Fonte:
https://twitter.com/notav_info/status/1288787767028322304/photo/1
di Checchino Antonini
Scrive Nicoletta Dosio: «La lotta paga e non è vero che il più prepotente ha sempre ragione. Quest’esperienza ci dimostra che l’opposizione collettiva all’ingiustizia è l’unica arma vincente. Ma la strada della ribellione non si interrompe qui: ora dobbiamo batterci per la libertà di tutte e tutti. Un grazie a Valentina ed Emanuele, i nostri avvocati per i quali diritto e giustizia vanno ben oltre i banchi dei tribunali. Un abbraccio a voi che avete condiviso con me quest’esperienza e che continuate testardamente, giorno dopo giorno questa nostra avventura di liberazione: il viaggio non è finito, la lotta continua». Per effetto di una decisione della Cassazione sono state cancellate le misure restrittive a carico di Nicoletta Dosio, la militante No Tav che viola sistematicamente gli arresti domiciliari per protesta contro una misura evidentemente “politica” della magistratura. Si tratta di quelle emesse nell’inchiesta sugli incidenti avvenuti in Valle di Susa nel giugno del 2015. Nicoletta, comunque, non torna completamente in libertà perché nell’ambito di un altro provvedimento è sottoposta al divieto di dimora a Susa, anche questo teso a evitare che prenda parte alla lotta contro il mega elettrodotto. La Suprema Corte, in particolare, nell’inchiesta sugli episodi del giugno 2015 ha annullato la prima misura restrittiva, l’obbligo di firma dai carabinieri, emessa la scorsa estate. La Dosio aveva cominciato subito a non rispettare la disposizione e, di conseguenza, era stato disposto un aggravamento del regime cautelare. Non si conoscono le motivazioni, ma gli avvocati difensori avevano sollevato una questione sull’uso di video da parte della accusa. Il provvedimento degli ermellini riguarda anche un altro No Tav, Fulvio Tapparo. Dosio resta soggetta al divieto di dimora a Susa in una seconda indagine, relativa a dimostrazioni in Valle di Susa del dicembre 2015 e gennaio 2016.
Ecco come riassume la vicenda il sito www.notav.info/
Con il provvedimento della Cassazione, reso operativo da oggi, Nicoletta non è più agli arresti domiciliari. Con tutto l’adoperarsi del procuratore Spataro, che voleva libera Nicoletta, per sminuire la sua resistenza individuale e collettiva, sono venuti alla luce inquietanti giochi di potere sulla pelle di tutti noi.
Nicoletta da oggi non è più sottoposta agli arresti domiciliari, dai quali è sempre evasa, con la sentenza della Cassazione alla quale si erano rivolti gli avvocati notav.
Spataro stai sereno, alla fine ci pensa la lotta: del movimento e degli avvocati notav!
Ci pare sia giunto il momento, anche alla luce delle ormai frequenti esternazioni della Procura, ed in particolare del suo Capo Spataro, di cercare di ricapitolare la complicata vicenda giudiziaria di Nicoletta, caratterizzata dai maldestri e goffi tentativi dello stesso Spataro di porre grossolane pezze ad una situazione creata dai suoi sottoposti e che sta evidentemente generando non pochi imbarazzi e conflitti tra gli stessi magistrati. E’ una storia che dovrebbe interessare tutti.
Partiamo da una necessaria cronistoria:
Il provvedimento giudiziario appare subito l’ennesimo atto vessatorio: segue all’applicazione di innumerevoli precedenti misure cautelari con il chiaro intento di indebolire il Movimento, di piegarne le ragioni alla forza della repressione e di dividerlo tra violenti e non. Le misure vengono applicate, come d’altronde quasi sempre anche precedentemente, nei confronti di soggetti incensurati; colpisce diversi ultrasettantenni; si caratterizza per il consueto sovradimensionamento dei fatti addebitati e, soprattutto, viene applicato a distanza di un anno dai fatti contestati, quando, come insegna la Cassazione e persino la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, più passa tempo dalla commissione dei supposti reati, meno senso ha applicare le misure cautelari, che già di loro dovrebbero costituire una “extrema ratio” da applicarsi esclusivamente in presenza di gravi ed impellenti ragioni.
Tutti i destinatari delle misure cautelari vengono considerati ugualmente responsabili, al di là delle rispettive e singole posizioni o condotte, di tutti gli episodi che si verificano quel giorno e tutti, egualmente, vengono additati come portatori di “elevata pericolosità”.
Subito dopo l’applicazione delle misure cautelari fa il giro dei media la vergognosa fotografia di Marisa che si reca a firmare dai Carabinieri di Susa. L’immagine di una donna canuta, che riesce a camminare solo grazie all’ausilio di un bastone induce il G.I.P. ad una immediata revoca della misura cautelare, che rimane però inalterata per gli altri due indagati a cui vengono contestate le medesime condotte.
E qui ci sta subito un commento: l’Ufficio della Procura della Repubblica è un Ufficio unico che agisce per il mezzo dei suoi vari P.M., tutti coordinati ed organizzati dal loro capo, il Procuratore Capo. Ed allora come è possibile che la medesima Procura da un lato chiede la condanna di Nicoletta per evasione e dall’altro chiede la revoca della misura a cui è seguita quella evasione perché ritiene che in fin dei conti non si tratta di una vera e propria evasione, dal momento che Nicoletta non si è di fatto sottratta ai controlli facendo sempre sapere pubblicamente (siti e fb) dove andava e cosa faceva? Ma soprattutto: com’è che Nicoletta il 21.6.2016 viene sottoposta a misura cautelare perché pericolosa e quando invece la sua evasione diventa difficilmente gestibile dalla Procura, quella pericolosità di colpo non è mai esistita e per questo Spataro chiede la revoca della misura cautelare?
Ed ancora: com’è che Nicoletta è l’unica dei vari raggiunti da misura cautelare per cui non esiste più, o – a leggere le varie istanze di revoca degli arresti domiciliari – addirittura non è mai esistito il pericolo di commissione di altri reati? Per quale ragione invece tutti gli altri suoi coindagati, magari avendo pure rispettato le misure e le restrizioni imposte, continuano ad essere così pericolosi?
Ma proseguiamo nella narrazione e vediamo poi che conclusioni trarre.
Queste però sono beghe interne risibili, quello che indigna in quest’ultima vicenda, così come nella precedente, è che se le esigenze cautelari (pericolo di commissione di nuovi reati) poste a fondamento della richiesta della misura cautelare per Nicoletta fossero cessate perché negli ultimi sei mesi non avrebbe più commesso reati (cosa peraltro non vera anche solo alla luce della condanna per evasione), ma allora perché per gli altri 4 attivisti non è stata formulata analoga richiesta? Forse che hanno commesso altri reati negli ultimi sei mesi? Non ci risulta.
Le mal riuscite acrobazie della Procura e del suo Capo, con tutti i suoi strascichi mediatici e d’immagine, subiscono l’ennesimo schiaffo da opera della Cassazione.
Questo dunque quanto successo a Nicoletta e, sia pure diversamente, ai suoi numerosi coindagati. La situazione è evidentemente ancora in divenire e ne seguiremo gli sviluppi. E’ necessaria però ancora qualche ulteriore considerazione.
Come la Storia (e non solo quella del Movimento Notav) insegna, all’Autorità Giudiziaria è stata delegata l’attività di repressione del dissenso in assenza di una politica capace di rispondere nel merito alla contestazione di scelte economiche, politiche e sociali devastanti adottate da chi pretende di agire in nostro conto secondo dinamiche di rappresentanza che di democratico non hanno più nulla.
L’Autorità Giudiziaria non è mai stata capace di sottrarsi a tale inappropriata delega, trincerandosi dietro il sempre verde “noi interveniamo a fronte della commissione di reati”. Tale locuzione in realtà dimostra tutta la sua fragilità e la sua mendacità se solo si vogliono ricordare tutti quei provvedimenti dalle motivazioni imbarazzanti e vergognose che hanno chiuso i procedimenti a carico di appartenenti alle ff.oo. e che hanno palesato la chiara volontà di non perseguire chi si è macchiato di violenze odiose nei confronti di donne e uomini di qualsiasi età che si opponevano al Tav come ad altre scelte delinquenziali e criminogene. Certo, quando la Procura ha la possibilità, a differenza nostra, di scrivere su La Stampa, su La Repubblica o sul Fatto Quotidiano millantando una attività giudiziaria equa e misurata e mascherandosi dietro un operato corretto, una parte dell’opinione pubblica, magari quella più disattenta e superficiale ma ancora maggioritaria, potrà ancora nutrire quella fiducia invocata da Saluzzo (Procuratore Generale), Spataro (Procuratore della Repubblica) e Perduca (Procuratore Aggiunto) con la lettera a La Stampa del 14.7.2016. Ma chi, a qualunque titolo, frequenta le aule di giustizia sa e sperimenta sulla sua pelle gli esiti di una politica giudiziaria che risponde perfettamente a quella delega politica che abbiamo detto sopra e che non ha interesse a colpire chi dietro il Tav guadagna e specula a dispetto della volontà e della salute popolari e della tutela del territorio. E non ha nessun interesse a perseguire chi esercita violenza sui manifestanti, perché quegli agenti costituiscono il loro indispensabile braccio armato. La fiducia nella giustizia continuate dunque a chiederla a chi scientemente viene mantenuto all’oscuro di queste dinamiche; noi quella fiducia, purtroppo, l’abbiamo persa da tempo.
E d’altronde: come si può avere fiducia nella giustizia quando il più alto rappresentante della Procura torinese, pur di mettere a tacere le ragioni di Nicoletta, si perita di chiedere la revoca di misure cautelari negandone la fondatezza poco prima sostenuta per mezzo dei suoi sottoposti? Come si può avere fiducia nella giustizia quando i suoi rappresentanti, pur di togliersi di mezzo una settantenne che sta portando alla luce tutte le contraddizioni e le ingiustizie che quotidianamente vengono perpetrate nelle aule del palazzo di giustizia, si presta a piegare il diritto e le norme a discapito di coloro che, pur potendo beneficiare delle medesime attenzioni e ragioni, vengono invece ignorati e lasciati a gestire quelle stesse misure cautelari che solo per Nicoletta vengono ritenute ormai superate? Più concretamente: perché l’evasione di Nicoletta può comportare la richiesta di revoca degli arresti domiciliari e non ottiene lo stesso risultato chi invece ottempera alle prescrizioni imposte? Perché dopo sei mesi le esigenze cautelari, poste alla base dell’ultima misura cautelare imposta a 5 militanti per un sit-in, per Nicoletta sono superate e per gli altri no, quando si trovano tutti nelle medesime condizioni?
Perchè non fare invece i conti con il problema di fondo: la politica giudiziaria di aperti intenti repressivi nei confronti del Movimento Notav sta facendo acqua da tutte le parti. Quando si indagano migliaia di persone per fatti bagatellari se non inesistenti (vedi le ultime assoluzioni) mettendo in campo un apparato investigativo mastodontico e sproporzionato, quando non anche discutibile nei suoi aspetti più tecnici; quando si elargiscono a piene mani misure cautelari a soggetti incensurati anche ultrasettantenni (e il caso di Nicoletta non è l’unico) per fatti di oggettiva modestia; quando si costruiscono teoremi accusatori fantasiosi; quando si persevera, al limite del ridicolo, nel sostenere accuse di terrorismo ripetutamente smentite dalla Cassazione; quando ci si spinge a contestare reati d’opinione che ogni società civile ormai ripugna; quando si accusa di atti persecutori per poter sequestrare ed intercettare impunemente sulla scorta di evidenti vaneggiamenti, come tali poi riconosciuti dal Tribunale; quando nelle aule di giustizia si paragona il Movimento Notav alle FARC con intenti chiaramente allarmistici e denigratori; quando si sostiene la divisione del Movimento tra violenti e non violenti al di là di ogni evidenza e senza considerare il costante e pieno appoggio di tutto il Movimento a tutti i suoi indagati ed i suoi incarcerati; quando insomma si fanno carte false per distruggere, per conto terzi, un movimento popolare, senza neppure fare lo sforzo di capirlo e conoscerlo…..beh, quando tutto questo viene fatto prima o poi i nodi vengono al pettine ed, in ogni caso, il Movimento ha già vinto, forte delle sue ragioni e della debolezza di una siffatta magistratura.
E allora, cari Procuratori, vecchi e nuovi, continuate pure a scrivere sui servili quotidiani nazionali, continuate, se vi fa stare meglio, a propagandare le vostre ragioni….provate però a farlo con una maggiore onestà e limpidità e ricordate che noi non smetteremo, sia pure con i nostri più modesti ed onesti mezzi, a smentirvi laddove continuerete a smerciare per equità quella che è invece un’applicazione distorta della legge che contraddice quanto ci costringete a leggere dietro ai vostri scranni: la legge è uguale per tutti. Ci rivediamo in Tribunale nel 2017!
Fonte:
http://popoffquotidiano.it/2016/12/30/nicoletta-dosio-e-libera/
Dichiarazione di Nicoletta Dosio, fatta pervenire stamattina, tramite avvocati, al Tribunale di Torino, per l’interrogatorio di garanzia relativo alla contestazione al mega-elettrodotto Grand Ile Piossasco.
Ancora misure preventive, da firme quotidiane a divieti di soggiorno. A Nicoletta è stato vietato il soggiorno a Susa.
La mobilitazione della Valle di Susa contro il progetto del mega-elettrodotto Grand Ile- Piossasco non nasce ora.
Tra la fine anni ’80 e gli inizi anni ’90 riuscimmo a fermare la grande mala opera, con una lotta che coinvolse le popolazioni e le amministrazioni pubbliche non solo della Valle di Susa, ma della Val Sangone e della Maurienne.
Il parere negativo da parte del Ministero dell’ambiente fermò quella che veniva gabellata come infrastruttura irrinunciabile e quindi vinsero le nostre ragioni: l’esigenza di tutela ambientale e sanitaria, la necessità di un modello di sviluppo e di società alternativi, il rifiuto del nucleare, il diritto alla sovranità popolare, l’opposizione dei territori al destino di corridoi degradati e desertificati, dove tutto passa e nulla rimane.
Quelle ragioni non sono mutate e per rivendicarle, lotteremo sempre, con i metodi della lotta popolare, che rifiuta la guerra tra poveri, ma non fa sconti al sistema e alla prepotenza del partito trasversale degli affari teso, come sempre, anche attraverso le reti di traffico, a perpetuare i propri enormi profitti ed a portare avanti la guerra infinita all’uomo e alla natura.
Le motivazioni del nostro impegno e del nostro agire sono le stesse che migliaia di cittadini hanno sottoscritto in una raccolta di firme, il cui testo riporto:
I Sottoscritti Cittadini della Valle di Susa e dei territori interessati dal progettato Megaelettrodotto a 320.000 Volt Grand Ile – Piossasco
Respingono tale progetto e chiedono alle Amministrazioni ed ai Consigli Comunali dei territori interessati di respingerlo:
perché finalizzato al trasporto energetico dalle centrali nucleari francesi all’Italia e all’Europa, dunque funzionale ad un modello di sviluppo insostenibile e pericoloso, a cui il popolo Italiano ha detto NO con ben due referendum contro il nucleare, nel 1987 e nel 2011;
perché inutile: infatti l’Italia ha un surplus di energia disponibile di ben 25 GigaWatt, cioè il 50% in più del fabbisogno totale italiano, e l’utente paga in bolletta il non utilizzo come rimborso per il mancato profitto dell’ente gestore;
perché costosissimo, pagato per la quasi totalità con denaro pubblico a totale profitto privato;
perché causa di pesanti servitù ai danni dei territori attraversati e di disagi infiniti nel momento della posa in opera; infatti il megaelettrodotto, da Salbertrand a Bussoleno compresi, passerebbe lungo la strada statale 24 e dentro i paesi, a poco più di un metro di profondità;
perché in aperta contraddizione con i principi del risparmio energetico, della salute, della salvaguardia ambientale e della sovranità popolare, nonché in contrasto con lo sviluppo delle fonti energetiche piccole, pulite e rinnovabili.
Rifiutano il metodo delle consultazioni private adottato da Terna, in quanto lo considerano un espediente per aggirare l’obbligo della consultazione e dell’informazione pubblica e trasparente.
Valle di Susa, giugno 2015.
La necessità di dare concretezza e visibilità a tali motivazioni sta alla base degli episodi che codesto tribunale contesta a me e ad altri attivisti.
In realtà, con la nostra presenza sui luoghi dei sondaggi, abbiamo inteso praticare quel controllo popolare e quella sovranità che, secondo la Costituzione nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, dovrebbe “appartenere al popolo”, ma che di fatto gli è stata scippata da grandi, sporchi, sempre più incontrollabili interessi: costoro riteniamo nostri nemici e non gli esecutori materiali dei sondaggi, contro cui, ad esercitare intimidazioni o violenze, non siamo stati certo noi, ma, caso mai, il ricatto occupazionale sempre presente.
Per questo motivo rivendico, come diritto e dovere di resistenza e scelta di responsabilità nei confronti delle generazioni future, l’opposizione ai sondaggi funzionali alla costruzione del Cavidotto Grand Ile-Piossasco, per la quale sono state inflitte a me e ad altri attivisti misure preventive, e dichiaro che, per quanto mi riguarda, non intendo rispettarle: le ritengo infatti un tentativo inammissibile, di impedire, con provvedimenti intimidatori, dettati da ragioni politiche e non di merito, il libero esercizio del controllo e dell’opposizione popolare, garantiti dallo spirito e dalla lettera della Carta Costituzionale.
Bussoleno, 29 dicembre 2016
Nicoletta Dosio
Fonte:
Nicoletta Dosio è ormai da mesi sottoposta a misure cautelari ingiuste e che come tali ha da subito scelto di non rispettare. E così dall’obbligo di firma quotidiano si trova agli arresti domiciliari che ha deciso di evadere sin dal primo momento, ed è ora più di un mese che si trova alla Credenza sostenuta dal movimento tutto.
Una scelta fatta con cuore e testa, portata avanti grazie al sostegno di tutto il movimento che con lei condivide una lotta che va avanti da 25 anni, un passo indispensabile per far tornare al centro dell’attenzione del governo e dei media una situazione che rasenta l’assurdo, quella che tutti i giorni viviamo in Val di Susa e in tutto il Paese.
Ci troviamo infatti in un momento in cui è sempre più evidente la necessità delle messa in sicurezza di tutti quei territori colpiti da calamità naturali e quelli che sono a rischio, in cui è sempre più chiara a tutti l’emergenza sociale in cui l’intera popolazione è costretta a vivere, e come risposta ci troviamo soltanto ridicole soluzioni proposte dai soliti politici dall’alto delle loro calde poltrone.
Questa mattina abbiamo accompagnato Nicoletta all’udienza del maxi processo, dove era in programma un presidio in solidarietà agli imputati. Dopo aver letto un comunicato, ha provato ad entrare in tribunale per assistere all’udienza, ma in quel momento è stata intercettata dalla digos di Torino e trasferita in questura per il reato di evasione.
Anche dall’aula 6 del palazzo di giustizia torinese si enunciano comunicati di solidarietà per Nicoletta da parte degli imputati che fanno mettere agli atti e che in segno di protesta, si alzano ed escono dal tribunale.
Nicoletta non è stata trasferita in carcere, ma le sono stati dati nuovamente gli arresti domiciliari presso la sua abitazione a Bussoleno. E’ palese la difficoltà in cui versano tribunale e procura nella gestione di questa situazione, e questo non può che essere una soddisfazione per noi, perchè dimostra ancora una volta che siamo dalla parte giusta.
La lotta prosegue, e per questo questa sera ci si è dati appuntamento alla Credenza alle ore 18 per discutere sui prossimi passi da fare.
Nicoletta Libera! Liberi Tutti!
Avanti No Tav!
Questo di seguito è il testo letto da Nicoletta fuori dal tribunale prima di entrare essere arrestata
Quanto tempo è passato da quando i Padri costituenti, ancora animati dal vento di Liberazione che spazzò via il nazifascismo e accese nuove, ahimè disattese speranze, dichiaravano che
«La resistenza, individuale e collettiva, agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».
Quei diritti, quei doveri, per noi, per me, non sono un semplice slogan, ma ispirazione di vita e di azione.
Dalla prima misura cautelare inflittami, l’obbligo di firma, sono passati ormai quattro mesi. Ora, attraverso i successivi aggravamenti, sono giunta agli arresti domiciliari, che non sto rispettando.
Continuo la mia consapevole, condivisa, felice evasione contro provvedimenti preventivi che sono più che mai strumento di intimidazione, tentativo di minare una lotta giusta e collettiva, per questo irriducibile.
Evidentemente, il mio gesto di ribellione, che sono determinata a portare avanti fino in fondo, ha rotto lo schema di repressione che umilia le persone e le rende subalterne alle decisioni vendicative dei tribunali. La palese difficoltà del tribunale di Torino ad applicare quella che chiamano “l’obbligatorietà dell’azione penale” di fronte al mio pubblico e rivendicato “reato” di evasione è il maggior riconoscimento della forza di popolo che mi sostiene e insieme un messaggio attivo di fiducia e incoraggiamento per quanti subiscono arbitrii giudiziari che sembrano incontrastabili.
Un’evasione che vuole essere nuova tappa della lunga resistenza collettiva praticata dal movimento NO TAV contro i grandi, sporchi interessi del partito trasversale degli affari.
In questo mondo dove il dominio dei più forti sui più deboli si fa guerra, razzismo, sfruttamento, devastazione sociale e ambientale, gravissima emergenza democratica contro chi non si adegua, si aprono tribunali e carceri.
Oggi, nel vostro Palazzo, per l’ennesima volta, si processano, insieme ai cinquantatre compagni imputati, la Libera Repubblica della Maddalena e tutto il popolo NO TAV.
Anch’io sono parte di questo popolo, perciò sono qui, a testimoniare, come ho sempre fatto, complicità a compagne e compagni
Ho vissuto le giornate intense della Libera Repubblica, in cui si rafforzarono le radici della liberazione di Venaus e sperimentammo l’utopia realizzabile del ricevere da ognuno secondo le sue possibilità e del dare ad ognuno secondo i suoi bisogni.
Ero sulla barricata Stalingrado il 27 giugno 2011, a praticare la resistenza popolare contro gli armati e le ruspe giunte a sgomberarci. Ho visto e subìto la violenza poliziesca. Ho percorso i sentieri della Clarea il 3 luglio. Ho praticato l’assedio collettivo al cantiere; con donne, uomini, anziani e bambini ho respirato le migliaia di lacrimogeni lanciati quel giorno.
Il ricordo e l’indignazione per tanta ingiustizia sono, insieme alle ragioni della opposizione comune contro le grandi male opere e il modello di vita e di sviluppo che le genera, alimento potente di una lotta che dura, si rafforza, si allarga e vincerà.
Non sono qui per costituirmi o per fiducia nella vostra giustizia: sarà la storia che ci assolverà.
Torino, 3 novembre 2013
Nicoletta Dosio
Fonte:
Stamane alle 6 la Questura di Torino si è presentata a casa di Nicoletta notificandole la misura cautelare degli arresti domiciliari emessi dal gip Ferracane in sostituzione a quella dell’obbligo di dimora.
Ricapitolando le tappe di questa vicenda giudiziaria, ricordiamo come Nicoletta fu sottoposta il 23/06 alla misura di obbligo di presentazione quotidiana ai carabinieri di Susa, mai ottemperata, e che in data 27/07 tale misura, su ricorso di Rinaudo, fu aggravata con quella dell’obbligo di dimora in Bussoleno.
Nicoletta in tour in giro per l’Italia con “Io sto con chi Resiste” ha violato sistematicamente anche questa applicazione e dichiarato pubblicamente, in molte occasioni, la sua volontà di non rispettare queste ingiuste imposizioni.
A seguito di due segnalazioni di violazione da parte della polizia, tra le tante, emerge dalle carte consegnate oggi a Nicoletta come ella abbia commesso reato “nonostante avesse ben compreso il contenuto della misura cautelare e delle relative prescrizioni (che ha espressamente dichiarato di rifiutare), addirittura non presentandosi all’interrogatorio di garanzia fissato …” e come “tali condotte dimostrano che la misura originariamente apllicata) e nonostante i divieti le fossero stati espressamente ribaditi ella ha ripreso, o meglio, ha continuato a “tresgredire”.
Queste, per noi tutti, sono note di merito che attestano il coraggio di una giusta battaglia.
Come movimento No Tav sosterremo Nicoletta in questa sua lotta di libertà per tutti e tutte e ribadiamo insieme a lei che non ci metterete mai in ginocchio.
Ci diamo appuntamento alle 19 di fronte alla sua abitazione a Bussoleno, in Via San Lorenzo.
Libertà per Nicoletta!
Libertà per tutti i No Tav!
Fonte:
http://www.notav.info/post/notificati-a-nicoletta-dosio-gli-arresti-domiciliari-appuntamento/
Fonte:
http://www.notav.info/post/non-potete-fermare-il-vento-gli-fate-solo-perdere-tempo/
Fonte:
http://www.notav.info/post/nicoletta-dosio-rifiuta-le-firme-giornaliere-video/
Con un tempismo quantomai sospetto, appena terminate l’elezioni di Torino, sono i pm con l’elmetto a prendersi le luci della ribalta proseguendo nella continua crociata contro i notav.
All’alba di questa mattina è scattata un’ennesima operazione contro il movimento che vede coinvolti 23 notav, tra studenti universitari e ultrasettantenni, residenti in Valle a Torino e in altre città italiane.
Questa volta viene incriminata la giornata del 28 giugno 2015 quando la marcia notav ruppe i divieti e fece cadere reti e barriere con l’orgoglio!
Sono 23 i notav coinvolti in totale e sono:
Tra i tre notav tradotti al carcere delle Vallette, c’è Fulvio, valligiano degli Npa di 64 anni che ha rifiutato di stare ai domiciliari. Nicoletta e Marisa, colpite dall’obbligo di firma giornaliero, hanno oltre 60 anni.
Ci troveremo questa sera in assemblea a Bussoleno alle 21 come già previsto, per discutere insieme le prossime iniziative per la liberazione di tutti e tutte, in vista dell’estate di lotta.
Avanti notav!
(seguiranno aggiornamenti più precisi)
Fonte:
Nella notte di ieri in un naufragio sulle coste turche sono morti sei bambini tra cui un neonato. E’ stato trovato anche il cadavere di un’altra bimba di cinque anni annegata in un altro naufragio di qualche giorno fa, identificata come Sajida Ali. L’immagine diffusa dai media locali richiama alla mente quella di Aylan Kurdi, anche lui bimbo profugo annegato su una spiaggia turca tre mesi fa. Se ne parlò tanto allora, scattò l’indignazione generale sul web come va di moda adesso, quando succedono tragedie che, per qualche giorno, scuotono coscienze da troppo tempo sopite. E che troppo presto tornano a dormire. Si scatenarono polemiche chiedendosi se fosse giusto o no diffondere l’immagine di quel corpicino esanime. Dibattiti su dibattiti, commenti su commenti com’ è normale che sia per la libertà d’opinione e informazione, ancor di più nell’era digitale. Solo che poi l’indignazione va dove porta il vento, si sposta su nuove “emergenze” e paure di volta in volta indotte. C’è il terrorismo di cui preoccuparsi adesso. La “sicurezza” è la sola cosa che conta, di cui si può parlare e su cui si deve investire. Ma non è che non abbiamo altri valori e interessi oltre a questo. No, a modo nostro c’è ne abbiamo e le guide non ci mancano: ci sono i grandi della terra che si riuniscono a Parigi (divenuta simbolo della lotta al terrorismo, che ci ha fatto diventare tutti francesi, fino all’ascesa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, ma questo è un altro discorso) per una conferenza sul clima e, soprattutto, c’è un papa che ama tanto la misericordia da decidere un giubileo straordinario. Proprio oggi papa Bergoglio ha inaugurato quest’anno santo nel bel mezzo del delirio securitario, che schiera truppe di uomini armati a difendere la città eterna da eventuali attacchi di terrorismo.
Ma cos’è la misericordia se non (come dice la parola stessa) aprire il proprio cuore a chi è misero? La nostra smania dei grandi eventi di portata mediatica dirige tutta la nostra attenzione all’apertura della Porta Santa. Siamo ormai capaci solo di guardare quello che ci inducono a guardare, di sentire (non ascoltare, che questo presuppone una profondità d’animo sempre più rara) quello che ci vogliono far sentire e di parlare. Amiamo ormai nella stragrande maggiornaza dei casi solo a parole. Staremo un anno a parlare di misericordia senza sapere di cosa stiamo parlando.
Fortunatamente c’è ancora chi non si livella, chi resiste,come i No Tav in una valle stuprata da un’idea di progresso che (a dispetto delle conferenze sul clima) se ne sbatte della natura o come i movimenti per il diritto all’abitare che inaugurano il loro “giubileo dei poveri” con due occupazioni di stabili del Vaticano (eppure in tempi di presepi dovremmo ricordarci che Gesù è nato in una stalla occupata e che le prime persone a averci insegnato che abitare è un diritto sono state proprio la Sacra Famiglia). Ma il resto del mondo è occupato a preoccuparsi ora del terrorismo, della sicurezza, dell’evento Giubileo e del Natale vicino. E’ così la piccola Sajida Ali e gli altri sei bimbi annegati non fanno notizia. Nessun Je suis per loro, nessuna lacrima, nessuna indignazione e nessun dibattito sul web o in Tv.
Buon anno santo, dunque, e amen.
D. Q.
Qui gli articoli sui naufragi tratti dal sito dell’Ansa:
– Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme, nella provincia turca di Smirne sul mar Egeo. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.
La drammatica immagine del corpo della bimba sulla spiaggia, diffusa dai media locali, ricorda quella del ritrovamento del piccolo Aylan Kurdi, il bambino curdo-siriano di 3 anni annegato a inizio settembre con la madre e il fratellino di 5 anni. La scorsa notte in un naufragio sempre al largo di Cesme sono annegati altri 6 bambini.
– Sono tutti bambini, tra cui un neonato, i 6 morti nel naufragio avvenuto intorno alle 2:30 della scorsa notte di un gommone di profughi afghani al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre 8 persone.
Almeno sei bambini sono annegati la scorsa notte nel naufragio di un barcone di migranti al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Lo riportano media locali, secondo cui la Guardia costiera di Ankara ha tratto in salvo 8 persone. Proseguono le ricerche di altri possibili dispersi. Tra le vittime anche un neonato. Lo sostiene l’agenzia di stampa statale Anadolu. La Guardia costiera di Ankara ha salvato altre otto persone.
Il corpo di una bimba siriana di 5 anni è stato ritrovato sulla spiaggia di Pirlanta a Cesme. La piccola, identificata come Sajida Ali, sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa.
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1. “Quel bastardo è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni
L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.
Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.
2. Il giornalismo libero
“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.
L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso – come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.
Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.
Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.
Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:
[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…
Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.
L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.
Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:
I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.
È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.
Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.
Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.
3. Come mai?
Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.
Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.
La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.
Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.
4. “Non potranno mentire in eterno”
Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.
La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.
Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:
Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…
Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.
Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.
Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.
5. “Distruggere il Potere”
Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.
Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.
È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.
Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.
Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.
Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…
6. Un infame mantra
Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.
Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.
Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.
Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.
7. “Propaganda antinazionale”
Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.
Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):
Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.
Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.
Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine
Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:
Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.
In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.
L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.
Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:
Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.
Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:
L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.
Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.
Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.
Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.
Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.
Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.
8. “Le nostre vecchie conoscenze”
L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.
Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.
Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.
Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.
L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.
Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia
Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.
È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.
Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.
Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.
Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.
9. L’uomo che sorride
Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.
Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:
Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.
Fonte:
http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte
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