhatsApp di amici e parenti in attesa di partire.

“Per arrivare fino in Svezia ci vogliono 5.300 euro e 16 giorni. Si passa per l’isola di Samo, poi Atene, la Macedonia, Belgrado, l’Ungheria. Quindi Austria e Germania e c’è chi continua fino alla Svezia”.

Ahmad dice che voleva partire, ma anche che non aveva soldi. “Mi hanno offerto di guidare la barca. Lo scafista non sale a bordo, indica la rotta e ti dice di andar sempre dritto, indicando col dito un punto nell’orizzonte dove dovrebbe esserci la costa turca”.

Il cellulare di Ahmad lo avverte di nuovi messaggi da oltremare. “Mi raccontano di attese interminabili su isole greche, attorno a una chiesa. Di barche ferme per ore in mezzo al mare perchè è finita la benzina”.

Ma anche di “sentieri nel bosco in Serbia”, c’è “chi si perde e torna mille volte al punto di partenza” e chiama ridendo gli amici: “pazienza, domani riuscirò a passare il confine!”. (ANSA, 9 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/da-tripoli-a-malmoe-in-16-giorni-e-per-5mila-euro.html

IL LIBANO SCENDE IN PIAZZA. CHE SUCCEDE NEL PAESE DEI CEDRI?

La fine del mese di agosto ha visto l’accendersi di un forte movimento di protesta in Libano. In migliaia sono scesi in piazza a Beirut per protestare contro il mancato intervento delle autorità nello smaltimento dei rifiuti, allo stesso tempo contestando anche la corruzione e l’immobilità della classe politica del paese. Di seguito l’intervista ad Elia El Khazen, 29 anni, attivista del “Socialist Forum” di Beirut.

 

Quali sono i motivi che hanno portato recentemente tante persone a manifestare a Beirut? Come è nata la protesta che scoppiata nella capitale del Libano? Quali gli slogan ed i claims di chi è sceso in strada a far sentire la sua voce?

Dalla fine del mese di luglio, si stanno verificando proteste in Libano contro il fallimento del governo, per concordare un nuovo contratto per lo smaltimento dei rifiuti e il conseguente accumulo di rifiuti per strada . Alcune di queste proteste hanno avuto luogo spontaneamente nei quartieri più poveri, dove a partire dal 1998, il governo ha designato che la spazzatura di Beirut e del Monte Libano fosse destinata in una discarica a sud di Beirut (Naameh), e alcune proteste sono state organizzate dagli attivisti dei social media utilizzando l’hashtag ‘YouStink’ – “Puzzate”. Le manifestazioni hanno raggiunto uno dei punti più alti della storia contemporanea nella giornata di sabato 29 agosto, con decine di migliaia di persone – alcune stime dicono fino a 100.000 – convergenti per protestare contro entrambi i poli della classe dirigente. Il 29 agosto si è anche contestata, tra le altre cose, la violenza di stato che si è verificata in un modo senza precedenti nella manifestazione del 22 agosto e nelle altre proteste seguenti. Le richieste dei manifestanti variano tra il comunicato ufficiale degli organizzatori del movimento “YouStink” che chiedono un programma riformista esigendo impegni di responsabilità sul tema della repressione di stato e reclamando le dimissioni sia del ministro dell’ambiente e della sicurezza interna; inoltre viene richiesto il decentramento del riciclaggio dei rifiuti da parte del comune di Beirut e la richiesta di elezioni parlamentari. Le richieste delle parti della società più radicali e rivoluzionarie fanno leva lotte di carattere sociale per abbattare il regime nel suo complesso, richiamandosi all’idea della costituzione di comitati popolari ovunque per rovesciare l’attuale regime settario. Questi movimenti più radicali chiedono anche la creazione di una società laica e statale, lo scioglimento del parlamento, elezioni immediate sulla base di una non settaria proporzionale rappresentanza.

 

Qual è stato il livello di repressione di questa protesta da parte delle forze dell’ordine?

Il 22 agosto, la polizia antisommossa ed i soldati hanno usato i manganelli, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e anche proiettili veri contro migliaia di manifestanti che si erano riuniti nel centro di Beirut. La retorica che ha preceduto questa oppressione da parte dello Stato era quella avviata dagli organizzatori di “YouStink”, i quali all’inizio delle proteste avevano etichettato una considerevole porzione di altri manifestanti come “infiltrati” e “provocatori”: questo ha dato carta bianca a qualsiasi repressione che sarebbe seguita. Fortunatamente la maggior parte dei manifestanti ha riggettato l’etichetta di “infiltrati” e contrapposto il tentativo di dividere il movimento tra quello di un “pacifico” corteo della società civile in piazza Martyr e quello degli “infiltrati violenti” nella piazza Riad el Solh, gridando slogan come “siamo TUTTI infiltrati, non abbiamo bisogno di attivisti benpensanti per etichettarci “- indossando queste parole sulle magliette e dipingendole sui muri. Per quanto riguarda i numeri della repressione, più di 24 persone sono ancora detenute, 7 dei quali sono minorenni…

 

Il Libano è situate nel cuore del medio – oriente, confinante con la Siria ed Israele. Qual è stata l’influenza della crisi Siriana? Quali i rapporti con Israele oggi?

Libano è stata enormemente influenzata dai suoi vicini ed è a sua volta restituito il favore. In primo luogo, Israele ha invaso il Libano innumerevoli volte da quando quest’ultimo ha proclamato l’indipendenza, creando pretesti per invasioni vuoti e senza senso, commettendo genocidi e bombardando molti villaggi e città, distruggendo le infrastrutture ed uccidendo i civili. L’aggressione di Israele del 2006 è stato uno degli ultimi esempi di continue violazioni di Israele che ha interessato gran parte delle infrastrutture e la capacità di stare in piedi sulle proprie gambe del Libano, questo senza togliere la presenza nel paese di una classe politica corrotta, nei suoi due poli, che ha governato Libano dalla fine della guerra civile. Due poli politici che hanno fallito miseramente nel fornire il più fondamentali dei servizi alle persone che risiedono in Libano, al contrario entrambi i poli hanno presieduto la continuazione delle politiche neoliberiste e la protezione perpetua del settore bancario che detiene oltre il 60 % del debito pubblico. Per quanto riguarda il regime siriano, è stato intrinsecamente legato alla classe dirigente libanese sin dalla sua occupazione del Libano nel 1976. Con l’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, Hezbollah è stato coinvolto nel salvataggio del regime siriano al fine di evitare che collassasse completamente. Dal 2012 questo a sua volta ha polarizzato la scena politica in Libano e fatto si da mettere la difesa del regime come unica ragion d’essere di Hezbollah, politica perseguita dalla sconfitta contro Israele nel 2006. Con l’escalation delle politiche neoliberiste negli ultimi anni attraverso le privatizzazioni ed i tagli sulle prestazioni dei lavoratori, molte sezioni della popolazione libanese usate per supportare Hezbollah stanno mettendo in discussione la loro fedeltà e riconsiderano se vale ancora la pena e se è ancora una priorità che i loro figli della classe operaia sono inviati a morire in Siria inutilmente mentre la loro classe dirigente sta al caldo nelle loro case, mentre la popolazione ha una molto limitata accesso ad acqua, elettricità e altri servizi di base. Il 29 agosto la manifestazione ha visto il più grande afflusso di settori della classe operaia che soffrono di più dalla crisi gestione dei rifiuti e altre crisi da entrambi i sobborghi di Beirut e nelle aree rurali con organizzazioni locali alle loro prime fasi. Nella parte Siriana i profughi sono quelli che stanno scoprendo il più il peso della crisi della gestione dei rifiuti e altre crisi socio-economiche, ma sono purtroppo esclusi da qualsiasi protesta o manifestazione per i loro diritti più elementari, dato che lo stato libanese ha fatto si da negare loro sia fisicamente che ideologicamente ogni possibilità di organizzazione collettiva o di sindacalizzazione.

 

Cos’è il Forum Socialista? Quali le sue prospettive politiche?

Il Forum Socialista è un’organizzazione socialista rivoluzionaria in Libano. E’ emerso tra i due gruppi di sinistra radicale nel 2010. Ma ciascuno di questi gruppi ha una storia: uno di loro è iniziato nel 2000 e l’altra nel 1970. Fondamentalmente nel Forum Socialista abbiamo due pubblicazioni. Uno di loro è un quotidiano una piattaforma online quotidiana di nome “Al-Man –Hour”. L’altro è una rivista periodica araba che viene pubblicata due volte l’anno come un libro, prodotta da gruppi proveniente da Egitto, Siria, Tunisia, Marocco e Iraq. Il suo nome è “Thawra Daima” e si traduce in “Rivoluzione permanente”, un motto trozkista. I nostri gruppi hanno tenuto posizioni di sostegno alle rivolte arabe e le rivolte in tutto il mondo. Vediamo che la situazione attuale richiede una posizione che faccia da bussola nella realtà sulla questione della resistenza al capitalismo e la resistenza contro la dittatura, insieme con e per la democrazia progressista. Il forum Socialista è anche un ente fondatore del “Shaab Al youreed”, movimento formato in seguito alla protesta del 22 agosto scorso prima citata. Questo movimento raggruppa studenti, femministe radicali, attivisti di sinistra ed indipendenti sotto la bandiera di un movimento e si propone di elevare la discussione politica a una visione più strutturale della crisi in corso, facendo un collegamento di altre lotte tra loro. La nostra strategia è quella di andare verso la formazione di un partito politico, un partito rivoluzionario in Libano.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/il-libano-scende-in-piazza-che-succede-nel-paese-dei-cedri

 

Il peggiore dei massacri, Sabra e Chatila

Da Liberazione, citato nel blog di Valentina Perniciaro:

 

16 settembre 2008
Liberazione di oggi, pagina 20 
DIARIO DI UN MASSACRO, di Valentina Perniciaro
LIBERAZIONE, 16 SETTEMBRE 2008, retrocopertina (rm1609-att01-202)«Il problema che ci poniamo: come iniziare, stuprando o uccidendo? Se i palestinesi hanno un po’ di buonsenso, devono cercare di lasciare Beirut. Voi non avete idea della carneficina che toccherà ai palestinesi, civili o terroristi, che resteranno in città. Il loro tentativo di confondersi con la popolazione sarà inutile. La spada e il fucile dei combattenti cristiani li seguirà dappertutto e li sterminerà, una volta per tutte». Il settimanale Bamaneh , organo ufficiale dell’esercito israeliano, due settimane prima del massacro di Sabra e Chatila, riporta le parole di un ufficiale delle Falangi cristiano-maronite.
Ma proseguiamo con ordine.

Martedì 14 settembre ’82
Un’esplosione devasta la sede di Kataeb (partito delle Falangi cristiane) durante una riunione di quadri. Tra i 24 corpi anche quello di Bashir Gemayel, presidente della Repubblica libanese da appena tre settimane. E’ un colpo pesante per Israele: muore il nemico numero uno dei palestinesi in Libano, l’uomo che li aveva definiti «il popolo di troppo», ricordato come «il presidente sostenuto dalle baionette israeliane». La sua elezione era la prima grande vittoria di Sharon: le sue milizie erano state aiutate militarmente, addestrate in campi speciali, garantite di servizi di intelligence e organizzazione. Il generale Eytan, capo di stato maggiore israeliano, poco dopo l’attentato dichiarerà: «Era uno dei nostri».
Il giorno prima, il 13 settembre, gli ultimi 850 paracadutisti e fanti della forza di pace internazionale (per lo più francesi, italiani e americani) lasciano il paese. Non sono nemmeno le 18 quando parte l’operazione “Cervello di Ferro”: inizia un fitto ponte aereo israeliano, uomini e carri armati arrivano all’aereoporto internazionale di Beirut e il generale Eytan dichiara: «Stiamo per ripulire Beirut-Ovest, raccogliere tutte le armi, arrestare i terroristi, esattamente come abbiamo fatto a Sidone e a Tiro e dappertutto in Libano. Ritroveremo tutti i terroristi e i loro capi. Ciò che c’è da distruggere lo distruggeremo».

Mercoledì 15 settembre
Prima dell’alba si tiene una riunione decisiva al quartier generale delle milizie unificate della destra cristiana: per Israele sono presenti i generali Eytan e Druri, per le milizie falangiste il comandante in capo Efram e il responsabile dei servizi di informazione Hobeika. Si discute un piano d’entrata delle falangi nei campi profughi palestinesi di Beirut; un capo militare alla fine della riunione dichiarerà: «Da anni aspettiamo questo momento». Durante tutto il giorno le strade che vanno verso i campi vengono riempite con la vernice di enormi frecce che indicano la direttrice di penetrazione, Sabra e Chatila devono essere facilmente raggiungibili da chi non conosce la città. Dalle 5 in poi lo Tsahal (l’esercito israeliano ndr ) avanza su cinque direttrici, circondando completamente Beirut-Ovest: Sharon arriva sul posto a dirigere le operazioni alle 9 del mattino, sul tetto di un enorme edificio, al settimo piano, da dove può osservare benissimo i campi. Il primo ministro Menahim Begin dirà poche ore dopo che il loro «ingresso in città è solamente per mantenere l’ordine ed evitare dei possibili pogrom, dopo la situazione creatasi con l’assassinio di Gemayel».
Dalle 12 i campi di Sabra e Chatila sono circondati dai tank israeliani: la popolazione si chiude in casa. Tutti i combattenti sono partiti pochi giorni prima, nelle viuzze strette sono rimasti solamente bambini, donne e anziani.

Giovedì 16 settembre 
Bastano 30 ore per completare la missione: è la prima volta che Israele conquista una capitale araba. Per tutta la mattinata è un formicaio di bande armate, munite anche di asce e coltelli, che percorrono le strade a bordo di jeep dello Tsahal; alle 15 il generale Druri chiama Sharon: « I nostri amici avanzano nei campi. Abbiamo coordinato la loro entrata». La risposta è secca: «Felicitazioni».
Il tempo a Sabra e Chatila si fermerà alle 17 per ricominciare a scorrere 40 ore più tardi, alle 10 del sabato successivo. Gli israeliani seguono le operazioni dal tetto del loro quartier generale, forniscono in aiuto razzi illuminanti sparati con una frequenza di due al minuto: non calerà mai la notte sopra i campi. Le falangi cristiano-maronite non si limitano a sterminare la popolazione; il loro accanimento, soprattutto verso i bambini, ha pochi precedenti nella storia, la loro crudeltà supera ogni aspettativa. Sfondano le porte delle case e liquidano intere famiglie ancora nei letti o a tavola, tagliano le membra delle loro vittime prima di ucciderle, stuprano ripetutamente donne e bambine, evirano, assassinano a colpi d’ascia. Solitamente lasciano viva una bimba per famiglia che, dopo ripetuti stupri, ha il solo compito di raccontare e far scappare chi resiste. Una donna al nono mese di gravidanza verrà ritrovata con il ventre aperto, uccisa con il feto messogli tra le braccia. Le teste dei neonati vengono schiacciate sulle pareti. I miliziani saccheggiano tutto: si troveranno molte mani di donne tagliate ai polsi per impadronirsi dei gioielli.

Venerdì 17 settembre
Il venerdì nero. Il tenente Avi Grabowski dirà davanti alla commissione d’inchiesta «Ho visto falangisti uccidere civili…Uno di loro mi ha detto: dalle donne incinte nasceranno dei terroristi». Ma i soldati israeliani ricevono ancora l’ordine di non intervenire su ciò che sta accadendo, di non entrare nei campi; il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte. Sono le milizie di Haddad quelle che incutono più terrore, quelle che legano i feriti alle jeep e li trascinano fino alla morte, quelle intente a torturare e a non lasciare nessuno in vita; i metodi si fanno più rapidi rispetto all’inizio del massacro, ora si spara a bruciapelo e spesso si incide una croce sul petto dei cadaveri. Più di 1500 persone spariranno salendo sui loro camion: non si è più saputo niente di loro. Entrano anche nell’ospedale di Akka e di Gaza, medici e infermieri palestinesi sono giustiziati, così come i feriti. Al confine del campo gli uomini delle milizie cristiane sono euforiche, non si vergognano di urlare in faccia ai giornalisti che iniziano ad arrivare: «Andiamo ad ammazzarli, ci inculeremo le loro madri e le loro sorelle». Sharon è l’unico invece che continua a dichiarare, mentre sovrasta il massacro, «l’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe».

Sabato 18 settembre 
Il massacro continua; la puzza di cadaveri, sotto il caldo sole di Beirut, inizia a superare i confini dei campi palestinesi. E’ il momento dell’ultima trappola: le milizie dalle 6 del mattino girano sulle jeep urlando alla popolazione di arrendersi, di uscire di casa. Più di un migliaio saranno uccisi sulla strada Abu Hassan Salmeh, principale arteria di Chatila. Chi viene arrestato e portato nello stadio sarà ritrovato morto ancora ammanettato, spesso buttato in piscina. Gli ultimi abitanti vengono portati via sui camion.
Alle 10 cala il silenzio su Sabra e Chatila. Le milizie sono uscite; non si scorge anima viva nel fetore di quelle strade. Solo qualche ora dopo i sopravvissuti inizieranno ad uscire dai rifugi, e il dolore si trasformerà in grida, mentre osservano più di 2000 cadaveri mutilati, dilaniati, stuprati, lasciati marcire al sole. I riconoscimenti avverranno solo in parte, visto che molti erano stati già gettati in fosse comuni. C’è una donna che urla… ha intorno a se i cadaveri dei suoi 7 bambini, tiene tra le braccia il corpo dilaniato della più piccola, di soli 4 mesi. Si tira la terra in testa, urla, «E ora? Dove andrò? E ora?».
Sulle mura delle poche case rimaste in piedi si leggono gli slogan della Falange “Kataeb”: «Dio, Patria, Famiglia».
«Quali assassinii di donne? Si fa una storia per niente. Da anni uccido palestinesi e non ho ancora finito. Li odio. Non mi considero affatto un assassino. Ne verranno ancora assassinati migliaia, ed altri creperanno di fame», le parole di Hobeika saranno difficili da dimenticare. Neanche per il popolo israeliano è facile accettare l’idea di essere corresponsabili di una simile azione, l’indignazione popolare è profonda. Un corteo di 400mila persone invaderà Tel Aviv con slogan diretti contro il governo e Sharon.
Il 20 settembre, Amos Kennan sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot , scriverà: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile».
Oggi ci sarà ancora una commemorazione, sulla piazza della fossa comune, all’ingresso di Chatila. La popolazione dei campi andrà a salutare, a portare avanti il ricordo di quei giorni neri in cui si è cercato casa per casa il più innocente per trucidarlo, in cui si è perpetrato uno sterminio scientifico e atteso da molto tempo. Il giorno più bello per le falangi cristiano-maronite, l’ennesima nakba (tragedia) per i palestinesi che malgrado tutto continuano a lottare, a sperare in un ritorno, ad esistere.
Come diceva Mahmud Darwish, grande poeta palestinese da poco scomparso, «Il mio popolo ha sette vite. Ogni volta che muore rinasce più giovane e bello». Basta passeggiare per le vie dei campi profughi del medioriente per capire che grande verità è questa.
Nel 2002, il tribunale dell’Aja prova ad accusare Sharon di crimini contro l’umanità per le evidenti responsabilità durante il massacro. Il processo nasceva dalle accuse del comandante Hobeika, che aveva deciso di far luce sui fatti. Avrebbe dovuto farlo i primi di febbraio,testimoniando in aula. Ma non ha fatto in tempo: è saltato in aria il 24 gennaio 2002.
La verità su Sabra e Chatila, comunque, non ha bisogno di tribunali per essere sancita. E’ chiara, scritta, visibile ancora oggi ad occhio nudo.

Tutte le citazioni sono tratte dal libro “Sabra e Chatila Inchiesta su un massacro” di Amnon Kapeliouk (Editions du Seuil, 1982)

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

Fonte:

http://baruda.net/2008/09/16/il-peggiore-dei-massacri/

 

 

 

 

In memoria di Naji Al-Ali

Il più popolare e influente cartoonist politico palestinese viene ucciso davanti alla sua abitazione a Londra. L’assassino è sconosciuto, anche se l’agenzia di intelligence israeliana, il Mossad, è il primo sospettato.

 

Ideatore dell’Handala, nacque nel 1937 in un piccolo villaggio nell’alta Galilea, fra Nazareth ed il lago di Tiberiade. La sua famiglia, composta da quattro figli, oltre al padre ed alla madre, era la classica famiglia contadina che viveva della coltivazione della terra intorno all’ abitazione.
Negli anni quaranta Asciagiara, subì numerosi attacchi militari da parte dei coloni per poi essere raso al suolo definitivamente nel 1948.
Chi riuscì a sopravvivere al massacro cercò una sistemazione di fortuna nei vari campi profughi che l’ONU stava allestendo nella regione. La famiglia di Naji Al-Ali trovò rifugio nel campo profughi di Ein Al-Hilwe, vicino a Sidone, nel sud del Libano.
«Lì, la vita era al limite della dignità umana, vivevamo in sei in un’unica tenda la metà della quale era stata trasformata in una sorta di spaccio dove mio padre vendeva le sigarette, gli ortaggi, ed altri oggetti di poco valore»
Agli inzi degli anni cinquanta, Naji si trasferi a Beirut alla ricerca di un lavoro. Come casa aveva una tenda offertagli dall’UNRWA nel campo profughi di Chatila. Negli anni ’50, dopo vari spostamenti nei paesi arabi in cerca di lavoro, tornò in Libano e si iscrisse all’ “Accademia delle Belle Arti” di Beirut. Durante gli studi fece esperienza politica, che fu causa di ben sei arresti, ma ben presto abbandonò il partito ritenendosi non adatto alla militanza partitica.
Negli anni a seguire orientò il suo talento artistico verso forme d’arte come la “caricatura”, già utilizzata come “mezzo di comunicazione” durante la sua prigionia. La caricatura poteva e doveva svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione e nella mobilitazione delle masse per la difesa dei propri diritti. Cosi l’arte diventò per Naji Al-Ali un dovere in quanto strumento di lotta.
Naji Al-Ali riuscì a costruirsi una solida formazione, che gli consentì di affermarsi su diversi giornali e riviste. In tutta la sua vita, non cercò la fama, e ancor meno il successo economico. Mirò unicamente a servire il suo popolo e la sua patria, pagando a caro prezzo le sue idee ed il compito che si era prefissato. La sua coerenza ed onestà intellettuale infatti lo costrinsero all’esilio dal mondo arabo e la sera del 22/7/1987, a Londra, uno sconosciuto gli sparò.
Naji morì, lasciando in eredità al suo popolo, e al mondo, circa 40.000 vignette, frutto di 25 anni di instancabile e appassionata attività in favore degli oppressi di tutto il mondo.
«Io milito per la causa palestinese e non per le singole fazioni palestinesi. Non disegno per conto di qualcuno, disegno solo per la Palestina, che per me si estende dall’Oceano Atlantico fino al Golfo. I miei personaggi sono pochi, il ricco e il povero, l’oppressore e gli oppressi… e non mi sembra che la realtà si discosti molto da questo».

Naji Al-Ali (Galilea 1937 / Londra 1987)

 
Fonte:

 

 
http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/memoria-di-naji-al-ali