Genova 2001, 47 euro di sanzione per le menzogne sulla scuola Diaz

Venerdì 08 Luglio 2016 11:36

47 euro e 57 centesimi, ossia il corrispettivo di una giornata di lavoro: è questa la ridicola sanzione inflitta a Massimo Nucera, assistente capo di polizia che nel 2001 si trovava a Genova durante il G8, all’epoca nelle funzioni di semplice agente.

La vicenda che vede coinvolto Nucera restituisce senza dubbio solo una piccola parte dell’insieme di abusi e violenze commessi dalle forze dell’ordine in quei giorni di luglio, ma è a suo modo emblematica sia delle clamorose menzogne e dei depistaggi costruiti ad hoc per crere allarmismi e tensioni (utili poi a giustificare le violenze e le torture compiute in piazza e alla scuola Diaz), sia della sistematica tutela e impunità di cui hanno potuto godere quanti, tra le Fdo, per quegli eventi si sono ritrovati ad affrontare denunce e processi.

Dopo l’irruzione alla Diaz, Massimo Nucera aveva dichiarato di essere stato accoltellato da un no-global, portando come prova un giubbotto lacerato (qui una sua intervista dell’epoca in cui afferma, tra le altre cose, che “se all’interno della Diaz qualcuno si è fatto male non è stato fatto da parte nostra“). Peccato che le successive indagini rivelarono che era stato lo stesso agente, forse con l’aiuto di qualche solerte collega, ad autoinfliggersi maldestramente i tagli sulla giacca. Per questo episodio Nucera è stato condannato per falso e lesioni a 3 anni e 4 mesi ma come per molti altri responsabili e protagonisti degli abusi di Genova 2001 è poi intervenuta la prescrizione a salvarlo, lasciando intatta solo l’accusa di falsa testimonianza. La vicenda si è così conclusa nel 2013 con la semplice sospensione di un mese dello stipendio decisa dal Consiglio provinciale di disciplina della polizia.

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Nucera, però, non contento del trattamento di favore ricevuto, decide di fare ricorso contro questa decisione, trovando nel marzo 2014 l’accondiscendente assenso dell’allora capo della polizia Alessandro Pansa (da qualche mese passato a capo dei servizi segreti italiani), che decide di ridurre la sanzione da un mese a un solo giorno di sospensione. Insomma, uno dei tanti irrisori provvedimenti con cui si sono conclusi in questi anni i processi per gli abusi in divisa di Genova 2001 (senza considerare le varie figure che su quelle giornate di luglio hanno invece addirittura costruito carriere e promozioni), di cui peraltro si ha notizia solo a più di 2 anni di distanza dalla decisione presa.

Tra le motivazioni addotte da Pansa nel firmare il generoso sconto della sanzione a Massimo Nucera vengono citati “l’ottimo stato di servizio, i premi ricevuti e le capacità dimostrate”. Basterebbe certo l’episodio di cui si è reso protagonista durante il G8 di Genova a dar conto della meschina e schifosa condotta dall’agente in questione, ma se per “capacità dimostrate” si intendono menzogne e false testimonianze Nucera mostra in effetti una spiccata propensione in materia: nel 2005, a Teramo, al termine di una partita tre celerini picchiano selvaggiamente un tifoso della squadra di basket locale “senza alcuna valida giustificazione” (così recita la sentenza). Nucera verrà accusato di aver coperto i colleghi raccontando che il tifoso si era fatto male prima, durante una rissa mai avvenuta. Anche in questo caso la condanna per falsa testimonianza a 1 anno e 4 mesi nei suoi confronti verrà di nuovo prescritta in Appello nel 2010.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/varie/item/17351-genova-2001-47-euro-di-sanzione-per-le-menzogne-sulla-scuola-diaz

Arnaldo Cestaro

ARNALDO CESTARO

Arnaldo Cestaro è nato ad Agugliaro, in provincia di Vicenza, l’11 maggio del 1939. Fin da giovane aveva aderito al Partito Comunista e, nell’estate del 2001 partì per Genova per partecipare alle manifestazioni di protesta contro il G8. Arrivato nel capoluogo, il 21 luglio partecipò alla manifestazioni della mattinata e, verso sera, decise di trascorrere la notte in città ma, non conoscendola, chiese quindi consiglio ad una signora che lo accompagnò alla scuola Diaz. L’irruzione della polizia nella scuola, avvenne pochi minuti prima della mezzanotte mentre diversi ospiti già si erano addormentati. A dare il via all’irruzione è stato per primo il Reparto mobile di Roma seguito poi da quello di Genova e Milano. Alcuni degli ospiti all’interno della scuola, tra i quali numerosi stranieri, riposavano nei sacchi a pelo, stesi nella palestra della scuola. Mark Covell, un giornalista inglese, fu la prima persona che i poliziotti incontrarono al di fuori dell’edificio e fu sottoposto ad una serie di colpi che lo fecero finire in coma. Durante l’irruzione gli agenti di polizia aggredirono violentemente chi si trovava nella scuola, ferendo 82 persone su un totale di 93 arrestati. Tra gli arrestati 63 furono portati in ospedale e 19 furono portati nella caserma della polizia di Bolzaneto. In base alla ricostruzione data nelle successive indagini e sentenze, per tentare di giustificare le violenze avvenute durante la perquisizione (ed in parte la perquisizione stessa) alcuni dei responsabili delle forze dell’ordine decisero di portare all’interno della scuola Diaz delle bottiglie molotov, trovate in realtà durante gli scontri della giornata e consegnate al generale Valerio Donnini nel pomeriggio, oltre a degli attrezzi da lavoro trovati in un cantiere vicino, prove che avrebbero dimostrato la presenza nella scuola di appartenenti all’ala violenta dei manifestanti. Arnaldo quella notte venne portato in ospedale con dieci costole rotte, un braccio e una gamba rotte, la testa piena di ematomi e il corpo pieno di lividi. Cestaro ha accusato le autorita’ italiane di aver violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani che proibisce la tortura e ogni trattamento degradante e umiliante, e l’articolo 13 perché è mancata un’inchiesta efficace per determinare la verità. Il 7 aprile 2015 la Corte di Strasburgo accoglie il ricorso e sancisce che «deve essere qualificato come tortura» quanto compiuto dalle forze dell’ ordine italiane nell’irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001, non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punireil reato di tortura. «Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata. La polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura».

 

Fonte:

https://www.facebook.com/AcadOnlus/photos/a.521317134596232.1073741829.495593257168620/869618073099468/?type=1&theater

Per Edo

Lo sa solo il cielo il perché. Per sempre con noi. Ciao Edo
curva nord – stadio Marassi – Genova

I colori non dividono un’amicizia. Ciao Edo
curva sud – stadio Marassi – Genova

 

Edoardo e Carlo si conoscono al liceo scientifico: Carlo è in 3° (Carlo è avanti un anno), Edo in 1°. Tra loro nasce subito un’amicizia forte che li lega oltre la scuola, negli interessi comuni, nelle amicizie, nelle partite a pallone.
Un’amicizia che continua a tenerli vicini, anche dopo la fine della scuola; come è normale nella vita, alternano momenti in cui si frequentano di più, a periodi in cui non si sentono per un po’… per poi tornare insieme.

Dopo il 20 luglio 2001, Edo scriverà su un muro di Piazza Manin, (la piazza degli incontri con gli amici comuni), “Un amico, un fratello: ciao Carlo”.

E dal 20 luglio 2001, Edoardo non riuscirà più a staccarsi da Piazza Alimonda.
Fino al 2 febbraio 2002.
Edoardo va in Svizzera, a Zurigo, per partecipare alla manifestazione contro il WTO e poi per seguire una sua grande passione: il Genoa, che giocherà a Como.
Si incontra con un suo amico, Mattia, che abita a Riva San Vitale, e vanno insieme al corteo. Quando tornano a casa, Edo si sente stanco, dice all’amico che ha voglia di dormire un po’ e si sdraia su un letto…
E’ il 2 febbraio 2002, Edoardo muore per una miocardite.

 

 

 

Fonte:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/edo/index.php

 

Nasce a Bolzaneto l’inquietante legalità di Marino

Dalla più grande sospensione dei diritti umani d’Occidente [Genova 2001] all’assessorato alla legalità di Roma: un controsenso insostenibile. La denuncia dei Giuristi democratici

di Ercole Olmi

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Dall’inferno di Bolzaneto al Campidoglio, per garantire la legalità nel rimpasto della Giunta Marino. Si parla di Alfonso Sabella, pm e, all’epoca di Genova 2001, inviato del Dap a supervisionare il carcere provvisorio per le retate di manifestanti.

Il primo atto di indagine della procura di Genova su quanto accaduto nella caserma lager di Bolzaneto nelle giornate genovesi fu nei confronti del responsabile della struttura detentiva di Bolzaneto: il magistrato Alfonso Sabella. Fu ascoltato il 1° agosto 2001, ad appena nove giorni dalla fine del G8. Ex sostituto procuratore a Palermo al fianco di Giancarlo Caselli, Sabella nei giorni dei fatti di Genova era il dirigente della polizia penitenziaria, inviato a Genova dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Prima di essere smentito dalle deposizioni dei torturati a Bolzaneto, Sabella, scolpì negli atti – e sulle agenzie – che “la Polizia Penitenziaria a Bolzaneto ha gestito due camere di sicurezza dove non ci sono state violenze”. Il 29 agosto Sabella insisteva nel minimizzare quanto accaduto: “E’ probabile che ci siano stati singoli e isolati comportamenti, che potrebbero anche costituire dei reati, ma allo stato non emerge assolutamente una situazione di confusione o di disorganizzazione riconducibile al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

“Per quanto potevo constatare allora tutto si era svolto tranquillamente. Ora, invece, abbiamo più di qualche dubbio che non sia stato effettivamente così”. Ma lui dov’era?, si chiede il sito Misteri d’Italia. Era a Bolzaneto: “Mi ci recavo tre-quattro volte al giorno e anche qui non ho visto niente di particolare, se non il fatto che gli arrestati venivano fatti sostare in piedi, con le mani alzate addosso al muro”. Una cosa, quindi, assolutamente normale in tutte le carceri…

L’11 maggio 2004, quando i magistrati formulano le loro richiesta di rinvio a giudizio per 47 persone tra poliziotti, secondini, carabinieri e medici presenti a Bolzaneto, la posizione di Sabella viene stralciata e destinata ad essere archiviata. Così fu chiesto il 31 marzo 2005: “Risulta, per sua stessa ammissione, che Sabella ebbe a vedere personalmente che i detenuti nelle celle erano tenuti nella posizione vessatoria in due occasioni. Da ciò e dal non avere dato l’ordine di fare immediatamente sedere i detenuti potrebbe inferirsene una responsabilità quanto meno ex art. 608 cp, stante la posizione di garanzia rivestita dal magistrato che comportava anche un dovere di controllo”. I pm aggiungono però: “Peraltro, da un lato la già rilevata intermittenza della presenza in Bolzaneto del magistrato non consente di ritenere la consapevolezza del perdurare della posizione vessatoria e ciò tanto più perché aveva dato ordine a Gugliotta (responsabile della sicurezza della caserma di Bolzaneto, ndr) di contenerla in un tempo massimo di un quarto d’ora e perché non vi erano ragioni di pensare che il proprio ordine sarebbe stato invece disatteso; dall’altro lato deve osservarsi che, secondo il suo incarico, il magistrato aveva il compito di ‘organizzare il controllo e non quindi di effettuarlo personalmente (non essendo tra l’altro Ufficiale di Polizia Giudiziaria) e che indubbiamente la precisa individuazione – effettuata da parte del magistrato – di responsabili per ciascun settore del sito (ispettore Gugliotta per la sicurezza, ispettore Tolomeo per la matricola, dottor Toccafondi per l’Area Sanitaria, Capitani, Cimino e Pelliccia per il servizio traduzione) può ritenersi adempimento dell’obbligo di organizzazione del controllo”.

L’archiviazione arriverà il 25 Gennaio 2007. A cinque anni e mezzo dagli orrori della Bolzaneto, il Gip Lucia Vignale archivia la posizione del magistrato che però nell’ordinanza scrive: “Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e non impedì il verificarsi di eventi che avrebbe dovuto evitare”. E più avanti aggiunge: “Sarebbe stato opportuno cercare di comprendere ciò che, pur nella confusione e nella difficoltà del momento, poteva essere almeno intuito. In questo senso si può affermare che il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento”.

L’Associazione Giuristi Democratici di Roma è piuttosto angosciata per la scelta del Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, di prendere in considerazione per l’incarico di assessore alla legalità proprio Alfonso Sabella. “Ciò, nel ricordo dell’operato dello stesso nelle drammaticamente storiche giornate del G8 di Genova 2001. In quel contesto, ormai universalmente definito come la più grande sospensione dei diritti di democrazia in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale, il Dr. Sabella si trovò a operare quale coordinatore dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria, che si svolsero anche nella caserma N. Bixio di Bolzaneto. I comportamenti illegali, i trattamenti inumani e degradanti inflitti agli ospiti di tale struttura ad opera di alcuni degli agenti ivi presenti sono ormai dato incontrovertibile. In quel quadro, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi”, scrivono citando l’ordinanza e ricordando che Sabella “non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare”.

Per i giuristi democratici tutto ciò dimostra che, “sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi, circa il trattenimento dei fermati in piedi, faccia al muro e mani in alto; e ancora avendo, fin da subito, affermato pubblicamente che «A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare». Sicuramente, non è questo il viatico che può accompagnare chi si appresta a ricoprire un incarico quale quello per il quale il Dr. Sabella sarebbe stato prescelto”.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/12/21/nasce-a-bolzaneto-linquietante-legalita-di-marino/

 

Stupratore di 4 donne e torturatore a Bolzaneto: è Massimo Pigozzi, poliziotto

Riporto questo vecchio articolo che sta girando in questi giorni per ricordare a chi parla di “mele marce” di cosa sono capaci le forze dell’ordine.

Dal blog di Valentina Perniciaro:

1 ottobre 2013

Una sentenza di Cassazione, a conferma dei due precedenti gradi di giudizio, che condanna il poliziotto Massimo Pigozzi a dodici e anni e mezzo di reclusione per lo stupro di ben 4 donne. Stupri che il Picozzi compieva durante l’espletamento delle sue mansioni lavorative, quindi all’interno delle camere di sicurezza della Questura di Genova ai danni di donne in stati di fermo.

Massimo Pigozzi però noi lo conosciamo già, il suo nome, prima degli stupri “in divisa” era già noto alla magistratura,
ma soprattutto a noi che eravamo per quelle strade in quei giorni indimenticabili; non un poliziotto qualunque, un playmobil tra i troppi che ce ne sono…
Massimo Pigozzi -mi piace ripetere il suo nome tipo nenia, così che il tempo lo lasci comunque indelebile nella memoria-  era ben noto come torturatore, e per questo già condannato a tre anni e due mesi, per aver … non so trovare il verbo adatto…  divaricato le dita delle mani di un manifestante fino a spaccargli la mano (dopo Giuseppe Azzolina fu suturato con 25 punti e ha riportato una lesione permanente ) .

Insomma, Massimo Pigozzi è un uomo di Stato e in quanto tale è stato condannato per aver compiuto tortura su un uomo in stato di fermo,
e in quanto tale ha stuprato ben 4 donne dentro una Questura anche loro in stato di fermo, quindi in una condizione di debolezza totale.
La corte di Cassazione ha per questo stabilito che il risarcimento venga pagato dallo Stato, dal Viminale per essere precisi, perchè se stupro c’è stato,
dice senza troppi giri di parola la sentenza depositata oggi – e c’è stato per ben 4 volte- è stato possibile per volere dello Stato, che dopo la condanna per i fatti di Bolzaneto ha pensato bene di mantenere quel personaggio a svolgere il suo lavoro,
avendo oltretutto modo di avvicinare e poter rimanere solo con persone in stato di fermo.

Dopo i giorni di Genova ha continuato a fare il suo mestiere,
Dopo la condanna a tre anni e due mesi per i fatti di Bolzaneto, ha continuato a fare il suo mestiere,
Dopo uno stupro e poi un altro e poi un altro e poi un altro, tutti avvenuti in caserma mentre continuava a fare il suo mestiere.
Oggi il terzo grado di giudizio: il fatto che sia la magistratura a toglier dalle caserme questi personaggi e non il “furor di popolo” mette un po’ di tristezza, ma tant’è.

Son sentenze che però andrebbero lette e rilette in faccia a chi diceva che a Genova in quei giorni c’è stata la “sospensione della democrazia”,
o a chi parla di “mele marce” quando avvengono certi fatti in caserma.

 

 

Fonte:

http://baruda.net/2013/10/01/stupratore-di-4-donne-e-torturatore-a-bolzaneto-e-massimo-pigozzi-poliziotto/

Piovono pietre, Lauro da Piazza Alimonda all’Olimpico

Il vicequestore Lauro è il nuovo responsabile sicurezza dell’Olimpico. Fu lui che il 20 luglio 2001 accusò un manifestante di aver ucciso Carlo Giuliani con un sasso

 

di Checchino Antonini

«Piovono pietre, si potrebbe dire così, all’Olimpico», dice Giuliano Giuliani dopo aver appreso questa notizia da Popoff. La prima stagionale all’Olimpico per la Roma di Garcia, contro il Fenerbahce, coincide con il battesimo del vicequestore Adriano Lauro, dal 19 agosto dirigente del commissariato Prati e nuovo responsabile del Gos, il Gruppo operativo sicurezza che s’è riunito oggi per mettere a punto l’organizzazione della sfida contro i campioni turchi. Lauro, che arriva da San Basilio, sostituisce Bruno Failla, trasferito al commissariato Trevi.
In una stagione che si annuncia particolarmente delicata, dopo la morte del tifoso napoletano Ciro Esposito, per cui è indagato l’ex ultrà fascista e romanista Daniele De Santis, lascia perplessi la designazione di Lauro, che il 20 luglio 2001 durante il tragico G8 di Genova, gestì l’ordine pubblico in piazza Alimonda, proprio dove e mentre fu ucciso Carlo Giuliani. Era lui il personaggio che mise in scena, a uso probabilmente delle telecamere Mediaset, la breve rincorsa a un manifestante gridando all’incirca: “Sei stato tu a uccidere Carlo col sasso che hai tirato!”. Ma se qualcuno ha adoperato una pietra è stato certamente un carabiniere («a meno che non sia stato il bosone di Higgs», ironizza il padre di Carlo) come si può evincere dalle foto scattate nell’immediatezza nelle quali c’è un grosso sasso che “cambia posto” intorno alla testa del ragazzo ucciso.

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/08/13/piovono-pietre-lauro-da-piazza-alimonda-allolimpico/

Carlo Giuliani

Il 20 luglio 2001, durante il G8 di Genova, a Piazza Alimonda, rimase ucciso il giovane Carlo Giuliani.
Questo è il sito del Comitato a lui dedicato:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/

BREVE CRONOLOGIA DEI FATTI DEL 20 LUGLIO 2001:
PIAZZA ALIMONDA ORE 17.27

Venerdì 20 luglio
Il vicepresidente del Consiglio, on. Gianfranco Fini, con altri esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui l’on. Ascierto, si trovano nella Caserma dei Carabinieri di San Giuliano dove si trattengono per diverse ore. Le forze dell’ordine vengono dislocate nelle zone dove passeranno i cortei e nelle vicinanze delle piazze tematiche.
Sono stati rimossi i cestini della spazzatura ma molti cassonetti si trovano tuttora lungo i percorsi e nelle piazze dove si raccolgono i manifestanti.
Fin dalla mattina compare il Black block: gruppi di 10, 15, al massimo 20 persone alla volta, molte delle quali dall’accento straniero, si aggirano per la città distruggendo vetrine, incendiando cassonetti, auto, motorini.
Fanno incetta di sassi, spranghe e bastoni.
Diversi privati cittadini, da varie zone della città, denunciano il fatto alle autorità competenti. Un gruppo si concentra in piazza Paolo da Novi, la piazza tematica dei Cobas; inizia a smantellare la pavimentazione e a caricare i cassonetti con pietre.
Alcuni manifestanti tentano di fermarli.
Le forze dell’ordine, che si trovano a breve distanza, no.
Indietreggiano, sparando lacrimogeni. Li inseguono nelle vie adiacenti senza mai fermarli davvero.
(Alcuni filmati, anche del sabato, riprenderanno strani personaggi che prima parlano con le forze dell’ordine e poi si avvicinano ad alcuni Black block. Altri filmati riprendono dei personaggi che, in motorino, prima parlano con i Black block, poi con le forze dell’ordine, e così via).
Il black block passa sotto il tunnel della ferrovia all’altezza di corso Torino dividendosi quindi in due gruppi : uno si dirige verso il Carcere, l’altro sale la scalinata Montaldo verso piazza Manin.
Ore 15. Un filmato riprende alcuni blindati dei Carabinieri nella piazza antistante il Carcere di Marassi e gruppi di agenti a piedi.
Una ventina di Black block si avvicina al carcere lanciando sassi.
I Carabinieri si ritirano.
I Black block rompono alcuni vetri delle finestre del Carcere e incendiano un portone ed una finestra. Poi se ne vanno indisturbati.
Nel frattempo il corteo dei Disobbedienti, “armati” con scudi di plexiglass, imbottiture di polistirolo, gommapiuma e bottiglie di plastica, lasciato lo Stadio Carlini, si avvia lentamente lungo il tragitto autorizzato, incontrando sul suo cammino cassonetti rovesciati e auto bruciate.
A metà di via Tolemaide viene duramente e improvvisamente aggredito dai Carabinieri, sostenuti da 4 blindati. Ricordiamo che i portavoce dei Disobbidienti avevano precedentemente concordato con la Questura il percorso fino a piazza Verdi, (la piazza che si trova di fronte alla stazione Brignole). Ci sarebbero, quindi, ancora circa 500 metri di strada da percorrere. La zona rossa, protetta dalle grate in ferro, è ben più lontana.
L’attacco respinge per alcuni metri i manifestanti che, retrocedendo, si compattano verso corso Gastaldi. Non ci sono vie di fuga: alle spalle 10000 persone premono non comprendendo cosa stia accadendo; da un lato la massicciata della ferrovia, dall’altro file continue di palazzi.
Nel frattempo, i Black block saliti a piazza Manin, dove sono radunati Pax Christi, Mani Tese, Rete Lilliput, ecc., proseguono indisturbati verso piazza Marsala; dietro a loro sopraggiunge la Polizia che spara lacrimogeni e carica i pacifisti con le mani, pitturate di bianco, alzate; vengono picchiate e ferite soprattutto le donne.
Tornando a via Tolemaide, dopo ogni carica al corteo dei Disobbedienti, i blindati e i militari indietreggiano, ritirandosi fino all’angolo con corso Torino.
Alcuni ragazzi del corteo li inseguono, tirando sassi e cercando di rompere i vetri dei blindati.
Una camionetta, dopo aver percorso a velocità sostenuta, su e giù, quel tratto di strada, minacciando di travolgere i manifestanti, si blocca improvvisamente a marcia indietro contro un cassonetto. L’autista fugge lasciando soli i colleghi.
I carabinieri schierati poco più avanti non intervengono in loro aiuto.
I ragazzi assaltano il blindato, visibilmente infuriati, con sassi e spranghe; permettono comunque ai carabinieri che occupano il mezzo di allontanarsi. Quindi lo incendiano.
La Polizia respinge il corteo in via Tolemaide.
Ore 16.30 circa – Carlo si unisce al corteo dei Disobbedienti, che già da tempo, bloccato frontalmente, stremato dalle cariche ripetute, intossicato dai lacrimogeni, scottato dagli idranti urticanti, tenta di defluire per le vie laterali e di tornare al Carlini.
Carlo indossa un pantalone della tuta blu, una canottiera bianca e una giacca della tuta grigia legata in vita.
A questo punto le forze dell’ordine, carabinieri e polizia, attaccano nuovamente il fronte del corteo: blindati lanciati a 70Km/h sui ragazzi, idranti urticanti, colpi d’arma da fuoco, lacrimogeni al gas CS, manganelli Tonfa.
I ragazzi rispondono lanciando sassi, lanciando indietro alcuni lacrimogeni, facendo piccole barricate con i bidoni per la raccolta differenziata della carta e della plastica.
Carlo indossa il passamontagna blu.
Sul fianco di via Tolemaide si aprono 2 strade strette, che portano in piazza Alimonda.
Ore 17.15. Un drappello di una ventina di carabinieri appoggiato da 2 defender si posiziona in una di queste due stradine. Partono i lacrimogeni, che vengono lanciati in mezzo al corteo.
I manifestanti reagiscono.
I militari, improvvisamente, cominciano ad indietreggiare, fino a scappare disordinatamente verso via Caffa, attraverso piazza Alimonda.
Un gruppo di manifestanti li inseguono urlando.
I due defender proseguono in retromarcia, superano un primo cassonetto che si trova in mezzo alla strada di fronte alla Chiesa del Rimedio.
Un defender, raggiunto uno slargo, fa manovra e raggiunge i colleghi in via Caffa; l’altro si ferma contro un cassonetto di rifiuti mezzo vuoto che si trova sul lato destro della strada.
Un plotone di polizia, con defender e blindati, è schierato in via Caffa a pochi metri dal defender. Un ingente schieramento di forze di polizia e blindati si trova in piazza Tommaseo, la piazza in cui sfocia via Caffa, lunga 300 metri.
Alcuni manifestanti raggiungono il defender fermo in piazza Alimonda, alcuni di loro tornano indietro verso via Tolemaide, altri cominciano a tirare sassi contro le forze dell’ordine schierate in via Caffa, altri ancora lanciano pietre e tirano colpi con assi di legno al defender.
Una persona raccoglie da terra un estintore, comparso sulla scena in questo momento, e lo lancia da una distanza ravvicinata e nel senso della lunghezza, contro il defender; l’estintore colpisce il lunotto posteriore e cade fermandosi sulla ruota di scorta.
Uno scarpone spunta dal lunotto e lo scalcia facendolo rotolare a terra.
In questo momento attorno al defender ci sono 4 fotografi e 5 manifestanti.
Una pistola spunta dal lunotto posteriore.
Un ragazzo con la felpa grigia vede la pistola, si china e scappa.
Carlo, si avvicina, si china a raccogliere l’estintore, si alza in torsione per ritrovarsi quasi di fronte al retro del defender…
… Solleva l’estintore sopra la testa…

In questo momento, Carlo si trova a 3,37 metri di distanza dal lunotto posteriore del defender.
Sono le 17.27.
Parte il primo sparo.
Carlo cade a terra in avanti, trascinato dall’estintore che sta lanciando, e rotola sul fianco destro verso il defender.
I manifestanti presenti nella piazza scappano precipitosamente mentre parte un secondo colpo di pistola. I fanali della retromarcia del defender sono accesi.
Qualcuno grida “fermi, stop” al Defender che passa due volte sul corpo di Carlo, una prima volta in retromarcia sul bacino, la seconda in avanti sulle gambe.
Sono passati 5 secondi dal secondo sparo quando il defender è già in via Caffa, oltre lo schieramento della Polizia.
I giornalisti che si trovano vicino al defender cominciano a fotografare e riprendere Carlo a terra, che sta morendo.
Si avvicinano alcuni manifestanti che cercano di fermare lo zampillo di sangue che sgorga a ritmo cardiaco dallo zigomo sinistro di Carlo.
A questo punto, le forze di polizia avanzano, sparando lacrimogeni e disperdendo i pochi manifestanti ancora nei pressi.
Le forze di polizia circondano il corpo.
10 minuti dopo, un’infermiera del GSF che cerca di soccorrere Carlo sente ancora il suo cuore che batte. Arriva una seconda infermiera.
Le infermiere tolgono il passamontagna a Carlo e notano sulla fronte una grossa e profonda ferita che non sanguina, una ferita, dunque, che è stata provocata da un colpo in fronte inferto dopo l’uccisione. Sulla tempia destra di Carlo ci sono abrasioni e ferite.
Più di un testimone racconterà di aver visto rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno preso a calci in testa Carlo prima che arrivassero le infermiere del GSF.

Nella relazione del primo semestre 2002, i Servizi Segreti italiani hanno ammesso “infiltrazioni di elementi di estrema destra tra i black block a Genova durante le manifestazioni anti-G8”.

Tutto quanto raccontato è visibile dai numerosi filmati elencati in questo sito alla voce “Bibliografia”, o dalle numerose fotografie riportate nelle contro-inchieste.
Sul Black Block e l’assalto al Carcere di Marassi si veda in particolare “Le strade di Genova”, di Davide Ferrario.

» La ricostruzione e qualche domanda

 

 

Fonte:
http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/20lug.php

Nel sito del Comitato Piazza Carlo Giuliani è presente molto altro  materiale, tra cui videi di documentari che ricostruiscono l’omicidio. Rinvio alla visita del sito stesso.

Su Carlo Giuliani ho letto un paio di libri di cui consiglio la lettura. Si tratta di una raccolta di racconti  dedicati a Carlo e pubblicati a dieci anni dalla sua uccisione e di un grafic novel che ne racconta la vita.

Per sempre ragazzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CARLO GIULIANI

 

La famiglia Giuliani da quel giorno lotta per sapere la verità sull’omicidio del figlio, sui fatti del g8 di Genova 2001 e dà il suo sostegno anche per tutti gli altri casi di malapolizia. Costante è dunque l’impegno della madre Haidi Gaggio Giuliani , cofondatrice, insieme a Francesco Barilli, del sito http://www.reti-invisibili.net/, del padre Giuliano e della sorella Elena.

Qui gli ultimi articoli sull’omicidio di Carlo:

G8, "Giusto sparare a Giuliani" Sallusti a giudizio per diffamazione

 

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/23/APcfvxoF-giuliano_giuliani_voglio.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/26/APbPurpF-giuliano_giuliani_morto.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/10/09/AQhu73c-ritorna_morte_giuliani.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/01/27/AQ0MALdB-credevo_colpito_giuliani.shtml

http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/03/27/news/g8_giusto_sparare_a_giuliani_sallusti_a_giudizio_per_diffamazione-82065957/

Segnalo il prossimo evento organizzato per ricordare Carlo:

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?tribe_events=per-non-dimenticarlo-genova-19-20-luglio-2014

G8 Genova, fotoreporter Mark Covell: “Voglio i nomi di chi mi stava per uccidere. Nell’archivio Scajola forse la verità”

Arianna Giunti, L’Huffington Post  |  Pubblicato:   Aggiornato: 23/05/2014 11:50

 

“I responsabili del mio tentato omicidio non hanno ancora un nome. Se la verità è contenuta in quei dossier, ora è il momento di tirarla fuori. Per me e per le altre vittime”.

 

Il blitz alla scuola Diaz di Genova, una delle pagine più nere della storia della Repubblica italiana, ancora oggi dopo tredici anni continua a rimanere una ferita aperta, piena di misteri. Uno di questi è l’identità mai rivelata dei quasi quattrocento agenti in tenuta antisommossa che quella notte hanno fatto ingresso nella scuola genovese dando inizio a una feroce mattanza, in quella che è stata definita come “la più grave sospensione dei diritti umani in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

 

Alcuni di questi agenti sono responsabili di un tentato omicidio, quello del fotoreporter inglese Mark Covell: in seguito al feroce pestaggio venne lasciato a terra senza essere soccorso per venti minuti; riportò danni alla spina dorsale e è rimase in coma profondo per 14 ore. Nonostante una lunga inchiesta e tre processi la Procura di Genova, infatti, non è mai riuscita a identificarli. L’indagine sul tuo tentato omicidio è stata archiviata un anno fa dal gip di Genova Adriana Petri. Nessun testimone si è fatto avanti. I responsabili sono stati protetti da un invalicabile muro di omertà – come denunciarono gli stessi magistrati – che si è immediatamente innalzato a difesa degli appartenenti alle forze dell’ordine.

 

A capo del Viminale, in quei giorni di guerriglia urbana, sedeva Claudio Scajola. Nella cui abitazione proprio in questi giorni i magistrati che indagano sull’inchiesta Matacena hanno trovato alcuni dossier privati. Uno di questi riguarda appunto il G8 di Genova.

 

Oggi Mark Covell ha 46 anni. Disabile, vive in una casa popolare di Londra. E chiede a gran voce che si faccia luce su quei documenti, che potrebbero contenere la verità anche sui nomi degli agenti coinvolti nel blitz.

 

Lei sostiene che quei 340 nomi fossero ben noti ai vertici della polizia, ma che furono fatti sparire.

 

Esatto, le indagini coordinate dal pubblico ministero Enrico Zucca della Procura di Genova hanno trovato da subito un ostacolo enorme. Da parte delle istituzioni e dei ministri del governo Berlusconi ci fu immediatamente uno scaricabarile di responsabilità. Penso per esempio a Fini – vice presidente del Consiglio presente in quei giorni a Genova – e, appunto, a Scajola. Però tutti quanti fecero immediatamente quadrato con i servizi segreti e i vertici delle forze dell’ordine.

 

Perché Scajola, a capo del Viminale, avrebbe dovuto sapere qualcosa su quei nomi? Chi coordinò il blitz alla scuola Diaz?

 

È ormai accertato da tre sentenze che il blitz alla scuola Diaz fu ordinato per “punire” i black bloc. Erano passate poche ore dall’omicidio di Carlo Giuliani e la polizia era in fibrillazione. Il blitz alla Diaz fu pretestuoso, lo sapevano benissimo che in quel palazzo dormivano solo manifestanti inermi e giornalisti, come me. I poliziotti del I Reparto Mobile (un reparto di polizia creato ad hoc proprio in quei giorni, ndr) arrivarono portandosi dietro prove false, le bottiglie molotov. Ci sono filmati e tre sentenze che lo dimostrano. I loro capi erano tenuti ad avere una lista dei poliziotti che vi avevano preso parte. Così come di quelli appartenenti al Settimo nucleo speciale della Mobile, responsabili dei pestaggi. Succede per tutte le altre operazioni di ordine pubblico. Queste liste finiscono direttamente al Viminale.

 

Questi nomi però non vennero mai comunicati alla Procura di Genova, che li chiese una volta iniziate le indagini…

 

Solo in parte sono stati comunicati, con molta fatica. Se questo fosse stato fatto, con facilità – anche grazie alle telecamere – avremmo potuto identificare i poliziotti che mi hanno massacrato di botte fino quasi ad uccidermi, in quella che nei processi è stata definita una “macelleria messicana”. Io sono convinto che Scajola sia un personaggio chiave in questa storia. Non direttamente responsabile, sicuramente. Però sono certo che sappia molto di più di quello che, allora, ha fatto capire di sapere.

 

Secondo lei dunque in quei dossier relativi al G8 potrebbe essere contenuta la verità sul blitz di quella notte e su altri aspetti controversi di quei giorni a Genova?

 

Io sono convinto che qualcuno abbia nascosto i files con i nomi dei 340 agenti. Grossissime responsabilità sono da imputare non solo ai vertici della polizia ma anche ai ministri del governo Berlusconi, che hanno insabbiato la verità, distrutto le prove e protetto i colpevoli. E poi ci sono troppe incongruenze legate a quella notte. Penso per esempio alla sostituzione del vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, l’unico che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in Tribunale. Ci devono la verità. Non solo a me ma anche a Lena Zulke, Niels Martensen, Jaroslaw Engel, Melanie Jonachse, Daniel Albright e gli altri manifestanti pestati a sangue quella notte. Se Scajola decidesse di parlare si potrebbe riaprire l’indagine sul mio tentato omicidio.

 

Ha mai ricevuto scuse ufficiali da parte delle istituzioni e dal governo?

 

Chiedere scusa significa ammettere la propria colpevolezza. E quindi certo che no, non ho mai ricevuto scuse. Il G8 di Genova continua a rimanere un’ombra nera nella mia vita, che mi perseguita. Però io voglio continuare a credere che un giorno qualche poliziotto onesto trovi il coraggio di rompere il silenzio su quella maledetta notte che ha stravolto la mia vita. Ancora oggi, quando torno in Italia, io non sono tranquillo. Vivo con la paura di incontrare uno dei poliziotti della Diaz, e che le minacce di quella notte diventino realtà.

 

 

 

 

 

Fonte:
http://www.huffingtonpost.it/2014/05/23/g8-genova-fotoreporter-mark-covell-intervista_n_5377292.html?1400837794&utm_hp_ref=fb&src=sp&comm_ref=false

Scajola e il “dopo Diaz” della polizia

 

 

di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova

Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ’77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono schioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile.

Scajola era all’epoca il ministro dell’Interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vice presidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.

Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, un “rompiscatole”. Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo).

Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto. Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di stato e il ministero dell’Interno dall’altro.

Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vice capo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.

Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti.

Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.

Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente:

“Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa”. Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.

(9 maggio 2014)
Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/scajola-e-il-%E2%80%9Cdopo-diaz%E2%80%9D-della-polizia/?fb_action_ids=656596614421337&fb_action_types=og.likes

Tortura, se è così meglio nessuna legge

29 aprile 2014

Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di ille­ga­lità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tun­nel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Per­ché non abbiamo fatto dav­vero i conti con quella tra­gica vicenda. Non abbiamo tratto gli inse­gna­menti dovuti da quella ter­ri­bile lezione. Non ci sono stati cam­bia­menti veri, è man­cato un ripu­dio da parte delle isti­tu­zioni di quei com­por­ta­menti, sono rima­ste let­tera morta le riforme neces­sa­rie per uscire a testa alta da quel tun­nel di pro­ter­via e auto­ri­ta­ri­smo. E dire che sul piano giu­di­zia­rio abbiamo otte­nuto risul­tati senza pre­ce­denti, con un ampio rico­no­sci­mento delle verità rac­con­tate da cen­ti­naia di cit­ta­dini e le con­danne di decine di agenti, fun­zio­nari e altis­simi diri­genti di poli­zia per le vicende Diaz, Bol­za­neto e una lunga di serie di epi­sodi avve­nuti in piazza — pestaggi, arre­sti arbi­trari — impro­pria­mente defi­niti minori.

Ci sono almeno tre riforme essen­ziali che sca­tu­ri­scono dall’esperienza geno­vese e che in un paese “nor­male” sareb­bero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tor­tura. La seconda, una rivo­lu­zione nei cri­teri di for­ma­zione degli agenti e nei rap­porti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in ser­vi­zio di ordine pub­blico di avere codici iden­ti­fi­ca­tivi sulle divise.

Voglio sof­fer­marmi sul primo punto. Ciò che inten­diamo per tor­tura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tor­tura vìola i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino nei suoi rap­porti con le isti­tu­zioni. Si mani­fe­sta quando una per­sona è sot­to­po­sta a una limi­ta­zione della sua libertà per­so­nale ad opera del pub­blico uffi­ciale. È una vio­lenza, fisica o psi­co­lo­gica, che umi­lia chi la subi­sce ma anche chi la com­mette, per­ché lede gra­ve­mente la dignità e la cre­di­bi­lità dell’istituzione che rap­pre­senta. È quindi una vio­la­zione della dignità di tutti i cit­ta­dini, e per­ciò ci indi­gna. Ora, la legge appro­vata al Senato, su que­sto punto fon­da­men­tale, essen­ziale, irri­nun­cia­bile, è del tutto inac­cet­ta­bile. Qua­li­fica la tor­tura come reato comune, che può essere com­messo da chiun­que nella sua dimen­sione pri­vata, nei rap­porti con altre per­sone, e si limita a sta­bi­lire un’aggravante se quell’atto è com­messo da un pub­blico uffi­ciale. La tor­tura non può essere un reato comune, se vogliamo che que­sta riforma sia uno stru­mento di rico­stru­zione di un’etica demo­cra­tica all’interno delle forze dell’ordine. Sap­piamo tutti che un testo di legge sulla tor­tura è appena stato appro­vato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pres­sione esterna per arri­vare a una rapida appro­va­zione della legge, in modo da rispet­tare l’impegno preso dall’Italia con le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali oltre vent’anni fa. Que­sto testo di legge, che è frutto di una media­zione più esterna che interna alle aule par­la­men­tari, poi­ché rece­pi­sce una pre­cisa richie­sta arri­vata dai ver­tici delle forze dell’ordine, qua­li­fica la tor­tura come reato comune e non come reato spe­ci­fico del pub­blico uffi­ciale. Si disco­sta cioè dagli stan­dard inter­na­zio­nali e anche dal buon senso.

Dev’essere chiaro che intro­durre que­sta figura di reato nei codici serve prin­ci­pal­mente a fini di pre­ven­zione. Appro­van­dola, il par­la­mento manda un chiaro mes­sag­gio alle forze dell’odine: dice che abu­sare dei dete­nuti, vio­lare l’integrità di cit­ta­dini sot­to­po­sti a limi­ta­zioni legit­time della libertà, è un’infamia insop­por­ta­bile. Dev’essere un mes­sag­gio forte e chiaro, visto che l’Italia in mate­ria di abusi sui dete­nuti ha un cur­ri­cu­lum pre­oc­cu­pante, prima e dopo Genova G8. Bol­za­neto è stato la punta di un ice­berg. Non può essere inviato un mes­sag­gio ambi­guo, depo­ten­ziato nella sua portata.

Sap­piamo bene che i ver­tici delle forze dell’ordine, con il soste­gno – pur­troppo – dei sin­da­cati di poli­zia, sono i prin­ci­pali avver­sari dell’introduzione del reato di tor­tura. Hanno sem­pre inter­pre­tato que­sto pro­getto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla cre­di­bi­lità delle forze dell’ordine. Finora sono riu­sciti a bloc­care tutti i ten­ta­tivi di appro­vare una legge. Ma l’inadempienza degli obbli­ghi inter­na­zio­nali, dal punto di vista del par­la­mento, dev’essere supe­rata, per­ciò durante ogni legi­sla­tura il tema è stato ripro­po­sto. In que­sta legi­sla­tura il sena­tore Man­coni ha pre­sen­tato un testo di legge che rical­cava la for­mula stan­dard pre­vi­sta dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cam­biato e stra­volto nella discus­sione par­la­men­tare e si è atte­stato sul piano B matu­rato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no asso­luto alla qua­li­fi­ca­zione della tor­tura come reato del pub­blico ufficiale.

Ho ben pre­sente la discus­sione in corso, le posi­zioni assunte dal sena­tore Man­coni e da altri sog­getti che in que­sti anni si sono spesi su que­sto ter­reno: c’è una spinta affin­ché que­sta legge sia appro­vata comun­que, in modo che la lacuna nor­ma­tiva sia col­mata. Ho ben pre­sente però anche un’altra rifles­sione, svolta in seno al nostro comi­tato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società. Che fun­zione hanno comi­tati come il nostro, com­po­sti da poche per­sone, vit­time di abusi o fami­liari di per­sone ferite, umi­liate, spesso uccise in stragi, atten­tati ecce­tera? Ebbene, la rispo­sta che ci siamo dati è che que­sti comi­tati sono impor­tanti per­ché hanno la voca­zione a dire la verità. Pos­sono dirla più e meglio di altri per­ché sono liberi da con­di­zio­na­menti di qual­siasi tipo, non hanno ruoli poli­tici da svol­gere, né pro­getti di qual­si­vo­glia natura da por­tare avanti. Si occu­pano di que­stioni spe­ci­fi­che e su quelle con­cen­trano tutta la loro attenzione.

Allora la mia verità oggi è che que­sta legge sulla tor­tura è una legge sba­gliata e non va appro­vata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle con­di­zioni di intro­durre nor­ma­tive sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali, spe­cie con riguardo alla con­dotta e al fun­zio­na­mento delle forze dell’ordine, che si pon­gano al di sotto degli stan­dard inter­na­zio­nali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dob­biamo aiu­tarle a diven­tarlo. Le nostre forze dell’ordine non hanno biso­gno d’essere blan­dite e asse­con­date nei loro mec­ca­ni­smi di chiu­sura verso il resto della società; devono essere aiu­tate ad aprirsi. Il reato di tor­tura, in ogni Paese demo­cra­tico, è uno stru­mento for­ma­tivo, un punto di rife­ri­mento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una men­ta­lità distorta, una cul­tura demo­cra­tica debole e invo­luta, può inter­pre­tare l’introduzione del reato di tor­tura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro cre­di­bi­lità. Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evi­denti biso­gni del nostro paese.

Si dirà: ma una legge non per­fetta è meglio di nes­suna legge. Non credo che sia così. Stiamo par­lando di un prin­ci­pio fon­da­men­tale che non può essere oggetto di trat­ta­tive al ribasso. Il par­la­mento deve assu­mersi le sue respon­sa­bi­lità e appli­care gli stan­dard inter­na­zio­nali: la ricerca di una solu­zione gra­dita ai ver­tici delle forze dell’ordine – atte­stati su posi­zioni retro­grade e cor­po­ra­tive, molto distanti dai valori demo­cra­tici e costi­tu­zio­nali – non è su que­sto punto accet­ta­bile. Meglio nes­suna legge che una legge così, per­ché una volta appro­vata una nuova nor­ma­tiva, il discorso sarebbe chiuso defi­ni­ti­va­mente. Sarebbe un errore poli­tico irri­me­dia­bile. E poi­ché l’introduzione del reato di tor­tura serve a pre­ve­nire gli abusi, meglio tenere aperta la discus­sione, ren­dere evi­dente il cedi­mento in corso, e rinun­ciare a que­sta corsa ad appro­vare una legge pur­ches­sia, come se si trat­tasse di segnare un punto in ter­mini di pro­dut­ti­vità legi­sla­tiva. Non è di que­sto che ha biso­gno un Paese pau­ro­sa­mente incam­mi­nato sulla strada dell’autoritarismo.

Lorenzo Guadagnucci, Comi­tato Verità e Giu­sti­zia per Genova

 

 

 

Fonte:

http://lorenzoguadagnucci.wordpress.com/2014/04/29/tortura-se-e-cosi-meglio-nessuna-legge/