INFERNO A BEIRUT

Stanno susseguendosi ininterrottamente, da quando è avvenuta, informazioni contrastanti e incerte sull’esplosione che ieri ha devastato Beirut, sia per quanto riguarda la causa scatenante sia la natura del materiale che avrebbe provocato  quest’immane catastrofe. Pressoché tutti gli organi di stampa, sia locali sia internazionali, fanno riferimento a circa 2700/2750 tonnellate di nitrato di ammonio che sarebbero state sequestrate ad una nave nel 2013 e da allora sarebbero state stoccate, senza sicurezza, vicino al porto di Beirut. Tale informazione deriverebbe  dal sito di opensource intelligence Bellingcat, considerato come fonte attendibile:

Left: image claimed to show Ammonium Nitrate shipment at port of Beirut. Right: still from video of fire

https://www.bellingcat.com/news/mena/2020/08/04/what-just-blew-up-in-beirut/

Unica voce a sollevare dubbi sarebbe finora quella di Danilo Coppe, fra i più importanti esperti di esplosivistica in Italia, che, in un’intervista al Corriere della Sera, espone la sua tesi dell’esplosione di un deposito di armamenti:

https://www.corriere.it/esteri/20_agosto_05/beirut-esperto-esplosivi-la-nuvola-arancione-scoppi-ecco-perche-credo-ci-fossero-anche-armi-6da4a01e-d71b-11ea-93a6-dcb5dd8eef08.shtml?fbclid=IwAR3K-PRrr9vU7iWcStDtpcRkQ5pQ2FKsW6VFiue2C-oZrFgoi_2GDZ4OlcA

Sulle cause poi girano diverse ipotesi, anche da penne autorevoli, ma nessuna di queste finora  può essere definita per ora certa: né l’ipotesi di uno scoppio accidentale né quella di un attentato alla vigilia del pronunciamento del tribunale internazionale, dopo quindici anni di attesa e di depistaggi e sabotaggi, sull’assassinio del politico e imprenditore libanese Rafiq Hariri, avvenuto Il 14 febbraio 2005. Per questa strage (insieme all’ex premier rimasero uccise altre 21 persone) sono imputati quattro miliziani di Hezbollah rimasti latitanti dal giorno del rinvio a giudizio.Su queste tesi ha scritto un articolo Riccardo Cristiano:

https://formiche.net/2020/08/beirut-libano-11-settembre/?fbclid=IwAR2BmD0AsBIlHIitq53dgsy_pP-VgZgnRrTNK9ixOqPR3u__CC3lifTJhTc

Il presidente Trump pensa ad una bomba:

https://www.theguardian.com/world/video/2020/aug/05/donald-trump-claims-lebanon-explosion-looks-like-a-terrible-attack-video

Israele ed Hezbollah si accusano a vicenda:

https://www.huffingtonpost.it/entry/accuse-incrociate-di-sabotaggio-tra-israele-ed-hezbollah_it_5f2a53a0c5b68fbfc889696b

L’unica cosa certa finora è l’immensità di questa tragedia che ha colpito un popolo già duramente provato dalla pandemia, da una gravissima crisi economica e che ora rischia anche la carestia: l’esplosione ha distrutto i silos di grano che contenevano l’85% delle riserve di cereali del Libano (https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-lesplosione-ha-distrutto-i-silos-di-grano-li-cera-85-delle-riserve-di-cereali-del-libano/5890923/). Il giornalista italiano, Lorenzo Forlani, presente a Beirut, ha provato, con un suo articolo su Il Fatto Quotidiano, a raccontare la disperazione in cui è precipitata la popolazione di Beirut. Al netto delle ipotesi rimangono, infatti, una città sventrata, il numero dei morti che sale di ora in ora, così come quello dei feriti e degli sfollati e,soprattutto, il dolore dei corpi martoriati.

Qui l’articolo di Lorenzo Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-devastata-dallesplosione-visi-insanguinati-urla-e-strade-scomparse-la-disperazione-di-una-citta-senza-pace/5890370/?fbclid=IwAR0iNH2eknawxDnKbkK1KgGfP1PZwfcZmsDtYZ7-cjS_2sG6_Eun0nW11zw

A ciò si aggiunge l’emergenza sanitari negli ospedali – di cui alcuni distrutti o danneggiati dall’esplosione – che non riescono a contenere il gran numero di feriti, come si legge in quest’ altro articolo di Forlani:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/05/beirut-dopo-lesplosione-ora-e-emergenza-sanitaria-negli-ospedali-dimessi-anche-i-pazienti-gravi-e-in-molti-fanno-rotta-verso-tripoli/5891079/?fbclid=IwAR0nONifKKyvulG7inSs9ETm18wVRsh7yialtbsoNgohOxHHV_d9qM6ca4U

Beirut, ospedali al collasso dopo l’esplosione: feriti curati nei corridoi e nei parcheggi: “Una catastrofe”

D. Q. 

 

 

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IL LIBANO ERIGE UN MURO INTORNO A UN CAMPO PROFUGHI PALESTINESE

wallBeirut˗PIC. La scorsa settimana sono stati eretti i primi blocchi di un muro di “sicurezza” intorno al più grande campo profughi del Libano. È stato il primo passo verso la l’attuazione dei piani per la costruzione di cordoni di sicurezza e torri di vedetta intorno ad Ein al-Hilweh.

Il muro sarà completato nei prossimi 15 mesi, secondo un report del sito news al-Modon.

Per le migliaia di palestinesi che vivono nel sovraffollato campo di Ein al-Hilweh, situato a sud-est della città portuale di Sidon, la vita andrà di male in peggio a causa del muro.

I profughi palestinesi l’hanno soprannominato “muro della vergogna” e l’hanno comparato ai muri dell’apartheid israeliani nei territori palestinesi occupati.

Secondo le autorità libanesi le torri di vedetta consentiranno all’esercito di controllare meglio il campo, a causa delle dichiarazioni che circolano sui militanti che cercherebbero rifugio all’interno.

A ogni modo gli osservatori hanno comparato il muro a una prigione a cielo aperto nella quale i profughi palestinesi saranno confinati.

Il campo, che ricopre un’area di un chilometro quadrato, ospita oltre 80mila profughi palestinesi, recentemente raggiunti da migliaia di palestinesi sfollati fuggiti dalla guerra in Siria.

Traduzione di F.G.

© Agenzia stampa Infopal
“Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it”

http://www.infopal.it/libano-erige-un-muro-intorno-un-campo-profughi-palestinese/

SHIMON PERES, L’OMBRA DELLA STRAGE DI QANA

Pubblicato il:
28 settembre 2016
Elisa Bianchini

Morto l’ex premier israeliano: fu Nobel per la pace ma sul suo capo pesano anche gravi accuse per crimini commessi contro i palestinesi
Shimon Peres, ex presidente israeliano

La notte scorsa è morto Shimon Peres, colpito da un ictus alla veneranda età di 93 anni. L’ex presidente dello Stato di Israele è ricordato in tutto il mondo per il suo contributo agli accordi di pace in #Palestina, ragion per cui venne insignito dell’apposito premio Nobel. Ci sono altre testimonianze, però, che lo descrivono come uno dei più cruenti fautori di stragi e persecuzioni a carico del popolo palestinese. Il futuro presidente israeliano emigrò con la famiglia dalla Polonia in Palestina, insieme ai suoi genitori, nel 1932 quando aveva 9 anni. Nel 1947, a 24 anni, faceva parte dell’organizzazione Haganah, come responsabile per l’acquisizione di armi. Tale gruppo paramilitare è stato definito terroristico negli anni, perchè accusato di compiere atti violenti contro i palestinesi e di favorire l’immigrazione clandestina israeliana in Medio Oriente. La carriera militare di Peres è poi progredita ed egli ha occupato ruoli di primo piano nella gerarchia dele forze armate: lo ricordiamo come capo della marina israeliana, ruolo che gli permise di stringere rapporti strategici con gli Stati Uniti. Ma anche come responsabile del progetto per la costruzione della centrale nucleare di Dimona, attraverso cui permise ad Israele di acquisire armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa.

Il massacro di Qana

Con Ariel Sharon al capo del governo ebraico, Peres ebbe la possibilità di fermare con la violenza i tentativi indipendentisti palestinesi guidati da Yasser Arafat. Migliaia di persone, per lo più civili, trovarono la morte nella repressione della prima Intifada nel 1987. Inoltre Peres e Sharon favorirono la creazione, definita illegale dalle associazioni internazionali, delle colonie ebraiche su territorio palestinese, favorendo così l’acuirsi dei problemi fra le due popolazioni e l’apartheid palestinese. Uno dei casi più controversi che coinvolse il premio Nobel per la Pace fu il massacro di Qana, il 18 aprile 1996, durante il periodo della sua presidenza. Fu Peres infatti a lanciare l’operazione Grapes of Wrath contro la resistenza libanese, con lo scopo di distruggerla. Le bombe lanciate nella notte e l’intervento dell’artiglieria israeliana distrussero un palazzo di quattro piani e gli edifici circostanti. Più di 200 civili persero la vita, morte nel sonno o nei giorni successivi. Le immagini dei bambini estratti dalle macerie fecero il giro del mondo. Dopo la condanna internazionale dell’operazione, Peres parlò ufficialmente di errore, scusandosi per il dolore provocato. Un’indagine delle Nazioni Unite però dimostrò come i bombardamenti fossero premeditati da Israele, grazie a dei video girati poco prima dell’inizio delle aggressioni.

Fonte:

 

http://it.blastingnews.com/politica/2016/09/shimon-peres-l-ombra-della-strage-di-qana-001123021.html

Nell’area di Akkar gravi intimidazioni nei confronti dei profughi siriani

Da il manifesto

giovedì 14 luglio 2016

Proseguono le violenze contro i profughi siriani in Libano. Attivisti dell’associazione italiana “Operazione Colomba”, presenti nel nord-est del Paese dei Cedri, hanno riferito al <<manifesto>> che nella notte tra il 5 e il 6 luglio scorsi è stato dato alle fiamme in campo vicino al Mafra Arzla, nell’area di Miniara (Akkar), abitato da quattordici famiglie siriane originarie di Homs. L’incendio era stato preceduto da pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni giovani del campo da parte di libanesi del posto.

L’accaduto, piuttosto frequente, è la conseguenza diretta dell’atteggiamento del governo libanese che non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e, pertanto, non riconosce ufficialmente l’esistenza di campi profughi dell’Unhcr. Questo obbliga i rifugiati a dover pagare un affitto ai libanesi per poter rimanere sui terreni, nelle abitazioni o nei garage in cui vivono. <<Oltre agli interessi economici avvertiamo purtroppo un crescente sentimento di rifiuto dei profughi da parte delle popolazioni locali e delle forze maggioritarie nelle aree dove sono situati i campi – spiega Alex Zorba di “Operazione Colomba” – E’ un rifiuto trasversale che include tutti gli schieramenti politici e che rende più precaria la condizione di tante persone scappate dalla guerra e che molti libanesi vorrebbero rimandare subito indietro in Siria>>.

Di Michele Giorgio

Il calvario sessuale delle siriane in Libano

 La tragica condizione delle donne siriane rifugiate in Libano, vittime di abusi e violenze (domestiche e non)

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di Yeghia Tashjian – Nasawiya*

L’International Rescue Committee ha identificato tre sfide principali che le donne siriane rifugiate stanno affrontando in Libano: molestie e sfruttamento sessuale, l’aumento della violenza domestica (dando la sgradevole sensazione di non essere sicure a casa propria) e matrimoni forzati e precoci.

Le organizzazioni internazionali e locali stanno facendo del loro meglio per superare queste situazioni, ma c’è ancora molto da fare. Le siriane in Libano rischiano di essere molestate ogni giorno, quando vanno a comprare il pane, quando passeggiano per strada, quando vanno a scuola e persino quando vanno nei bagni dei campi profughi. Sembrerebbe che il sovraffollamento dei campi e la mancanza di privacy per le donne (che non hanno accesso a bagni e docce separati) siano alcune delle ragioni di questa situazione.

Molestie e sfruttamento sessuale

Secondo Hiba Habbani, project coordinator della Ong per i diritti delle donne Kafa, molte rifugiate siriane subiscono molestie anche quando tentano di accedere a servizi sociali. Ad esempio le donne che vengono percepite come di bell’aspetto ricevono trattamenti privilegiati nella fila per gli aiuti umanitari, a condizione di prestare determinati favori a chi di dovere.

Anche l’accesso ai servizi medico-sanitari è utilizzato come mezzo di sfruttamento. Secondo Lama Naja, Emergency Response Program Manager nella Ong Abaad, le molestie sessuali vengono compiute da parenti, da altri residenti nel campo e da persone esterne (sia libanesi che siriane). Il Libano ha, fino a un certo punto, leggi abbastanza moderne in materia di violenza domestica (soprattutto se paragonato ad altri paesi dell’Area), ma continua a trattare questi uomini e queste donne in modo ingiusto; ben pochi rifugiati siriani e siro-palestinesi sono in grado di accedere al sistema giudiziario per far valere i propri diritti quando vengono maltrattati.

Violenze domestiche

La ragione principale della violenza domestica non è la rabbia, ma una profonda struttura di potere che favorisce la mascolinità. Molti rifugiati siriani provengono da zone rurali dove la società è tendenzialmente patriarcale. È importante sottolineare che più volte le ragazze hanno dichiarato di aver subito violenza dal padre o dai fratelli maggiori. Questo le spinge a scappare dai campi profughi, esponendosi a rischi addirittura peggiori.

Matrimoni forzati

Nell’area i matrimoni precoci sono una tradizione consolidata, ma diverse associazioni hanno dichiarato di aver registrato un significativo aumento di questa pratica all’interno dei campi profughi siriani in Libano. Maria Semaan, program coordinator del Child Protection Program della Ong Kafa, ha identificato in alcune tradizioni religiose e culturali. “I matrimoni precoci hanno a che fare con la cultura”, ha detto Semaan. “Tutte le religioni qui presenti sembrano permetterli, il che ha reso la pratica perlomeno culturalmente accettata. Ed è, allo stesso tempo, considerata un modo per impedire rapporti sessuali prematrimoniali”.

Ma in questo caso specifico, sostiene Semaan, è il fattore economico a giocare un ruolo molto importante. Le famiglie giustificano le loro azioni dicendo di dover organizzare questi matrimoni per proteggere le loro figlie o per alleggerire le proprie difficoltà economiche; ma in realtà, invece di proteggere le ragazze, le conducono dritte verso l’inferno della violenza domestica. Secondo alcune Ong, molte famiglie siriane stanno usando le proprie figlie come merce di scambio per avere cibo, case in affitto, favori e beni di altro tipo.

L’instabilità economica rende le donne anche vulnerabili allo sfruttamento sessuale e all’abuso degli operatori umanitari, alla prostituzione forzata e alla tratta di esseri umani. “Le famiglie sono disperate e finiscono con l’essere disposte a fare tutto ciò che è necessario per sopravvivere”, ha dichiarato un operatore in un campo libanese che ha chiesto di rimanere anonimo. “Donne e ragazze accettano di sostenere un matrimonio temporaneo in cambio di soldi o di aiuti per ottenere visti e permessi vari”.

Secondo uno studio condotto dalla S. Joseph University, il 24 percento delle ragazze siriane rifugiate in Libano si sposano prima di raggiungere i 18 anni di età. I genitori, ridotti alla fame, non vedono alternative se non quella di trovare dei mariti per le loro figlie. Ma prendere delle scelte del genere sottopone le ragazze a seri pericoli per la salute, oltre al fatto che in questo modo non possono avere alcuna istruzione né opportunità professionale.

Hurriyah, una 12enne di Idlib fuggita 3 anni fa insieme alla famiglia, frequentava la scuola. In Libano un ragazzo di 17 ha iniziato a seguirla e a molestarla. Preoccupato dai conseguenti pettegolezzi sulla figlia, il padre ha deciso di organizzare per lei un matrimonio con uomo adulto per “proteggerla”. Un altro caso di matrimonio forzato è quello di Nour, una ragazza siriana di 13 anni costretta a sposare un uomo di 27 anni. I suoi genitori hanno detto all’Unicef che i due non si erano mai incontrati prima del matrimonio e che sono stati costretti a organizzare la cosa per motivi puramente economici, dato che il padre non era più in grado di prendersi cura di lei.

La Reuters ha mostrato che ci sono circa 500mila bambini siriani in Libano. Di questi soltanto un quinto è iscritto a scuola. Nonostante il ministro dell’Istruzione libanese abbia annunciato una campagna di scolarizzazione che avrebbe fornito educazione gratuita per circa 200mila bambini siriani, molti di loro sono ancora sparsi nella Capitale e preferiscono elemosinare per strada e aiutare le proprie famiglie piuttosto che andare a scuola.

Il governo libanese, con la cooperazione di Ong locali ed internazionali, può certamente adottare delle misure per superare queste crisi. Innanzitutto dovrebbe aumentare il numero di spazi sicuri per donne e ragazze all’interno dei campi. Le Ong dovrebbero poi fornire dei corsi, rivolti a uomini e donne, in cui vengono annunciati i diritti garantiti dalla legge (anche nei villaggi lungo il confine, dove sono concentrati molti rifugiati). Sarebbe necessario inoltre costruire centri clinici e sportelli per chi ha subito molestie sessuali, in modo da monitorare l’incidenza della violenza sessuale nei campi. È infine fondamentale che ci sia cooperazione tra il Ministero dell’Interno e quello degli Affari Sociali, in modo che entrambi possano adottare meccanismi legali per proteggere le donne che subiscono attacchi fisici o violenze dai propri famigliari.


Yeghia Tashjian è laureato in Scienze Politiche presso l’Università Haigazian di Beirut, in Libano. È un attivista politico, ricercatore e blogger armeno-libanese nonché fondatore del blog “New Eastern Politics”. È portavoce regionale del think tank Women in war e ricercatore dell’Armenian Diaspora Research Center dell’Università Haigazian. Potete seguirlo su Twitter: @yeghig

 

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/07/calvario-sessuale-rifugiate-donne-siriane-libano/

Parigi, il terrore e i puntini che il mondo non vuole unire

Nella notte di venerdì 13 novembre Parigi è stata nuovamente colpita da tremendi attacchi terroristici rivendicati dall’Isis.

Qui la notizia su Internazionale:

Parigi, il 14 novembre 2015. (Xavier Laine, Getty Images)
  • 14 Nov 2015 20.36

Il punto sugli attentati di Parigi

Almeno 129persone sono morte venerdì 13 novembre a Parigi in una serie di attentati nel centro della città e vicino allo stade de France. I feriti sono 352, di cui 99 in condizioni molto gravi. Gli attacchi, secondo il procuratore di Parigi, sono stati compiuti da tre squadre di attentatori che hanno agito in maniera coordinata, tutti erano dotati di armi da guerra dello stesso tipo e di cinture esplosive. Sette attentatori sono morti negli attacchi.

Ecco la cronologia degli attentati:

  • 21.15 Un gruppo di uomini armati attacca due ristoranti: Le Carillon, in rue Alibert, e Le Petit Cambodge, in rue Bichat. Gli uomini, a bordo di un’automobile, aprono il fuoco contro i passanti e le persone sedute ai tavoli.
  • 21.23 Tre esplosioni vengono avvertite nel giro di pochi minuti vicino allo stade de France, dove è in corso la partita tra Francia e Germania. Le esplosioni causano quattro morti, tra cui i due attentatori che si sono fatti esplodere. I terroristi, secondo il procuratore di Parigi, hanno usato come esplosivo del perossido di acetone( Tatp).
  • 21.30 Quattro uomini armati entrano nella sala da concerto Bataclan, dove si tiene lo spettacolo del gruppo statunitense Eagles of Death Metal, e aprono il fuoco contro la folla. Muoiono almeno 89 persone. Diversi spettatori vengono presi in ostaggio.
  • 21.45 Gli assalitori del Bataclan, o altri assalitori, aprono il fuoco nei pressi del McDonald’s in rue Fabourg-du-Temple e in rue de la Fontaine-au-Roi, nei pressi della pizzeria Casa nostra, causando cinque morti e otto feriti gravi.
  • 21.55 All’incrocio tra rue Faidherbe e rue de Charonne un uomo spara contro la terrazza del caffè La Belle Equipe. Muoiono 19 persone e 14 restano gravemente ferite.
  • 21.55 Un kamikaze si fa esplodere di fronte al McDonald’s di Plaine Saint-Denis.
  • 00.25 Le forze speciali francesi fanno irruzione al Bataclan. Un terrorista viene ucciso, altri tre si fanno saltare in aria l’esplosivo che indossavano sulle cinture.

Dopo gli attentati il presidente francese François Hollande ha dichiarato lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale e ha annunciato il ripristino dei controlli alle frontiere. Sono state sospese le manifestazioni sportive. Chiusi i musei e il parco di divertimenti Disneyland.

Sabato 14 novembre il gruppo Stato islamicoha rivendicato gli attacchi , con un comunicato pubblicato online che definiva Parigi “capitale dell’abominio e della perversione”. In una conferenza stampa, anche Hollande aveva attribuito allo Stato islamico la responsabilità degli attentati, definendoli “un atto di guerra”.

Il 14 novembre la polizia belga ha organizzato un blitz nel quartiere di Molenbeek, a Bruxelles. Sono state arrestate almeno cinque persone.Il procuratore di Parigi ha confermato che gli arresti sono legati agli attentati della capitale francese. La procura belga ha aperto un’inchiesta per terrorismo.

Un passaporto siriano e uno egiziano sono stati trovati vicino ai corpi dei due attentatori allo stade de France, ma le autorità non hanno ancora confermato l’identità dei due aggressori. Uno dei veicoli usati dai terroristi era stato immatricolato in Belgio e apparteneva a un cittadino francese residente in Belgio.

Uno dei terroristi dell’attacco al Bataclan, ha scritto Libération, era un francese di circa trent’anni originario di Courcouronnes, nell’Essonne. Era già noto alle forze dell’ordine per i suoi legami con il jihadismo. L’altro era siriano.

Le autorità tedesche sono convinte che un uomo arrestato in Bavaria all’inizio del mese, mentre era a bordo di un’automobile carica di esplosivi, sia legato agli attacchi di Parigi.

Il premier britannico David Cameron ha dichiarato che tra le vittime potrebbero esserci cittadini del Regno Unito. Tra i morti finora accertati ci sono anche cittadini romeni, tunisini, belgi, svedesi e una statunitense. Secondo la Cnn ci sarebbe anche una cittadina statunitense tra le vittime.

Due italiani sono rimasti lievemente feriti. Una ragazza veneta di 28 anni risulta ancora dispersa.

 

Fonte: http://www.internazionale.it/notizie/2015/11/14/il-punto-sugli-attentati-di-parigi

 

Qui l’aggiornamento dell’Ansa con la notizia della morte della studentessa italiana dispersa:

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2015/11/13/tre-sparatorie-a-parigi-vittime_1a91057f-5905-49e3-8d4a-592668bf11cc.html

 

Non si è fatta aspettare l’ondata vergognosa di islamofobia da parte di alcuni quotidiani.

Prima Pagina Il Giornale

Prima Pagina Libero

Tutti al gridare al terrorismo islamico ( anche in modo offensivo: il caso più eclatante è, come abbiamo visto, quello della prima pagina di ieri del quotidiano di Belpietro, anche se gli altri non scherzano) forse perchè è più comodo pensare che sia tutto solo fanatismo religioso. Nessuno che allargi lo sguardo sul mondo per cercare di capire cosa sta succedendo. Io sono convinta che per capire veramente cosa è accaduto a Parigi bisogna comprendere  quello che sta accadendo in Medioriente. E’ un caso che questi attentati siano stati compiuti nella Francia che ha aperto un’inchiesta per  crimini di guerra contro Assad ( fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/francia-inchiesta-contro-assad_2135957-201502a.shtml )? E’ un caso che, nei giorni predenti, Putin abbia iniziato a bombardare la Siria, col pretesto della lotta all’Isis, uccidendo civili e colpendo anche un villaggio con bombe al fosforo bianco (qui il video dell’attacco russo col fosforo bianco: https://www.facebook.com/albertosavioli1972/posts/10207747605229222?pnref=story )? E’ un caso che questa strage sia avvenuta mentre in Palestina si parla di terza intifada e i soldati israeliani uccidono i palestinesi fingendo di esserne aggrediti (leggere, a esempio, le notizie del sito Infopal ) e mentre l’esercito turco bombarda il popolo curdo (leggi qui: http://www.retekurdistan.it/2015/11/assemblea-politica-basta-alle-politiche-di-oppressione-e-di-terrore-sul-popolo-curdo/ )? E’ un caso anche che gli ultimi attentati di Parigi siano accaduti all’indomani del più grave attentato da parte dell’Isis in Libano e esattamente un anno dopo la conquista da parte sempre dell’Isis di Ramadi e Mosul in Iraq? ( fonte: http://arabpress.eu/libano-in-lutto-per-le-vittime-del-duplice-attentato-suicida-a-beirut/70470/ ).
A fare le spese di tutto ciò sono sempre i popoli tutti e le persone di fede musulmana ancora una volta strumentalizzate. Eppure basterebbe unire i puntini per farsi almeno venire il dubbio che il sedicente Stato Islamico sia solo un pretesto – creato dai potenti del mondo e camuffato da organizzazione terroristica di matrice islamista (molti di questi terroristi si scopre ogni volta essere in realtà di origine occidentale) –  per distogliere la già scarsa attenzione dall’occupazione israeliana in Palestina, dalla dittatura di Assad in Siria, da quella di Putin in Russia, da quella di Erdogan in Turchia e contro i curdi e da tutto ciò che succede nel resto del Medioriente. E anche nel resto del mondo come accade con tutte le paure indotte dai potenti.

D. Q.

BARILI-BOMBA E OPPRESSIONE. DA COSA SCAPPANO I SIRIANI

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(di Amr Salahi, per Middle East Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). La scorsa settimana foto e video di rifugiati siriani disperati che giungono in Europa – o muoiono nel tentativo di farlo – sono stati tra le notizie di apertura dei media di tutto il mondo, ma ben poca enfasi è stata data alle cause della crisi e le voci dei rifugiati sono rimaste ampiamente inascoltate. La copertura mediatica è stata incline a ritrarre la crisi come una catastrofe naturale o a esagerare il ruolo che Daesh, altrimenti detta Stato islamico (Is), avrebbe svolto nel crearla.

Il conflitto in Siria viene ritratto sempre di più come un conflitto tra il regime del presidente Bashar al Asad e Daesh, con il primo dipinto come il minore tra i due mali. Le organizzazioni della società civile che ancora lavorano sul terreno – allo scoperto nelle zone controllate dalle forze dell’opposizione moderata, di nascosto in quelle controllate dal regime di Asad e da Daesh – sono ampiamente ignorate dai media e le voci dei rifugiati non sono ascoltate.

Uqba Fayyad, giornalista siriano della città di Qusair, nella provincia di Homs, dice che è stato costretto a fuggire dalla sua città-natale nel marzo 2013, appena prima che venisse invasa dalle forze del regime siriano e dai loro alleati di Hezbollah. Racconta che nel mese precedente alla caduta nelle mani del regime, centinaia di persone in questa città di 5.000 abitanti sono state uccise dagli attacchi aerei e via terra da parte del regime. Attacchi che includevano “barili-bomba, bombe a grappolo e napalm” e – racconta –  “poco prima che prendessero d’assalto la città, hanno usato bombe a vuoto in grado di risucchiare l’ossigeno di qualunque edificio, riducendolo in polvere nel giro di secondi”. Non ha avuto altra scelta che quella di fuggire.

“Per tre giorni – continua – abbiamo viaggiato attraverso i boschi senza cibo né acqua, portando sulle spalle i feriti, mentre le loro piaghe si infettavano. Siamo riusciti a raggiungere le città [controllate dall’opposizione] nella zona del Qalamun”. Tuttavia, non sono stati accolti con benevolenza: gli abitanti avevano visto la brutalità dell’assalto a Qusair e temevano che se avessero accolto gli sfollati, un destino simile sarebbe toccato anche a loro. Sono scoppiati scontri e Uqba e gli altri sono fuggiti ancora una volta, verso Arsal in Libano, dove sono stati soggetti a regole molto dure da parte delle autorità locali, incluso un coprifuoco dalle ore 18.00 in poi. Alla fine è riuscito a contattare il consolato svedese in Libano e ha ottenuto asilo in Svezia.

I siriani non scappano, però, solo dai bombardamenti del regime nelle zone controllate dall’opposizione. A volte, quando una zona viene catturata dalle forze di opposizione, alcuni abitanti fuggono in aree ancora sotto il controllo del regime. Di solito temono ciò che il regime potrebbe fare alle aree controllate dai ribelli, tra cui bombardamenti simili a quelli descritti da Uqba oppure – in zone circondate da territorio controllato dal regime – assedi prolungati che conducono alla morte per fame degli abitanti.

Muhammad Manla è un attivista siriano dell’opposizione rifugiato in Germania da quasi tre anni. È fuggito dal quartiere Salah ad Din di Aleppo quando è stato sottratto ai ribelli da parte delle forze del regime siriano nel luglio 2012, ed è arrivato nella parte occidentale di Aleppo, rimasta nella mani del regime. Salah ad Din è diventato poi uno dei luoghi più pericolosi del mondo quando il regime siriano l’ha colpito coi barili-bomba, insieme ad altri quartieri di Aleppo sotto il controllo dei ribelli.

Eppure, anziché trovare la sicurezza nel territorio del regime, ogni volta che Muhammad usciva, veniva fermato ai checkpoint e minacciato da soldati del regime e da agenti che lo accusavano di essere legato ai ribelli, solo perché sulla sua carta d’identità c’era scritto che era di un quartiere controllato dall’opposizione. Due mesi dopo è fuggito ancora una volta, in Egitto, e da lì in Germania.

A questi checkpoint e negli uffici governativi, la gente viene spesso rapita o arrestata in modo arbitrario. Un altro rifugiato della provincia nord di Aleppo controllata dall’opposizione – che preferisce restare anonimo – ha detto che suo padre, un uomo di 70 anni, è stato arrestato quando è andato a ritirare la pensione in un ufficio governativo nella parte occidentale di Aleppo. Accusato di essere un membro di Jabhat al Nusra, è stato tenuto in una cella di 2 metri per 1 metro e mezzo con altri sei prigionieri e picchiato. È stato rilasciato solo perché un amico di famiglia aveva contatti nei servizi di sicurezza.

Il fratello di Muhammad, studente all’università di Aleppo, lo ha raggiunto in Germania di recente dopo aver lasciato la Siria. Una legge approvata da poco ha reso obbligatorio per tutti gli studenti che si stanno laureando di unirsi all’esercito. La possibilità di coscrizione nelle file dell’esercito del regime siriano è un fattore importante che spinge i giovani uomini a lasciare il Paese. Si trovano a tutti gli effetti davanti alla scelta di combattere e forse morire per un regime cui molti di loro si oppongono, oppure intraprendere un pericoloso viaggio all’estero.

Muhammad è chiaro su quella che ritiene essere la soluzione al conflitto: “Una no-fly zone rafforzerebbe di nuovo la rivoluzione. Scuole e università potrebbero venire aperte in zone controllate dall’opposizione, cosa che impedirebbe ai giovani di venire influenzati dall’ideologia dittatoriale del regime e da quella estremista di Daesh. Permetterebbe anche ai ribelli di organizzarsi per combattere Daesh e il regime”.

Mentre le proposte di una no-fly zone suscitano polemiche negli Stati Uniti e in Europa, con molti politici che temono il coinvolgimento in una guerra in Medio Oriente, tra i siriani l’idea è accettata a un livello molto più ampio. La richiesta è stata ufficialmente avallata da Planet Syria, un gruppo di coordinamento composto da oltre 100 organizzazioni della società civile siriana, e dai Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione civile che lavora soprattutto nel salvataggio dei sopravvissuti agli attacchi coi barili-bomba del regime.

Il governo siriano ha il monopolio totale della forza aerea nel conflitto siriano. Gli attacchi aerei hanno causato oltre il 40% delle morti tra i civili verificate dal Centro per la documentazione delle violazioni (Vdc), organizzazione siriana che monitora il numero di civili morti e gli abusi dei diritti umani. L’arma aerea più comunemente usata è il barile-bomba. I barili-bomba sono mortali, indiscriminati e incessanti. Ne sono stati sganciati oltre 11 mila dall’inizio del 2015 e attivisti siriani mettono l’accento sul fatto che da allora il regime ha ucciso 7 volte più civili di quanti ne abbia uccisi Daesh. Pur trattandosi di un’arma molto semplice – barili di greggio senza guida riempiti di esplosivo e scarti metallici – sono comunque mortali, indiscriminati e incessanti.

Mentre gli analisti occidentali continuano a dare la propria interpretazione delle cause della crisi dei rifugiati siriani, con alcuni di loro che addossano la colpa all’estremismo di Daesh e altri che lanciano moniti sui pericoli di un intervento, un’immagine del tutto diversa della crisi emerge dalle storie dei rifugiati e dai dati raccolti da organizzazioni siriane che lavorano sul terreno. I responsabili delle politiche occidentali farebbero bene ad ascoltare ciò che i siriani raccontano su quanto sta accadendo nel loro Paese e sul perché lo stanno lasciando. (Middle East Monitor, 13 settembre 2015)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/barili-bomba-e-oppressione-le-radici-della-crisi-dei-rifugiati-siriani.html

Da Tripoli a Malmoe in 16 giorni e per 5mila euro

TOPSHOTS Migrants arrive on the shore of Kos island on a small dinghy on August 19, 2015. Authorities on the island of Kos have been so overwhelmed that the government sent a ferry to serve as a temporary centre to issue travel documents to Syrian refugees -- among some 7,000 migrants stranded on the island of about 30,000 people. The UN refugee agency said in the last week alone, 20,843 migrants -- virtually all of them fleeing war and persecution in Syria, Afghanistan and Iraq -- arrived in Greece, which has seen around 160,000 migrants land on its shores since January, according to the UN refugee agency.  AFP PHOTO / ANGELOS TZORTZINISANGELOS TZORTZINIS/AFP/Getty Images ORG XMIT:

(di Lorenzo Trombetta, ANSA). Dalle coste libanesi alla Svezia in 16 giorni e per un costo di circa 5mila euro: Ahmad N., siriano in fuga dalla guerra nel suo Paese, ha trovato lavoro dopo pochi giorni dal suo arrivo rocambolesco nei sobborghi della cittadina svedese di Malmo. E ai parenti e amici rimasti oltremare ha inviato dal suo telefonino foto e racconti di un inaspettato “successo” in terra straniera.

Da un’altra terra straniera, il Libano, Ahmad è scappato a metà agosto con uno dei figli. Oltre alla moglie e ad altri due figli, il 33enne manovale siriano ha lasciato dietro di sé una tenda di plastica e cartone dove da due anni era stato costretto a sopravvivere dopo la sua fuga disperata da Homs.

Un tempo terza città siriana e principale polo industriale del Paese, Homs dal 2012 è stata devastata dalla repressione governativa delle manifestazioni popolari che un anno prima erano scoppiate inedite in varie città siriane.

Il conflitto che ne è seguito è costato la vita, secondo stime Onu, a oltre 220mila persone e ha causato l’esodo di milioni di siriani.

Il vaso dei Paesi confinanti che hanno dovuto subire l’afflusso massiccio di profughi è ormai debordato e sta invadendo il Mediterraneo e l’Europa.

“Il viaggio inizia a Beirut”, racconta all’ANSA Nidal, parente di Ahmad, ancora in attesa di partire dal nord del Libano. “Ci si ritrova di notte per andare con i mezzi pubblici fino a Tripoli”, continua Nidal riferendosi al principale porto nel nord del Paese. Da qui inizia l’avventura per mare. “All’inizio – prosegue Nidal – su ogni barca c’erano 20-25 passeggeri. Nelle ultime settimane, visto che l’affare funziona e le richieste si sono moltiplicate le barche partono anche con 125 persone a bordo”.

In Libano, paese grande quanto l’Abruzzo e con una popolazione di meno di quattro milioni di abitanti, ci sono più di un milione di siriani. I politici al governo a Beirut, direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto siriano, hanno per anni fatto finta di non vedere il problema.

Le inevitabili ripercussioni sul delicato equilibrio libanese si sono fatte sentire. E nei mesi scorsi Beirut ha introdotto delle norme draconiane per limitare l’afflusso e la presenza dei siriani in Libano.

Solo ad agosto, centinaia di famiglie di profughi accampate sul litorale vicino Tripoli sono state sgomberate con la forza dai militari libanesi. Molte famiglie, con donne e bambini anche molto piccoli, hanno dormito per settimane all’addiaccio, altre si sono spostate in montagna ma sempre in condizioni disperate.

“Non ci vogliono in Libano. In Siria non possiamo tornare, prenderemo la via del mare”, avevano detto alcuni di loro lo scorso luglio. “La prima tratta in nave, fino a Mersin, in Turchia, dura venti ore”, riprende Ahmad mentre consulta il gruppo creato su WhatsApp di amici e parenti in attesa di partire.

“Per arrivare fino in Svezia ci vogliono 5.300 euro e 16 giorni. Si passa per l’isola di Samo, poi Atene, la Macedonia, Belgrado, l’Ungheria. Quindi Austria e Germania e c’è chi continua fino alla Svezia”.

Ahmad dice che voleva partire, ma anche che non aveva soldi. “Mi hanno offerto di guidare la barca. Lo scafista non sale a bordo, indica la rotta e ti dice di andar sempre dritto, indicando col dito un punto nell’orizzonte dove dovrebbe esserci la costa turca”.

Il cellulare di Ahmad lo avverte di nuovi messaggi da oltremare. “Mi raccontano di attese interminabili su isole greche, attorno a una chiesa. Di barche ferme per ore in mezzo al mare perchè è finita la benzina”.

Ma anche di “sentieri nel bosco in Serbia”, c’è “chi si perde e torna mille volte al punto di partenza” e chiama ridendo gli amici: “pazienza, domani riuscirò a passare il confine!”. (ANSA, 9 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/da-tripoli-a-malmoe-in-16-giorni-e-per-5mila-euro.html

IL LIBANO SCENDE IN PIAZZA. CHE SUCCEDE NEL PAESE DEI CEDRI?

La fine del mese di agosto ha visto l’accendersi di un forte movimento di protesta in Libano. In migliaia sono scesi in piazza a Beirut per protestare contro il mancato intervento delle autorità nello smaltimento dei rifiuti, allo stesso tempo contestando anche la corruzione e l’immobilità della classe politica del paese. Di seguito l’intervista ad Elia El Khazen, 29 anni, attivista del “Socialist Forum” di Beirut.

 

Quali sono i motivi che hanno portato recentemente tante persone a manifestare a Beirut? Come è nata la protesta che scoppiata nella capitale del Libano? Quali gli slogan ed i claims di chi è sceso in strada a far sentire la sua voce?

Dalla fine del mese di luglio, si stanno verificando proteste in Libano contro il fallimento del governo, per concordare un nuovo contratto per lo smaltimento dei rifiuti e il conseguente accumulo di rifiuti per strada . Alcune di queste proteste hanno avuto luogo spontaneamente nei quartieri più poveri, dove a partire dal 1998, il governo ha designato che la spazzatura di Beirut e del Monte Libano fosse destinata in una discarica a sud di Beirut (Naameh), e alcune proteste sono state organizzate dagli attivisti dei social media utilizzando l’hashtag ‘YouStink’ – “Puzzate”. Le manifestazioni hanno raggiunto uno dei punti più alti della storia contemporanea nella giornata di sabato 29 agosto, con decine di migliaia di persone – alcune stime dicono fino a 100.000 – convergenti per protestare contro entrambi i poli della classe dirigente. Il 29 agosto si è anche contestata, tra le altre cose, la violenza di stato che si è verificata in un modo senza precedenti nella manifestazione del 22 agosto e nelle altre proteste seguenti. Le richieste dei manifestanti variano tra il comunicato ufficiale degli organizzatori del movimento “YouStink” che chiedono un programma riformista esigendo impegni di responsabilità sul tema della repressione di stato e reclamando le dimissioni sia del ministro dell’ambiente e della sicurezza interna; inoltre viene richiesto il decentramento del riciclaggio dei rifiuti da parte del comune di Beirut e la richiesta di elezioni parlamentari. Le richieste delle parti della società più radicali e rivoluzionarie fanno leva lotte di carattere sociale per abbattare il regime nel suo complesso, richiamandosi all’idea della costituzione di comitati popolari ovunque per rovesciare l’attuale regime settario. Questi movimenti più radicali chiedono anche la creazione di una società laica e statale, lo scioglimento del parlamento, elezioni immediate sulla base di una non settaria proporzionale rappresentanza.

 

Qual è stato il livello di repressione di questa protesta da parte delle forze dell’ordine?

Il 22 agosto, la polizia antisommossa ed i soldati hanno usato i manganelli, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e anche proiettili veri contro migliaia di manifestanti che si erano riuniti nel centro di Beirut. La retorica che ha preceduto questa oppressione da parte dello Stato era quella avviata dagli organizzatori di “YouStink”, i quali all’inizio delle proteste avevano etichettato una considerevole porzione di altri manifestanti come “infiltrati” e “provocatori”: questo ha dato carta bianca a qualsiasi repressione che sarebbe seguita. Fortunatamente la maggior parte dei manifestanti ha riggettato l’etichetta di “infiltrati” e contrapposto il tentativo di dividere il movimento tra quello di un “pacifico” corteo della società civile in piazza Martyr e quello degli “infiltrati violenti” nella piazza Riad el Solh, gridando slogan come “siamo TUTTI infiltrati, non abbiamo bisogno di attivisti benpensanti per etichettarci “- indossando queste parole sulle magliette e dipingendole sui muri. Per quanto riguarda i numeri della repressione, più di 24 persone sono ancora detenute, 7 dei quali sono minorenni…

 

Il Libano è situate nel cuore del medio – oriente, confinante con la Siria ed Israele. Qual è stata l’influenza della crisi Siriana? Quali i rapporti con Israele oggi?

Libano è stata enormemente influenzata dai suoi vicini ed è a sua volta restituito il favore. In primo luogo, Israele ha invaso il Libano innumerevoli volte da quando quest’ultimo ha proclamato l’indipendenza, creando pretesti per invasioni vuoti e senza senso, commettendo genocidi e bombardando molti villaggi e città, distruggendo le infrastrutture ed uccidendo i civili. L’aggressione di Israele del 2006 è stato uno degli ultimi esempi di continue violazioni di Israele che ha interessato gran parte delle infrastrutture e la capacità di stare in piedi sulle proprie gambe del Libano, questo senza togliere la presenza nel paese di una classe politica corrotta, nei suoi due poli, che ha governato Libano dalla fine della guerra civile. Due poli politici che hanno fallito miseramente nel fornire il più fondamentali dei servizi alle persone che risiedono in Libano, al contrario entrambi i poli hanno presieduto la continuazione delle politiche neoliberiste e la protezione perpetua del settore bancario che detiene oltre il 60 % del debito pubblico. Per quanto riguarda il regime siriano, è stato intrinsecamente legato alla classe dirigente libanese sin dalla sua occupazione del Libano nel 1976. Con l’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, Hezbollah è stato coinvolto nel salvataggio del regime siriano al fine di evitare che collassasse completamente. Dal 2012 questo a sua volta ha polarizzato la scena politica in Libano e fatto si da mettere la difesa del regime come unica ragion d’essere di Hezbollah, politica perseguita dalla sconfitta contro Israele nel 2006. Con l’escalation delle politiche neoliberiste negli ultimi anni attraverso le privatizzazioni ed i tagli sulle prestazioni dei lavoratori, molte sezioni della popolazione libanese usate per supportare Hezbollah stanno mettendo in discussione la loro fedeltà e riconsiderano se vale ancora la pena e se è ancora una priorità che i loro figli della classe operaia sono inviati a morire in Siria inutilmente mentre la loro classe dirigente sta al caldo nelle loro case, mentre la popolazione ha una molto limitata accesso ad acqua, elettricità e altri servizi di base. Il 29 agosto la manifestazione ha visto il più grande afflusso di settori della classe operaia che soffrono di più dalla crisi gestione dei rifiuti e altre crisi da entrambi i sobborghi di Beirut e nelle aree rurali con organizzazioni locali alle loro prime fasi. Nella parte Siriana i profughi sono quelli che stanno scoprendo il più il peso della crisi della gestione dei rifiuti e altre crisi socio-economiche, ma sono purtroppo esclusi da qualsiasi protesta o manifestazione per i loro diritti più elementari, dato che lo stato libanese ha fatto si da negare loro sia fisicamente che ideologicamente ogni possibilità di organizzazione collettiva o di sindacalizzazione.

 

Cos’è il Forum Socialista? Quali le sue prospettive politiche?

Il Forum Socialista è un’organizzazione socialista rivoluzionaria in Libano. E’ emerso tra i due gruppi di sinistra radicale nel 2010. Ma ciascuno di questi gruppi ha una storia: uno di loro è iniziato nel 2000 e l’altra nel 1970. Fondamentalmente nel Forum Socialista abbiamo due pubblicazioni. Uno di loro è un quotidiano una piattaforma online quotidiana di nome “Al-Man –Hour”. L’altro è una rivista periodica araba che viene pubblicata due volte l’anno come un libro, prodotta da gruppi proveniente da Egitto, Siria, Tunisia, Marocco e Iraq. Il suo nome è “Thawra Daima” e si traduce in “Rivoluzione permanente”, un motto trozkista. I nostri gruppi hanno tenuto posizioni di sostegno alle rivolte arabe e le rivolte in tutto il mondo. Vediamo che la situazione attuale richiede una posizione che faccia da bussola nella realtà sulla questione della resistenza al capitalismo e la resistenza contro la dittatura, insieme con e per la democrazia progressista. Il forum Socialista è anche un ente fondatore del “Shaab Al youreed”, movimento formato in seguito alla protesta del 22 agosto scorso prima citata. Questo movimento raggruppa studenti, femministe radicali, attivisti di sinistra ed indipendenti sotto la bandiera di un movimento e si propone di elevare la discussione politica a una visione più strutturale della crisi in corso, facendo un collegamento di altre lotte tra loro. La nostra strategia è quella di andare verso la formazione di un partito politico, un partito rivoluzionario in Libano.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/il-libano-scende-in-piazza-che-succede-nel-paese-dei-cedri