Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca

Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca

Attacco Usa in Siria, Trump sconfessa la sua linea. Ma l’avvertimento preventivo alla Russia conferma l’intesa con Mosca
Mondo
Il bombardamento della base aerea di Shayrat non rappresenta in sé un’escalation nella crisi siriana. Altrimenti metterebbe a rischio le intese che Mosca, Washington e Ankara hanno raggiunto per stabilire sul Paese, ormai in macerie, la loro personale area d’influenza. Se Russia e Cina sono state davvero informate dell’attacco, il bombardamento Usa alla base di Shayrat ha scopo puramente dimostrativo
“Quello che sto dicendo è rimanete fuori dalla Siria!”. Lo scriveva Donald Trump su twitter il 4 settembre del 2013, pochi giorni dopo l’attacco con armi chimiche nella zona di Ghouta, a Damasco, dove circa 1400 persone vennero uccise. Allora, per il presidente Barack Obama, era stata superata la linea rossa tracciata dall’ex segretario di Stato John Kerry. A quel tempo l’intervento americano non ci fu. Perché grazie alla mediazione russa si trovò un accordo per chiedere a Damasco di consegnare, sotto la supervisione di osservatori dell’Opac – l’organizzazione mondiale per la proibizione delle armi chimiche -, tutti i quantitativi di sarin stoccati nei magazzini. Quell’intesa segnò una nuova pagina per la crisi siriana che condusse l’amministrazione Obama verso un ruolo più defilato, in favore di una Russia maggiormente attiva nel contesto siriano.Con l’amministrazione Trump, che aveva criticato l’approccio di Obama nella questione mediorientale, è parso subito chiaro che gli Usa sposassero una linea non interventista, cercando con la Russia un’intesa per un coordinamento nella lotta al terrorismo. Una visione che aveva avuto risvolti politici, almeno a parole.

La settimana scorsa Nikki Haley, ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite, aveva affermato che “per gli Usa la rimozione di Assad non era più la priorità”. A fare da eco alle sue parole ci aveva pensato anche Rex Tillerson, segretario di Stato Usa che, durante una visita ad Ankara il 30 marzo scorso, aveva detto che “il destino di Assad sarebbe stato scelto dai siriani”.

Dichiarazioni in linea con la posizione del Cremlino che ha sempre ribadito il suo appoggio al governo di Damasco. Ed emergeva così il raggiungimento di una visione comune o almeno un cambio di rotta.

Non a caso il 7 marzo scorso ad Antalya, in Turchia, i tre capi di Stato maggiore di Usa, Turchia e Russia si erano riuniti per discutere della situazione intorno a Munbij, città siriana nel nord della Siria, dove le forze armate sostenute da questi tre paesi si erano scontrate. “C’è la volontà di creare un coordinamento efficace negli sforzi per eliminare ogni gruppo terroristico dalla Siria”, aveva dichiarato il primo ministro turco, Binali Hildirim.

Ma secondo molti analisti questo coordinamento aveva come scopo quello di creare per ogni potenza aree d’influenza sotto l’ombrello della lotta al terrorismo. Solo due giorni dopo, il 9 marzo, centinaia di marines sono entrati in Siria per combattere contro lo Stato Islamico a fianco delle ‘Forze democratiche siriane’, una formazione predominata dai curdi e sostenuta da Washington. Mentre la Turchia, in quegli stessi giorni, intensificava la sua operazione “scudo dell’Eufrate” per creare una zona cuscinetto nel nord della Siria.

Ma dopo l’attacco chimico a Khain Sheikhun il 4 aprile scorso, l’approccio americano in Siria sembra cambiare drasticamente. “Quello che ho visto ieri su bambini e neonati ha avuto un grande impatto su di me. Quello che è successo ieri è inaccettabile. Su Assad ho cambiato idea”, ha detto Trump il giorno dopo in conferenza stampa con re Abdullah II di Giordania.

Dopo l’attacco con 59 missili che ha colpito la base di Shayrat, il portavoce del Pentagono ha riferito che “i russi erano stati informati dei piani Usa per minimizzare i rischi per il personale russo e siriano presente nella base aerea”. Mentre il presidente cinese Xi Jinping, scrive la stampa, è avvisato personalmente da Trump durante il meeting in Florida.

Se Russia e Cina sono state davvero informate dell’attacco, allora il bombardamentoUsa alla base di Shayrat ha scopo puramente dimostrativo. Motivato dal desiderio di riaffermare il ruolo di Washington sullo scacchiere internazionale. Per la Cina rappresenta invece un segnale di imprevedibilità di Trump che continua a alzare i toni contro la Nord Corea, sostenuta da Pechino. Quindi Pyongyang potrebbe non essere più immune a rappresaglie Usa. Ma la cosa più importante dell’avvertimento preventivo a Cina e Russia è che l’attacco della notte scorsa non rappresenta un’escalation della crisi siriana. Perché in quel caso a rimetterci sarebbero le varie potenze che hanno raggiunto alcune intese per stabilire sul Paese, ormai in macerie, la loro personale area d’influenza.

Fonte:

Usa, Black lives matter. Che succede agli afroamericani?

Carnell Snell Jr, 18 anni, ucciso dalla polizia a Los Angeles. Nuova notte di proteste della comunità afroamericana. Una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia

di Antonello Zecca

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Ancora proteste negli Stati Uniti per l’uccisione di un altro afroamericano da parte della polizia la scorsa notte a Los Angeles. L’episodio è iniziato con l’inseguimento di un’auto che gli agenti ritenevano fosse stata rubata: il conducente non si è fermato e si è dato alla fuga. Ad un certo punto l’auto si è bloccata e un uomo ne è uscito fuggendo ed andandosi a nascondere sul retro di una casa. Lì è stato raggiunto dagli agenti che lo hanno ucciso. Pesante l’accusa di Black Lives Matter di Los Angeles: il 18enne Carnell Snell Jr è stato ucciso mentre teneva le mani in alto, ha denunciato con un tweet il movimento nato sui social media come hashtag dopo l’assoluzione del vigilante George Zimmerman, responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin.

Carnell Snell Jr, ricordiamocelo, questo nome. E poi Keith Lamont Scott, Ernest Satterwhite, Dontre Hamilton, Eric Garner, John Crawford III, Michael Brown, Levar Jones, Tamir Rice, Rumain Brisbon, Charly “Africa” Leundeu Keunang, Naeschylus Vinzant, Tony Robinson, Anthony Hill, Walter Scott.

È solo la punta dell’iceberg di una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia negli Stati Uniti, una mattanza che pare non avere fine, e anzi si intensifica ogni anno di più. Nel solo 2016 sono state uccise almeno 214 persone nere, seguendo la scia di un 2015 ancora più sanguinoso: 346 neri ammazzati. E ancora, il tasso di morti violente della popolazione nera per mano della polizia è più o meno costante dal 2013 (considerando solo gli ultimi tre anni), e tutte le statistiche mostrano dati inequivocabili: un nero ha tre volte la probabilità di essere ucciso dalla polizia che un bianco; il 30% delle vittime nere nel 2015 era disarmato rispetto al 19% delle vittime bianche; meno di un terzo dei neri assassinati dalla polizia nel 2016 era sospettato di un qualche tipo di crimine; nel 2014 in diciassette grandi città statunitensi la polizia ha ucciso cittadini neri ad un tasso superiore della percentuale generale di omicidi in quelle stesse città, e nel 97% dei casi nessun agente ha ricevuto alcun tipo di incriminazione.

Da questo schizzo pur disomogeneo emerge chiaramente la particolare “attenzione” di cui gode la popolazione nera (ma anche i bianchi poveri, come vedremo) presso tutti i dipartimenti di polizia del Paese, e che riflette una situazione di sostanziale subalternità politica, sociale ed economica strutturale degli afroamericani.

Mentre scriviamo, è il quinto giorno della rivolta di Charlotte, North Carolina, seguita all’omicidio di Scott, in cui centinaia e centinaia di manifestanti hanno invaso il centro città protestando contro la totale impunità della polizia. Una rivolta rabbiosa, che ha costretto il governatore dello Stato a decretare lo stato di emergenza nel tentativo di contenere la straripante indignazione per l’ennesimo omicidio di Stato. Nella seconda notte di scontri, un manifestante è stato colpito da un proiettile esploso dalla polizia, morendo poco dopo.  Al momento le manifestazioni proseguono e non è chiaro lo sviluppo che la situazione potrà prendere.

È tuttavia certo un fatto: il movimento Black Lives Matter (BLM), che qualcuno sperava potesse lentamente affievolirsi o arrendersi velocemente alla “ragionevolezza”, prosegue invece la sua marcia. Fondato da tre donne, Alicia Garza, Opal Tomezi e Patrisse Cullors, in seguito all’assassinio di Treyvor Martin nel 2012, il movimento è la prima risposta di massa della popolazione nera al razzismo e all’oppressione sistematica sofferti dagli afroamericani negli Stati Uniti dopo la fine dei grandi movimenti degli anni ’60, ’70 e gli inizi degli ’80.

Sebbene si ponga in ideale continuità con questi ultimi, BLM ha naturalmente caratteristiche peculiari al momento storico in cui è nato. A differenza dei suoi illustri predecessori, il contesto in cui si muove non può che essere profondamente influenzato da due fattori decisivi: la controrivoluzione neoliberista, di cui gli USA di Reagan furono capostipite insieme alla Gran Bretagna della Thatcher, e il consolidamento di un’ élite afroamericana assurta a ruoli di comando sia nella politica, che nella società e negli affari.

Questi due processi hanno segnato il passaggio da una fase di aperta discriminazione razziale e di segregazione, fondata prevalentemente su elementi naturalistici, ad una fase “post-razziale”, in cui l’inferiorità sociale degli afroamericani ha passato ad essere rappresentata ideologicamente con argomentazioni culturaliste e psicologistiche. Non che questi elementi fossero completamente assenti dalla prima fase ma sono assurti a motivazione dominante della discriminazione razziale in seguito all’emarginazione del razzismo tradizionale all’estrema periferia del discorso politico mainstream e all’affermazione ideologica del post-modernismo.

In maniera apparentemente paradossale, il razzismo di nuovo tipo è stato favorito dalla crescita del movimento per i diritti civili degli afroamericani che nel corso degli anni Sessanta e Settanta aveva consentito la crescita politica di leader neri che, principalmente nelle fila del Partito Democratico e grazie alle pressioni del movimento del tempo, cominciarono ad assurgere a cariche elettive a livello municipale e a ruoli di primo piano nella cosiddetta comunità degli affari.

Una volta consolidate queste acquisizioni, e in contemporanea con le controriforme liberiste all’opera sin dagli inizi degli anni Ottanta, cominciarono però ad essere visibili segnali di una tendenza che è ancora fortemente all’opera negli Stati Uniti: quanto più alle comunità afroamericane diventava necessario il rafforzamento dei servizi pubblici, la promozione dei diritti nei luoghi di lavoro, investimenti in scuola, cultura e formazione, tanto più le stesse amministrazioni locali governate dalla neonata élite nera si facevano custodi dello status quo e negavano nei fatti quegli stessi obiettivi per i quali i movimenti dei decenni precedenti avevano reso possibile la loro elezione, al fine di preservare la loro raggiunta posizione sociale.

È emblematico in tal senso il vergognoso comportamento di Barack Obama, che ha criticato in modo durissimo le rivolte e le proteste animate e sostenute dal BLM. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha infatti a più riprese stigmatizzato il movimento e la sua “violenza”, ammonendo i manifestanti a “smetterla di urlare” e ricordando che gli Stati Uniti sono un “Paese di leggi” e che le soluzioni ai problemi posti dal movimento avrebbero dovuto essere affidate ai “rappresentati legittimamente eletti”.

Tutto questo è stato al tempo causa ed effetto della disgregazione politica e organizzativa di quei movimenti che avevano animato la scena del Paese nei vent’anni precedenti e, in contemporanea con lo spostamento a destra sempre più marcato del Partito Democratico, si è venuta via via a cristallizzare una situazione per cui gli afroamericani, orfani di un riferimento politico/organizzativo autonomo di movimento, si sono affidati costantemente a quello stesso partito che nei fatti ha contribuito in maniera determinante a perpetuare la loro condizione di subalternità.

Ci sono stati, certo, episodi di rivolta di sicuro rilievo, come la “battaglia di Los Angeles” nel 1992, ma sono state esplosioni di rabbia, più che giustificata, che però non sono riuscite a tradursi nella strutturazione di un movimento duraturo. Con l’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, questa situazione era destinata a peggiorare, in concomitanza con l’approfondimento dell’offensiva neoliberista contro le condizioni del mondo del lavoro, i diritti sindacali e democratici, i servizi pubblici, la scuola e l’università pubbliche.

Questo è un aspetto decisivo, e non accessorio, della subalternità degli afroamericani nello Stato americano, e contribuisce a darne una motivazione non superficiale e impressionistica: in effetti, la condizioni della popolazione nera negli Stati Uniti non è comprensibile se non contemplando per intero la ineludibile dimensione di classe, di cui il razzismo (anche quello “post-moderno”) è in ultima analisi funzione.

Anche qui si comprende meglio il ruolo decisivo della polizia e, in generale, degli apparati armati dello Stato: poiché il loro compito fondamentale è proteggere e conservare l’attuale assetto della società dalle minacce esterne ed interne, è ovvia conseguenza che i quartieri poveri delle grandi città statunitensi, sia bianchi che neri, siano presi particolarmente di mira e soggetti ad un controllo asfissiante e a tratti parossistico. È questa una delle ragioni per cui la polizia è così aggressivamente restia a qualsiasi cambiamento o riforma che possa accrescerne la responsabilità nei confronti della pubblica opinione (accountability). Questi cambiamenti, se realmente applicati, ridurrebbero la capacità delle forze dell’ordine (capitalistico) di svolgere il proprio compito in modo efficiente ed efficace. È per questo che, al di là di parole di circostanza, i poteri costituiti non fanno nulla di concreto per cambiare la situazione.

Tuttavia tanto forte è la dimensione ideologica delle forme del razzismo contemporaneo, che la protesta contro l’oppressione quotidiana, anche nei confronti dell’élite nera, è spesso formulata dagli stessi afroamericani nell’accusa di agire “da bianchi”. La “bianchezza” (whiteness), contrapposta alla “negritudine” (blackness) è appunto espressione sul piano politico della persistenza ideologica del razzismo culturalista, che è sovente interiorizzato dagli afroamericani e a cui viene da essi data risposta rovesciandone il senso, ma in ultima analisi rafforzandone la presa, e puntellando l’ideologia dell’American Dream (peraltro sempre più in affanno a causa dei pesanti colpi ricevuti dalla crisi). Un effetto curioso di questo fenomeno è che nel discorso ufficiale i neri sono sovrarappresentati nella popolazione povera, sebbene in numeri assoluti la popolazione povera bianca sia di gran lunga superiore nel Paese. A sua volta ciò indebolisce la presa di coscienza che la propria oppressione non sia superabile se non in alleanza con il resto della classe lavoratrice bianca, povera o no, contro le élite bianche e nere, per cambiare radicalmente l’economia, la politica, la società intera. In altre parole, per rompere con il capitalismo.

L’unica speranza risiede nel rafforzamento del movimento, della sua capacità di cercare e trovare alleanze politiche e sociali, e, in ultima analisi, di disporre di strumenti politici indipendenti per affermare le proprie istanze di liberazione, che coincidono con quelle di tutti/e gli/le oppressi/e e gli/le sfruttati/e.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/10/02/usa-black-lives-matter-che-succede-agli-afroamericani/

SIRIA, ECCO IL PIANO DI PACE IN TRE FASI PER L’USCITA DI SCENA DI ASSAD. ATTIVISTI: “BOMBARDAMENTI AL CLORO SU ALEPPO”

Mentre a Londra si è discusso del progetto per cercare una soluzione al conflitto che insanguina il paese, nei quartieri della città in mano agli oppositori denunciati nuovi raid del regime contro la popolazione. Fronte anti-Isis: Erdogan e Obama potrebbero cooperare in offensiva a Raqqa
di Shady Hamadi | 7 settembre 2016

 

Bambini e adulti intossicati dal cloro contenuto nei barili bomba sganciati dagli elicotteri del governo di Damasco, in un ennesimo bombardamento sulla zona di Aleppo controllata dall’opposizione. E’ l’accusa che attivisti siriani presenti nei quartieri della città assediata lanciano nuovamente contro il governo di Bashar al Assad, già incriminato in passato di aver usato armi chimiche contro civili e opposizione. Nel frattempo, per porre termine alla guerra che inghiotte il paese, a Londra si è aperta la riunione fra il gruppo d’opposizione siriana e quello degli “amici della Siria” (composto da diversi stati occidentali e del Golfo che sostengono formalmente l’opposizione), per cercare una soluzione al conflitto che insanguina il paese e che negli ultimi mesi ha avuto un’escalation, a causa dell’intervento delle truppe turche nel nord della Siria con l’obbiettivo di bloccare l’avanzata dei miliziani dell’YPG – braccio armato curdo siriano del PKK, il partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Ocalan.

I colloqui di Londra, un piano in tre fasi – Sei mesi: è la durata dei negoziati che serviranno a formare il governo di transizione, primo passo del piano di pace in tre punti proposto dall’Alto Comitato dei Negoziati, organo dell’opposizione siriana. “In questo periodo – ha spiegato Ryad Hajab, ex primo ministro siriano e ora membro del comitato – tutti i prigionieri dovranno essere scarcerati e garantito il rientro nel paese per i milioni di rifugiati”. Il governo di transizione dovrà governare il paese nella seconda fase del piano, lunga 18 mesi, e sarà composto da figure dell’opposizione, del governo e della società civile. Mentre Bashar al Assad dovrà andarsene, lasciando il potere. Un cessate il fuoco sarà proclamato in tutto la Siria e al concludersi della seconda fase verranno indette elezioni, seguite da osservatori delle Nazioni Unite. A margine della conferenza, Hajab ha dichiarato che “ogni piano di pace proposto da Russia e Usa, differente da quello di questa mattina, sarà rigettato”, sottolineando che uno dei punti principali è quello di preservare la sovranità e l’indipendenza del paese, includendo tutte le componenti della società.

Erdogan e Obama potrebbero cooperare in offensiva a Raqqa – “Una zona di sicurezza lunga 90 km da Azaz a Jablus” è quanto auspica Hamad Osman, a capo di un gruppo ribelle, parlando con la Reuters, aggiungendo che la missione principale è quella di mettere in sicurezza le zone a nord-est di Aleppo dall’Isis e i separatisti del YPG, così da garantire un’area sicura per la popolazione siriana. “Ma – evidenzia Osman – serve un’unità di intenti da parte russa, turca e america”. E convergenze fra Turchia e Usa si sarebbero aperte al G20, durante l’incontro fra Erdogan e Obama. Il presidente americano” vuole fare ‘alcune cose’ insieme, in particolare a Raqqa“, ha detto Erdogan al quotidiano Hurriyet, spiegando che Ankara è disposta ad appoggiare il progetto. “Dal nostro punto di vista – ha aggiunto Erdogan – non sarebbe un problema. Abbiamo detto ‘Lasciamo che i nostri militari si incontrino e sarà fatto tutto il necessario‘”. Il presidente turco ha puntualizzato che il coinvolgimento di Ankara dovrà essere definito da “ulteriori colloqui”. Anche nel variegato fronte anti-Isis che si prepara a scagliare l’offensiva contro la città di Mosul, continuano le discussioni e le tensioni fra le milizie sciite, sunnite e i peshmerga per stabilire i ruoli e l’influenza che ognuno di loro avrà nel breve-medio periodo dopo la caduta della città.

Nuovi bombardamenti ad Aleppo – Ibrahim Al Hallaj, membro del team di pronto intervento della Protezione civile siriana, si è recato nel quartiere di Al Sukkari – racconta il Guardian – , la zona colpita dal bombardamento, contando quattro cilindri contenenti il cloro. Un ospedale nell’area controllata dall’opposizione ha diffuso una nota, attraverso email e messaggi di testo ai giornalisti, in cui si riporta che 71 persone, fra cui 37 bambini e 10 donne, sono state curate per difficoltà respiratorie dovute all’inalazione del gas tossico. Ma il rapporto non è verificabile indipendentemente.

 

 

 

 

Fonte:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/07/siria-ecco-il-piano-di-pace-in-tre-fasi-per-luscita-di-scena-di-assad-attivisti-bombardamenti-al-cloro-su-aleppo/3018196/

ATTACCO CON GAS TOSSICI AD ALEPPO: 4 MORTI E FERITI

La denuncia: sganciati barili bomba contenenti cloro. Entra in vigore la tregua di tre ore al giorno annunciata dalle forze russe
REUTERS
11/08/2016

Un attacco con gas tossici avrebbe colpito nelle ultime ore un distretto della città siriana di Aleppo sotto il controllo dei ribelli. Secondo la denuncia riportata da alcuni siti di notizie, vicini all’opposizione siriana, nell’attacco sera sono stati sganciati «barili bomba contenenti cloro» e si contano almeno quattro morti.

 

Tra le vittime, stando a `Shaam´, ci sono una donna e il suo bambino. L’attacco ha colpito il quartiere di Zabadiya. Diverse persone, aggiunge il sito di notizie, hanno avuto difficoltà respiratorie. Le persone rimaste feriti sarebbero oltre 50.

 

AD ALEPPO TREGUA DI TRE ORE DA OGGI

Entra in vigore ad Aleppo la tregua di tre ore al giorno annunciata dalle forze russe per consentire il passaggio di convogli umanitari nella città assediata, senza acqua e luce da giorni. Non è chiaro se anche i ribelli cesseranno gli attacchi durante la pausa. Per l’Onu, che ha chiesto una nuova tregua umanitaria di 48 ore, quella annunciata dai militari russi è comunque una misura che non è sufficiente per rispondere ai bisogno dei civili.

 

Al momento la popolazione può sperare solo in iniziative ancora isolate di soccorso. Come quella annunciata dall’Unicef, che ha aumentato la distribuzione con autobotti di acqua nella parte occidentale della città, sotto il controllo governativo. In collaborazione con la Croce rossa e la Mezzaluna rossa siriana l’Unicef sta ora portando quotidianamente acqua potabile a 325.000 persone. Ma nelle aree orientali, in mano agli insorti, si calcola che fino a 300.000 persone – più di un terzo dei quali bambini – si affidino all’acqua dai pozzi, che è potenzialmente contaminata da materiali fecali e pericolosa da bere.

 

L’APPELLO DEI MEDICI A OBAMA

Un appello al presidente Usa Barack Obama affinché intervenga per imporre una no-fly zone su Aleppo, per fermare gli attacchi, per salvare i civili intrappolati nella città arriva dagli ultimi medici rimasti nei quartieri orientali sotto il controllo dei ribelli. L’appello è contenuto in un messaggio firmato da 29 dottori che lanciano l’allarme: se gli attacchi contro le strutture mediche continueranno con la stessa intensità dell’ultimo periodo, nell’arco di un mese potrebbe diventare impossibile garantire cure mediche.

 

Nella loro lettera i medici denunciano come nell’ultimo mese ci siano stati 42 attacchi contro strutture sanitarie in Siria e come dal 2011 abbiano visto «pazienti, amici e colleghi morire con grandi sofferenze». Ricordando il loro impegno ad aiutare chi ha bisogno di cure mediche, chiedono a Obama di «fare il suo dovere allo stesso modo». «Non abbiamo bisogno di lacrime né di solidarietà e neppure di preghiere: abbiamo bisogno – si legge, come riporta la Bbc – di un’area senza bombardamenti nella parte orientale di Aleppo e di un’azione internazionale per garantire che ad Aleppo non ci sia un nuovo assedio». La comunità internazionale, denunciano i medici, ha «sottolineato quando sia `complicata´ la situazione siriana ma ha fatto poco per proteggerci». «Le recenti offerte da parte del regime e della Russia di lasciare la città suonano come velate minacce: fuggire ora o affrontare quale destino?», aggiungono.

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Fonte:

Come Vittorio Arrigoni da Gaza ricordava la dichiarazione di Balfour

2 novembre 1917 2 novembre 2010: Balfour a Gaza
11/11/2010
Il mio pezzo di ieri per Infopal.it:

Il 2 novembre del 1917 sir Arthur James Balfour con la sua dichiarazione di adesione al progetto sionista di occupazione e colonizzazione della Palestina, dava il via ad un secolo di pulizia etnica dei palestinesi.

 

Per commemorare questo infausto giorno, che a distanza di 93 anni continua a ripercuotersi in epidemia di distruzione, di privazione di diritti e terra, di incarcerazione di esistenze e intere città,per ribellarci all’idea di come un potenza occupante abbia potuto avallare una catastrofe tale,muniti solo delle nostre bandiere e di un megafono martedì scorso siamo andati con alcuni volontari di Beit Hanoun a manifestare dinnanzi ai cecchini di Erez:

Così Saber alZanin, coordinatore dei volontari di Local Initiative:

Siamo qui oggi dinnanzi al confine Nord della Striscia di Gaza a protestare contro la creazione della “buffer zone”, tramite la quale Israele ci ha sottratto di fatto il 35 % delle terre coltivabili. Oggi è il 2 novembre 2010, nello stesso giorno 93 anni fa il governo britannico dette via libero al progetto sionista per la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Qui nella terra dei nostri nonni, la terra degli ulivi, è passato di generazione in generazione il messaggio di respingere con tutte le nostre forze la promessa fatta dal Regno Unito ai sionisti,  tramite quella disgustosa dichiarazione di da Arthur Balfour. Dopo 93 anni la nostra generazione sta ancora aspettando che giustizia sia fatta e che i diritti sottratti ai nostri nonni ci siano restituiti. A dispetto di tutti i paesi che cospirano con Israele contro di noi, che ne sono complici,  la nostra resistenza è ancora attiva e i nostri diritti radicati su quella terra che ci è stata rubata. Ringraziamo tutti coloro, dal di fuori dalla Palestina ci sostengono, la solidarietà internazionale che in questi mesi si è dimostrata attiva con i convogli, le flotte di navi e qualsiasi dimostrazione in nostro favore in Europa e negli Stati Uniti. Apprezziamo e siamo fieri dei cittadini inglesi che solidarizzano con la nostra causa ma vogliamo ricordare loro che il loro governo, passato e presente, e’ una delle principali cause della nostra miseria. Quindi prima di arrivare a Gaza invitiamo gli attivisti inglesi  a ribellarsi al loro governo ancora oggi complice dei sionisti d’Israele”.

Un messaggio, quello di Saber, colto in pieno da Adie Mormech , compagno di Manchester dell’International Solidarity Movement. Adie ritiene che la gente del suo Paese ha il dovere di riparare ai torti del coinvolgimento britannico alla pulizia etnica della Palestina:

Il ruolo del governo britannico come sostenitore d’Israele e’ molto simile a come la Gran Bretagna ha contribuito al sistema dell’apartheid in Sud Africa. Fortunatamente molti cittadini britannici si sono mobilitati contro il regime dell’apartheid, appoggiando il boicottaggio al governo razzista sudafricano fino alla sua estinzione. Oggi in Gran Bretagna e in tutto il mondo il movimento di boicottaggio, disinvestimento e di sanzioni verso Israele cresce progressivamente mentre la comunità internazionale continua a permettere a Israele  di mantenere Gaza sottoposta ad una sorta di assedio medievale, la Cisgiordania e Gerusalemme occupate e i palestinesi sotto persistente regime di e discriminazione e pulizia etnica. Come è avvenuto per il Sud Africa, sta alle persone di coscienza in tutto il mondo unirsi al movimento fino a quando Israele non rispetterà il diritto internazionale e permettera’ ai palestinesi gli stessi diritti umani di qualsiasi altro popolo“.

Allontanandoci da Erez abbiamo sentito poco distante da noi i rumori sordi di spari provenienti dalle torrette di sorveglianza al confine: alla fine della giornata si conteranno 2 civili gambizzati dai cecchini israeliani.

Il giorno dopo, una sottaciuta nuova dichiarazione di Balfour veniva firmata, questa volta non dai britannici  bensi’ da Obama, col sangue palestinese.

Una nave da guerra statunitense al largo del mediterraneo lanciava un missile teleguidato verso il centro di Gaza city e uccideva il miliziano Muhamad Jamal Nimnim, di 27 anni.

Il primo assassinio “mirato” targato USA nella Striscia di Gaza.

Restiamo Umani,
Vittorio Arrigoni da Gaza city

 

 

 

Fonte:

 

http://guerrillaradio.iobloggo.com/archive.php?y=2010&m=11

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/

GRECIA-ISRAELE: ACCORDI MILITARI SENZA PRECEDENTI

Ali Abunimah

da A l’encontre

L’esercito greco e quello italiano si addestreranno presto in Israele.

È l’ultimo segnale dell’approfondirsi dell’alleanza militare costruita da Israele e dal governo greco, sotto la guida del partito di sinistra Syriza.

Il mese scorso alcuni piloti elicotteristi israeliani hanno effettuato esercitazioni di combattimento senza precedenti, della durata di 11 giorni, in Grecia, nei paraggi dell’Olimpo.[1]

Nel maggio[2] e poi nel luglio 2015, il governo diretto da Syriza ha addirittura firmato un accordo militare con Israele che non ha uguali se non quello, analogo, che esiste tra Israele e gli Stati Uniti, garantendo immunità legali per tutti i militari indistintamente nel corso dell’addestramento in un altro territorio.[3]

L’accordo militare è stato sottoscritto a nome del governo da Panagiotis Kammenos, il ministro della Difesa, membro dei Greci indipendenti (ANEL), junior partner del governo di coalizione. Non vi è dubbio, tuttavia, che Syriza dia il suo appoggio: in luglio [6 luglio], Nikos Kotzias, il ministro degli Esteri nominato da Syriza,[4] si è recato a Gerusalemme per discussioni al vertice con il Primo ministro israeliano Benyamin Netanyahou per «rafforzare i legami bilaterali tra i due paesi».

Subito quest’anno aerei da guerra israeliani hanno effettuato missioni di addestramento intensive in Grecia, un’esperienza che verrà certamente utilizzata per attaccare la Striscia di Gaza nelle future aggressioni militari israeliane.

 

Elicotteri israeliani in Grecia

 

Stando a un comunicato stampa delle forze aeree israeliane, «la collaborazione greco-israeliana si va estendendo negli ultimi anni e, alla luce dei successi al momento dei recenti dispiegamenti, scambievoli voli probabilmente continueranno nel 2016».

Il comandante della base aerea di Larissa, che era la base degli elicotteri israeliani durante le esercitazioni, cita la dichiarazione del colonnello Dormitis Stephazanki: «Comprendiamo la grande rilevanza di un’attività congiunta con lo Stato di Israele, che contribuisce alla sicurezza di entrambi i paesi. Nel corso degli ultimi giorni, abbiamo lavorato insieme in modo speciale. Il linguaggio comune, l’amicizia profonda e le cose che abbiamo imparato insieme hanno contribuito a migliorare la collaborazione tra le rispettive forze».

Dormitis ha detto di essere convinto che l’addestramento in Grecia aveva migliorato «l’atteggiamento [degli israeliani] nell’assumersi l’incarico dei voli ogni volta che è necessario».

«Abbiamo sorvolato zone montuose che in Israele non esistono e abbiamo sperimentato voli a lunga distanza partendo da basi aeree israeliane verso la Grecia», ha dichiarato il luogotenente colonnello Matan, comandante di una squadra di elicotteri Apache, fabbricati negli Stati Uniti (l’esercito israeliano fornisce solo i cognomi, forse per proteggere il personale da possibili accuse per crimini di guerra).

Gli Apache – battezzati con il nome delle popolazioni di amerindi che sono state bersaglio dell’espansione coloniale genocida in America settentrionalesono stati utilizzati ampiamente da Israele per effettuare esecuzioni estragiudiziali di palestinesi. È l’apparecchio usato nei massacri di civili a Gaza lo scorso anno.

Il colonnello Y, comandante di un’unità israeliana di ricognizione, ha descritto la partecipazione di Israele all’esercitazione come «storica», soggiungendo che «era la prima volta che gli aerei che raccolgono informazioni hanno lavorato con apparecchi stranieri su un terreno sconosciuto e complesso».

 

Appoggiare i crimini di guerra?

 

Secondo il Jerusalem Post, i piloti greci di elicotteri si addestreranno in Israele nel corso dei prossimi mesi. Il giornale riferisce che aerei da combattimento greci «parteciperanno all’esercitazione multinazionale Blue Flag che si svolgerà nei cieli sopra il Sud di Israele». In giugno, un reportage di Haaretz ha rivelato che le forze aeree italiane, greche e statunitensi parteciperanno a quell’esercitazione.

La collaborazione militare tra Israele, l’Italia e la Grecia prosegue nonostante il fatto che un’indagine indipendente pubblicata di recente, per ordine del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, abbia scoperto massicce prove di crimini di guerra commessi da Israele al momento del suo attacco a Gaza durante l’estate scorsa, che ha ucciso oltre 2.200 palestinesi

Il mese scorso, Amnesty International ha pubblicato una sua indagine sull’aggressione israeliana contro la città di Rafah, a Sud della Striscia di Gaza. Anche qui, l’indagine ha concluso che centinaia di civili sono stati uccisi nel corso dei gravi crimini di guerra compiuti da Israele.

Amnesty ha scoperto che «alcune dichiarazioni pubbliche di comandanti dell’esercito israeliano e di soldati successive al conflitto forniscono ragioni imperiose per ricavare la conclusione che certi attacchi che hanno ucciso civili e distrutto case e proprietà sono stati effettuati e motivati per desiderio di vendetta – per dare una lezione o punire la popolazione di Rafah».

Inam Ouda Ayed bin Hammad, citato nel Rapporto di Amnesty, rievoca i cannoneggiamenti a tappeto e i bombardamenti che ci sono stati vicino alla sua casa nel quartiere al-Tannur di Rafah: «nel momento in cui sono uscito da casa, un Apache ha preso a spararci addosso».

Magari quegli stessi Apache e quegli stessi piloti hanno condiviso in Grecia occasioni cameratesche.

I Rapporti dell’ONU e di Amnesty hanno lanciato l’appello perché si facciano finalmente i conti con i crimini di guerra perpetrati a Gaza e nella Cisgiordania occupata. Viceversa, i governi di sinistra greco e italiano, come pure, ovviamente, l’amministrazione Barak Obama degli Stati Uniti, si limitano ad offrire la loro complicità e le loro ricompense unicamente ad Israele.

 

(Traduzione in francese di A l’Encontre; l’articolo è uscito il 5 agosto 2015 sul sito Electronic Intifada. L’autore del presente articolo, cofondatore del sito, ha pubblicato di recente The Battle for Justice in Palestine, Editions Haymarket, marzo 2014. Risiede negli Stati Uniti. Probabilmente per questo considera « di sinistra » anche il governo Renzi). Della vicenda avevamo già parlato sul sito : Kouvelakis: Dalla vicenda di Syriza alcuni insegnamenti per il nostro avvenire.

(Traduzione dal francese di Titti Pierini)

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[1]Un comunicato pubblicato il 3 agosto, sul sito «Israeli Air Force» http://www.iaf.org.il/4424-45323-en/IAF.aspx, indicava come, per due settimane, una squadriglia di elicotteri dell’aeronautica dell’IDF (Israeli Defense Forces) ed elicotteri e caccia dell’esercito greco avessero condotto esercitazioni congiunte, partendo dalla base di Larissa. «Era uno dei principali e complessi dispiegamenti di forze fuori da Israele». L’accento era posto soltanto sull’interesse di acquisire esperienza in voli ad alta quota (per gli elicotteri), nonché sulla raccolta di informazioni.

Il 28 luglio 2015, Israël Actualités, settimanale on line, poneva in rilievo una delle principali dimensioni dell’accordo militare (cfr. anche nota 3), concernente le varie poste in gioco disputate nel Mediterraneo orientale rispetto alle riserve di gas, che interessano sia Israele sia la Grecia. «Durante l’esercitazione, i dirigenti hanno discusso in particolare di “sicurezza marittima, energetica e di collaborazione nell’industria militare”, stando al Rapporto del ministero greco. L’accordo stipula che la marina israeliana potrà d’ora in poi intervenire per neutralizzare qualsiasi attacco islamista contro gli interessi greci e dello Stato ebraico, in acque cipriote e del Mediterraneo orientale. Unità scelte di Tsahal potrebbero anche, all’occorrenza, dispiegarsi sulle piattaforme di estrazione di gas di Cipro o installarsi in basi militari greche». Ali Abunimah lascia da parte questo aspetto decisivo dell’accordo (Redazione À l’Encontre).

[2]Il 21 maggio 2015 Israpresse sottolineava come sarebbero proseguiti tra Israele e la Grecia gli accordi «riguardanti prevalentemente la politica, la difesa, l’energia, il turismo, la cultura e l’accademia». «Dei festeggiamenti intervengono a rafforzare i legami tra i due paesi, divenuti incerti dopo l’arrivo al potere di Alexis Tsipras nel gennaio 2015». Il 26 gennaio 2015, l’influente quotidiano Yedioth Aharonoth citava l’ex ambasciatore di Israele in Grecia, Arye Makel, che riprendeva le dichiarazioni di Alexis Tsipras dell’agosto 2014 al momento dell’operazione militare “Protezione dei confini”, il quale «accusava lo Stato ebraico di assassinare bambini palestinesi». Dopo di allora i rapporti militari, tra gli altri, si sono consolidati, ma hanno segnato un nuovo corso. (Redazione À l’Encontre).

[3]Il 19 luglio 2015, così Israpresse presentava l’accordo: «Il capo dell’apparato della difesa israeliana e il ministro greco della Difesa nazionale hanno concluso un Accordo sullo statuto delle forze militari (Status of the force agreement, o SOFA), vale a dire una reciproca intesa giuridica che consente all’Esercito di Israele di stanziare truppe in Grecia e viceversa. Si tratta del primo SOFA che Israele conclude con un paese alleato, oltre agli Stati Uniti.

Il ministro israeliano ha espresso la propria gratitudine nei confronti del suo omologo per la sua visita in Israele, nonostante la difficile situazione del proprio paese, esprimendo la sua speranza di vedere la Grecia superare le grandi sfide che l’attendono. «Apprezziamo molto la collaborazione sicuritaria che si traduce nell’addestramento di nostri soldati e ufficiali in territorio greco. I nostri Stati condividono interessi comuni, dovendo affrontare le conseguenze dell’accordo sottoscritto la scorsa settimana tra le grandi potenze e l’Iran», ha dichiarato Ya’alon.

Da parte sua, il ministro greco ha affermato: «Il popolo greco è molto vicino a quello di Israele. Per quanto riguarda la nostra collaborazione militare, i rapporti sono eccellenti e continueremo a mantenerli e proseguiremo le esercitazioni comuni». Kammenos ha soggiunto: «Il terrorismo e la jihad non colpiscono solo il Medio oriente, ma anche i Balcani e l’Europa. È la guerra. Eravamo molto vicini anche a Israele per tutto ciò che concerne il progetto missilistico iraniano. Ci troviamo a portata di quei missili. Se un missile iraniano si dirige verso il Mediterraneo, questo può voler dire la fine di tutti i paesi dell’area» (Redazione A l’Encontre).

[4] Nikos Kotzias era il consigliere del Primo ministro greco Georgios Papandreou. Dopo la sua nomina agli Esteri, il 27 gennaio 2015, The Times of Israel (28 gennaio 2015) riferiva l’opinione di Emmanuel Karagiannis, greco d’origine, docente presso il King’s College di Londra, dove occupa la cattedra degli Studi militari: «Kotzias è un politico alquanto pragmatico, per cui non mi aspetto un peggioramento dei rapporti bilaterali. Kotzias considera la Turchia la principale potenza competitiva, in termini geopolitici nel Mediterraneo orientale. Credo quindi che il partenariato Grecia-Israele sopravvivrà a questo cambiamento politico [governo Tsipras]» (Redazione A l’encontre).

 

Tratto da: http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2328:grecia-israele-accordi-militari-senza-precedenti&catid=7:medio-oriente-e-mondo-arabo-islamico&Itemid=17

Giovanni Lo Porto ucciso da un drone americano in gennaio

PAKISTAN: SEQUESTRATO COOPERANTE ITALIANO NEL PUNJAB

LO COMUNICA IL DIPARTIMENTO DI STATO USA. IL COOPERANTE ITALIANO ERA OSTAGGIO DI AL QAEDA DAL 2012, È STATO VITTIMA DI UN’OPERAZIONE COMPIUTA IN GENNAIO. LA SUA VICENDA ERA STATA AVVOLTA DAL SILENZIO, VIOLATO SOLO DA ALCUNI APPELLI DI ONG. OBAMA: “DOLORE ENORME”

Tratto da Redattore Sociale

Giovanni Lo Porto è stato ucciso da un drone americano. Lo ha annunciato lo stesso Dipartimento di Stato statunitense. “È con grande dolore che dichiariamo che nella recente missione antiterrorismo conclusa in gennaio dal Dipartimento di Stato sono stati uccisi due innocenti, ostaggi nelle mani di Al Qaeda”, scrive la Casa Bianca nel comunicato ufficiale. Insieme all’operatore umanitario italiano, a perdere la vita nel raid anche Warren Weinstein, cooperante americano. Obiettivo del raid il terrorista di Al Qaeda di origini americane Adam Gadahn, ucciso nell’operazione insieme ad un altro obiettivo, Ahmed Farouq.

Giovanni Lo Porto era stato rapito il 19 gennaio 2012 a Multan in Pakistan, insieme al collega tedesco Bernd Muehelnbeck. Si trovava nel Paese per conto della ong tedesca Welthungerhilfe, per un progetto di ricostruzione delle case distrutte nel terremoto che ha colpito l’area nel 2010.

Anni di silenzio a seguito del rapimento, smossi solo dagli appelli delle ong che erano arrivate a raccogliere una petizione con 48 mila firme on line.
“Sono qui per esprimere il dolore e le mie condoglianze alle famiglie di due cooperanti, uno americano Warren Weinstein e l’altro italiano, Giovanni Lo Porto che sono tragicamente rimasti uccisi in un’operazione antiterrorismo statunitense”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama durante la conferenza stampa con la quale ha dato notizia dell’uccisione dei due cooperanti. Obama si prende “la piena responsabilità” per il tragico incidente che ha portato alla morte dei due cooperanti.

L’operazione è stata condotta dalla Cia, i servizi segreti americani. Weinstein è stato rapito nel 2011 e Obama ha detto “di aver fatto tutto il possibile per trovarlo e riportarlo a casa in sicurezza dalla sua famiglia”. “Abbiamo lavorato a stretto contatto con i nostri alleati italiani nello sforzo di salvare Giovanni, che è stato rapito nel 2012″.

Dal 2009, ha detto Obama, lo sforzo della presidenza americana è quello di garantire la sicurezza ai cittadini negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Proprio per questo la morte dei due cooperanti “ci provoca un dolore enorme”, afferma il presidente americano. “Ieri ho parlato con la moglie di Warren e con il primo ministro Renzi in Italia – il presidente sospira un secondo –. Come marito e come padre non posso immaginare l’ansia che la famiglia Weinstein e la famiglia Lo Porto hanno dovuto sopportare. Mi rendo conto che non ci sono parole che possano compensare le loro perdite”. Weinstein, ebreo, 72 anni, padre e nonno, si trovava nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan con J.E. Austin Associates, ong contractor dell’agenzia di cooperazione americana Usaid. “Non sapevamo che in quel compound, tragicamente, Al Qaeda tenesse nascosti Giovanni e Warren. Gli errori, a volte mortali, ogni tanto accadono”, continua Obama.

Il presidente ha poi ricordato il lavoro di Lo Porto, cominciato in Repubblica Centrafricana ad Haiti fino al Pakistan, dove ha perso la vita, a 39 anni. “Il lavoro di Giovanni riflette l’impegno degli italiani nel mondo”, ha proseguito Obama. Da quanto risulta dalle prime dichiarazioni della Casa Bianca, l’operazione si è svolta in gennaio ma la notizia è stata fino ad oggi top secret per permettere lo svolgimento di un’indagine interna che spiegasse i motivi che hanno portato alla tragica morte di due cooperanti. I punti di domanda ci sono ancora. Pare che l’operazione che ha portato al raid sul compound dove si trovavano i due cooperanti abbia portato all’uccisione di Ahmed Farouq, terrorista di Al Qaeda con passaporto americano. L’altro obiettivo del bombardamento, Adam Gadhan, sarebbe stato ucciso in un’altra missione.

Come ricorda il Washington Post, non è la prima volta che l’amministrazione Obama incappa in “errori mortali”, come li ha definiti Obama. A dicembre 2014, toccò questa sorte a Luke Somers, americano nelle mani di Al Qaeda nello Yemen, ucciso durante la missione per tentare di salvarlo dalle mani dei rapitori.

SIRIA: LE BOMBE DI OBAMA E QUELLE DI ASSAD

(di Lorenzo Trombetta*, Pagina99“Guarda guarda! Tua moglie ti tradisce nel bosco!”, grida un signore al suo amico. E l’amico: “Non è un bosco, sono solo pochi alberi!”. Con questa freddura, che mostra come l’amico tradito sposti l’attenzione dal tradimento a un dettaglio del racconto, molti siriani hanno deriso stamani l’atteggiamento assunto dal regime del presidente Bashar al Assad di fronte ai raid aerei della coalizione straniera guidata dagli Stati Uniti, e di fronte all’abbattimento da parte di Israele di un caccia siriano sulle Alture occupate del Golan. “Mentre la nostra sovranità nazionale viene violata in modo flagrante, il regime mette le mani avanti, parlando di coordinamento con gli americani e dicendo di esser stato informato dei bombardamenti”, scrive Nizar Mrad.

Per oltre tre anni, Damasco e i suoi alleati regionali e internazionali, hanno usato l’argomento della “sovranità nazionale” per mostrarsi vittime di un “complotto” ordito dai Paesi del Golfo, in primis dall’Arabia Saudita, e dall’Occidente. Adesso, sottolineano in molti in Siria, l’Occidente e i Paesi del Golfo attaccano regioni della Siria con la benedizione, di fatto, sia del regime di Assad sia dei suoi sponsor esterni. E per cercare di nascondere questa contraddizione ribadiscono che gli Usa hanno informato preventivamente Damasco e che esiste “coordinamento” in nome della “lotta al terrorismo”.

“Scusate, ma non capisco qual è la differenza tra ‘aggressione’ e ‘coordinamento’”, si domanda ironico Anas Muslim, dalla regione nord-occidentale di Idlib. “E’ meglio telefonare al ministero degli esteri siriano”, aggiunge in riferimento a linguaggio usato nei comunicati provenienti dal dicastero del regime.

Il responsabile della diplomazia siriana, Walid al Muallim, aveva a fine agosto ribadito il mantra di Damasco: ci uniremo a chiunque ci aiuti a sconfiggere il terrorismo. Dal 2011, il regime indica come “terroristi” chiunque osi mettere in discussione l’autorità della famiglia Assad, al potere da quasi mezzo secolo. Proprio oggi, il raìs ha ripetuto il concetto: “Da anni, la Siria combatte una guerra lanciata dal terrorismo in ogni sua forma… ci uniamo agli sforzi internazionali per combattere il terrorismo”.

Yusuf Musa è un altro siriano comune che si è espresso oggi sui social network. “In che mondo viviamo?”, si è domandato con disperazione. “Il regime terroristico di Assad chiede di partecipare alla coalizione che colpisce il terrorismo nel suo stesso Paese…”.

Perché alcuni siriani definiscono “terrorista” il regime siriano? Michel Shammas, noto avvocato per i diritti umani a Damasco, risponde con un esempio fresco di cronaca odierna e relativo agli incessanti bombardamenti dell’aviazione di Assad su quartieri e sobborghi della capitale: “Oggi è il giorno del terrore. Aerei si accaniscono con missili e mitragliatori dai cieli di Dweila [quartiere a sud di Damasco]. Mia figlia, terrorizzata, è sbiancata… pensava che la casa fosse stata colpita!”.

La repressione poliziesca e militare del regime siriano contro la rivolta prosegue senza sosta dal marzo 2011. Dopo le proteste pacifiche dei primi mesi, la sollevazione si è armata e, nel corso del 2012 e del 2013 si è radicalizzata in senso islamico. Per gli Assad è stato dunque assai più facile legittimare l’uso della forza contro le roccaforti della rivolta affermando che si tratta di “combattere il terrorismo” e “l’estremismo takfira”. In questo quadro, l’aviazione e l’artiglieria lealiste continuano incessantemente a bombardare i sobborghi di Damasco e altre zone dominate dall’insurrezione armata. La novità è che questi attacchi avvengono ora in contemporanea con i raid della coalizione arabo-sunnita filo-Usa.

A tal proposito, Ghassan Yassin, ricorda che “venticinque raid del regime si sono abbattuti sul Qalamun [a nord di Damasco], mentre la coalizione internazionale bombarda il nord della Siria. E’ proprio una guerra contro il popolo siriano… una guerra contro la sua rivoluzione!”. I raid aerei della coalizione non si sono abbattuti solo su postazioni jihadiste nelle regioni del nord e del nord-est ma anche contro basi dell’ala qaidista siriana, la Jabhat an Nusra, nella regione di Idlib.

Ma la Nusra, a differenza dello Stato islamico, combatte apertamente contro le forze lealiste e da mesi è in aperto contrasto con il fronte jihadista. Per questo, è da molti siriani percepita come una componente della ribellione armata anti-Assad. E il fatto che gli Stati Uniti stiano colpendo la Nusra è per molti una prova dell’intesa sottobanco tra Washington e Damasco. “Decine di raid su Idlib… gli Usa offrono copertura aerea ad Assad”, scrive Abdel Qader da Idlib, dove oltre dieci civili sono morti nei raid della coalizione straniera. Gli fa eco Obada da Homs: “E’ cominciata la campagna crociata per salvare Assad!”.

In pochi però a Idlib si rendono conto che quella che loro descrivono come una “campagna crociata” è in realtà lanciata in modo massiccio dai Paesi del Golfo, nominalmente musulmano-sunniti. Ecco perché altri siriani comuni hanno accusato direttamente le monarchie del Golfo che, assieme alla Giordania, partecipano ai bombardamenti in Siria. Tra queste spiccano l’Arabia Saudita e il Qatar, rivali degli Assad e sostenitori, almeno a parole, della rivolta siriana. “Perché prendersela con gli Stati Uniti? Pensano solo ai loro interessi… dovremmo guardare invece agli Stati della coalizione: l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati, il Bahrain, la Giordania”, scrive Muhammad Hammud. “Solo a Idlib venti civili… con esplosioni che rimbombano in ogni angolo della Siria…Un massacro così nemmeno Assad era riuscito a compierlo! Che gli arabi siano maledetti! E che si fottano l’Arabia Saudita, il Qatar e chiunque partecipa all’attacco. Fanculo tutto e tutti!”.

Più pacata l’osservazione di Muhiy ad Din Isso, attivista del movimento pacifico di protesta: “Per me non c’è differenza tra il regime di Assad, lo Stato islamico, la Jabhat Nusra e tutte le altre fazioni estremiste che tagliano la testa e contribuiscono a far sbranare i siriani. Un terzo degli abitanti siriani è in fuga a causa del terrorismo di due Stati, lo Stato di Assad e lo Stato islamico. Per me la patria non è cumulo di macerie. Ma libertà, dignità e cittadinanza”. Qualcuno, dunque, non dimentica gli slogan della sollevazione popolare del 2011. (Pagina99, 24 settembre 2014)

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*Zanzuna (pseudonimo) ha contribuito a questo articolo raccogliendo diverse testimonianze.

Citato in http://www.sirialibano.com/siria-2/non-bosco-pochi-alberi.html

Leggi anche quest’altro articolo sempre di Lorenzo Trombetta:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-bombe-nuove-bombe-vecchie.html

 

Quando tra Assad e l’Isis correva buon sangue

Siria. Dal maggio 2011 con lo scoppio delle prime rivolte e la liberazione dei prigionieri

Dopo l’apertura del pre­si­dente siriano ai bom­bar­da­menti sta­tu­ni­tensi, mirati e coor­di­nati con Dama­sco, con­tro i jiha­di­sti dello Stato isla­mico (Isis) in Siria, il tanto odiato regime di Assad è tor­nato a essere cen­trale per gli inte­ressi Usa in Medio oriente. Non solo Stati uniti e Siria stanno col­la­bo­rando per fer­mare i com­bat­tenti radi­cali dell’Isis, hanno anche qualcos’altro in comune: entrambi hanno con­tri­buito alla nascita e all’ascesa del temi­bile movi­mento jihadista.

27inchiesta siria hassad

La logica di Assad è molto sem­plice e con­di­visa dalle élite mili­tari di altri stati del Medio oriente: in un con­te­sto di rivolte, è sem­pre utile pun­tare sulla paura gene­ra­liz­zata dell’ascesa di estre­mi­sti e ter­ro­ri­sti. In que­sto modo gli isla­mi­sti mode­rati (i Fra­telli musul­mani siriani per esem­pio), ma anche l’opposizione seco­lare, saranno facil­mente messi in un angolo. Que­sto ha fatto l’esercito egi­ziano, atti­vando i movi­menti sala­fiti in occa­sione delle prime ele­zioni libere del 2012. Per poi accu­sare tutti gli isla­mi­sti di ter­ro­ri­smo ed avere le mani libere per repri­mere i mode­rati Fra­telli musul­mani, lasciando fare ai sala­fiti, diven­tati i prin­ci­pali alleati del gene­rale Abdel Fat­tah al-Sisi.

Alti uffi­ciali vicini ad Assad hanno con­fer­mato que­sta rico­stru­zione. In altre parole, i ter­ro­ri­sti dello Stato isla­mico (Isis) hanno deci­mato l’Esercito libero siriano (Els). «Se que­sti gruppi si scon­trano tra loro, il primo a bene­fi­ciarne è il governo siriano. Quando hai così tanti nemici che si com­bat­tono tra di loro, puoi trarne bene­fi­cio», ha aggiunto la fonte.

Ai mili­tari siriani hanno fatto eco gli Stati uniti. «Il regime di Assad ha gio­cato un ruolo chiave nell’ascesa dell’Isis», ha detto il por­ta­voce del Dipar­ti­mento di Stato, Marie Harf. Assad ha sem­pre negato di aver dato qual­siasi soste­gno all’Isis. Eppure nel mag­gio del 2011, con lo scop­pio delle prime rivolte in Siria, il governo di Dama­sco ha libe­rato dalla pri­gione mili­tare di Sagnaya i prin­ci­pali dete­nuti accu­sati di ter­ro­ri­smo nella prima di una serie di amni­stie. Molti dei pri­gio­nieri libe­rati quel giorno sono ora arruo­lati nelle file dell’Isis. Qual­cosa del genere è avve­nuto anche in Egitto il 28 gen­naio del 2011, quando con l’acqua alla gola per scio­peri e mani­fe­sta­zioni di piazza, la poli­zia sparì dalle strade, men­tre decine di isla­mi­sti radi­cali e dete­nuti comuni lascia­rono le carceri.

Il diplo­ma­tico siriano Bas­sam Bara­bandi ha spie­gato in que­sto modo gli eventi del mag­gio 2011: «Il timore di una pro­lun­gata rivolta per­mise il rila­scio dei pri­gio­nieri isla­mi­sti: sono alter­na­tivi alla con­te­sta­zione paci­fica». Dal 2012 in poi, i gruppi radi­cali, con il soste­gno indi­retto anche degli aiuti mili­tari sau­diti e occi­den­tali, hanno pro­li­fe­rato in Siria: dal fronte al-Nusra alla costola siriana di al-Qaeda fino allo Stato isla­mico (Isis). Quest’ultimo è chia­ra­mente sfug­gito dal con­trollo anche di Assad a tal punto che i jiha­di­sti sono stati impe­gnati non solo in una guerra senza quar­tiere con­tro l’Els ma hanno creato quasi uno stato nello stato. E così l’Isis ha ine­so­ra­bil­mente con­ti­nuato la sua avan­zata, pren­dendo la città set­ten­trio­nale di Raqqa. Il cen­tro, dove molti degli stra­nieri rapiti negli ultimi mesi sono scom­parsi, è diven­tato il quar­tiere gene­rale dei jiha­di­sti. È qui che Abu Bakr al-Baghdadi ha dichia­rato la fon­da­zione del suo calif­fato. Qual­cosa di simile è acca­duto spesso anche nella sto­ria egi­ziana con il ter­ro­ri­smo isla­mi­sta radi­cale inne­scato dalla con­ni­venza con l’intelligence mili­tare (si veda il Sinai).

Dama­sco e Washing­ton da nemici tor­nano a essere amici, que­sta volta con­tro una crea­tura «ter­ri­bile» che hanno entrambi con­tri­buito a far cre­scere ma che è poi sfug­gita al loro controllo.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/quando-tra-assad-e-lisis-correva-buon-sangue/