21 novembre 2016
In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha dichiarato che, cinque anni dopo la rivolta del 2011 in cui manifestanti pacifici vennero picchiati, feriti e uccisi, le riforme introdotte per rispondere alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza devono ancora portare giustizia alla maggior parte delle vittime e dei loro familiari.
Il rapporto descrive in dettaglio le gravi carenze riscontrate nell’azione di due organismi istituiti nel 2012, che secondo le autorità del Bahrein e quelle del Regno Unito – strenuo alleato del regno del Golfo persico – avrebbero dovuto dimostrare l’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani.
“Nessuno nega che il governo del Bahrein abbia fatto bene a istituire organismi per indagare sulle violazioni dei diritti umani e portare di fronte alla giustizia i responsabili, ma purtroppo queste riforme risultano profondamente inadeguate. I maltrattamenti e le torture da parte delle forze di sicurezza proseguono, in un contesto di radicata impunità segnato dalla mancanza d’indipendenza del potere giudiziario” – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per la ricerca presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Beirut.
“Un vero cambiamento dev’essere ben più che di facciata. Le autorità del Bahrein non possono continuare a ingannare il mondo con una mera patina di riforme, quando l’assunzione di responsabilità per le violazioni dei diritti umani scarseggia e i difensori dei diritti umani continuano a venire arrestati in modo arbitrario, a subire condanne a seguito di processi iniqui, a essere privati della nazionalità o a vedersi impedito di viaggiare all’estero” – ha commentato Maalouf.
La brutale repressione delle proteste del 2011 suscitò l’indignazione internazionale. Su raccomandazione della Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein, istituita dal re Hamad bin Isa al-Khalifa, le autorità emendarono alcune leggi e costituirono alcuni organismi di monitoraggio e per indagare e processare persone sospettate di aver commesso violazioni dei diritti umani.
Tra queste istituzioni, dal 2012 vi sono l’ufficio del Difensore civico presso il ministero dell’Interno e l’Unità speciale per le indagini presso l’Ufficio del procuratore generale. Entrambe hanno ricevuto formazione e sviluppo delle rispettive capacità istituzionali da parte del Regno Unito.
Sebbene abbiano ottenuto qualche risultato, Amnesty International giudica che queste due istituzioni non siano state in grado di fermare in modo significativo le violazioni dei diritti umani.
“La descrizione fattane dal governo di Londra come istituzioni modello è profondamente falsa, come illustriamo nel nostro rapporto. Invece di raccontare mezze verità al mondo intero sui progressi del Bahrein, il Regno Unito e gli altri alleati internazionali dovrebbero smetterla di dare priorità alla difesa e alla cooperazione in materia di sicurezza, a scapito dei diritti umani” – ha sottolineato Maalouf.
L’ufficio del Difensore civico è generalmente reattivo nel segnalare le denunce di tortura e di altre gravi violazioni dei diritti umani all’Unità speciale per le indagini. Tuttavia, in alcuni casi, non ha assunto rapide iniziative per proteggere i detenuti dai maltrattamenti e dalla tortura, indagare sulle loro denunce o assicurare il loro accesso alle cure mediche.
Ad esempio, nonostante i ripetuti allarmi di Amnesty International circa il rischio che il difensore dei diritti umani Hussain Jawad potesse subire torture dopo il suo arresto, avvenuto il 16 febbraio 2015, l’ufficio del Difensore civico non ha verificato immediatamente le condizioni del detenuto e non è riuscito a evitare che venisse torturato. Jawad ha riferito di essere stato bendato, picchiato con le mani ammanettate dietro la schiena e minacciato di violenza sessuale se non avesse “confessato”.
L’ufficio del Difensore civico ha anche ritardato di due anni l’inchiesta sulla denuncia di tortura sporta da Mohamed Ramadhan, guardia di sicurezza aeroportuale, condannato a morte dopo essere stato giudicato colpevole di aver preso parte a un attentato.
L’Unità speciale per le indagini, dal canto suo, ha sottoposto a procedimento 93 appartenenti alle forze di sicurezza ma sono risultati condannati solo 15 funzionari di basso livello. Nessun alto dirigente delle forze di sicurezza che sovrintendeva alle gravi violazioni dei diritti umani del 2011 è mai stato incriminato.
Dei casi di maltrattamento o tortura, decesso in carcere o uccisione illegale registrati da Amnesty International a partire dalla rivolta del 2011, solo 45 su circa 200 sono arrivati a processo.
Ali Hussein Neama, 16 anni, venne ucciso da un agente di polizia nel settembre 2012. Nonostante le prove fotografiche e il certificato di morte indicassero che il ragazzo era stato colpito alle spalle, l’Unità speciale per le indagini ha concluso che l’agente agì per autodifesa contro il ragazzo e un altro manifestante che stavano scagliando bombe Molotov.
L’Unità speciale per le indagini risulta anche lenta nell’esame delle denunce. In un caso, le sono voluti oltre due anni per raccogliere elementi sulle torture riferite da un prigioniero di coscienza, col risultato che prove scientifiche e altri indizi sono andati persi.
Sia l’ufficio del Difensore civico che l’Unità speciale per le indagini non sono riusciti a ottenere la fiducia dell’opinione pubblica, in parte per la percepita mancanza d’indipendenza e d’imparzialità. Entrambi gli organismi sono considerati eccessivamente vicini al ministero dell’Interno e ad altre istituzioni di governo e alimentano la disistima non tenendo adeguatamente informate vittime e famiglie sugli sviluppi delle indagini.
La giornalista Nazeeha Saeeda ha raccontato che nel 2011 è stata picchiata, presa a calci, umiliata e sottoposta a scariche elettriche mentre veniva interrogata dalle forze di sicurezza. Tre anni dopo, l’Unità speciale per le indagini l’ha condotta nella medesima stanza delle sevizie perché riconoscesse i suoi torturatori. Nonostante il trauma e pur avendo identificato cinque persone, il caso è stato chiuso per “assenza di prove”.
Un altro caso emblematico è quello di Ali Isa al-Tajer, che ha denunciato di essere stato torturato per 25 giorni. L’ufficio del Difensore civico non è stato in grado di garantire che egli fosse tenuto in un luogo sicuro e protetto dalla tortura, mentre l’Unità speciale per le indagini non ha agito tempestivamente sulla sua denuncia, evitando anche di disporre una visita di un medico legale. Entrambi gli organismi non hanno reagito agli allarmi che il detenuto era sottoposto a tortura né hanno tenuto informata la sua famiglia sugli sviluppi delle indagini.
“L’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini hanno la possibilità di apportare i tanto necessari cambiamenti e di migliorare la situazione complessiva dei diritti umani. Ma per essere davvero efficaci, devono operare con trasparenza e rapidità e dimostrare la loro indipendenza, nell’ambito di un più ampio progresso verso la fine dell’impunità e delle pratiche repressive e in direzione di una reale indipendenza del potere giudiziario” – ha aggiunto Maalouf.
“Il governo del Bahrein prese una decisione importante quando creò le due istituzioni, conferendo loro un mandato tale da poter favorire un reale cambiamento. Ora deve dare l’esempio, dimostrando che gli ostacoli politici e giudiziari all’impunità possono essere superati e che ha il coraggio necessario per rendere l’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini due istituzioni solide, in grado di ottenere la fiducia dell’opinione pubblica e agire efficacemente contro le violazioni dei diritti umani” – ha concluso Maalouf.
Ulteriori informazioni
Il rapporto si basa su oltre 90 interviste condotte dal 2013 con vittime di violazioni dei diritti umani, loro familiari, avvocati e difensori dei diritti umani, su informazioni tratte dalla corrispondenza intrattenuta con il governo e altre istituzioni locali del Bahrein e sulle costanti ricerche di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel paese.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 21 novembre 2016
Fonte: