"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
Ulteriori dettagli emergono dalla vicenda dei carabinieri arrestati a Piacenza. Francesca, una sex worker transgender, racconta di essere stata obbligata a collaborare e a soddisfare le richieste dei militari. «Se non collabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell’altro ti frego e ti rimando in Brasile»: sarebbero queste le minacce che le sarebbero state rivolte dal maresciallo Orlando, secondo quanto dichiarato dalla stessa Francesca all’ANSA.
Racconta, poi, di come i carabinieri organizzassero nella caserma Levante dei festini, aiutati da un’altra donna trans chiamata Nikita, in cui vi sarebbe stata moltissima droga e le due donne sarebbero state costrette ad avere rapporti sessuali, venendo pagate in cocaina. In un’altra occasione, un carabiniere si sarebbe presentato a casa sua, con il suo fascicolo in mano, pretendendo sesso gratis.
Infine, come riporta La Stampa, un evento di certo angosciante che racconta Francesca: «Una sera – dice – mi hanno beccato in strada, volevano rompermi le scatole. Mi hanno portato ore in giro per i campi a cercare gli spacciatori e poi siamo finiti in caserma dove mi hanno chiusa dentro. Io ad un certo punto ho risposto in maniera aggressiva perché non avevo fatto nulla e mi tenevano là. Allora uno di loro mi ha dato una spinta e mi ha fatto cadere per terra». Botte che anche altre avrebbero subito. «C’è un’altra donna trans, una mia amica che ora è a Roma, si chiama Flavia, anche lei è stata picchiata dai carabinieri. Molte donne trans sono state minacciate se non facevano quel che dicevano loro».
Francesca spera che i Pm possano ascoltarla per poter raccontare quello che accadeva in quella che è stata ribattezzata dai media la “caserma degli orrori” e poter dare voce alle donne che, come lei, sono state vittime di violenza e abusi in un luogo che doveva tutelarle, ma che invece è diventato una succursale dell’inferno.
Manuel Ellis ucciso come George Floyd: un video incastra i poliziotti assassini
L’afroamericano era morto a marzo per asfissia dopo essere stato arrestato a Tacoma. Ora un filmato ha dimostrato la brutalità degli agenti. La sindaca: è stato un omicidio
Tanti lo hanno detto: per una persona uccisa davanti alle telecamere (George Floyd) ci sono state tante altre vittime della polizia violenta morti dopo essere stati aggrediti e picchiati o colpiti dai poliziotti i cui casi non sono nemmeno mai stati aperti perché tutto risultava ‘regolare’.
Adesso anche nel caso di Manuel Ellis, l’afroamericano di 33 anni ucciso nel marzo scorso a Tacoma durante l’arresto, spunta un video che inchioda gli agenti del dipartimento di polizia della città dello stato di Washington alle loro responsabilità. Nel video, diffuso dal Tacoma Action Collective, infatti si vedono gli agenti che picchiano Ellis dopo averlo schiacciato a terra e ammanettato sul ciglio di una strada.
La sindaca di Tacoma, Victoria Woodards, che ha chiesto il licenziamento dei quattro agenti coinvolti sottolineando che il video diffuso conferma quello che i medici legali della contea hanno reso noto nei giorni scorsi, stabilendo che la morte di Ellis, avvenuta per asfissia, è stato un omicidio.
“Questa sera la famiglia ha chiesto perché ci vuole sempre un video per far convincere la gente che la vita di una persona nera è stata tolta in modo ingiusto? come donna afroamericana non ho bisogno di un video per credere”, ha detto Woodards chiedendo al procuratore distrettuale di procedere velocemente nei confronti degli agenti coinvolti. “Mentre guardavo il video diventavo sempre più arrabbiata e delusa”, ha aggiunto la sindaca.
I medici legali del Pierce County Medical Examiner’s Office hanno reso noto che Ellis, che aveva gravi problemi di tossicodipendenza, aveva delle sostanze stupefacenti nel suo sistema al momento della morte, ma hanno stabilito che non sono state queste a provocarla. L’ufficio del medical examiner – che ha pubblicato il suo rapporto mentre anche nelle strade di Tacoma si sta protestando – ha quindi definito la morte come omicidio.
All’epoca dei fatti, gli agenti avevano detto che Ellis era in preda ad una sorta di delirio violento ed aveva attaccato i due poliziotti che erano intervenuti che hanno quindi chiamato rinforzi cercando di calmarlo. I quattro agenti coinvolti – due bianchi, un afroamericano ed un asiatico – erano stati sospesi dal servizio subito dopo i fatti, ma prima della pubblicazione dei risultati dell’autopsia erano rientrati in dipartimento. Il governatore Jay Inslee ha annunciato che lo stato avvierà un’inchiesta indipendente sulla morte di Ellis.
“La più triste realtà è che George Floyd è qui a Tacoma, ed il suo nome è Manny”, ha detto il legale della famiglia di Ellis”, affermando che nel video si sente Ellis gridare “non riesco a respirare”, I can’t breath, come fece Floyd. Intanto, il sindacato della polizia di Tacoma ha diffuso una dura nota in cui attacca la sindaca per aver parlato basandosi su “un breve, sfocato video di Twitter” e sottolineato che “ora è il momento per i fatti e non i teatrini: quello che è successo a George Floyd nelle mani della polizia è sbagliato, gli agenti di Tacoma non hanno assassinato Mr Ellis”.
Nick Knudsen #DemCast@DemWrite
On March 3rd, #ManuelEllis died at the hands of four Tacoma police officers.
Thursday, Manuel’s death was ruled a homicide. The cause: hypoxia — a lack of oxygen reaching body tissues — due to physical restraint. #ICantBreathe
«Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto»
A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal sindacato di polizia penitenziaria
L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al covid 19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio.
La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.
A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.
«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».
Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza.
Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi a Bologna
Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale
Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza. Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro.
«Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati», denuncia Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna.
«Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid – ha aggiunto – e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».
I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale.
Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto – inizialmente – rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso – da parte dell’azienda sanitaria – per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: «Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri».
Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.
Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa
Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.
La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).
Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.
Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.
A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.
Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».
In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere
Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.
La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.
Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.
“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)
Nella favela della Rocinha, a Rio, in una settimana ci sono stati 12 morti.
L’ultimo questo papà, che era nella veranda di casa con suo bebè in braccio, quando viene raggiunto dai proiettili…facendo con che il bambino cadesse per terra, sbatendo la testa.
Tutto questo perche sia polizia militare che governo insistono in questa maledetta politica di “combatte alle droghe”.
Ancora altri neri poveri e favelati sono stati uccisi….senza contare i morti delle altre favelas.(solo nel complexo do alemao 5 raggazzi innocenti uccisi)
E della morte di Mariella non se ne parla più.
Un’anno fa Maria Eduarda, 13 anni, fu colpita da 4 proiettili di kalashnikov mentre faceva educazione fisica dentro alla scuola che si trova in una favela di Rio de Janeiro.
I poliziotti che hanno sparato sono ancora in libertà.
La cosa peggiore é che dopo di lei ci sono stati tanti altri……….. E sempre per colpa di questa maledetta politica di “combatte alle droghe”…..che riesci solo a fare vittime innocenti.
I veri trafficanti si trovono nei quartieri benestanti della città…..ma li la polizia militare non fa intervento.
Si sa che sono tutti bianchi.
Impegnati in una delle numerose azioni di questi giorni agenti del Bope hanno provocato la morte di una giovane studentessa, la tredicenne Maria Eduarda Alves de Conceiçao. Nel Complexo do Alemão, nel Morro dá Fé Penha. Come testimoniato dal video, si avvicinano a un muro dove sono stesi, presumibilmente feriti, due giovani e li freddano con due colpi a bruciapelo. Il tutto è avvenuto verso le sette del mattino e si è svolto nelle vicinanze di una scuola dove si trovava Maria Eduarda Alves che è stata colpita dai colpi sparati dai soldati. La gente è immediatamente scesa in strada e ha circondato quelli del Bope, anche per proteggere i tanti ragazzini che si trovavano già nella struttura oltre che a protestare per l’ennesima violenza. Dall’inzio di quest’anno, solo nelle favelas di Rio, sono 180 i casi di morti causati da proiettili del Bope. (di Ivan Compasso)
Era donna, di sinistra, femminista, nera, lesbica, sociologa, consigliera comunale a Rio de Janeiro e attivista per i diritti umani. Marielle Franco aveva 38 anni e la notte tra il 14 e il 15 marzo è stata uccisa mentre rientrava nella sua casa nel Complexo do Maré, un agglomerato di favelas a Rio de Janeiro dove vivono almeno 130mila persone.
Dopo una riunione di lavoro per discutere della violenza contro le donne nere, Franco, un’assistente e Anderson Pedro Gomes, che occasionalmente lavorava per lei come autista, stavano rientrando in macchina verso la favela. Non lontano dal centro, un’auto si è affiancata alla loro e ha sparato almeno tredici colpi: quattro hanno colpito l’attivista alla testa, tre hanno raggiunto Gomes. Solo l’assistente è uscita illesa dall’attacco.
Il Brasile è tra i paesi più violenti del mondo e Rio de Janeiro non è certo un’eccezione. Di solito un singolo omicidio non fa notizia ma l’uccisione di Marielle Franco è un fatto grave che per molte ragioni ha avuto una risonanza forte non solo nel paese, ma anche all’estero. Centinaia di migliaia di brasiliani sono scesi in piazza in molte città brasiliane il giorno successivo al suo omicidio, Amnesty international ha chiesto al governo un’inchiesta adeguata, parlando di “un omicidio mirato” che ha messo in evidenza i pericoli a cui vanno incontro i difensori dei diritti umani in Brasile.
Come scrive il Guardian, la condanna espressa dalla comunità internazionale conta. Perché, se da un lato offre supporto morale a chi protesta e si batte per i diritti delle comunità più marginalizzate, dall’altro fa capire ai politici che il Brasile sarà giudicato da come gestirà l’inchiesta sulla morte di Franco e da quanto presterà ascolto ai suoi avvertimenti.
Da anni Marielle Franco denunciava le violenze e gli abusi commessi dalla polizia nelle favelas di Rio. Pochi giorni prima di essere uccisa aveva puntato il dito pubblicamente contro l’intervento del 41esimo battaglione della polizia militare, senz’altro il più violento della città, nella favela di Acari. Il 13 marzo, riferendosi a Matheus Melo, un giovane assistente di un parroco di una chiesa evangelica ucciso dalla polizia militare nel quartiere di Manguinhos, aveva scritto in un tweet: “Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?”.
Mais um homicídio de um jovem que pode estar entrando para a conta da PM. Matheus Melo estava saindo da igreja. Quantos mais vão precisar morrer para que essa guerra acabe?
07:38 – 13 mar 2018
Pochi dubitano del fatto che quello di Franco sia stato un omicidio politico: “Un’esecuzione che non ha precedenti nella storia recente del Brasile”, ha scritto la Folha de S. Paulo. Un omicidio che segna un prima e un dopo per la democrazia brasiliana, tra l’altro in un anno di elezioni presidenziali e con un presidente, Michel Temer, che gode di una bassissima popolarità e un candidato estremista e reazionario, Jair Bolsonaro, secondo nei sondaggi delle intenzioni di voto dei brasiliani. Perfino O Globo, quotidiano brasiliano di orientamento conservatore, ha espresso una posizione di ferma condanna verso l’omicidio, “un attacco alle istituzioni e alla democrazia inammissibile in uno stato di diritto”, un’uccisione che oltrepassa i confini dello stato di Rio de Janeiro e assume una dimensione nazionale.
L’omicidio dimostra che militarizzare uno stato e mandare l’esercito nelle strade per affrontare il problema della violenza, come è stato fatto a Rio, non è una strategia che funziona. Potrebbe, per iperbole, perfino avere un effetto positivo e risvegliare dall’apatia una società che si stava abituando a considerare normale una violenza così diffusa e capillare. “Che la vita di Marielle Franco possa servire da esempio a nuove forme di resistenza”, ha scritto il giornalista Leonardo Sakamoto, “e ricordarci che, senza l’indignazione, non siamo diversi dalle bestie”.
All’alba del primo giorno del duemiladiciassette, Firenze si sveglia con la notizia di un ordigno che ha ferito, e gravemente, un poliziotto. Un servitore dello Stato. Ha perso una mano e un occhio, una vita mutata nel giro di qualche ora. L’ospedale. La disperazione. Il ministro. Il capo della Polizia. Lo Stato presente al fianco dei suoi uomini. E poi i gesti di solidarietà dei colleghi, la rabbia della famiglia. Tutti al posto giusto in una storia fin troppo ingiusta. Dove in mezzo passa anche la sfortuna di un destino crudele.
“Spero di tornare a fare il mio mestiere” ha detto l’agente al chirurgo che gli stava per amputare la mano. Ma guarda te, se per poco più di mille euro al mese, la notte di Capodanno, un uomo deve perdere una mano e un occhio, per colpa di una bomba messa per ragioni di lotta politica? E siamo nel 2016. Assurdità. Follie. Eppure quest’uomo è senza la mano sinistra e non si sa se ci vedrà mai più dall’occhio esploso con la bomba.
Non c’è ragione che sia accaduto questo, ma la vita purtroppo riserva situazioni incredibili e imprevedibili. Ed il sovrintendente Mario Vece lo sa. Come quando, in un attimo, ti ritrovi vittima dopo che sei stato carnefice. Povero Mario Vece. Eh sì, povero Mario Vece. Poveri, però, anche quei quattro ragazzi che nel 2001 finirono pestati sotto le sue mani e di quelle di suoi due colleghi.
Una storiaccia, brutta, brutta. Di quelle destinate ad essere dimenticate in fretta. Un battibecco all’entrata di una discoteca a Pistoia, poliziotti che intervengono e portano quattro ragazzi in questura. Lì vengono scambiati per cittadini albanesi e per questo motivo insultati e picchiati. Lo dicono anche i referti dell’ospedale dove ad uno dei quattro giovani verrà riscontrato il timpano sfondato, il setto nasale incrinato e un testicolo tumefatto. Per gli altri contusioni, trauma cranici e lesioni varie su più parti del corpo.
E all’epoca, per questi fatti, finirono agli arresti domiciliari l’ispettore Paolo Pieri, il vice sovrintendente Stefano Rufino e anche l’allora assistente Mario Vece, tutti accusati di lesioni gravi, falso e calunnie, perchè falsificarono anche i verbali. Una storia brutta poi finita con un patteggiamento a 14 mesi per Vece (condannati anche i colleghi), la sospensione dal servizio, il successivo trasferimento a Montecatini, poi a Pisa e infine a Firenze, come artificiere.
E per citare le parole di 16 anni fa dell’allora presidente della Regione Toscana Claudio Martini, “se tra i giovani che hanno subito quel pestaggio non ci fosse stato il figlio di un sottosegretario l’episodio non sarebbe mai venuto a galla”. Eh sì, perchè Vece e i suoi colleghi pestarono di botte il figlio dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vannino Chiti. Vece oltre a picchiare quei ragazzi era accusato, e ha patteggiato la pena, di aver falsificato i verbali di quella storia.
Oggi, è giusto provare compassione e anche commozione per questo poliziotto ferito. Sono sentimenti ed emozioni a cui la natura umana cede e di cui sente il bisogno, quasi come per sapersi persone migliori. Viviamo una società portata a giudicare tutto, che si esprime con un like, in maniera netta. Viviamo in una società capace di farsi incantare. Ma attenzione a celebrare nuovi eroi. Mario Vece non lo era e non lo è diventato dopo quella bomba. Oggi, è giusto celebrare il caro prezzo di quello che significa portare una divisa, ma può anche essere l’occasione per ricordare di non abusarne mai.
Collipulli/ Trasferiscono nella clinica Germanica di Temuco un giovane gravemente ferito che all’interno della sua comunità di Collipulli è stato codardamente colpito alla schiena da un proiettile sparato da un carabiniere del Cile.
Bisogna precisare che durante la giornata di domenica, un giovane è stato gravemente ferito dopo aver ricevuto un colpo di fucile alla schiena, sparato da un uomo delle Forze Speciali dei carabinieri della base di polizia, che precedentemente era il Liceo di Pailahueque.
È stato verso mezzogiorno quando un contingente di carabinieri è arrivato nel settore della strada R-49 verso Curaco, comune di Collipulli, Provincia del Mallevo (IX regione). Secondo dei testimoni, i carabinieri sono giunti nella località in modo prepotente, puntando le loro armi con l’obiettivo di “fare dei controlli di identità” durante delle normali operazioni nella zona. Sul luogo si trovava un gruppo di persone che hanno cominciato a discutere con i carabinieri soprattutto per il modo con cui si stava portando a termine la procedura nei confronti di un bambino di circa 13 anni.
È stato allora, secondo gli stessi testimoni, che le persone presenti sul posto hanno discusso per i violenti metodi e particolarmente per quanto avveniva al bambino di 13 anni che costretto al suolo gridava per chiedere aiuto. In quel momento è intervenuto Brandon per aiutare l’altro minore (che è risultato essere suo fratello) e anche lui è stato costretto al suolo dai carabinieri. Mentre era lì costretto al suolo, uno dei carabinieri ha sparato con il suo fucile ferendo gravemente alla schiena Brandon H. (17). Il fatto è stato confermato da DiegoHernández, padre di Brandon. Lo sparo è stato fatto da un Sergente in Seconda dei carabinieri, membro del contingente di polizia. A quel punto il gruppo di persone ha reagito lanciando pietre e gridando contro i carabinieri, questi ultimi hanno chiamato altri contingenti di polizia e il giovane è stato dapprima preso dai suoi accompagnatori, ma anche dai carabinieri, per essere portato d’urgenza ad un Centro sanitario di Angol.
Una fonte diretta ha confermato a www.werken.cl che in queste ore Brandon è stato trasferito nella clinica Germanica di Temuto, dove si trova in pericolo di vita con più di 100 pallini nella schiena, ci hanno informato, inoltre, che il carabiniere gli ha sparato quando il peñi (fratello) si trovava già al suolo bloccato dagli agenti statali.
In questo momento c’è grande tensione nella zona, che si trova già circondata dalle forze repressive cilene, dall’altra parte le comunità mapuche del settore hanno fatto un appello alla mobilitazione e a opporsi all’attacco dei carabinieri e alla militarizzazione della zona.
Francia. Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano. Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.
Il caso Adama poteva restare una delle numerosissime morti impunite delle banlieue francesi.
Negli ultimi decenni, dicono alcune stime non ufficiali, circa una dozzina di persone all’anno sono morte nei commissariati della république, in stragrande maggioranza immigrati di terza o quarta generazione originari dell’ex impero coloniale francese.
Si tratta di tragedie «normali», conseguenza del regime d’eccezione permanente che vige nelle periferie.
Poteva restare un nome tra tanti, e invece giorno dopo giorno sempre più persone sanno chi è Adama Traoré.
Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano.
Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.
Con una voce ferma e decisa, Assa ripete costantemente la domanda di verità e giustizia. Non si rappresenta come una rivoluzionaria, ma esige che la storia della sua famiglia, del suo quartiere, di tutti i soggetti «razzializzati» delle periferie francesi, non sia la storia di cittadini di serie B.
Assa scoperchia su giornali e televisioni le contraddizioni della «patria dei diritti umani». Sfrutta lo stesso sistema mediatico da sempre complice del silenziamento e della marginalizzazione delle periferie, ma ne ribalta le logiche: replica punto su punto ai tentativi di criminalizzazione, racconta le difficoltà dei quartieri popolari e delle persone che ci vivono, chiede che sia fatta chiarezza.
Ed è forse attorno a questa domanda di verità e giustizia che si sta innescando nell’esagono una fondamentale alleanza: quella tra il centro delle metropoli e le periferie, tra la sinistra «storica» ed i soggetti periferici da sempre in lotta contro un sistema che li mette agli ultimi posti nella catena dello sfruttamento.
Dopo l’enorme movimento contro la riforma del lavoro che ha segnato la prima metà dell’anno, la Francia si avvia in una campagna elettorale all’insegna del conservatorismo, del razzismo e dell’islamofobia. La mobilitazione in campo potrebbe diventare anche una risposta a questa torsione, un punto di riconnessione per resistere alla progressiva deriva verso destra dell’asse politico.
Si chiamava Deborah Danner ed era schizofrenica, la 66 enne afroamericana uccisa dalla polizia a casa sua, nel Bronx. La polizia, come aveva già fatto, avrebbe dovuto scortarla in ospedale. L’hanno trovata nuda, «armata» di forbici e mazza da baseball. «È inaccettabile – ha detto il sindaco De Blasio – la polizia dovrebbe usare la forza solo in situazioni di estremo pericolo». Anche per il capo della polizia, James O’Neill, le «procedure non sono state rispettate» e «in questo caso abbiamo fallito». Intanto Deborah è morta ammazzata.