Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

Condividiamo Salvo!

Pochi giorni fa ci salutava il compagno Salvo e io rimpiangevo di non aver ancora letto il suo ultimo libro che non era stato editato ma aveva deciso di far girare on-line. L’ho fatto in questi giorni: un racconto realistico che ben dice la situazione nelle carceri di ieri e, ahime, di oggi! E non poteva essere altrimenti, caro Salvo mio! C’è lo hai insegnato in ogni tua pagina e anche in ogni tua parola, ai microfoni della tua amata Radio Onda Rossa, nella trasmissione ” La conta” (https://www.ondarossa.info/trx/conta). Non poteva esserci nome più significativo di questo per evidenziare l’inutilità del carcere. E il modo in cui sei stato salutato, proprio sotto la radio, la dice lunga su chi sei stato. Quando l’ho letto dalle  pagine di Valentina (https://www.facebook.com/Baruda/posts/10157762348373429) e di Paolo (https://insorgenze.net/2020/04/12/lomaggio-a-salvatore-ricciardi-e-loccupazione-poliziesca-di-san-lorenzo-2/?fbclid=IwAR1SPVZt7WCzrCGCft5vow91zbbuN5GDqm36y7VMOSYFMTnYlaTy4_6I3g8), ho immaginato la tua risata! Ecco, te lo dico adesso cosa penso  di “Esclusi dal consorzio sociale” e ribadisco che sia il tuo testamento così come lo sono i testi editi. Come scrive Oreste Scalzone – altro suo grande compagno di lotte -, sul suo profilo Fb, ti abbiamo condiviso da vivo e a maggior ragione ti condividiamo ora che sei morto. Perciò condivido qui il tuo ultimo libro dalle pagine del tuo blog.

https://contromaelstrom.com/…/un-libro-e-qui-potete-scari…/…

CONTROMAELSTROM.COM
Ho finito di scrivere un libro e lo regalo a chi vuole leggerlo. Il libro lo pubblico su questo Blog, di seguito a questa premessa e alla copertina, se lo volete in pdf cliccateci sopra, se lo vo…
La tua casa editrice , DeriveApprodi, che ha pubblicato «Maelstrom. Scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia dal 1960 al 1980» (https://bit.ly/3cbyclT) e «Che cos’è il carcere. Vademecum di resistenza» (https://bit.ly/2JSZEJ5), ha deciso di ripubblicare il primo che era esaurito.
D. Q.
Da

– RISTAMPIAMO «MAELSTROM», DI SALVATORE RICCIARDI. IL LIBRO SARÀ DI NUOVO ACQUISTABILE SUL NOSTRO SITO A PARTIRE DA GIOVEDÌ 22 APRILE –

«Maelstrom» è un denso racconto autobiografico che si snoda nel contesto delle rivolte e dell’autorganizzazione di classe in Italia dal 1960 al 1980.
#SalvatoreRicciardi (Roma, 1940) dopo gli studi tecnici e il lavoro in un cantiere edile è assunto in qualità di tecnico nelle ferrovie dello Stato. Svolge attività sindacale nella Cgil e politica nel Partito socialista di unità proletaria.
Partecipa al movimento del ’68 studentesco e del ’69 operaio. Negli anni successivi è tra i protagonisti dell’autorganizzazione nelle realtà di fabbrica e dei ferrovieri. Dopo aver militato dell’area dell’autonomia operaia nel ’77 entra a far parte della Brigate rosse. Viene arrestato nell’80. Alla fine di quell’anno con altri prigionieri organizza la rivolta nel carcere speciale di Trani. Condannato all’ergastolo, alla fine degli anni Novanta usufruisce della semilibertà.
Oltre a «Maelstrom» Salvatore Ricciardi ha pubblicato per DeriveApprodi anche «Che cos’è il carcere. Vademecum di
resistenza».
Potete di seguito leggere una recensione a «Maelstrom» di Marco Clementi, autore per DeriveApprodi, con Paolo
Persichetti ed Elisa Santalena, di «Brigate rosse. Dalle fabbriche alla “campagna di primavera” (https://bit.ly/2JYm63q):

L'immagine può contenere: una o più persone e testo

Ecco la testimonianza di un detenuto uscito venerdì dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a Bologna aumentano i contagi.

 CARCERE  13 Apr 2020 21:00

«Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto»

A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal sindacato di polizia penitenziaria

L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al covid 19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio.

 

Alcune delle ferite riportate da un detenuto di Santa Maria Capua Vetere dopo il pestaggio

 

La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.

 

Altri segni del pestaggio

 

A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.

«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».

Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza.

 

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/detenuti-picchiati-carcere-da-300-agenti-volto-coperto/?fbclid=IwAR0dRIzTzCpthNKHCd1a-6dirNA3WxZ2nW1MT5m0VdhwdkDxRT-F3b51FJU


Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi a Bologna

Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale

Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza.  Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro.

«Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati», denuncia  Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna.

«Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid – ha aggiunto – e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».

I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale.

Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto – inizialmente – rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso – da parte dell’azienda sanitaria – per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: «Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri».

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/ancora-contagi-carcere-10-nuovi-casi-bologna/

Detenuto morto di coronavirus nel carcere di Voghera. I familiari chiedono chiarezza

carcere cella liscia

Si sono tenute oggi a San Leonardo di Cutro, in provincia di Cutro, le esequie del detenuto calabrese morto il 9 aprile all’Ospedale San Carlo di Milano.

Antonio Ribecco era un 59enne da tempo residente a Perugia, detenuto dal 12 dicembre scorso in quanto indagato insieme ad altre 96 persone nell’inchiesta Infectio della Dda di Catanzaro.

L’uomo ha contratto il Covid-19 nel carcere di Voghera dove essendo risultato infetto e ricoverato anche il cappellano, gli ospiti hanno insistito nel chiedere guanti, mascherine e tamponi. Istanza a cui sono seguiti presunti pestaggi e 10 trasferimenti in chiave punitiva verso altri penitenziari. Temendo il peggio, Antonio Ribecco (ristretto in una cella con altre tre persone) aveva scritto ai familiari, con i quali aveva intrattenuto l’ultimo colloquio il 15 febbraio, una lettera in cui spiegava come veniva gestita l’emergenza. Una testimonianza annunciata telefonicamente e spedita circa 30 giorni fa, mai recapitata ai destinatari, di cui pare si sia persa traccia.

Nessuno ci ha informati del fatto che nostro padre fosse positivo al coronavirus, eppure – spiega il figlio di Ribecco che da subito ha denunciato la vicenda attraverso l’associazione Yairaiha di Cosenza – abbiamo chiesto sue notizie di continuo. Neanche il Gip ed il Gup di Catanzaro ne erano a conoscenza, siamo riusciti a parlare con uno dei sanitari che lo aveva in cura dopo settimane, quando era ormai in Terapia Intensiva. Ci hanno detto che era molto grave, ma essendo sano la possibilità di guarigione era reale, anche se compromessa dal fatto che il virus era da diverso tempo che faceva il suo corso. Preciso che mio padre non aveva nessuna patologia, fino a dicembre correva ed andava più forte di me che ho 28 anni. I primi di marzo ci ha comunicato che aveva tosse e febbre alta da giorni, che il medico del carcere di Voghera non aveva voluto visitarlo e che per questo motivo la guardia penitenziaria gli aveva fatto una lettera di richiamo al dottore. Mi ha poi spiegato di averci inviato un riassunto di tutto quello che stava succedendo. Questa lettera non è mai arrivata”.

I legali della famiglia di Antonio Ribecco, Giuseppe Alfi e Gaetano Figoli del foro di Perugia stanno valutando l’ipotesi di sporgere denuncia per fare chiarezza sulla vicenda. “Avere detenuti infetti in carcere è pericolosissimo, ho per questo lanciato un appello ancora rimasto inascoltato. Lo Stato, è evidente, non si è attivato per garantire il diritto alla salute del nostro assistito. Vorremmo capire perché il medico si è rifiutato di visitarlo, perché non sia stata avvisata la famiglia, perché non è ancora pervenuta una relazione di cosa sia successo nel penitenziario di Voghera né l’ultima lettera inviata dal detenuto.

Nella morte di Antonio Ribecco, che era ancora in attesa di giudizio, esiste una responsabilità politica ed una tecnica che riguardano la gestione della pandemia nelle carceri.

Il Consiglio d’Europa – ricorda Alfi – aveva già sollecitato l’Italia ad aumentare le scarcerazioni concedendo gli arresti domiciliari per limitare il sovraffollamento al fine di evitare che i penitenziari diventassero enormi focolai di Covid-19. Le Camere penali italiane hanno a loro volta richiesto di seguire tali indicazioni. Il Ministero della Giustizia le ha ignorate e a sua volta anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. È oggi prevista la detenzione domiciliare solo per chi ha già una pena definitiva inferiore a 18 mesi con il vincolo di usare i braccialetti elettronici, dispositivi di cui l’Italia dispone in numero irrisorio. Il tutto è quindi ora demandato alla discrezionalità del singolo magistrato. Si sta ponendo a serio rischio la vita di molte persone”.

Maria Teresa Improta

da Adnkronos

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La morte di Antonio Ribecco non può essere imputata solo all’emergenza covid-19, sarebbe troppo facile. Ci sono stati ritardi ed omissioni che, purtroppo, sono stranamente ricorrenti nel penitenziario di Voghera. Ricordiamo il caso di Salvatore Giordano, deceduto il 2 gennaio di quest’anno. Per l’area sanitaria aveva solo un leggero ingrossamento del fegato, ma si trattava di tumore. Venne ricoverato in ospedale il 24 dicembre 2019 grazie all’intervento dei familiari che si presentarono ai cancelli del carcere chiedendo di conoscere le condizioni del proprio caro che ormai non riusciva neanche a parlare al telefono. Ricordiamo la storia di Pino Gregoraci, con una storia di grave depressione che chiedeva di incontrare uno psicologo ma non vide mai nessuno: si è impiccato il pomeriggio del 23 gennaio nella sua cella. E potremmo tornare indietro nel tempo, alla storia di Franco M. che stava male e chiedeva di capire cosa avesse ma i medici gli rispondevano “vai in saletta a giocare a carte che ti passa”! Anche in questo caso l’indignazione dei compagni e degli agenti permisero il ricovero in ospedale con ormai tutti gli organi in metastasi e la previsione di 6 mesi di vita. Non arrivò a 3.

Oggi la famiglia e gli amici piangono la morte di Antonio Ribecco e si chiedono se la sua vita  poteva essere salvata in tanti, presi in tempo, ce l’hanno fatta. Ma per Antonio, detenuto in attesa di giudizio, gli interventi sono arrivati tardi: 4 giorni di febbre alta, chiaro sintomo di covid-19, senza che il personale sanitario intervenisse. Ci sono volute la relazione di un agente nei confronti del medico e la battitura di tutta la sezione affinché venisse portato in ospedale.

A seguito del suo ricovero vennero messi in isolamento i compagni di cella e, a questo punto, tutta la sezione VII iniziò a chiedere, pacificamente, di poter effettuare il tampone anche a spese proprie.  Alle richieste legittime è seguita la risposta violenta con pestaggi e minacce, raccontatati dai detenuti ai familiari durante le telefonate. Abbiamo raccolto diverse testimonianze che trasmetteremo alla procura competente. In seguito, alcuni detenuti (principalmente quelli che hanno denunciato ai familiari quanto avvenuto) sono stati trasferiti in altre carceri, aumentando esponenzialmente la propagazione del rischio contagio. Sono tanti gli aspetti inquietanti della gestione dell’emergenza coronavirus nelle carceri: a partire dalla mancanza di dispositivi di protezione in un luogo dove la distanza sociale è impensabile, alla mancanza di provvedimenti reali di alleggerimento dei numeri, alla predisposizione tardiva di aree per l’isolamento sanitario, a finire alla movimentazione dei detenuti da carceri, dove già si registravano casi positivi, ad altri istituti, per punizione. Una gestione scellerata che sta mettendo a rischio la vita di migliaia di persone tra detenuti e personale, ed è proprio tra il personale che si registrano, fino ad ora, i numeri più alti di contagiati e deceduti. Le responsabilità non possono essere imputate solo al virus: ci sono precise responsabilità politiche e amministrative. Sbaglia chi considera il carcere come “il luogo più sicuro” perché accanto alla sospensione dei colloqui avrebbero dovuto impedire al personale penitenziario di uscire se non intendevano intervenire con un provvedimento di amnistia e indulto o sospensione della pena e della custodia cautelare (che riguarda oltre 20.000 persone) fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Qualsiasi provvedimento adottato avrebbe dovuto agire in base all’art. 32 della Costituzione senza preclusioni che non rispondono all’emergenza in atto.

Ci auguriamo che il governo voglia invertire la rotta in tempi rapidi, facendo propri gli appelli e le raccomandazioni che, dalla più piccola associazione al Consiglio di Europa, passando per Papa Francesco e il Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, indicano la strada da seguire: sospensione della pena per i soggetti più vulnerabili (ammalati e anziani) invitando i magistrati di sorveglianza ad andare in deroga all’inutile decreto governativo per emergenza sanitaria in atto.

Associazione Yairaiha Onlus    

 

       Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/detenuto-morto-coronavirus-al-carcere-voghera-familiari-chiedono-chiarezza/

 

Il silenzio sulle violenze in carcere dopo le rivolte di marzo

Dal profilo Facebook della giornalista
Maria Elena Scandaliato

7 h 

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Il servizio sulle violenze nelle carceri dopo le rivolte andato in onda questa mattina a Buongiorno regione Lombardia

BUONA PASQUA AI DETENUTI

Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.


Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa

(disegno di sam3)

Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.

La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).

Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.

Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.

A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.

Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».

In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere

Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.

La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.

Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.

“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)

Fonte:

https://napolimonitor.it/il-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-e-la-mattanza-della-settimana-santa/?fbclid=IwAR1okhjICUkXQ-OZc4QQ4g7V545OoGmdumNlTY1cqiGVxu9XmhDmaIaYkcE

Ciao, Salvatore!

Carissimo Salvatore, da tanto non ci sentivamo… C’eravamo persi di vista ognuno con la sua vita, la mia di insegnante di sostegno precaria alle prese con un lavoro che troppe volte mi sembra più grande di me, la tua di grande compagno impegnato da sempre nella lotta contro il carcere. Quello stesso carcere dove hai passato una bella fetta della tua vita. C’eravamo conosciuti anni or sono quando ancora non sapevo che piega avrebbe preso la mia vita. Era la prima volta che mi trovavo da sola fuori dalla mia città natale e avevo cominciato da poco ad acquisire una certa coscienza politica. E sei stato, insieme ai tuoi compagni di lotta, a insegnarmi a essere contro ogni forma di carcerazione. Oggi leggo della tua scomparsa dal profilo Facebook di Paolo Persichetti, tuo fraterno amico e da sempre compagni di lotte, anche lui conosciuto in quel periodo della mia vita. Leggo della tua improvvisa dipartita e mi rammarico di non essere più riuscita a incontrarti di persona dopo quella lontana primavera del 2013, a causa dei nostri diversi impegni. Ma più di tutto rimpiango di non aver ancora letto il tuo ultimo libro che mi mandasti tempo fa per email, chiedendomi di farti sapere cosa ne pensavo. Come sai, avevo letto altri tuoi libri e conoscevo il tuo blog. Spero mi perdonerai per questa mancanza. Cercherò di leggerlo al più presto: lo considero il tuo testamento.

Mi ricordo del tuo sorriso e della tua pacatezza.
Ciao, Salvo, noi che ti abbiamo conosciuto non ti dimenticheremo mai perché chi ha compagni non muore mai!
Un caro saluto a pugno chiuso!

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Foto tratta dal profilo Facebook di Paolo Persichetti.

Qui il la copertina e il link del suo blog:

https://contromaelstrom.com/

 

Argentina, libertà e assoluzione per Higui

ARGENTINA #LibertadYAbsolucionParaHigui
Oggi, 17 maggio, Giornata Nazionale di mobilitazione per la libertà immediata e per l’assoluzione di Eva Analia de Jesus, detta Higui,ingiustamente detenuta da sette mesi per essersi difesa dall’ attacco di una banda di dieci uomini che volevano infliggerle uno stupro correttivo perchè lesbica.

Aveva con sè un coltello, perchè minacciata più volte in altre occasioni e, mentre era a terra con dieci uomini che la picchiavano e la minacciavano di stupro, non ha esitato ad autodifendersi, ferendo a morte uno degli assalitori. Quando è arrivata la polizia Higui era ancora lì, sanguinante, ferita e con gli abiti strappati. Si è ritrovata in una cella, dove è agli arresti dall’ottobre 2016, accusata di omicidio. I suoi assalitori sono tutti a piede libero. Questa in breve la vicenda drammatica che sta mobilitando nel Paese numerose organizzazioni e associazioni femministe perchè Higui venga rilasciata e assolta per legittima difesa. A tutt’ oggi non è ancora stata definita la data del processo, sono stati negati gli arresti domiciliari e tutto il fascicolo che riguarda Higui è pieno di gravi irregolarità. Per tutte queste ragioni è stata indetta per oggi, giornata globale di lotta contro l’omolesbotransfobia, una mobilitazione nazionale per la libertà immediata di Higui.

In questi mesi la mobilitazione militante ha prodotto diversi video che raccontano la vicenda e la vita di Higui. La sua famiglia è molto attiva nell’ organizzare la mobilitazione per liberarla. Qui di seguito i link di video, articoli e la traduzione del comunicato del Coordinamento per la Libertà e l’Assoluzione di Higui postato dal collettivo Cagne Sciolte di Roma.
http://agenciapresentes.org/…/negaron-excarcelacion-a-higu…/
https://vimeo.com/216850987
https://www.facebook.com/notes/cagne-sciolte/siamo-tutt-per-limmediata-liberazione-e-assoluzione-per-higui/1552050808152903/

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Mario Scrocca, trent’anni senza verità. Di giustizia nemmeno a parlarne

Lo stranissimo suicidio in carcere di un infermiere sindacalista arrestato per errore. Si chiamava Mario Scrocca. Un’inchiesta mai fatta davvero

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di Francesco Ruggeri

Primo maggio del 1987, alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluriomicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino.

Scrocca fu arrestato per il duplice omicidio di due neofascisti in via Acca Larentia nel gennaio 1978 sulla base delle rivelazioni di una pentita Livia Todini (all’epoca dei fatti quattordicenne), che parlò di un certo Mario riccio e bruno ma non lo riconobbe nel corso del riscontro fotografico. Questa è una delle storie contenute nel sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, e sulla quale sta per uscire un documentario che verrà presentato l’11 maggio al Cinema Palazzo di Roma.

Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella antisuicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S.Spirito.

I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa.

Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura.

Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane.

L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di seconda mano di una pentita che avrebbe appreso notizie da una persona non rintracciabile. Evidenti le irregolarità nella carcerazione, le stranezze della morte del giovane e nei referti autoptici.

Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva.

La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere militante di Lotta continua e poi tra i fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2017/04/30/mario-scrocca-trentanni-senza-verita-di-giustizia-nemmeno-a-parlarne/

Gabriele Del Grande è libero, festa in Toscana. “Darà ancora voce agli ultimi”

La Turchia rilascia il giornalista e blogger. Che ha raggiunto l’Italia atterrando a Bologna

Ultimo aggiornamento:

La felicità di Gabriele Del Grande al suo arrivo a Bologna

Gabriele Del Grande al suo arrivo a Bologna (LaPresse)

Panicagliora (Pistoia), 24 aprile 20137 – Gabriele Del Grande è libero e la Toscana tira un sospiro di sollievo. Il blogger e giornalista, che era stato arrestato in Turchia nei giorni scorsi, è stato liberato e nella mattinata di luned’ì 24 aprile ha potuto raggiungere l’Italia, con un volo atterrato a Bologna. Una notizia che ha fatto rapidamente il giro di Panicagliora, il paese in provincia di Pistoia dove risiedono i genitori di Gabriele, originari di Lucca. Che proprio nella prima mattinata di lunedì sono partiti per l’aeroporto di Bologna, per andare ad abbracciare il figlio.

Scene di gioia nella zona degli arrivi dello scalo bolognese quando Gabriele è spuntato dalla porta. Un abbraccio con i genitori e con la compagna, Alessandra D’Onofrio. Il ristorante di famiglia è rimasto chiuso tutta la mattina. Un cartello dava la notizia della liberazione di Gabriele e del viaggio a Bologna dei proprietari, i genitori appunto. Che sono rientrati a Panicagliora nel pomeriggio.

«Il ferro si tempra nella fucina, nel fuoco, nella sofferenza. Gabriele è tosto. Se prima aveva voce, adesso ne ha più di prima, e ha più voglia di dar voce a chi non ha voce. È il Gabriele di sempre, ora forte più che mai», dicono gli stessi genitori. E aggiunge la madre che Gabriele ripartirà. «Certo è libero, può fare quello che ritiene», ha detto, confermando così che la famiglia ha sempre appoggiato le attività del blogger toscano e continuerà a farlo «anche dopo questo momento altamente emotivo».

«Ci stavamo dando da fare – dicono i genitori riferendosi ai cupi momenti della prigionia – non lo avremmo lasciato lì. Ci hanno fatto un bel regalo», dicendo poi: «Purtroppo ci sono troppi giornalisti fermi là nelle carceri, non ci si dimentica degli altri». In aeroporto «il primo abbraccio è stato per la moglie, le prime parole per i figli». «Era il Gabriele di sempre, ha scherzato sul fermo». Gabriele Del Grande non ha raggiunto Panicagliora. Terrà infatti una conferenza stampa, nella giornata di mercoledì 25 aprile a Roma, alla sede della Stampa Estera. Ma intanto può rilassarsi e lasciare alle spalle giorni molto duri. La prima cosa che si è concesso, un pranzo tipicamente italiano con la famiglia, tra antipasti toscani e pasta.

“Abbiamo riportato a casa Gabriele – ha detto intanto il ministro Alfano -. Missione compiuta, ringrazio il governo turco perche’ anche nei momenti di massima tensione non abbiamo mai perso il contatto. Ci hanno segnalato che dovevano fare degli accertamenti e li hanno fatti”.

Gabriele Del Grande all'aeroporto di Bologna

Gabriele Del Grande all’aeroporto di BolognA

Riproduzione riservata

Fonte:

http://www.lanazione.it/cronaca/gabriele-del-grande-libero-1.3063291

Gabriele Del Grande fermato in Turchia telefona alla compagna: “Non rispettano miei diritti, comincio sciopero della fame”

Da

Oggi alle 14.30 ci ha chiamato Gabriele del Grande. È la prima telefonata concessa da domenica 9 quando è stato fermato dalle autorità turche al confine nella regione di Hatay. Era in Turchia dal giorno 7 Aprile. Dice Gabriele: “Sto parlando con quattro poliziotti che mi guardano e ascoltano. Mi hanno fermato al confine, e dopo avermi tenuto nel centro di identificazione e di espulsione di Hatay, sono stato trasferito a Mugla, sempre in un centro di identificazione ed espulsione, in isolamento. I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio telefono e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito ripetuti interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta. Non mi è stato detto che le autorità italiane volevano mettersi in contatto con me. Da stasera entrerò in sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti”. Ci siamo messi in macchina una volta, siamo pronti a tornare in strada per i diritti.

Da Il fatto quotidiano:

Gabriele Del Grande fermato in Turchia telefona alla compagna: “Non rispettano miei diritti, comincio sciopero della fame”
Mondo
Dopo sette giorni di silenzio i familiari del giornalista sono tornati a sentire la sua voce. “I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta”, ha detto nella telefonata
“Da stasera inizio lo sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti”. Dopo sette giorni di silenzio i familiari di Gabriele Del Grande sono tornati a sentire la sua voce.  Fermato lunedì 10 aprile dalle forze di polizia turche nella regione dell’Hatay, il blogger e documentarista ha infatti telefonato  alla compagna e ad alcuni amici. “I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta”, ha detto nella telefonata.Del Grande è trattenuto da alcuni giorni in un centro di detenzione amministrativa, ed è riuscito a chiamare in Italia dal telefono della struttura dove è detenuto. Mentre telefonava ha raccontato di essere circondato da quattro poliziotti. “Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio cellulare e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato”.Oggi dalle pagine del Corriere della Sera era stato Massimo del Grande, padre di Gabriele a raccontare di non essere ancora riuscito a parlare con il figlio. “Siamo tutti in ansia – ha detto – Purtroppo, tra vacanze di Pasqua e referendum in Turchia, anche se è assurdo, è ancora tutto fermo”.  La Farnesina ha assicurato che le condizioni del giornalista sono buone, e che la sua espulsione dalla Turchia doveva essere “imminente”, già tre giorni dopo il fermo. All’alba dell’ottavo giorno Del Grande non è ancora rientrato ha potuto soltanto telefonare a casa.

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