25 aprile: la resistenza continua

25 aprile: liberiamoci dai padroni della salute

Data evento
Luogo
Radiondarossa

Fonte:

https://www.ondarossa.info/iniziative/2020/04/25-aprile-liberiamoci-padroni-della


Dal profilo Facebook di

 

ROSSA ha aggiunto un’immagine del profilo temporanea.

LA RESISTENZA CONTINUA
Si avvicina il 25 aprile ma, a causa della grave crisi sanitaria che stiamo affrontando, ci troveremo nella condizione di doverlo festeggiare a distanza.
In questa data così importante per la nostra storia, che qualche sciacall* vorrebbe trasformare in una festa generica per tutt* i/le cadut*, noi non dimentichiamo affatto cosa ha rappresentato il fascismo per l’Italia e per il mondo. Non dimentichiamo il sangue versato da* partigian* affinché fossimo tutt* finalmente liberi dall’oppressione nazi-fascista.
Stiamo attraversando un momento difficile nel quale la crisi si abbatte con ancora più forza sulle fasce deboli della popolazione e in cui l’odio e l’egoismo potrebbero prendere il sopravvento. Le misure statali si stanno dimostrando inefficaci e, dopo decenni di tagli indiscriminati e precarietà diffusa, ci propinano solo decreti fumosi e intempestivi mentre concedono una pericolosa discrezionalità alle forze dell’ordine. Per quanto ci riguarda il responsabile di questo stato delle cose è il capitalismo che crea disuguaglianze.
In questo 25 aprile “quarantenato”, come compagne e compagni del Municipio X, vogliamo promuovere azioni per ricordare la vittoriosa guerra di Liberazione e continuare nell’opera di costruzione di reti di solidarietà dal basso. Infatti, per la costruzione di un domani migliore, sono la libertà e la giustizia sociale che mossero la Resistenza ad indicarci la via: “Andrà tutto bene se nessun* sarà lasciat* indietro”.
Per questo invitiamo tutt* ad utilizzare lo sticker che accompagna questo messaggio, per i profili dei nostri social network. Restiamo uman* e fieramente antifascist*
Avanti Uniti

foto di ROSSA.

25 aprile 2020: Buon compleanno csoa A. Cartella

Dalla pagina Facebook di

 

Csoa Angelina Cartella

VERSO IL 25 APRILE
Le limitazioni alla libertà di movimento di questi tempi, a volte davvero incomprensibili e comunque non più sopportabili, ci impediscono di realizzare quanto volevamo fare in questo 25 aprile: volevamo stare insieme, ballare, vedere le immagini che registrano i18 anni di storia del Cartella, 18 anni di occupazione, resistenza, mille cose fatte insieme. Insieme a* moltissim* che sono passati per questo posto, per poco o tanto tempo non importa, ma contribuendo a fare vivere questa esperienza. Che l’hanno supportata, sostenuta. Che l’hanno difesa. Rivedere i volti cari di chi non c’è più. Dobbiamo rimandare. Nell’attesa abbiamo ricevuto questo graditissimo regalo da TELEMULUNI. È un modo di stare insieme anche ai tempi del coronavirus e di tenere a mente che la RESISTENZA non è solo il ricordo rituale di un giorno l’anno.
Grazie a CiccioPunk e a tutt*. Ci rivedremo presto.

25 aprile 2020: Buon compleanno A. Cartella|. 18 anni di Lotte, Manifestazioni, Teatro, Musica….
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25 aprile 2020: Buon compleanno A. Cartella|. 18 anni di Lotte, Manifestazioni, Teatro, Musica….
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Csoa Angelina Cartella

Magari il 25 aprile “Bella Ciao” cantiamola in strada, sotto casa, e non dal balcone.
😁E’ poca cosa ma cominciamo a riprenderci lo spazio pubblico!

E chi se lo aspettava un 25 aprile 2020 così! L’avevamo riempito di aspettative, di idee e di iniziative, perché per noi aveva anche il valore aggiunto di essere il diciottesimo anniversario di occupazione del nostro Centro Sociale “Angelina Cartella”. Quante ne ha viste e vissute il Cartella, quante persone sono passate da qui, anche se per poco tempo non importa, hanno comunque lasciato il loro segno, contribuendo ad arricchire e far crescere questa esperienza, facendola arrivare viva fino ad oggi, quell’oggi che ci trova a dover resistere in spazi di socialità sempre più asfittici e ristretti. Quante e quanti non ci sono più. Assenze importanti il cui ricordo risuona ancora tra queste mura più volte bruciate, le loro voci, le loro battute, i loro modi di dire nello stormire delle fronde del nostro parco. Avremmo voluto ricordarli in questo giorno: da Dino Frisullo, a Carletto Macrì, da Angelo Crea “il Bonzo”, a Ciccio Svelo, e come dimenticare Orazio Cartella, Claudio Modafferi “BUBBINGA”, Osvaldo Pieroni, Mimmo Martino, … Nicla! E tante altre persone, tante esistenze che hanno voluto incrociare il nostro percorso e condividere qualcosa.
Avremmo voluto ritrovarci attorno ad un po’ di musica, video e diapositive, un bicchiere di vino, per ricordare le mille iniziative messe in piedi, racconti belli, tristi o incazzati non importa, comunque ricordi delle tante volte che ci siamo dovuti stringere insieme a fronte di un compagno che ci lasciava, ad un attentato, ad una delle tante ingiustizie perpetrate sul nostro territorio o nel mondo, piccole o grandi, contro le quali ci siamo ribellati e abbiamo lottato… e qualche volta anche vinto: il Ponte sullo Stretto, il raddoppio dell’impianto di trattamento rifiuti a Pettogallico o dell’inceneritore di Gioia Tauro, la campagna per l’acqua bene comune, il ripristino degli 11 milioni di euro del Decreto Reggio al settore degli alloggi popolari. Ne abbiamo fatte di battaglie! magari con un po’ di arroganza, magari sbagliando qualcosa, ma ne abbiamo fatte, incrociando tante esistenze e tanti modi di pensare anche molto diversi dal nostro, ma le battaglie si fanno, si vincono o si perdono assieme. Tanti anche i personaggi noti che hanno attraversato il nostro spazio, da Jack Hirshman a Paul Connett, da Alex Zanotelli a Don Ciotti, da Giorgio Cremaschi a Zero Calcare e poi compagne e compagni storici come Marco Bersani, Silvia Baraldini, Renato Curcio, Barbara Balzerani… impossibile ricordare tutte e tutti. Senza dimenticare che la solidarietà internazionale ci ha fatti incontrare con delegazioni palestinesi, saharawi, cubane, curde o persone speciali come Blandine e Paul Sankara.
Sì, ci avrebbe fatto piacere questo 25 aprile 2020 avere tutte e tutti qui, al Cartella, a festeggiare con noi. Vuol dire solo che dovremo rimandare. Perché il CSOA è ancora qui con la voglia di fare ancora molta strada. Perché neanche i domiciliari imposti dall’emergenza coronavirus hanno fermato il nostro lavoro di supporto solidale, di denuncia, di mutualismo conflittuale. Di riflessione critica su un modello di sviluppo neoliberista che fa acqua da tutte le parti e ci ha portati sull’orlo del baratro. Critiche mai lesinate su una narrazione univoca della crisi sanitaria che non ci convince e approssima scenari molto tetri; su un grande fratello, sempre più invasivo e pervasivo, che sottrae sempre più diritti chiedendoci cieca obbedienza.
Altre grandi sfide ci attendono alla riapertura. Vorremmo affrontarle insieme.

ORA E SEMPRE RESISTENZA!
L’assemblea del Centro Sociale Occupato Autogestito “Angelina Cartella”

Nessuna descrizione della foto disponibile.

La «banda Bellini» perde anche Andrea, protagonista degli anni 70

Dopo il fratello Gianfranco, scomparso quattro anni fa, se ne è andato un altro del Casoretto. Aveva 65 anni. Uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, cercò di ucciderlo in un agguato

di Matteo Speroni

Andrea Bellini
Andrea Bellini

La notizia è circolata lunedì nel tardo pomeriggio sui social network e ha subito suscitato il cordoglio di tanti amici e «compagni»: per un male incurabile è morto, a 65 anni, Andrea Bellini, noto a Milano perché tra i fondatori, negli anni Settanta, della cosiddetta «banda Bellini» o «banda del Casoretto», gruppo movimentista spontaneo nato, appunto, nella zona del Casoretto, tra Lambrate e via Padova. Non etichettabile politicamente in modo preciso, la banda Bellini si muoveva, soprattutto con azioni collettive di piazza e di strada, all’interno della galassia comunista ma con spirito autonomo e libertario. Guidata dai fratelli Andrea e Gianfranco Bellini (scomparso nel 2012), la banda era considerata tanto pericolosa dai nemici politici da muovere uno dei leader dell’estrema destra, Valerio «Giusva» Fioravanti, a tendere un agguato ai fratelli armato di fucile e appostato sotto casa loro in un’ambulanza per tre giorni: l’episodio è descritto nel libro «La banda Bellini» di Marco Philopat (edito da Einaudi nel 2007 e ora uscito di nuovo per Agenzia X), che ha raccolto i racconti di Andrea Bellini. «Andrea — dice Philopat — ha sempre cercato di tramandare la memoria di quegli anni ai più giovani, narrando la sua storia e quella della “banda” con i tratti dei film western alla Sam Peckinpah o Sergio Leone. Con la metafora cinematografica è riuscito a creare la mitologia di un’epoca».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Fonte:
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_dicembre_27/banda-bellini-perde-anche-andrea-protagonista-anni-70-ec1acc90-cc0f-11e6-89aa-18ad6a6eb0ec.shtml

20 Dicembre 1973: ETA giustizia Carrero Blanco

Martedì 20 Dicembre 2016 10:03


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Da diversi anni ormai, la dittatura fascista del generale Francisco Franco è scossa da un crescente malcontento sociale, che trova nelle mobilitazioni operaie la valvola di sfogo nei confronti di quello che è diventato il più longevo stato europeo guidato da un’esecutivo dichiaratamente reazionario e conservatore. La lettura di quegli anni, propagandata dal regime, parlava infatti di una crescente tolleranza nei confronti dei conflitti sociali, in un’ottica che aveva come obiettivo quello di smarcare il Governo spagnolo dal ricordo, ancora troppo vivo, degli orrori che i regimi nazionalsocialisti avevano perpetrato nella seconda Guerra Mondiale.

 

Al contrario però, mai come in quegli anni, Franco decide di attuare una feroce repressione contro tutti i suoi oppositori politici, concentrandosi con particolare accanimento nei confronti della popolazione basca in Euskal Herria. Dal 1961 fino alla morte del Caudillo, nel novembre del 1975, il Paese Basco viene sottoposto ben 9 volte allo stato di emergenza nel giro di neanche 13 anni, vivendo un totale di 4 anni e due mesi in condizioni di completa sospensione di ogni diritto civile fondamentale, con un potere di vita e di morte affidato alle Forze di Sicurezza dello Stato.

 

E’ in questo clima che Euskadi Ta Askatasuna, reduce dal grande processo di Burgos e dalle prime importanti vittorie ottenute sul campo politico e militare, decide di giustiziare il successore designato di Franco, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco.

L’operazione, chiamata “Ogro” (“orco” in italiano”) come il soprannome del nuovo presidente spagnolo, dura quasi nove mesi e porta la firma del «Commando Txikia» di ETA.

 

I quattro giovani baschi ai quali è affidata l’azione cominciano a seguire le mosse dell’ammiraglio nell’aprile del ’73, dopo aver affittato un seminterrato al n. 104 di calle Coello a Madrid, dove fingono di svolgere il mestiere di scultori. In realtà, l’idea iniziale era quella di sequestrare Carrero Blanco per chiedere in cambio la liberazione di alcuni detenuti politici, ma quando a luglio l’ammiraglio era divenuto capo del governo la scorta era stata rafforzata ed il piano di sequestro abbandonato.

Poichè dalla sua abitazione di via Hermanos Becquer, l’almirante (come era anche chiamato Blanco) era solito seguire in automobile il medesimo tragitto fino alla chiesa di S. Francisco de Borja di calle de Serrano di fronte all’ambasciata americana, per poi ritornare seguendo sempre lo stesso transito, ETA decide che il modo migliore per uccidero è tramite un attentato dinamitardo.

 

Il lavoro si rivela però lento e dispendioso, dal momento che impegna contemporaneamente tutti i componenti della squadra nello scavo di una galleria di otto metri, dalla casa fino al centro della strada, con un prolungamento a T di tre metri. Mentre uno scava, l’altro passa la terra all’indietro al terzo che ne riempie i sacchi di plastica e il quarto accatasta i sacchi nel locale. Bisogna poi puntellare la galleria e preparare le cariche di dinamite, che sono tre, da quindici chili l’una, predisposte per l’esplosione simultanea con un filo elettrico. Un altro problema è quelllo di allontanare il più possibile l’interruttore che deve comandare l’esplosione stessa, per rendere possibile la fuga. Per questo venne previsto un filo che uscendo dalla finestra prosegua all’altezza del primo piano, fino all’incrocio con la calle Diego de Leon, a 50 metri circa.

 

L’operazione, prevista per il 19 dicembre, viene posticipata al giorno successivo. Poco prima dell’ora stabilita, uno degli “scultori” parcheggia, in seconda fila all’altezza della galleria, una “Morris” carica di dinamite, con il triplo scopo di rafforzare l’esplosione, obbligare l’automobile di Carrero Blanco a passare in mezzo alla strada e dare un punto di riferimento per un osservatore situato all’angolo Coello-Leon (il dispositivo detonatore, alimentato da tre batterie in serie, è sistemato dietro l’angolo e gli addetti, travestiti da operai dell’azienda elettrica, non possono vedere la via Coello). Quando la macchina dell’ammiraglio raggiunge la zona “ideale”, al segnale stabilito il contatto elettrico fa saltare in aria l’auto dell’ammiraglio.

L’automobile di Carrero Blanco vola per sei piani, oltrepassa il tetto di un palazzo e finisce su un balcone interno al terzo piano. Le guardie del corpo, scese malconce dall’automobile di scorta finita contro un muro, non si rendono conto dell’accaduto per molto tempo, mentre i quattro “etarras” hanno tutto il tempo per fuggire in tranquillità dalla capitale.

 

Nei giorni successivi, il Partito Comunista e vari esponenti dell’opposizione antifranchista e democratica, parlarono di provocazione, di possibile azione di “ultrà” fascisti, poi, di fronte alla circostanziata rivendicazione dell’attentato da parte di ETA, di atto irresponsabile che avrebbe fatto il gioco del regime. La realtà fu che tutto il popolo spagnolo, e non solo gli abitanti di Euskal Herria, furono ben felici della morte di colui che, a tutti gli effetti, si era dimostrato degno continuatore delle politiche del regime franchista.

Al governo subentrò Carlos Arias Navarro, estendendo a tutti i settori la sensazione che ci si trovasse di fronte all’imminenza di un passaggio di regime. In realtà apparve chiaro che il regime, per sopravvivere, doveva cambiare forma, mentre la sinistra patriottica basca intuì immediatamente che esso andava incontro ad una sorta di autoriforma verso una democrazia costituzionale “limitata”, evitando così la possibilità di una insurrezione armata popolare.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3549-20-dicembre-1973-eta-giustizia-carrero-blanco

Il pogrom di Chios

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Quando andavamo a scuola ascoltavamo i professori parlare dei pogrom avvenuti nel corso della Storia e condannarli duramente. A metà degli anni ’90 ritenevamo assurdo che simili vergognose pagine potessero essere scritte nuovamente. I pogrom contro gli Ebrei, gli Slavi, i comunisti, gli omosessuali, ecc. erano diventati le sentinelle della dignità umana, con il loro grido proveniente dal passato: «Mai più»!

In quegli anni nessuno credeva che la nostra isola sarebbe diventata uno dei luoghi in cui sarebbe stato scritta un’altra vergognosa pagina di storia. Alcuni criminali nazisti sono saliti sulle mura del castello di Chios per distruggere completamente la vita di esseri umani sradicati. Vedendo i grandi buchi sulle tende e le pietre enormi accanto ai letti dei rifugiati, ho constatato che i criminali non volevano spaventare le persone ospitate nel campo profughi, ma ucciderle. Vogliono il morto.

E sappiamo bene perché vogliono un morto.

Perché quel morto sarà la scintilla che porterà il caos. Conosciamo molto bene anche i mandanti morali e gli autori del crimine. Due sono venuti a parlare sull’isola il giorno prima l’accaduto, mentre il loro capo lo ha celebrato due giorni dopo. I criminali dell’isola li conosciamo bene, come conosciamo la loro vigliaccheria. Attaccano in gruppo profughi, solidali e persone di sinistra. Colpiscono di notte, come è accaduto per la cucina sociale. Minacciano chiunque, senza eccezioni, e insultano sfacciatamente chiunque si trovino davanti, anche il (precedente) capo della polizia di Chios. Non li ferma nessuno.

Le autorità comunali sono rimaste a guardare.

La polizia segue il corso degli eventi senza arrestare nessuno dei criminali. Al contrario, mette le manette solo a solidali e profughi. I poliziotti dovrebbero pensare a questo quando si lamentano della mancanza di empatia nei loro confronti.

Ma la cosa peggiore è la tolleranza dimostrata dalla comunità di Chios nei confronti di questi atti criminali. Ho detto molte volte che i neonazisti sono criminali, ma il silenzio della comunità è complice di quanto accade da alcuni mesi a questa parte.

Negli ultimi mesi la disumanità di queste persone ha scritto molte pagine buie della storia dell’isola. I presidi carichi d’odio, le provocazioni al porto di Chios, dove erano stati sistemati i rifugiati, i petardi lanciati in mezzo ai gruppi di bambini, i cortei fascisti e ora la pioggia di pietre e molotov sul campo profughi.

Il momento in cui arriverà il primo morto è vicino.

Le autorità e la polizia possono disinteressarsi della situazione.

Ma non noi.

Non tutti noi, che vogliamo il bene dell’isola e degli esseri umani.

Per quanto riguarda i criminali di qui, voglio semplicemente dire quanto mi dispiace che abbiano aggiunto la mia isola sulla lista delle vergogne della Storia.

di Ghiorgos Chatzelenis

Fonte: http://chatzelenisgeorge.blogspot.it/

Traduzione di AteneCalling.org

 

http://atenecalling.org/il-pogrom-di-chios/

LA MACCHINA DELLA MORTE SIRIANA

Colgo l’occasione di un post del compagno Germano Monti per parlare del “dossier Caesar”.

Dal profilo Facebook di Germano Monti:

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Pensierino del pomeriggio: non è la Turchia, le immagini non sono di vittime della repressione di Erdogan. E’ la Siria, le immagini sono di vittime della repressione di Assad, una piccolissima parte delle foto esportate clandestinamente da “Caesar”, un fotografo della polizia militare siriana che ha disertato nell’agosto di tre anni fa. Erano tutti manifestanti pacifici, attivisti per i diritti umani, rifugiati palestinesi, semplici cittadini. Quindi, potete infischiarvene, come avete fatto fino ad ora.

"Soldiers from the Assad regime shown placing numbered victims of starvation and other means of torture in body bags before stacking them.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"Numbered victims of starvation and other means of torture lined up in rows to be photographed and catalogued by the Assad regime before being placed in body bags and stacked.  These victims were placed in a warehouse when the nearby hospital that the regime had used for this purpose overflowed with victims' bodies.  This photo was taken by Caesar or one of his fellow military photographers between 2011-2013."
"A Christian Syrian victim of starvation and other Assad regime torture.  His regime assigned number is written on his stomach and right thigh.  The white card held in the picture also shows the victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death.  His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death.  This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
"Victims of starvation and other Assad regime torture.  The white card held in the picture shows the center located victim's number and the number of the regime security unit responsible for his detention and death. His number and eyes have been covered in this picture out of respect for the victim's family, which may not yet be aware of his death. This picture was taken by Caesar or one of his fellow regime photographers between 2011-2013."
Stand with Caesar: Stop Bashar al-Assad’s Killing Machine ha aggiunto 28 nuove foto all’album: Evidence of Bashar al-Assad’s Killing Machine — a Damasco.

This is an extremely small sample of the nearly 55,000 photos that Caesar smuggled out of Syria. These are also some of the least gruesome. Most of the other photos show unimaginable cruelty, far beyond what you see even in the horrible photos included here. Due to Facebook limitations and our concern that children may view these images, we have chosen to show these alone for now. In the future, we may add others in order to more fully display the unspeakable brutality of the Assad regime’s killing machine. These photos have been analyzed and validated by various international experts, including the FBI.

Fonte:
Dal blog di Germano Monti:

CHI HA PAURA DI CAESAR?

MILAN, ITALY - JULY 15:  Chamber of Deputies President Laura Boldrini attends congress on feminicide at the Camera del Lavoro on July 15, 2013 in Milan, Italy. Data from EU.R.E.S (European Economic and Social Researches) reports that between 2000 and 2011, of the 2,061 total women in Italy who had died, 1,459 died as a result of domestic violence.  (Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)

La domanda corretta sarebbe: “Chi ha paura delle immagini delle vittime delle torture degli aguzzini di Bashar Al Assad trafugate dalla Siria e divulgate all’estero da un ex fotografo della polizia militare del regime?”. Troppo lunga per un titolo.
Ai lettori del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano la vicenda è già nota da tempo: la Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha impedito l’esposizione nelle sale di Monte Citorio della mostra comprendente una selezione delle fotografie scattate da “Caesar”, impiegato della polizia militare siriana, incaricato di fotografare i corpi delle vittime decedute – dopo essere state atrocemente torturate – nelle carceri del regime di Assad. Una trentina di immagini, scelte fra le migliaia scattate da Caesar fra il 2011 e il 2013, già esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU, al Parlamento Europeo, al parlamento inglese e in molte università.
Il pretesto con cui la Boldrini ha opposto un rifiuto all’esposizione della mostra, curata dall’associazione “Non c’è pace senza giustizia”, appare francamente improbabile: le immagini sarebbero troppo crude e potrebbero turbare gli alunni delle scolaresche che visitano quotidianamente i locali della Camera e del Senato. Che si tratti di un pretesto, lo dimostra il fatto che, come si è detto, le stesse immagini sono state mostrate nelle sedi istituzionali di New York, Londra e Strasburgo, oltre che in alcune università. Per non parlare del fatto che, se la crudezza di certe immagini andasse veramente risparmiata alle scolaresche, bisognerebbe interrompere le visite organizzate per gli studenti ad Auschwitz e negli altri lager e, magari, proibire che i testi di storia ne pubblichino le fotografie… a meno che il problema non sia il fatto che le immagini dei lager di Hitler sono perlopiù in bianco e nero, mentre quelle dei lager di Assad sono a colori.

***

Proviamo ad andare oltre l’evidente pretestuosità del diniego opposto da Laura Boldrini all’esposizione delle fotografie di Caesar, anche se è difficile non osservare come offenda l’intelligenza dei cittadini italiani. L’esistenza in Italia di una forte e trasversale lobby che potremmo definire “filo Assad” è cosa nota, come è noto che tale lobby comprenda non solo attivisti sia di estrema destra che di “sinistra”, ma anche – e soprattutto – potenti settori del Vaticano, segnatamente quelli più reazionari, nonché la schiera di ammiratori italiani del presidente russo Vladimir Putin, schiera anch’essa forte e trasversale, comprendendo la Lega di Salvini, tutte le formazioni della destra post missina (da Fratelli d’Italia della Meloni alla Destra di Storace) e quelle della destra più radicale, CasaPound e Forza Nuova incluse. A “sinistra”, invece, le ragioni del dittatore siriano sono validamente sostenute da alcuni personaggi che godono di una certa notorietà (come il giornalista Giulietto Chiesa), da tutta la galassia di partitini più o meno “comunisti” e da alcuni settori che si definiscono “pacifisti”. Dulcis in fundo, nell’armata italiana che difende la trincea di Assad si è arruolato anche il Movimento 5 Stelle, che ha chiesto la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Damasco e la riapertura dell’ambasciata della Siria a Roma, chiusa nella primavera del 2012 dal governo italiano, dopo l’ennesima strage di civili operata dalle truppe del dittatore.
E’ possibile che la pressione di queste forze abbia influito in maniera decisiva sulla scelta di Laura Boldrini di oscurare le immagini di Caesar? Solo in parte. Probabilmente, la motivazione di una scelta tanto umiliante per la dignità dell’istituzione che rappresenta risiede nella volontà di non creare difficoltà alla politica estera del governo Renzi, basata sulla spasmodica ricerca di consensi e di sostegno “a prescindere”, che si tratti dei monarchi sauditi o del Pinochet del Cairo, il generale golpista il cui regime è responsabile di crimini quantitativamente lontani da quelli commessi da Assad, ma qualitativamente non meno feroci, come ha tristemente dimostrato a tutti la vicenda di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e assassinato al Cairo da una delle tante squadracce delle forze di sicurezza di Al Sisi.
Il servilismo di Renzi in politica estera è perlomeno pari alla sua spocchiosa arroganza in politica interna, aldilà delle cartucce a salve sparacchiate contro l’Europa dei burocrati, a beneficio del tentativo di rosicchiare qualche voto nell’area crescente dell’antipolitica (che, più correttamente, dovremmo definire con il termine storico di qualunquismo). La signora Boldrini non ha fatto altro che accodarsi al corteo dei cortigiani del nuovo “uomo forte” della politica italiana, ben deciso a tenersi buoni i vari Al Sisi, Rouhani, Al Saoud – con annessi Rolex in omaggio – ed anche Putin, probabilmente senza nemmeno rendersi conto che questi giochini somigliano più ai baciamano di Berlusconi a Gheddafi che alle sottigliezze diplomatiche di Andreotti. E la signora Boldrini, nella carica che ricopre, si è mostrata molto più simile a Irene Pivetti che a Nilde Iotti.

 

Fonte:

LA MACCHINA DELLA MORTE DEL REGIME DI ASSAD. IL RACCONTO DI “CAESAR”.

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Buchenwald ieri                                                                     Damasco oggi

Un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto i tanti ignavi che, di fronte a quello che sta avvenendo in Siria, pensano che Assad sia “il male minore”. Leggendo La macchina della morte, della giornalista francese Garance Le Caisne, sembra di tornare indietro nel tempo, quando si inorridiva di fronte alla consapevolezza di un’altra macchina della morte: quella dei lager nazisti.

L’autrice e gli editori del libro hanno scelto di non pubblicare le immagini che “Caesar”, ex fotografo della polizia militare siriana, ha fatto uscire clandestinamente dal Paese, motivando così la loro scelta. “Buona parte delle foto sono visibili in rete. Non avremmo saputo quali scegliere, né con quale criterio. E poi si tratta di immagini davvero molto, molto forti. Alcuni potrebbero esserne turbati al punto da non volere o potere proseguire la lettura”. E’ una scelta condivisibile, perché le immagini dell’orrore della tragedia siriana sono da anni a disposizione di tutti, attraverso le migliaia di filmati e di fotografie che gli attivisti rivoluzionari hanno postato sui social network e che documentano la repressione delle manifestazioni, gli effetti dei bombardamenti del regime, le torture… ma questa valanga di immagini ha finito per mitridatizzare l’opinione pubblica, rendendola insensibile, abituandola a convivere con lo scempio. La parola scritta, al contrario, nella sua apparente freddezza, finisce con il rendere comprensibile e razionale quello che le immagini possono lasciare intuire e che, a fronte della loro insostenibilità, contribuiscono a rimuovere.

Leggendo La macchina della morte è impossibile non cogliere le analogie con l’organizzazione dello sterminio degli Ebrei, degli Slavi, dei comunisti, degli oppositori – veri o presunti – costruita dai gerarchi del III Reich. La stessa ossessione per la burocrazia, la stessa paranoica ripetitività, la stessa banalizzazione del Male. Del resto, gli apparati repressivi del regime degli Assad sono stati costruiti con la consulenza e la supervisione di Alois Brunner, assistente di Adolf Eichmann, il quale lo definì il suo uomo migliore. Come comandante del campo di internamento di Drancy dal giugno 1943 all’agosto 1944, Alois Brunner fu responsabile dello sterminio nelle camere a gas di oltre 140.000 ebrei. Dopo la sconfitta del nazifascismo, sfuggito alla cattura, Brunner, dopo un lungo girovagare, trovò rifugio in Siria, dove il regime di Assad padre gli fornì protezione e un impiego come insegnante di tecniche di tortura presso i servizi segreti del regime. Scorrendo le pagine de La macchina della morte non si può non constatare come gli “insegnamenti” di Brunner siano stati diligentemente appresi e messi in pratica.

Altri insegnamenti, invece, sembrano essere stati dimenticati, come rivelano le parole di Margit Meissner, sopravvissuta all’Olocausto: “I rifugiati che fuggono dalla Siria hanno lo stesso sguardo disperato che ho visto in chi fuggiva dal regime nazista. Ma la distruzione degli ebrei in Europa era segreta, e le poche informazioni vennero respinte perché la gassificazione di civili era ritenuta improbabile. La crisi umanitaria in Siria non è certo un segreto. E’ stata documentata per quattro anni ed è, a detta di tutti, la più grande crisi di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale. (…) Quando i fatti della Seconda Guerra Mondiale sono stati conosciuti, ho creduto che una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere di nuovo. Che pensiero ingenuo”.

la macchina della morte

 

Fonte:

AUSCHWITZ A DAMASCO

Auschwitz, Damasco

Il dossier “Caesar”

“Voi potete prendere fotografie da chiunque e dire che si tratta di tortura. Non c’è alcuna verifica di queste prove, quindi sono tutte accuse senza prove”

Bashar Assad alla rivista Foreign Affairs, 20 gennaio 2015

Non è dato sapere quante persone, in Italia, siano informate a proposito della vicenda di “Caesar” e delle sue fotografie. In sintesi, “Caesar” è lo pseudonimo di un disertore dell’esercito siriano, un fotografo militare che, per circa due  anni, dall’inizio della rivolta contro il regime della dinastia Assad fino al 2013, era incaricato di documentare – fotografandoli – i corpi degli oppositori morti nei centri di detenzione di Damasco. Nell’estate di quell’anno, “Caesar” riesce ad uscire dalla Siria, portando con sé le copie delle immagini di decine di migliaia di cadaveri di vittime dei carnefici del regime siriano.

Ad oggi, a non tutte le immagini è stato possibile attribuire con sicurezza un’identità accertata, ma ce n’è quanto basta per parlare di una Auschwitz del XXI secolo. Recentemente, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini e delle informazioni fornite da Caesar, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) che costituisce un atto d’accusa semplicemente sconvolgente, intitolato Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria. Le foto di “Caesar” sono state consegnate a HRW dal Movimento Nazionale Siriano e l’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 immagini che, sulla base di tutte le informazioni disponibili, mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo essere stati trasferiti dal carcere in un ospedale militare, come il n. 601 di Mezze, Damasco. “Le foto rimanenti – scrive HRW – sono di attacchi a luoghi o di corpi identificati dal nome come appartenenti a soldati governativi, altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”.

Le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: sono state esposte in una mostra al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York e al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Londra e a Parigi. In Francia, la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” (Stock editore) – uscito lo scorso ottobre e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità, sulla base dell’art. 40 del Codice di Procedura Penale, che obbliga ogni autorità pubblica a trasmettere alla giustizia le informazioni in suo possesso se è venuta a conoscenza di un crimine o di un delitto. Gran parte della segnalazione inviata dal Ministero degli Esteri di Parigi alla magistratura si basa sulla testimonianza di “Caesar”.

In Italia, la vicenda di “Caesar” appare largamente sottovalutata, se non oggetto di una censura strisciante che lascia spazio alla propaganda dei sostenitori locali del dittatore siriano, molto numerosi a destra – dove contano sul sostegno di formazioni come la Lega Nord, Fratelli d’Italia e tutti i gruppi dell’estremismo nero, da Forza Nuova a CasaPound – ma presenti anche a “sinistra”, nei partiti di ascendenza stalinista, come i Comunisti Italiani o il PC di Marco Rizzo, o nei vari movimenti sedicenti “antimperialisti”. Quello che fa la vera differenza rispetto ad altri Paesi europei, probabilmente, è il sostegno garantito alla dittatura siriana da ampi settori del Vaticano, un sostegno esplicito nel caso degli esponenti della Chiesa Melchita, la cui sede romana (la Basilica di Santa Maria in Cosmedin, in Piazza della Bocca della Verità) è l’ambasciata de facto del regime siriano, dopo l’espulsione dell’ambasciatore e la chiusura dell’ambasciata di Damasco in Italia, avvenuta nel 2012. Leggi l’articolo intero »

Fonte:

Fermo, Emmanuel sta morendo. L’ha ucciso la violenza razzista

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche.

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Nigeriano picchiato a sangue a Fermo da un giovane, che secondo le ricostruzioni avrebbe insultato pesantemente e strattonato la compagna. I due giovani sono accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi. Che afferma: “Ci costituiremo parte civile. Sono gli stessi che hanno messo le bombe davanti alle nostre chiese”

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche. Emmanuel, insieme, alla compagna Chimiary, sono ospiti da otto mesi del seminario arcivescovile di Fermo, nel progetto gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Vinicio Albanesi. Accolti dopo esser sfuggiti a Boko Haram, dopo aver attraversato il Niger, superato le terribili violenze della Libia e sbarcati nel nostro paese.
Nel gennaio scorso era stato lo stesso don Albanesi ad unirli informalmente in matrimonio, presso la Chiesa di San marco alle Paludi. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.

Scrive Massimo Rossi, ex presidente della Provincia di Ascoli, esponente molto conosciuto di Rifondazione comunista

Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista che cresce nell’indifferenza, nell’indulgenza e nella compiacenza di larghi settori della comunità, della politica, delle istituzioni. L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia, due picchiatori, figli della città, cresciuti nell’umus del fascistume infiltrato ampiamente nella tifoseria ultras. Loro, che paragonarli alle bestie offende l’intera specie animale. Le mie lacrime, le nostre lacrime e la nostra vergogna per questo orrore che si é nutrito della putrefazione della nostra insensibilità, del nostro egoismo e delle nostre paure non basta affatto. Cosa dobbiamo attendere ancora per mettere al bando con ogni mezzo, tutti noi, cittadini e Istituzioni, il razzismo e fascismo che si annida nella nostra vita sociale e politica?

Da sinistra: Letizia Astori, Don Vinicio Albanesi, Suor Rita Pimpinicchi. Foto Zeppilli
Conferenza stampa 06 luglio 2016 2

La vicenda. Era il primissimo pomeriggio di ieri quando Emmanuel e Chimiary stavano passeggiando in centro città, diretti verso la piazza principale per acquistare una crema. I due si sono imbattuti in due giovani italiani, già conosciuti per la loro appartenenza al tifo organizzato della locale squadra di calcio. Secondo la ricostruzione della compagna di Emanuel, uno dei due avrebbe iniziato a insultare con epiteti razzisti la giovane, cominciando a strattonarla, tanto da suscitare la reazione di Emmanuel. Ne sarebbe scaturita una rissa, con un paletto della segnaletica estratto dalla strada, violenti fendenti e un colpo probbailmente decisivo che ha raggiunto il giovane Nigeriano alla nuca. Una volta a terra, sempre secondo il racconto di Chimiary, il giovane sarebbe stato colpito ripetutamente. Soccorso dai vigili, dagli agenti di polizia e dai sanitari, dopo lunga attesa, le condizioni del giovane sono sembrate disperate. Alla ragazza, invece, sono stati concessi cinque giorni di prognosi.

Chimiary ed Emmanuel
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi

La Fondazione si costituisce parte civile. “Una provocazione gratuita, a freddo – ha ricostruito oggi in conferenza stampa don Vinicio Albanesi -. Ci costituiremo parte civile, nella veste di realtà a cui i due ragazzi sono stati affidati”. Sono 124 i profughi accolti nella struttura del seminario di Fermo, tra cui 19 nigeriani. Non solo: “Per questa sera abbiamo già organizzato una veglia di preghiera. Vogliamo pregare e chiedere perdono per non aver saputo proteggere e accogliere una giovane vita, sfuggita al terrore per trovare poi la morte in Italia”. Ora il pericolo da scongiurare è una escalation di nervosismo tra i profughi o in città: “Non accettiamo vendette. C’è un ragazzo in condizioni disperate e un altro che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia”.
Di certo, la Comunità di Capodarco – di cui don Albanesi è presidente – accoglierà Emanuel per sempre. La volontà è quella di mettere a disposizione uno dei loculi che la comunità ha nel vicino cimitero.

Linciaggio e bombe: stessa mano? Nel corso della conferenza stampa, don Albanesi ha anche lasciato trapelare una indiscrezione importante: “Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana! Fanno capo anche alla tifoseria locale e secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione…”. Una dichiarazione che sembra imprimere una svolta importante anche alle indagini sui diversi attentati di cui sono stati fatte oggetto quattro chiese fermane nei primi mesi dell’anno.

Chimiary ed Emmanuel nel giorno del matrimonio
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi 2

Una storia d’amore finita tragicamente. Quella di Chimiary ed Emmanuel è una storia d’amore iniziata in Nigeria, che aveva superato le terribili violenze in Libia (per le botte ricevute, la giovane in stato di gravidanza si era sentita male durante il viaggio in mare, tanto da abortire al suo arrivo in Italia), le difficoltà nel nostro Paese. Emanuel aveva avuto problemi di salute, tanto che per lui la Commissione territoriale aveva chiesto un supplemento di istruttoria nella richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Ci sono ottime possibilità che il permesso venga concesso”, ha sottolineato l’avvocato Letizia Astorri. Lo scorso mese di gennaio, come ricordato, era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, seppur in maniera “non regolare” vista la mancanza di documenti dei due giovani. La liturgia cristiana, celebrata da don Albanesi nella veste di parroco e di presidente della Fondazione che li ha accolti, è stato infatti un matrimonio privo di effetti civili poiche i due ragazzi non avevano i documenti necessari. Questo però non aveva impedito ai due di realizzare il sogno maturato nella terra di origine.

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Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/07/06/fermo-emmanuel-sta-morendo-lha-ucciso-la-violenza-razzista/

Corteo in ricordo di Clément Meric

Domenica 05 Giugno 2016 15:08

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Il 4 di giugno a Parigi si è reso omaggio con un corteo antifascista partecipato e determinato a Clément Méric, militante antifascista ucciso da estremisti di destra tre anni fa. La manifestazione di ieri arriva in pieno movimento sociale contro la Loi travail, in un momento di criminalizzazione dei gruppi militanti che vede un particolare accanimento nei confronti dei compagni dell’Antifa Paris Banlieue, in seguito al caso della macchina della polizia bruciata, per la quale alcuni di loro sono stati accusati. Proprio in questo senso va letta la decisione della prefettura di obbligare la manifestazione di ieri a percorrere il canale sul quai de Valmy, luogo ostile in termini di mobilità per la prossimità al canale e luogo in cui la famosa macchina della polizia è stata data alle fiamme qualche settimana fa. Molti slogan hanno infatti mostrato la solidarietà agli incolpati sottolineando la strategia della prefettura a colpire nel mucchio cercando di delegittimare e indebolire il movimento.

Arrivati dunque all’altezza di quai de Valmy la polizia ha deciso di bloccare il corteo che avrebbe dovuto proseguire il percorso fino a Menilmontant effettuando una sorta di vendetta a colpi di cariche violente, lacrimogeni, granate (le stesse che hanno ridotto in coma un giornalista due settimane fa) e flashball. Nonostante la volontà delle prime file di proteggere il corteo e di avanzare, la violenza del dispositivo poliziesco ha impedito alla manifestazione di continuare oltre, finendo per creare una “nassa” (modalità di accerchiamento dei manifestanti) sotto una pioggia di lacrimogeni. La situazione si è quindi cristallizzata per più di quattro ore, concludendosi con varie decine di persone portate in commissariato per un controllo di identità, dove all’uscita hanno trovato un presidio di solidarietà ad attenderle.

Il 4 giugno a Parigi è stata una giornata importante, densa di voci che all’unisono hanno scandito “Siamo tutt* antifascist*”, di solidarietà di fronte a chi tenta di dividere chi lotta, di ricordo a tutte le vittime del fascismo e della polizia. Ma anche difficile da affrontare in un contesto sempre più repressivo che ha il chiaro obiettivo di impedire con ogni arma, poliziesca o giuridica, l’espressione del conflitto.

Da Clement a Dax passando per Zyed e Bounna, un solo grido : on n’oubli pas on ne pardonne pas (non dimentichiamo e non perdoniamo).

Parigi 5 giugno 2016

Fonte:

Le elezioni di Nea Dimokratia e l’omicidio Temboneras

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Non c’è stato nessun omicidio. Per poter   parlare di omicidio ci devono essere determinate premesse. Si è trattato semplicemente di un decesso.

Nikòlaos Tàgaris, prefetto dell’Acaia, deposizione alla commissione parlamentare d’inchiesta (16/7/1991)

Αφίσα για εκδηλώσεις στη μνήμη του Νίκου Τεμπονέρα

La notte tra il 9 e il 10 gennaio di 25 anni fa il professor Nikos Teboneras veniva brutalmente assassinato da alcuni individui appartenenti alla sezione di Patrasso dell’organizzazione giovanile del partito Nea Dimokratìa (ONNED). Gli insegnanti hanno programmato un raduno commemorativo sul luogo dell’omicidio. Un quarto di secolo dopo, i fatti del 1991 restano ancora attuali.

Le elezioni per la presidenza di Nea Dimokratìa [svoltesi il 10/1/2016, hanno portato alla vittoria Kyrìakos Mitsotakis, figlio di Konstantinos Mitsotakis, primo ministro tra il 1990 e il 1993, n.d.t.] conferiscono a questa ricorrenza un’incredibile attualità: il fascismo può benissimo funzionare come la “lunga mano” delle politiche economiche filoliberiste. L’omicidio di Patrasso, infatti, non nasce dal nulla. È stata la conseguenza naturale di una politica studiata dai vertici del partito per sgomberare le occupazioni studentesche di quel periodo, attraverso la mobilitazione del meccanismo partitico di Nea Dimokratìa. L’operazione godeva del caloroso sostegno dei media di destra e della silenziosa copertura dei servizi di sicurezza.

A confermare la connivenza dello Stato con i responsabili del delitto sono soprattutto i tentativi ripetuti del governo e di Nea Dimokratìa non solo di coprire le proprie responsabilità, ma anche di assicurare agli autori materiali del delitto un trattamento di riguardo nel procedimento penale successivo all’omicidio.

Le occupazioni studentesche

Tutto è iniziato con due decreti del governo Mitsotakis per i Ginnasi (393/1990) e i Licei (392/1990), caratterizzati da una logica disciplinare autoritaria e ispirata ai valori del cristianesimo e del nazionalismo. I decreti prevedevano, tra le altre cose:

– ripristino delle preghiere quotidiane;

– ripristino del catechismo e dell’alzabandiera ;

– «revisione» delle comunità studentesche;

– nessuna tolleranza per le assenze ingiustificate;

– imposizione di un point system per controllare e sanzionare il comportamento degli studenti.

L’iniziale disposizione sulle «divise uguali per tutti gli studenti» venne ritirata di fronte allo sdegno pubblico, per essere poi riproposta come disposizione sull’obbligo di mantenere «un aspetto semplice e dignitoso». I particolari sarebbero stati definiti in base alle proposte del consiglio dei genitori, con decisione finale del consiglio dei docenti; la disposizione prevedeva sanzioni nei confronti di qualsiasi studente avesse un abbigliamento giudicato «in evidente disarmonia con l’ambiente scolastico».

La risposta degli studenti fu una tempesta di occupazioni che iniziarono il 22 novembre a Iraklio; le occupazioni dilagarono rapidamente in tutta la Grecia: 1.180 scuole occupate il 10/12, 20.000 manifestanti per le strade del centro di Atene il 13/12.

Le istanze degli occupanti erano naturalmente incentrate sul ritiro dei decreti contestati, ma gli studenti avanzarono anche proposte positive sulla didattica – ad esempio, riadottare nelle classi il libro «Storia del genere umano» di Lefteris Stavrianòs, che riportava la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, appena ritirato dalle classi del I Liceo perché bollato come «anticristiano».

Nella rivolta studentesca confluirono le mobilitazioni degli studenti medi e di quelli universitari, che nello stesso periodo avevano occupato le loro facoltà contro il piano di legge Kontoghiannòpoulos, e che il 18/12 realizzarono un raduno studentesco a cui parteciparono 35.000 giovani.

Sorpresi dagli sviluppi, il governo si rifugiò nei riflessi conservatori della sinistra ufficiale («le scuole devono essere riaperte», dichiara il 12/12 Grigoris Farakos, dopo un incontro con Mitsotakis), sembrò cedere su alcuni punti e attese l’arrivo del natale, ritenendo che le vacanze avrebbero placato gli animi.

Ma queste aspettative si rivelarono fasulle. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione e della Religione, più di 700 scuole rimasero occupate durante le feste (tra queste, il 51% delle scuole di Atene, il 53% delle scuole del Pireo, l’80% di quelle dell’Attica occidentale, il 46% di quelle di Salonicco, il 63% di quelle dell’Argolide e il 68% delle scuole di Corfù), mentre in molti altri istituti erano state programmate assemblee per il 7 gennaio.

Deciso a stroncare il movimento, il ministero dichiarò che le lezioni si sarebbero svolte anche con un solo studente presente, ordinò ai presidi di prendere le assenze sul marciapiede (con unico criterio la dichiarazione di ciascuno studente pro o contro l’occupazione) e ricordò che bastavano 50 assenze ingiustificate per perdere l’anno («Ελεύθερος Τύπος», 4/1/1991). Questo ricatto però non funzionò, perché dopo la fine delle vacanze le occupazioni aumentarono. La propaganda governativa iniziò a diffondere bugie, senza ottenere risultati significativi, mentre il Procuratore capo di Atene chiariva ai genitori che per avviare procedimenti per turbamento dell’ordine pubblico i presidi delle scuole dovevano dichiarare per iscritto che i ragazzi, nonostante la volontà di entrare in classe, erano impossibilitati a seguire le lezioni (ΕΤ2, 7/1/1991).

…e sgomberi

Αθήνα 18/12/1990. Η αντοχή των μαθητικών καταλήψεων εξόργισε την κυβέρνηση Μητσοτάκη

Atene18/12/1990. La resistenza delle occupazioni studentesche fece infuriare il governo Mitsotakis | foto di Tassos Kostòpoulos

Al governo non rimase altro da fare che ricorrere alla violenza. Gruppi di «cittadini indignati» di N.D. e della sua organizzazione giovanile si incaricarono di sgomberare a mazzate le occupazioni.

Il 7 gennaio gli episodi furono limitati ed ebbero più che altro il carattere di un «automatismo sociale», i cui protagonisti furono soprattutto genitori ostili alle occupazioni. Del tutto diverse furono le violenze del giorno seguente, quando fu evidente il fallimento delle pressioni esercitate all’interno della legalità.

Alle 2 di notte, una quarantina di giovani armati di spranghe fecero irruzione con lacrimogeni e petardi nel 4° Liceo di Salonicco, rompendo la porta e mandando all’ospedale una studentessa e un genitore che si trovava lì; il capo delle spedizioni, secondo le denunce, era il presidente della locale MAKI [Movimento Studentesco Indipendente, gruppo studentesco affine all’ONNED, n.d.t.] («Ριζοσπάστης», 11/1). Un’altra ventina di persone provò a sgombrare il Liceo Tyrolòis, a Truba, ma vennero respinti da studenti e genitori («Τα Νέα», 10/1).

A Kypseli ci fu un’irruzione nel 33° Liceo, mentre a Votanikòs il 63° Liceo fu attaccato con lanci di molotov («Ελευθεροτυπία», 9/1). Una manifestazione di elettori di Nea Dimokratìa a Corfù, una vera «esplosione popolare», secondo il comunicato stampa della prefettura, si concluse con assalti alle occupazioni delle scuole dell’isola. Ad Amaliada, un gruppo di giovani di N.D. occupò il comune e pestò il sindaco (del PASOK). A Lamìa e a Makrakomi, infine, come riportato dal giornale filogovernativo «Ελεύθερο Τύπο» (9/1), i genitori che volevano mettere fine alle occupazioni distrussero porte e vetri di tre scuole, provocando danni per decine di migliaia di dracme. Uno studente del 6° Liceo di Lamia rimase leggermente ferito. Gli assalti erano stati preparati da famosi giornalisti, a partire già dal periodo degli scioperi estivi.

«Una decina di canaglie sta seminando scompiglio e vuole soffocare la Nazione, proprio quando riesce a reggersi in piedi da sola», dichiarò Christos Pasalaris (Απογευματινή 6/7/1990).

«Lo stesso primo ministro», conclude l’articolo, in televisione deve insegnare al popolo «ad autodifendersi da quelle dieci sadiche canaglie che sabotano i sacri diritti dei liberi cittadini, tagliando la corrente, chiudendo le scuole, impedendo la libera circolazione per le strade, mettendo in pericolo la salute pubblica». Anche Dimitris Rizos (9/1/1991), editore del giornale «Ελεύθερος Τύπος», invitò i lettori all’ “autodifesa”: «prima o poi i cittadini di questo Paese dovranno reagire contro i politicanti di mestiere. Avanti dunque, seguiamo la strada segnata dai cittadini di Amaliada». Quando il giornale arrivò nelle edicole, Nikos Teboneras era già morto.

L’omicidio

Χαρακτηριστικό πανό των διαδηλώσεων του πρώτου διημέρου μετά τη δολοφονία (Αθήνα, 9-10/1/1991)

Lo striscione che apriva le manifestazioni i giorni immediatamente seguenti l’omicidio (Atene, 9-10/1/1991) | Tassos Kostòpoulos

A Patrasso gli episodi iniziarono la sera dell’8 gennaio, con la spedizione infruttuosa contro l’occupazione del liceo multidisciplinare da parte di circa 25 giovani di N.D. capeggiati da Ghiannis Kalambokas, presidente dell’ONNED di Patrasso, consigliere comunale e impiegato alla Banca di Creta.

Dopo aver schiaffeggiato un professore, entrarono nel complesso scolastico e sgombrarono gli occupanti, ferendo alla mano con un taglierino il presidente del consiglio degli studenti. La notizia venne trasmessa dalla radio locale e circa duecento cittadini si radunarono al di fuori del complesso scolastico per proteggere gli studenti.

I giovani di N.D. li accolsero insultandoli: «sentimmo qualche slogan sul nazionalsocialismo», dichiarerà più tardi il professor Dionisis Evstathiou, «ma nessuno si aspettava il peggio» (Atti dell’inchiesta, 20/6/1991, pag. 16). Dopo il tentativo fallito del sindaco Andreas Karàvolas di convincere i giovani di N.D. ad andarsene e il lancio di oggetti contro di lui, un gruppo di professori disarmati e di cittadini entrò nel cortile, certi che il numero sarebbe bastato a far ritirare il gruppo di aggressori armati. Questi ultimi li picchiarono con le loro spranghe, spaccando la testa di Temboneras e ferendo gravemente altre tre persone. Quando arrivò all’ospedale, il professore, membro del Fronte Antimperialista dei Lavoratori (EAM), era clinicamente morto.

Il gruppo di aggressori era già noto a Patrasso per altri episodi violenti (assalti a sedi politiche ecc.) verificatisi durante le elezioni del biennio precedente (elezioni politiche il 18/6/1989, il 5/11/1989 e l’8/4/1990, comunali il 14/10/1990) e tollerati dalle autorità. Nel periodo delle occupazioni avevano svolto almeno due assemblee per decidere come affrontare gli occupanti.

Durante la prima assemblea (22/12/1990), a cui parteciparono anche il sottosegretario all’Istruzione Vassilis Bekiris e il parlamentare Nikos Nikolòpoulos, Kalambokas propose l’idea di un’azione di forza da parte dell’ONNED, e gli venne risposto che una cosa del genere avrebbe potuto essere presa in considerazione dopo le feste (atti dell’inchiesta, 3/7/1991, pag. 4-6). La seconda assemblea si svolse la sera dell’8 gennaio in prefettura. Secondo la deposizione giurata di quattro dei 60 presidi presenti, il prefetto Nikos Tagaris definì «legali» gli sgomberi, e fece un riferimento al complesso scolastico Vud (atti dell’inchiesta, 16/7/1991, pag. 85-6).

Simili progetti vennero proposti durante le assemblee in tutta la Grecia (ad es. il 4/1 a Salonicco, alla presenza del ministro degli Interni Sotiris Koùvelas). Secondo il reportage di Thodorìs Roussòpoulos («Ελευθεροτυπία», 13/1), ordini simili erano stati impartiti anche dal vicepresidente di N.D. Theòdoros Bechrakis, con un telex alle sedi provinciali del partito, e telefonicamente dalla commissione per le mobilitazioni dell’ONNED alle sezioni locali. La notizia dell’omicidio esplose come una bomba.

Διαδηλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

La sera del 9 gennaio il centro di Patrasso si trasformò in un teatro di scontri, che si protrassero per due giorni anche per le strade di Atene (10-11/1). Vi parteciparono migliaia di manifestanti, con un bilancio di centinaia di feriti e altri quattro morti, quando uno dei 4.000 lacrimogeni lanciati dai MAT provocò un incendio in una cartoleria.

In preda al panico, il governo ritirò i decreti e il piano di legge, Kontoghiannòpoulos si dimise e il suo successore Ghiorgos Soufliàs annunciò l’apertura di un dialogo nazionale sull’istruzione «ripartendo da zero».

 

La copertura della polizia

Διαδήλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Si tentò immediatamente di insabbiare quanto realmente accaduto, con la costruzione di una versione accomodante dei fatti. Nel primo pomeriggio del 9/1/1991 venne diffuso un comunicato particolareggiato della Direzione di Pubblica Sicurezza dell’Acaia, in cui la responsabilità principale per l’omicidio veniva attribuita alle vittime:

«Alle ore 21.00 dell’8 gennaio 1991, un gruppo di circa 30 persone ha fatto irruzione nel cortile delle scuole sopra citate dopo aver sfondato i cancelli e, senza fare uso di violenza, ha obbligato i circa 30 occupanti ad uscire nel cortile della scuola. I nuovi occupanti, che avevano come unico scopo il ripristino del normale svolgimento delle lezioni, sono rimasti padroni dello spazio. Gli studenti sgomberati hanno diffuso telefonicamente la notizia agli altri giovani occupanti. Dalle ore 22.20 circa alcuni cittadini hanno iniziato a radunarsi davanti la scuola, raggiungendo il numero di circa 250 individui, tra i quali anche il sindaco di Patrasso Karàvolas.

Il sindaco, dopo un incontro con i nuovi occupanti, non è riuscito a farli allontanare, ed ha comunicato la notizia alle persone radunate all’esterno della scuola, che hanno allora preso la decisione di fare irruzione in massa per sgomberare il luogo.

Durante gli scontri verificatisi circa alle 22.45 sono avvenuti reciproci lanci di diversi oggetti (pietre, pezzi di legno e di ferro, ecc.) che hanno portato al grave ferimento del professor Temboneras Nikòlaos, di anni 38, ora ricoverato nel reparto terapia intensiva de ll’ospedale universitario di Rio, e il leggero ferimento di:

  1. A) Tsoukalàs Christos, professore di Liceo, anni 34
  2. B) Ghiotis Konstantinos, anni 31, impiegato pubblico e
  3. C) Vassiliàs Nikolaos, anni 23, muratore

i quali, dopo i primi soccorsi, hanno fatto ritorno ai rispettivi domicili.

In base all’ inchiesta successiva condotta dal viceprocuratore Mytis, della Procura di Patrasso, sono presumibilmente coinvolti:

  1. A) Kalambokas Ioannis, anni 30, impiegato bancario
  2. B) Marangòs Alexios, anni 37, e
  3. C) Spinos (non identificato)

Il procuratore ha disposto l’arresto degli individui sopra menzionati, sebbene al momento il loro arresto non sia stato possibile, poiché assenti dai rispettivi domicili e sono tuttora ricercati».

Almeno tre punti del comunicato destano perplessità:

  1. la conoscenza delle generalità degli autori (ancora liberi) dello sgombero dell’occupazione;
  2. l’affermazione secondo cui le persone radunate fuori dalla scuola abbiano deciso di compiere un’«irruzione in massa» e
  3. il lancio «reciproco» di oggetti, mentre tutti i feriti appartengono a un solo schieramento – quello maggiormente numeroso.

La collaborazione del gruppo di Kalambokas con la polizia è un capitolo ancora oscuro. La cosa certa è che Kalambokas ha goduto di una certa immunità per le sue azioni violente, e che Marangòs visitava regolarmente la Direzione di Polizia, di fronte al cui edificio esercitava occasionalmente il mestiere di venditore ambulante.

Anche la denuncia del presidente della locale Unione dei Poliziotti, ex membro dei servizi di sicurezza, secondo cui Marangòs era un informatore stipendiato dei servizi («Τα Νέα», 12/1/1991, pag. 17) non è mai stata chiarita.

Per quanto riguarda l’assenza della polizia dal luogo dell’omicidio nonostante il centro operativo avesse un quadro molto chiaro della situazione, è disarmante la deposizione del prefetto agli Atti della commissione d’inchiesta (16/7/1991, pag. 129):

«La polizia aveva ricevuto dal Ministro competente l’ordine di astenersi da qualsiasi operazione negli edifici scolastici durante il periodo delle occupazioni. La sua presenza è stata discreta e a distanza. E questo perché altrimenti alcuni avrebbero provato a collegare la presenza della polizia alle azioni che miravano a sgomberare le occupazioni».

L’«inchiesta» parlamentare

Διαδήλωση μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Un secondo campo di confronto fu la commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla questione all’unanimità dal Parlamento (4/3/1991). Durante la discussione gli oratori di N.D. avevano duramente contestato la relativa istanza dell’opposizione, con argomenti che andavano dall’agnosticismo all’esplicita difesa degli oppositori alle occupazioni.

«Il professor Temboneras è rimasto vittima degli scontri. E durante uno scontro dubito che si possa capire chi stia picchiando chi», assicurò ad esempio l’onorevole Spilios Spiliotòpoulos, parlamentare dell’Acaia, mentre Apòstolos Andreoulakos sostenne che «la legalità» era stata «ripristinata» dal gruppo di Kalambokas, e che Temboneras  fu ucciso «da una folla inferocita di sostenitori degli occupanti» e, di conseguenza, le responsabilità penali andavano attribuite ai compagni della vittima. Alla fine venne istituita la commissione d’inchiesta, dopo l’intervento del primo ministro in persona.

Come si evince dagli atti ufficiali, durante i lavori della commissione il presidente Epaminondas Zafiròpoulos non fu per nulla imparziale: spesso dettava le risposte ai funzionari di sicurezza, o minacciava e provava a confondere i testimoni «nemici». Un simile atteggiamento fu tenuto anche da alcuni onorevoli parlamentari, come Petros Tatoulis.

Riportiamo la risposta stizzita di Zafiròpoulos che commentò le dichiarazioni contrastanti della polizia e del presidente dell’ELME [Federazione Ellenica degli Insegnanti dell’Istruzione Secondaria]: «adesso ci mettiamo a paragonare le asserzioni della signora Antoneli con quelle della polizia? La polizia è un ente statale e la signora Antoneli è una persona. Tutti gli Stati hanno una polizia» (16/7/1991, σ. 145).

E pensate che la commissione era stata formata proprio per fare chiarezza sulle responsabilità dei servizi di sicurezza! Dunque non desta alcuna sorpresa il fatto che la commissione non sia giunta a un verdetto unanime. I parlamentari dell’opposizione diffusero le loro conclusioni, in cui parlavano di «brutale assassinio politico», la cui responsabilità era «non solo degli autori materiali ma anche dei mandanti morail, tra i quali possono essere annoverati il prefetto Tagaris e i dirigenti di polizia Badas e Tsaousis» («Ποντίκι», 18/6/1992), mentre la maggioranza governativa archiviò il caso.

Gli atti di due delle 23 udienze (la 19° e la 20° ) non sono presenti nel fascicolo del Parlamento. Subito dopo la fine dei lavori il presidente della commissione diventò ufficialmente l’avvocato difensore di Kalambokas in tribunale (20/7/1992).

Dopo l’omicidio Temboneras

La battaglia legale

Il tribunale costituisce il terzo ed ultimo campo di confronto.

I ricercati si costituirono spontaneamente e vennero incarcerati preventivamente. Il filo degli eventi può essere riassunto in cinque “tappe”:

– nel maggio 1991 viene scarcerato Marangòs, nonostante il presidente del consiglio degli studenti, testimone oculare, lo vide uscire dalla scuola con un piede di porco insanguinato (atti dell’inchiesta, 16/10/91, pag. 13-4);

– nel marzo del 1992 un verdetto sancì la sostituzione di sindaco e prefetto, contro cui erano state presentate denunce per complicità morale da alcuni gruppi di avvocati di Patrasso. Con il medesimo verdetto Kalambokas venne rinviato a giudizio per omicidio, Marangòs e Spinos per lesioni personali e altri 10 membri dell’ONNED per concorso e complicità. La stessa accusa venne però rivolta anche a 6 appartenenti allo schieramento degli occupanti, tra cui anche 4 testimoni oculari dell’omicidio!

il processo di primo grado iniziò a Volos il 22/6/1992 e si concluse il 9/3/1993 con la condanna di Kalambokas all’ergastolo per omicidio volontario senza attenuanti, di Marangòs e Spinos a tre mesi di carcere e con l’assoluzione degli altri imputati. Sul nucleo duro di N.D. la decisione fu un vero shock: «siamo forse governati dal PASOK? , si chiedeva il giorno successivo Dimitris Rizos sul giornale «Ελεύθερο Τύπο». «Perché in un processo così politicizzato la Società non ha fatto nulla affinché a emettere il verdetto fossero giudici che non si fanno influenzare da falsi testimoni? Che non si piegano alla marmaglia? Neanche questo è in grado di garantire il potere, ormai vacillante?»;

– il «potere vacillante» infine decise di rimediare alle questioni in sospeso prima delle elezioni del 1994;

Il 16/6/1993 venne stabilita un’udienza (per il 7/12/1993) e, successivamente, il personale del tribunale di Larissa venne trasferito in massa, perché la composizione del nuovo corpo fosse stabilita non per sorteggio, ma dal nuovo presidente, noto per la sua partecipazione a sentenze favorevoli per il governo («Τα Νέα», 15/11/1993).

Ma il governo Mitsotakis cadde il 9/9/1993, il nuovo governo Papandreou annullò i trasferimenti e Kalambokas fu di nuovo condannato (19/5/1994) a 17 anni – con l’attenuante di non avere precedenti penali.

La novità fondamentale del processo di secondo grado furono le accuse tra ex camerati. Kalambokas rivelò che il vero assassino di Temboneras era Marangòs, dichiarazione confermata anche da Spinos e da Achilleas Prionàs (uno degli accusati).

Marangòs il 22/2 dichiarò che probabilmente l’assassino era Prionàs, denunciò Spinos e ottenne la sua condanna per calunnie. D’altronde non correva alcun rischio, visto che era stato irrevocabilmente assolto dal verdetto.

– nel 1996 l’Aeropago stabilì che il tribunale doveva riesaminare il caso prendendo in considerazione l’attenuante della «tensione della situazione».

Il caso venne di nuovo sottoposto a processo (1-15/10/1996), il tribunale fu costretto dall’Aeropago a una revisione della pena, che venne ridotta a…16 anni e mezzo (22/1/1998). Poco più tardi Kalambokas venne scarcerato, avendo scontato i 2/5 della pena. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.

Kalambokas è diventato dirigente di una filiale della Banca Nazionale a Volos. Vassilis Kontoghiannòpoulos è stato eletto nel 2000 parlamentare del PASOK e nel 2003 è stato Sottosegretario alla Sanità durante il governo Simitis. Nikos Nikolòpoulos, che aveva giustificato le violenze della squadraccia di Kalambokas parlando di «costumi locali» (atti dell’inchiesta, 15/5/1991, pag.82), ha appoggiato il governo di Alexis Tsipras – il più famoso degli occupanti del 1991 – come parlamentare di AN.EL. Qualcuno vuole forse mettere in dubbio il successo della pacificazione nazionale?

Patria – Religione – Polizia

Tra gli altri documenti di quel periodo, sul sito web dell’Istituto Konstantinos Mitsotakis sono stati caricati due telegrammi di alcuni cittadini che, all’indomani dell’omicidio Temboneras, invitavano il governo a non cedere al partitismo e all’anarchia.

Il primo è stato scritto da un ex prefetto, autore del più dettagliato testo pubblicato sino ad oggi sul «terrore rosso» nel Peloponneso durante l’occupazione, mentre il secondo è di una coppia di genitori nazionalisti. Entrambi i telegrammi sono molto eloquenti per comprendere il miscuglio di autoritarismo, nazionalismo e religione di cui era intrisa in quel periodo l’ideologia della “liberale” N.D.:

«Kyparissia, 11/1

Al Presidente del Consiglio

Al ministro dell’Istruzione

Al ministro della Giustizia

Al ministro dell’Ordine Pubblico, Atene.

Popolo greco attende protezione in tutti i modi di istruzione ellenica, società ellenica e democrazia ellenica dai piani di anarchici guidati da organi partitici antidemocratici e antieducativi. Kosmàs Antonòpoulos, ex prefetto».

«Spettabile Ministro, siamo genitori di studenti. Concedeteci il diritto di esprimere la nostra approvazione per tutte le misure, senza eccezione alcuna, che voi e altri saggi collaboratori avete ideato per il bene dell’amatissima patria e della vera educazione dei nostri giovani. Prendete tutte le misure in vostro potere per ricondurre alla ragione le masse paranoiche e disinformate che insorgono contro i vostri santissimi progetti per il rinnovamento spirtituale e sociale della nostra nazione, e soprattutto rimanete al vostro posto, lì dove il fato vi ha posto quando i tempi diventarono maturi.

Non è possibile che la gioventù di oggi, già da alcuni anni, si occupi solo di sigarette, coca, whiskey, caffetterie e discoteche, anziché sforzarsi di portare giovamento a se stessa e alla nostra società.

Petros e Maria Kalogheropoulou

Dyaleon 21 – Atene 11854»

Il nuovo Cristo e i vasi comunicanti

Ο Μιχάλης Αρβανίτης ομιλητής σε εκδήλωση της Χρυσής Αυγής

Michalis Arvanitis sul palco di Alba Dorata | Eurokinissi

L’unico libro sul caso Temboneras è stato scritto da un membro di…Alba Dorata: il parlamentare dell’Acaia Michalis Arvanitis, avvocato di Kalambokas per i primi diciotto mesi dopo l’omicidio e di Alekos Marangòs fino al giugno del 1991.

Con l’accattivante titolo «Chi uccise Nikos Temboneras», l’opera è stata pubblicata nel 2002 dalla casa editrice Pelasgòs di Ioannis Ghiannàkena (allora appartenente al Fronte Ellenico di Voridis e poi del LAOS), e costituisce un maldestro tentativo di discolpare il primo cliente dello scrittore, attribuendo le responsabilità dell’omicidio al secondo.

Il libro è stato presentato ufficialmente nel dodicesimo anniversario dell’omicidio (8/1/2003) da Makis Voridis e dai giornalisti Christos Pasalaris e Ghiannis Voùltepsis.

Quest’ultimo, responsabile dell’Ufficio Stampa di N.D. tra il 1984 e il 1993, adotta esplicitamente nelle sue memorie il punto di vista dell’«amico Arvanitis» come unica narrazione dei fatti degna di nota («Δέκα σκληρά χρόνια στη Νέα Δημοκρατία», Atene 2005, pag. 398-401).

Το βιβλίο του Μιχάλη Αρβανίτη για την δολοφονία Τεμπονέρα

Per quanti hanno seguito il caso attraverso i giornali, in particolare le accuse reciproche tra ex camerati durante il processo di secondo grado, il libro di Arvanitis non offre nulla di nuovo.

Con l’eccezione, forse, della rivelazione secondo cui l’autore fu sostituito – come avvocato di Kalambokas – da onorevoli parlamentari di N.D., perché lui aveva già assunto come collaboratore l’avvocato ateniese «nazionalista» K. P(levris?), che aveva «le capacità e le competenze per provvedere efficacemente alle necessità del caso».

Con quanto è venuto alla luce, il paragone di Kalambokas e Cristo (pag. 14) desta solo sorrisi ironici, così come l’insistenza dell’autore nel sostenere che la squadraccia dell’ONNED non voleva sgomberare la scuola, ma era uscita in strada per un semplice attacchinaggio ed era stata «intrappolata» lì dalla «folla infervorata» degli occupanti e dei loro sostenitori (pag. 37 – 47).

Va presa poco sul serio anche la tesi fondamentale secondo cui il caso non fu altro che una cospirazione per sabotare il potente Kalambokas, sabotaggio a cui partecipò l’intera «catena di individui» che «progettò, organizzò e realizzò non solo il delitto di quella sera, ma anche una serie di altri delitti contro la Giustizia, la Verità e la Dignità Umana, per scopi politici e allo stesso tempo per sfogare le loro malate passioni politiche» (pag. 39–40).

Tesi che, tra le altre cose, è in evidente contrasto con quanto sostiene oggi il partito di Michalis Arvanitis: provando a relativizzare i propri delitti, Alba Dorata in realtà ci ricorda sempre di più negli ultimi anni il vigliacco omicidio del professore di sinistra da parte delle «squadracce dell’ONNED».

Al contrario, l’opera nel suo complesso delinea “dal di dentro” la mentalità politica e ideologica che ha portato al delitto Temboneras e che aveva grande successo allora nello schieramento liberale, mentre ora è stata adottata da Alba Dorata.

L’avvocato di Kalambokas si straccia le vesti perché «gli ufficiali ellenici, ostaggi del passato dittatoriale che i partiti vogliono tenere vivo, non osano spaccare i denti ai politici dittatori», mentre «la compagnia di compagni trebbia le messi di qualsiasi campo si trovi davanti» (pag. 34).

Chiama la presidente dell’ELME la «compagna pesantona», il presidente del consiglio degli studenti ferito «piccola spia» (pag. 43), i testimoni dell’accusa «marmaglia» (pag. 58), ecc., e dichiara amaramente che «il magistrato non ha sicuramente dimostrato un coraggio da leone, quando sarebbe bastato un ruggito per sparpagliare quelle iene affamate, quella marmaglia di compagni» (pag. 110).

Mitsotakis viene definito «Pilato Cretese», poiché consegnò il nuovo Gesù alla «folla di Ebrei» (pag. 14), mentre i giudici vengono paragonati ai «sacerdoti ebrei, accecati dal fanatismo e dal dogmatismo» (pag. 13).

Nemmeno Temboneras si salva dagli strali dell’avvocato albadorato, che dice di lui: «un sedicente caporione, specializzato nella repressione violenta delle manifestazioni contro gli scioperi ».

Insomma, Kalambokas e la sua comitiva erano semplicemente andati a fare un attacchinaggio…

di Tassos Kostòpoulos (10/01/2016)

Fonte: efsyn.gr

Traduzione di AteneCalling.

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La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte