Recensione a Sul porno di Claudia Ska



Ritratto di Claudia Ska, credits Miss Sorry di I am Naked on the Internet

Qui il link della casa editrice Villaggio Maori Edizioni dove si può acquistare il libro:

https://www.villaggiomaori.com/Ska-%E2%80%8BSul-Porno-Corpi-e-scenari-della-pornografia-p400720848

 

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Disabilità ed abilismo: ne parlo con Elena e Chiara del blog “witty_wheels”

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bandiera del Disability Pride creata nel 2019 da Ann Magill

 

Ciao, Elena e Chiara. Vi ringrazio per aver accettato quest’intervista.

1)    Sui social vi fate chiamare witty_wheels e trattate i temi della disabilità e del contrasto all’abilismo. Com’è nato il vostro progetto?

Essendo sorelle ed entrambe disabili abbiamo sempre avuto il privilegio di poter discutere e decostruire insieme le nostre esperienze specifiche di persone in carrozzina, quindi abbiamo semplicemente pensato di cominciare a mettere per scritto i nostri pensieri e appunto esperienze. Il blog è nato nel 2015 parallelamente allo studio autonomo sui Disability Studies e sul lavoro di attivisti soprattutto inglesi e americani.

2)    Come spieghereste il termine abilismo a chi lo sentisse per la prima volta?

È il sistema di oppressione verso le persone disabili in cui tutti siamo immersi: comprende lo stigma, la discriminazione e la violenza. In soldoni è l’equivalente del razzismo, è strutturale quindi può avere mille forme. Il termine inglese è ableism, ed è una visione del mondo in cui avere un corpo-mente non disabile è valutato positivamente e in cui la disabilità è un difetto invece che un aspetto della varietà umana.

Qualche esempio per essere più concreti: quando completi estranei per strada danno i buffetti alle persone disabili (molestie abiliste) o quando chi seleziona il personale fa un colloquio a una persona disabile e non la assume per quel motivo. L’inaccessibilità di edifici, trasporti, eventi, eccetera. Il sistema dei servizi sociali che fa sì che sia più semplice trovare assistenza per le persone disabili in strutture chiuse o centri diurni che con servizi che permettano loro di vivere in modo indipendente all’interno della società (ad esempio l’assistenza personale).

3)    Oltre alle barriere architettoniche, quali altre difficoltà ricorrenti le persone disabili si trovano a dover fronteggiare quotidianamente?

Proviamo a fare un quadro in poche righe. Si può parlare di una vera e propria segregazione delle persone disabili. C’è il problema dell’accesso agli spazi e all’informazione, quindi anche delle barriere sensoriali, e ci sono molte limitazioni nell’accesso al trasporto pubblico. Poi in generale le persone disabili hanno bisogni specifici (software, carrozzine particolari, veicoli attrezzati, ausili di vario tipo) che spesso devono essere pagati di tasca propria. Questo si traduce in varie spese extra, infatti la disabilità è spessissimo un fattore di impoverimento. Le persone non autosufficienti poi hanno bisogno di assistenti personali che le aiutino nelle azioni quotidiane e – nella quasi totale ignoranza dell’opinione pubblica – i fondi non sono minimamente sufficienti e la maggior parte delle persone riceve poche ore di assistenza o è costretta a vivere in struttura con gravi limitazioni della libertà o a farsi assistere da familiari, amici o partner. A questo possono aggiungersi la discriminazione a scuola, al lavoro, nei luoghi di divertimento. I tassi di occupazione sono molto bassi per le persone disabili, ed è difficile accedere all’istruzione superiore sia per la scarsità di fondi per assumere assistenti sia per altri bisogni che non vengono soddisfatti dalle università. Anche le persone con le cosiddette “disabilità invisibili” faticano molto a vedersi riconosciuti i propri diritti e bisogni. Queste sono alcune delle difficoltà concrete, poi ovviamente la segregazione fa sì che siano ancora forti i pregiudizi di vario tipo verso le persone disabili, anche se in questo senso le cose stanno lentamente migliorando.

4)    Cosa s’intende per abilismo interiorizzato?

Le persone disabili ricevono dei messaggi forti e costanti dalla società, e possono finire per crederci. Ad esempio l’idea di essere un peso e un disturbo per i propri amici, familiari e partner, che porta le persone disabili a scusarsi perché magari sono più lente. O il pensare di non essere dei partner validi, e quindi di doversi “accontentare”, cosa che porta ad essere potenzialmente più vulnerabili agli abusi. Le difficoltà oggettive a realizzarsi nel lavoro o nello studio (a causa degli ostacoli sociali) possono portare a credere che non ci si riesca per cause intrinseche alla disabilità. Sono solo alcuni esempi di abilismo interiorizzato e se ne può uscire solo prendendo consapevolezza delle oppressioni intorno a noi e attraverso un confronto con altre persone disabili.

5)    Spesso si tende a voler “normalizzare” le persone disabili pensando che questo sia inclusione. Secondo voi, in che modo si potrebbe rendere visibile la disabilità per quello che è, cioè senza edulcorarla, riconoscendone l’intrinseca dignità?

Lasciando parlare le persone disabili: sembra banale, ma ancora non viene fatto a sufficienza. Troppo spesso infatti non vengono messe al centro le voci delle persone disabili sulle questioni che le riguardano. Quando le opinioni delle persone disabili verranno valutate di più potremo avere davvero un dibattito serio e consapevole. Anche la rappresentazione sui media fa tantissimo: finché le persone non disabili credono che la disabilità sia quella di libri come “Io prima di te” (largamente criticato dagli attivisti disabili) non possiamo evolverci più di tanto. Dobbiamo fare in modo che le persone disabili raccontino le proprie storie e essere scettici di chiunque parli al posto loro.

6)    Cosa s’intende con il termine inspiration porn?

Sono immagini o storie che oggettificano le persone disabili cercando di ispirare e motivare chi non è disabile, facendolo sentire fortunato: è una forma di rappresentazione problematica, ce n’è un sacco sui social, sulla stampa e in tv. Tipo la foto di un atleta con una protesi e la scritta “tu che scusa hai?”. Il messaggio implicito è che se può “fare cose” lui – una persona disabile che per forza dovrebbe passarsela peggio (!) – puoi farle anche tu spettatore non disabile. Oppure le notizie delle persone disabili che si laureano. Di solito queste storie non includono le parole della persona disabile e raramente criticano la mancanza di supporti sociali che ha reso eventualmente difficile laurearsi. O quando si parla di coppie in cui c’è una persona disabile e una no, descrivendo quest’ultima come eroica e invitando tutti a commuoversi su queste “coppie speciali”.

In questo modo si fanno passare come eventi eccezionali cose normali e quotidiane e si sottovalutano implicitamente le persone disabili. Non abbiamo bisogno di queste storie, abbiamo bisogno di vivere in pace le nostre vite senza che nessuno faccia diventare i nostri partner eroi sui giornali.

7)    Per le persone disabili è più importante il livello di autonomia personale o di autodeterminazione?

L’autodeterminazione è imprescindibile per ogni persona: per alcune persone disabili è determinata dalla presenza o meno dei giusti strumenti, che per qualcuno possono essere l’assistenza personale, per altri dei software specifici, carrozzine adatte alle proprie esigenze….

L’importante è non valutare l’autonomia (se intesa come il “poter fare le cose da soli”) ad ogni costo. Molte persone disabili fanno tutto da sole, anche a costo di metterci ore, faticando moltissimo, rifiutando aiuto anche quando ne hanno bisogno. Questo per cercare di sottrarsi allo stigma e al giudizio, perché la società spinge continuamente le persone disabili a sembrare il “meno disabili” possibile: ci sono un sacco di messaggi che riceviamo che possono portarci ad agire contro il nostro interesse e benessere.

8)    Quanto è indietro l’Italia, nell’assistenza ai disabili e nel superamento di barriere architettoniche, sensoriali e culturali, rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea?

Beh, dipende a quale paese ci riferiamo: non è certamente il paese peggiore in Europa. Noi abbiamo vissuto a Londra e lì vivere la città è di gran lunga più facile per chi come noi usa carrozzine elettriche (rispetto a gran parte delle città italiane). Per la nostra esperienza si può accedere alla maggior parte dei luoghi salvo delle eccezioni; mentre ad esempio nelle Marche dove viviamo è il contrario: i luoghi sono in gran parte inaccessibili salvo eccezioni. Qui è molto facile sentirsi ingabbiati. Inoltre in Inghilterra i fondi per assumere assistenti personali sono una realtà più consistente e consolidata, e questo fa una differenza enorme.

9)    Cosa mi dite riguardo a sessualità e vita di coppia nella condizione della disabilità?

C’è tanto da dire. C’è un pregiudizio ancora forte secondo cui chi sta, esce o fa sesso con una persona disabile è un eroe o un santo o si “accontenta”, si “sacrifica”.

Inoltre ci sono ancora tante persone attratte da una persona disabile, ma che oltre a farci sesso e stare con lei nel privato non ci uscirebbero pubblicamente, per paura delle reazioni esterne e perché una persona disabile non è il “trofeo” che la società si aspetta da loro. Dinamiche simili accadono alle persone grasse, trans o nere (soprattutto donne in coppie etero). Non si tratta dunque, ovviamente, di essere meno “desiderabili”, ma di avere appiccicato addosso uno stigma.

Inoltre gli ostacoli concreti di cui abbiamo parlato prima inficiano anche le relazioni: se non sei autosufficiente e non hai abbastanza ore di assistenza personale e agli appuntamenti ti deve portare tuo padre è super complicato. L’abilismo si fa sentire anche in ambito medico, in questo caso quando si parla di salute sessuale; esistono ancora i medici che si stupiscono che le persone disabili fanno sesso.

Servono tante cose: un’educazione sessuale davvero completa (per tutti); combattere la segregazione delle persone disabili e promuoverne le opportunità per partecipare alla società alla pari delle persone non disabili; promuovere il supporto alla pari tra persone disabili, dato che sono le altre persone disabili della community che ti danno i migliori consigli su cose molto pratiche e concrete come le posizioni, i sex toys (in particolare quando hai poca mobilità), il dating, l’abilismo nelle relazioni, il ruolo facilitatore degli assistenti personali.

Detto questo, crediamo anche che essere disabile, dati i giusti strumenti, possa contribuire a renderti più “sex positive”, considerando che viviamo in una società che ha problemi con il sesso.

Non essere autosufficienti e dipendere fisicamente da altre persone ti insegna a comunicare meglio, a farti meno “elucubrazioni” mentali e ad essere più assertivi, diretti e schietti. Inoltre la disabilità, introducendoti a marginalizzazioni di vario tipo, può insegnare ad essere più empatici verso le specificità altrui e tutto ciò che non è considerato “standard”. Può renderti più accorto e consapevole delle “red flags” (i segnali di allarme) nelle relazioni, e al tempo stesso più spontaneo. La disabilità può essere infatti un’occasione per essere più liberi dagli standard imposti, non farci dire cosa dobbiamo essere e pensare fuori dagli schemi. O almeno questa è la nostra esperienza.

10) Nel vostro blog e nelle vostre pagine social parlate anche di femminismo, tematiche Lgbt+ e antirazzismo. Quanto è importante, secondo voi, l’intersezionalità delle lotte per il riconoscimento e la salvaguardia dei diritti umani?

È fondamentale, la matrice dell’oppressione è comune. La liberazione è di tutti o di nessuno.

11) C’è qualcosa che volete aggiungere e/o lanciare un appello a chi leggerà quest’intervista?

Visto che siamo in un blog femminista, facciamo un appello alle realtà femministe 😀 perché parlino sempre di più di disabilità e contrasto all’abilismo, ascoltando le voci delle persone disabili e non dei professionisti non disabili. “Niente su di noi senza di noi”, come recita un motto del movimento di liberazione delle persone disabili.

Inoltre ricordiamoci che le molestie abiliste non sono l’unico tema di cui parlare in ambito femminista. L’assistenza personale ad esempio è un tema che riguarda fortemente l’autodeterminazione (se non hai assistenti sufficienti non sei libero neanche di alzarti dal letto, cucinarti quello che vuoi o uscire) e anche le dinamiche di potere (se sei dipendente da altri puoi trovarti più facilmente in dinamiche di abuso), temi prettamente femministi.

*

Vi ringrazio per la disponibilità e per il tempo che mi avete dedicato.

Donatella Quattrone

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Relazioni e intersezionalità dei diritti da un punto di vista anche psicologico: ne parlo con hello_policose (Dott.ssa Dania Piras)

Il cervello umano ha fatto il ‹del †del ‹del †con le maniDal web (immagine libera da diritti)

Donatella Quattrone: Ciao, hello_policose. Grazie per aver accettato di fare quest’intervista.
Tu sei psicologa ed attivista. Come concili le due cose?

Hello_Policose: grazie a te per avermi pensata e avermela proposta . All’inizio ho avuto mille dubbi su come fare, e ti confesso che non sono particolarmente diminuiti. Ciò che mi guida è la forte credenza che la psicologia non possa essere slegata dal tema dei diritti umani. Il mio è un lavoro di cura, di ascolto, di accoglienza, e non può prescindere dalla comprensione (e non semplice accettazione) della diversità. Ritengo necessario un approccio culturalmente umile a qualsiasi storia io incontri. Trovo questa modalità molto coerente con il mio essere attivista, dove non mi limito solo ad ascoltare, ma alzo anche la voce in difesa delle idee in cui credo. Il mio problema principale, al momento, è che su alcuni temi è faticoso mantenere un’immagine “decorosa” come viene richiesta dalla deontologia e allo stesso tempo esporsi in modo provocatorio per veicolari messaggi (ad esempio usando il corpo come territorio di protesta). Viaggio sempre sul confine e incrocio le dita.

Donatella Quattrone: Ti occupi, tra l’atro, di poliamore, tematiche Lgbtqia+, sex positivity. Quanto è difficile decostruire le convinzioni apprese per poter affrontare queste tematiche, in ambito psicologico, in una modalità il più possibile libera da pregiudizi?

Hello_Policose: Ho iniziato la mia decostruzione personale al liceo , quando ho scoperto la filosofia.
Negli anni mi sono sempre fatta domande, e grandissimi spunti sono arrivati all’università studiando sociologia e antropologia. Ho capito che il mondo che vediamo ogni giorno è solo uno dei tanti mondi che l’essere umano si è costruito nella Storia, e che ciò che crediamo vero o “normale” è assolutamente relativo alle nostre sovrastrutture culturali.
Essere nudi nel centro della foresta amazzonica non ha lo stesso significato che mostrarsi nudi in Europa. Il fatto che qui la nudità sia sessualizzata e scandalosa è una convenzione, il frutto di una serie di storie che si sono evolute e intrecciate, ma non esiste un meglio o un peggio. Lo stesso dicasi per le credenze sulla monogamia, gli orientamenti sessuali e altri concetti!
La parte più difficile della decostruzione è arrivata quando ho deciso di diventare un’attivista su Instagram, dove ho scoperto altre persone nel pieno del loro processo decostruttivo, che mi hanno insegnato tantissimo, sia come contenuti, sia come qualità delle domande che avrei potuto continuare a pormi. Il processo non è finito, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo da riconsiderare sotto una nuova luce, e ad oggi posso dirti che è un’attività molto piacevole per me! Mi dà molta gioia. La parte complicata è riuscire a comunicare con chi questo processo non ha le forze o la voglia di iniziarlo.

Donatella Quattrone: Perché, secondo te, è importante l’intersezionalità nel femminismo?

Hello_Policose: Il femminismo è una teoria politica e filosofica complessa, composta da molte sfaccettature. Esistono vari femminismi, non ti nego che alcuni li temo un po’, come quello delle TERF. Esiste anche il femminismo liberale, che in sostanza desidera dare alle donne gli stessi privilegi degli uomini, per rompere il glass ceiling. L’errore fondamentale alla base di questo femminismo è che sembra il pianto di un bambin@ che dice “lo voglio anche io”, invece di rendersi conto che anche poter dire questa frase è un privilegio. Significa perlomeno che avresti la possibilità di ascendere nella tua posizione di classe, che puoi studiare, che sai leggere, che sei abile. Non tutte le donne del mondo hanno questa possibilità. Il femminismo intersezionale invece prende in considerazione l’intersezionalità dell’oppressione, e non si occupa solo di donne, ma vede un problema nel sistema, un sistema che opprime uomini e donne e anche persone non binarie, di qualsiasi etnia, con qualsiasi orientamento sessuale, con qualsiasi disabilità, con qualsiasi tipo di corpo.
E’ un femminismo che tende a decostruire per creare qualcosa di migliore, non per dare solo a chi riesce ad alzare meglio la voce perchè ha il megafono in mano. Oltre al fatto che essendo tutty vittime di varie oppressioni, nell’intersezionalità possiamo trovare una sorellanza e fratellanza che può veramente fare la differenza. Non è una gara a chi sta peggio.
Donatella Quattrone: Da psicologa, quanto consideri importante l’educazione affettiva e sessuale? Andrebbe affrontata nelle scuole e a partire da quale età?
Hello_Policose: Per me l’educazione sessuale e affettiva è FONDAMENTALE.
Vorrei citare un passo del Manifesto degli Esploratori Sessuali di Ayzad: “Non serve essere fini psicologi per capire che una vita sessuale irrisolta – derivante a sua volta da una cattiva o del tutto assente educazione all’affettività – sia all’origine di disagi di ogni scala, da quella individuale alla più ampia scala sociale. Coppie in difficoltà, violenze di genere, discriminazioni, soprusi, conflitti culturali, perfino intere crisi internazionali possono farsi risalire con impressionante evidenza a una grande infelicità erotica di fondo, esacerbata dall’ipersessualizzazione delle informazioni che ci bombardano costantemente.”
Credo che la gigantesca idiosincrasia di un mondo sessuofobico che ci vende persino gli yogurt alludendo al sesso sia veramente una delle cause maggiori di moltissimi problemi sociali. Per non parlare poi di tutto il tema del consenso e dell’attenzione all’Altro, che molte persone non sanno nemmeno cosa sia. Spesso i bimby vengono forzati a ricevere un bacio o un abbraccio, da un coetaneo o dalla zia di turno, e fatti sentire in colpa se rifiutano. Si comincia da qui, dalla prima infanzia, ad insegnare che il proprio corpo è un confine che può essere attraversato solo consensualmente, e che esplorarlo con curiosità, fare domande al riguardo, è assolutamente legittimo.
Ricordiamoci che se non diamo noi le risposte ai bambiny, loro le troveranno da altre parti, in altri modi, e non è detto che siano modi migliori. Per quello che riguarda gli adolescenty, senza ombra di dubbio, io ne farei una materia scolastica o perlomeno uno spazio settimanale di confronto e crescita dove parlare di emozioni, relazioni, comunicazione, sessualità, parità di genere, paure, futuro e studiare anche un minimo la storia delle relazioni nell’essere umano non sarebbe una cattiva idea. Ma io sono una sognatrice utopistica, forse.

Donatella Quattrone: Come si può imparare a riconoscere dipendenza affettiva e relazioni tossiche?
Hello_Policose: Non credo ci sia un metodo universale, ma sicuramente ci sono dei campanelli d’allarme.
Partiamo dal fatto che ognun@ di noi dovrebbe essere sufficientemente centrato e consapevole delle sue fragilità e dei suoi bisogni, ed esserne responsabile.
Ovviamente sarà difficile esserlo al 100%, ma diciamo che almeno in una buona parte… sarebbe auspicabile. Questo permetterebbe di non usare l’altra persona come oggetto con cui colmare i propri vuoti, su cui proiettare le proprie insicurezze, a cui chiedere di soddisfare i propri bisogni. L’Altro non ci appartiene, non ci deve nulla, deve poter scegliere ogni giorno di starci accanto: se resta perchè si sente in colpa, o perchè viene manipolato, o perchè viene ipercontrollato, sicuramente c’è qualcosa che non va. Lo stesso vale per noi, e sarebbe opportuno farsi sempre domande sulle nostre relazioni e sul perché vi restiamo dentro anche quando ci fanno sentire male. In particolare, nella nostra cultura c’è un alto livello di tossicità nel tema della gelosia, che normalizza il possesso e lo fa diventare una prova d’amore. Conosco molte coppie che a parole affermano di non essere possessive, ma poi nella pratica se l’altra persona non si mostra almeno un po’ gelosa, non si sentono amate. Scardinare questa normatività è un lavoro lungo e complesso.
Donatella Quattrone: Come consideri la gestione del tempo e delle energie da dedicare a se stess* e a tutt* i partner all’interno di una famiglia non-monogama?
Hello_Policose: La considero un’impresa titanica se non si impara a comunicare bene! La questione ovviamente non riguarda semplicemente il tempo e le energie, ma il significato che diamo ad esse. Se dedico più tempo a qualcun@, anche accidentalmente, sono consapevole di come potrebbero sentirsi gli altry?
Sono dispost@ a rassicurare, ascoltare, accogliere le eventuali emozioni altrui?
Sono capace di esprimere come mi sento senza essere passiv@-aggressiv@ quando mi sento trascurat@ oppure ho semplicemente un momento di insicurezza? Sono consapevole e responsabile delle mie emozioni, so darci un nome? So cosa mi triggera emotivamente, so spiegarlo?
Queste, e altre, sono le premesse fondamentali ad un buon equilibrio nella relazione, al di là del problema del tempo e delle risorse. Come noterai, non dovrebbero riguardare solo le non monogamie, ma un po’ tutti i tipi di relazione!

 
Donatella Quattrone: Che differenza c’è tra una relazione poliamorosa e una coppia aperta?

 
Hello_Policose: Appartengono entrambe al mondo delle non monogamie consensuali, ma la coppia aperta è più simile ad una coppia monogama che però non richiede esclusività sessuale. Questo può declinarsi in vari modi: si possono condividere partner sessuali oppure vivere una vita sessuale senza rendere conto all’altr@ (DADT: Don’t Ask, Don’t Tell). Resta però fondamentale l’esclusività sentimentale, quindi non si è aperti all’idea di relazioni con altre persone, nè al fatto che un@ dei due possa innamorarsi di altry.
Il poliamore invece esce un po’ da questa dinamica dell’esclusività sentimentale, ed è molto più fluido come modalità relazionale. Ci sono vari modi di “comporre” una relazione poliamorosa, per questo si parla in modo simpatico di “polecole”: sono tutte diverse l’una dall’altra e alcune sono molto complesse! E non è comunque detto che tutty debbano interagire o innamorarsi di tutty. La cosa fondamentale è comunque che si sta parlando di sentimenti, di amore, e di relazioni, e soprattutto di consenso. Si chiamano non monogamie consensuali per questo! 😉

(Non so se sono stata chiarissima in questa risposta).

 
Donatella Quattrone: Sei stata chiara. Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

Hello_Policose: Penso sia un rapporto in evoluzione. Molte persone della comunità LGBTQIA+ sono anche parte della comunità poliamorosa, mentre molte altre no. Tra queste ultime, una parte (non so quanto significativa) ha alcune visioni un po’ radicali, ne cito un paio per capirci: 1) chi crede che la monogamia sia la norma e l’unico tipo di relazione valida (mononormatività) 2) chi non pensa che le persone poliamorose dovrebbero essere considerabili queer e, per esempio, partecipare al Pride (specialmente se sono eterosessuali!). I due punti non si escludono mutuamente, perciò qualcun@ sostiene entrambe le cose.
Fatta eccezione per queste “polemiche”, le due comunità si intersecano spesso e condividono il minority stress, ovvero il fatto di essere soggette a discriminazioni, stigma, patologizzazioni. Anche per questo sarebbe essenziale far fronte comune per la stessa causa, senza per questo smettere di legittimare le diverse identità.

Donatella Quattrone: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare fenomeni come slutshaming e polishaming?

Hello_Policose: Oltre all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole ed in famiglia, secondo me è necessario un movimento dal basso (che sta già avvenendo), una nuova rivoluzione sessuale che porti una narrazione diversa, incentrata sulla sex positivity, che smetta di interpretare i corpi e le libere scelte su di essi come qualcosa di giudicabile moralmente o di patologizzabile.
Una libertà consapevole, informata, dove ognun@ è soggetto e non oggetto passivo o vittima impotente. Una quotidianità dove i ruoli di genere vengono messi in discussione, dove gli stereotipi culturali perdono potere.
Per essere parte di questa rivoluzione penso che prima di tutto sia necessaria la forza di sopportare le conseguenze della ribellione… una forza che non è scontata, e averla è un privilegio, ricordiamocelo, perché questa è una battaglia contro un sistema potente, che non possiamo pensare di vincere in campo aperto. Quella che sta avvenendo attualmente è una guerriglia: sono piccoli sabotaggi, estenuanti, che molte persone stanno portando al sistema. Ad esempio, la rivendicazione della parola “puttana” come attributo positivo di una donna libera sessualmente e felice di godere è uno dei tanti modi che alcun@ attivist@ stanno usando per portare l’attenzione sullo slut shaming, sull’oggettificazione dei corpi femminili, sullo stigma che colpisce il mondo dell@ sex workers, sul problema che la società ha ancora con una persona che si dichiara libera di fare ciò che vuole con chi vuole.
Sembra una piccola cosa, ma è un ottimo innesco per aprire un discorso più ampio e complesso, e portare a farsi domande sul perchè le cose stiano come stanno.
Donatella Quattrone: C’’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di quest’intervista?

Hello_Policose: Ti ringrazio per le domande estremamente stimolanti. Vorrei aggiungere una riflessione sulla potenza dei social, che se usati bene portano davvero dei cambiamenti incredibili nelle vite dei singoli e anche – perché no – nella società.
La rete di attivist@ di cui ho parlato è in espansione e io non la vivo solo come una realtà virtuale. Sono persone vere, che spendono tempo (unica cosa che ci appartiene davvero, come dice Seneca) e grande energia per fare divulgazione. La maggior parte sono molto giovani e competenti, fanno letture impegnative, si mettono in gioco per dialogare e imparare da chi capita sulla loro pagina. Tutto questo mi riempie il cuore di gioia e onestamente mi dà molta fiducia nel futuro, perché prima di entrare a far parte di questa fetta di mondo mi sentivo un po’ una specie di Don Chisciotte senza speranza, oltre che priva di mezzi e incapace di sentirmi un agente efficace di cambiamento anche nel mio piccolo. Ora avverto la potenza di questo metterci la faccia, tutty insieme, e di non stare in silenzio o indifferenti di fronte alle cose ingiuste. Su di me, personalmente, tutto questo ha avuto un effetto terapeutico. Il mio augurio è che possa averlo per chiunque altr@ in questo momento si sente sol@ e scoraggiat@ come la sono stata io.

Grazie ancora per l’intervista,

Dott.ssa Dania Piras

Donatella Quattrone: grazie a te per la disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato.

D. Q.

Poliamore e non monogamie etiche: ne parlo con un’attivista

Io: Ciao, Car. Sono Donatella. Grazie per aver accolto la mia richiesta di un’intervista.

Car: Ciao, Donatella.

Io: Da quanto tempo sei un’attivista?

Car: Se si parla di attivismo nel senso più ampio del termine, credo di essermi resa conto di volermi unire alle voci delle persone meno privilegiate più o meno all’età di 15 anni, in quanto donna femminista e appartenente alla comunità LGBT+. All’inizio mi limitavo a condividere esperienze e parlare di femminismi e tematiche queer alle persone che mi stavano attorno. Verso i 18 anni ho cominciato a prendere parte a cortei e iniziative e una volta all’università mi sono unita prima ad associazioni e poi a collettivi politici autogestiti, percorso che seguo ancora oggi. Polycarenze nasce invece nell’aprile 2019, dalla necessità di parlare da persona giovane a* giovan* (ma non solo) della realtà poliamorosa che vivo, e in generale delle non monogamie etiche, della sessualità alternativa e delle identità sessuali non normate, considerate mostruose, fuori dai binari e di conseguenza invisibilizzate.

Io: Su Instagram ti occupi di poliamore e non monogamie etiche. I due termini sono sinonimi o la sigla NME è uno spettro in cui collocare diversi modi di vivere relazioni non monogame, fermo restando il consenso tra tutti i soggetti coinvolti?

Car: Il poliamore è solo una sfumatura delle tante non monogamie etiche che rappresentano un termine ombrello per tutti gli orientamenti relazionali che coinvolgono l’interazione emotiva tra più persone con il consenso di tutt* i/le coinvolt*. Mi identifico come persona poliamorosa per una questione principalmente politica, perché il termine poliamore è ad oggi il più conosciuto e rappresentato dai media (anche se con alcune difficoltà e criticità), ma in realtà mi sento molto vicina anche all’anarchia relazionale.

Anarchia relazionale, relazioni aperte, scambismo, sono altre forme di non monogamie etiche.

Io: In caso di relazioni miste, cioè persone non monogame che instaurano un rapporto con persone monogame, le dinamiche relazionali, secondo la tua opinione o eventuale esperienza, sono più complesse?

Car: Sono convinta che sia possibile instaurare relazioni mono-poly: la mia relazione attualmente più duratura è cominciata così. Il mio partner prima di intraprendere una relazione con me si identificava come monogamo, perché monogame erano state tutte le sue precedenti relazioni. Nonostante ciò, si è messo in ascolto e ha scelto di cominciare insieme a me questo nuovo percorso che non conosceva, perché a detta sua non aveva senso dire di no a qualcosa di nuovo senza mai averlo provato. Sicuramente ci sono delle difficoltà e spesso noto che la parte poly si ritrova un po’ a fare da “mentore”, soprattutto durante i primi tempi, e a dover gestire insicurezze e paranoie dovute alla novità e al cambio di schema relazionale che magari con una persona poly sarebbero state di minore impatto. Molto spesso le persone poliamorose rifiutano relazioni monogame perché le hanno già sperimentate e sono quindi a conoscenza del fatto che la monogamia non sia l’orientamento relazionale fatto per loro, cosa che invece non accade per la maggior parte delle persone monogame che sentono per la prima volta il termine “poliamore” e hanno idee confuse a riguardo. E’ molto facile che una persona poly desideri relazionarsi con una persona monogama, considerando il fatto che nella maggior parte delle città ancora non esistono gruppi di supporto per persone NME, quindi ci si trova per forza in questa situazione controversa e c’è bisogno di gestirla nel migliore dei modi per evitare che nessuna delle due parti si senta costretta ad intraprendere una relazione forzata. Con questo ovviamente non voglio affermare che tutte le persone monogame dovrebbero provare il poliamore prima di dire che non fa per loro: l’orientamento relazionale è simile a quello sessuale. “Se non ce n’è, non ce n’è”, e va bene così, ognun* per la propria strada.

 Io: Come consideri il rapporto tra il movimento del poliamore e la comunità Lgbtqia+?

 Car: Considero il poliamore parte della comunità LGBTQIA+ dal momento in cui rientra nelle minoranze non normate relative all’identità sessuale, quindi quella parte della nostra identità che comprende sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, espressione di genere e orientamento relazionale. Ci sono scetticismi da parte di alcune persone queer perché una persona poly può essere un uomo bianco cisgender ed eterosessuale e quindi la domanda che sorge spontanea è: può far parte della comunità? O è solamente un alleato? è sicuramente un dibattito interessante, perché sicuramente un uomo cis etero e poly non subisce le discriminazioni che magari subisce una donna della stessa comunità. Si pensi solo allo slut shaming. Gli stessi miei partner uomini raccontano che spesso la prima reazione dei loro amici è una pacca sulla spalla perché “Grande, rimorchi tantissimo”. Il punto è che questa non può essere altro che, per l’appunto, una prima reazione portata avanti da persone che del poliamore hanno un’idea errata. Le non monogamie etiche sono talmente tanto marginalizzate e poco rappresentate che nel momento in cui un uomo cisgender ed etero si trova a spiegare esattamente in cosa consistono, e quindi a parlare di tutto ciò che va oltre l’aspetto sessuale, le domande e i giudizi che riceve sono tendenzialmente simili a quelli che potrebbe subire una donna, slut shaming a parte. Sebbene il patriarcato abbia un ruolo predominante per la maggior parte delle discriminazioni che le minoranze subiscono, in questo caso viene direttamente attaccata l’intera comunità. Che tu sia un uomo cis, una donna cis, una persona trans* o non binaria, sarai comunque considerata una persona poco seria, incapace di amare, facile, senza desiderio di impegnarsi.

Dato che quindi il discorso su chi può rientrare all’interno o meno della comunità sembra essere incentrato su chi è più o meno discriminat*, viste le circostanze io penso che la cosa migliore sarebbe fare rete tutt* assieme, perché la comunità LGBT+ potrebbe davvero dare una mano a quella NME e viceversa. Gira e rigira, l’oppressore è lo stesso.

Io: Cosa risponderesti a chi pensa che tutti i poliamorosi siano necessariamente bisessuali o che siano solo persone fissate col sesso e in particolare con quello di gruppo? 

Car: Ci sono alcune persone non monogame che amano fare sesso di gruppo, così come ci sono persone poliamorose e bisessuali. Il punto è che una questione non implica per forza l’altra. Posso essere appassionat* di orge ed essere monogam*, così come posso essere una persona poly ed essere asessuale e sex repulsed! Non esiste alcuna associazione tra l’essere bisessuale, l’essere poly e l’amare il sesso di gruppo. Sono stereotipi che danneggiano la comunità e la riducono ad un solo elemento, il sesso, che può esserci o può non esserci. All’interno della comunità non monogama, però, è facile trovare persone con orientamenti non monosessuali (bisessuali, pansessuali, poli e omnisessuali) come è facile trovare persone che praticano BDSM. La motivazione che mi dò rispetto a ciò, è semplicemente relativa al fatto che nel momento in cui ci si approccia ad una comunità molto “ghettizzata” come quella non monogama, che richiede comunque una buona dose di apertura ed elasticità mentale per essere compresa e accettata, alcuni schemi binari e normati tendono un po’ a cadere, e vengono sostituiti da alcuni più fluidi.

Io: Cosa ti sentiresti di dirmi su poliamore e genitorialità?

Car: Non sono genitrice, quindi non posso riportare un’esperienza diretta. Conosco però alcuni polygenitori e ho ascoltato diverse storie di persone poly con figl*. Si può fare e anche bene. Anzi, vedo solo vantaggi a riguardo: un bambin* circondato da più adult* può avere accesso a diversi punti di vista e ricevere un’educazione completa e un maggiore senso di protezione in tenera età. Per di più, sono dinamiche che già si vedono tutti i giorni: ci sono famiglie dove amici dei genitori, nonni, zii e parenti sono all’interno dello stesso nucleo familiare. A volte vivono sotto lo stesso tetto o comunque si vedono spesso, si aiutano e tutt* contribuiscono alla crescita del bambin*. Cosa ci sarebbe di tanto diverso da una triade, o da una relazione con più partner? Il figli* crescerà sin da piccolo con l’idea che non esista solo una forma d’amore e personalmente non vedo come questo potrebbe essere un problema, anzi. Dal punto di vista legale invece, siamo ancora troppo indietro per parlarne e pensare a soluzioni, perlomeno in Italia.

Io: In che modo la pratica dello scambismo ha a che fare con le non monogamie etiche?

Car: Lo scambismo fa parte delle non monogamie etiche dal momento in cui c’è un’interazione emotiva tra più partner consenzienti. Ne ho parlato recentemente sulla mia pagina, mi piacerebbe che si smettesse di associarlo alla pura trasgressione.

 

Io: E’ vero che anche le persone poliamorose possono provare gelosia all’interno delle loro relazioni, né più né meno delle persone monogame?

Car: Certo, le persone poliamorose possono provare gelosia. Siamo esseri umani e viviamo in una società figlia della cultura del possesso, e chi più chi meno, ci portiamo appresso schemi difficili da eliminare totalmente. Provare gelosia non è un problema.Trovo che diventi problematico nel momento in cui la gelosia diventa parte della propria identità personale (“Sono una persona gelosa, punto”) perché chiudersi all’interno di uno schema rigido non permette di accedervi facilmente e lavorarci sopra.  La gelosia cosiddetta “tossica” non dovrebbe appartenere ad alcun orientamento relazionale, monogamia inclusa. Ritengo che affermazioni come “Sei mia/o, sei tutta la mia vita, non vivo senza di te, nessun* ti deve guardare o apprezzare, se non è gelos* vuol dire che non ti ama” e tutto ciò che porta a considerare due persone come la metà dell’altr* siano pericolose sempre e comunque. La gelosia va bene nel momento in cui è possibile razionalizzarla, in modo da non utilizzare l’altr* come pungiball per le nostre paure e insicurezze. Dovremmo chiederci da dove proviene, perché proviene, scavarne le radici.

Io:  Mi spieghi cosa s’intende con il termine compersione?

Car: Con compersione si intende un mix di sensazioni comprendenti gioia, felicità e benessere provate nel momento in cui si vede l* propri* partner interagire ed essere  felice con un altr* partner.

Io: E con il termine anarchia relazionale?

Car: L’anarchia relazionale è una forma di non monogamia etica che consiste nel considerare le relazioni come fluide, esenti da qualsiasi schema amatonormativo (as possible and pratictable). Un classico esempio è l’uso del termine partner come termine neutro, in risposta alla microcategorizzazione delle relazioni che spesso sono poste in ordine di importanza (prima quelle romantiche, poi quelle sessuali, poi tutto il resto) e all’uso di termini come scopamic*, fidanzat*, amic* occasionale di letto, ragazz*, etc).
Io: Cosa si potrebbe fare, secondo te, per contrastare il polishaming e fare in modo che ci siano meno discriminazioni verso la comunità poli?

Car: Rete, rete, rete, informazione, informazione, informazione, divulgazione, rappresentazione sempre più frequente nei media, presa di posizione politica nelle piazze da parte delle persone poly.

Io: Mi racconti brevemente la storia della vostra bandiera? 

Car: La bandiera poliamorosa è fatta da tre strisce orizzontali dall’alto verso il basso di colore blu, rosso, nero e in mezzo un pi greco, oppure un cuore con l’infinito di colore oro.Il blu rappresenta la trasparenza e l’onestà tra tutt* i/le coinvolt*, la rossa simboleggia l’amore e la passione, la nera è per solidarietà a chi è in una relazione NME ma si trova costrett* a nascondere le proprie relazioni. Il pi greco ha diversi significati. C’è chi lo interpreta come semplice lettera iniziale della parola Poliamore. Io preferisco pensarlo come numero irrazionale, come l’amore. Il colore oro invece rappresenta l’importanza che viene data all’emotività dei rapporti.
Io: C’è qualcosa che vuoi aggiungere al termine di questa intervista e/o lanciare un appello a chi la leggerà?

Car: Sicuramente di seguire @polycarenze e sostenere il mio progetto di divulgazione, e poi di esprimere gratitudine verso le persone appartenenti alle minoranze che si mettono in gioco per fare informazione nonostante ci siano effettivamente dei rischi (soprattutto in alcune parti del mondo)e restare in ascolto se non si conosce una tematica. Abbiamo bisogno di più alleat* e meno giudizi.

Io: Ti ringrazio per la tua disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato. Buon proseguimento!

 

D. Q. 

 

Bandiera del poliamore (da https://www.wikisessualita.org/)

 

Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo

di Alessandra Vescio

Il 25 luglio scorso, il giornalista Mattia Feltri ha dedicato la sua rubrica “Buongiorno” sul quotidiano La Stampa al tema dell’asterisco e dello schwa [ndr, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale], soluzioni di cui da anni si discute negli studi di genere e in linguistica nell’ottica di creare un linguaggio inclusivo. Sarcasticamente intitolato “Allarmi siam fascistə”, nel suo pezzo Feltri ha schernito le proposte, considerandole di difficile applicazione, uso e pronuncia, e ha attribuito la soluzione dello schwa a “un’accademica della Crusca” che ne avrebbe – a suo dire – parlato su Facebook.

Pochi giorni dopo, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha inviato una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini per fare alcune precisazioni: “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non lo è “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, anzi in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri. Concludendo con “Ci riserviamo di difendere comunque nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, il presidente Marazzini ha dunque criticato l’operato del giornalista in particolar modo per aver associato l’istituzione a una (ex) collaboratrice e alle sue tesi, ma ha anche fatto emergere una certa affinità con Feltri e non soltanto per le posizioni sulle questioni linguistiche. Com’è stato infatti fatto notare dalla scrittrice Carolina Capria e dalla giornalista e autrice Loredana Lipperini, né il Presidente dell’Accademia della Crusca né Mattia Feltri hanno fatto il nome della donna di cui stavano parlando, mostrando così non solo la volontà di dissociarsi da lei e dai temi di cui si occupa, ma anche di svilirne il lavoro e la dignità personale e professionale. Una posizione che l’Accademia ha ribadito anche in un post successivo, pubblicato il 3 agosto, in cui il Presidente Marazzini ha parlato di “disinvolta leggerezza” con cui La Stampa ha attribuito la qualifica di accademica a “persona che non aveva nessun diritto a tale titolo”.

Chi è del settore o conosce l’ambiente, ha capito presto che Marazzini e Feltri stavano parlando di Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, che – come ha tenuto a precisare nuovamente l’Accademia in un post con scopo di chiarimento – ha interrotto la collaborazione con l’istituzione nel 2019. Gheno, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione tra cui “Potere alle parole” e “Femminili singolari”, da tempo studia alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti come il superamento del binarismo di genere e del maschile sovraesteso nella lingua italiana.

Il maschile sovraesteso

L’italiano è una lingua flessiva con due soli generi, il maschile e il femminile, e in caso di moltitudini miste prevede che si ricorra al maschile sovraesteso, detto anche generalizzato: basta che un solo uomo sia presente in un gruppo numeroso, infatti, per declinare il plurale al maschile.

L’Enciclopedia Treccani, in un approfondimento sul rapporto tra genere e lingua, spiega i modi diversi con cui il maschile sovraesteso si applica nella lingua italiana: con il ricorso a termini maschili che indicano gruppi composti da uomini e donne (“i politici italiani”, per indicare donne e uomini in politica); con quella che viene definita “servitù grammaticale”, ovvero l’accordo al maschile in presenza di parole maschili e femminili (“bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori”) o tramite l’utilizzo di espressioni fisse al maschile che possono però anche riferirsi alle donne (“i diritti dell’uomo”, per indicare “i diritti umani”). “Ancora più particolare”, prosegue Treccani, “è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna”.

Dei nomina agentis (o nomi professionali) al femminile si discute in Italia da molto tempo: ne hanno parlato ad esempio Alma Sabatini, nel suo saggio “Il sessismo nella lingua italiana” nel 1987, e Cecilia Robustelli, nelle “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, sottolineando la validità linguistica e l’importanza politica di declinare al femminile le professioni svolte da una donna. In uno dei suoi ultimi lavori, anche Vera Gheno ha mostrato come da un punto di vista linguistico l’italiano ammetta e preveda la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale.

Se la lingua evolve, però, è perché la società in cui viviamo sta cambiando: fino a non molto tempo fa, infatti, la presenza delle donne era limitata in alcuni settori e posizioni lavorative, per cui la necessità di declinare i nomi delle professioni in maniera corretta non era così ampiamente diffusa. Oggi che invece ci sono molte più avvocate, ministre, sindache, assessore, chiamarle con il loro nome diventa un’affermazione di esistenza, oltre che un’operazione linguisticamente esatta.

Come fa notare poi Gheno nel suo lungo e articolato post di risposta al “Buongiorno” di Feltri, il maschile sovraesteso viene spesso confuso con il genere neutro, che però in italiano non esiste: la nostra lingua infatti, come si è detto, comprende solo due generi, il maschile e il femminile, motivo per cui si parla anche di binarismo linguistico.

Il binarismo di genere e il rapporto con la lingua

Il binarismo di genere è un concetto che deriva dai gender studies e riconosce l’esistenza di due sole categorie, uomo e donna, a cui sono associati ruoli e caratteri specifici: all’uomo corrisponde tutto ciò che nell’immaginario comune è considerato maschile, alla donna tutto ciò che è definito come stereotipicamente femminile.

Il binarismo di genere non ammette, dunque, l’esistenza di identità di genere altre rispetto a quelle di uomo e donna, rinnega la distinzione tra sesso e genere e si basa su preconcetti che ci portano a definire per esempio la forza e l’autorevolezza come tratti tipicamente maschili e la sensibilità e la predisposizione alla cura come caratteristiche femminili. Il sesso e il genere invece sono ormai anche a livello istituzionale concepiti come entità separate: il sesso è l’insieme di caratteristiche fisiche, biologiche e anatomiche che caratterizzano un individuo mentre il genere è un costrutto sociale, che cambia nel tempo e nello spazio, e riguarda i comportamenti che la società attribuisce a un determinato sesso (ovvero il ruolo di genere), ma anche la percezione che ciascuno ha di sé (l’identità di genere). Il superamento del binarismo implica la concezione del genere non più come una classificazione fatta da due soli elementi, bensì come uno spettro di più possibilità. Coloro che non si identificano nelle categorie uomo-donna, ad esempio, possono riconoscersi come persone non binarie. Anche le persone transgender, ovvero coloro che hanno un’identità di genere diversa rispetto al sesso assegnato alla nascita, possono non rivedersi nel binarismo; e lo stesso vale per le persone intersex, ovvero chi nasce con caratteristiche cromosomiche, anatomiche e/o ormonali che non possono essere definite rigidamente come maschili o femminili.

Negli studi di genere e in certi ambiti della linguistica, ci si sta dunque interrogando su come costruire un linguaggio inclusivo che tenga conto di tutte le soggettività.

Le proposte per un linguaggio inclusivo

Nel saggio “Femminili singolari”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice effequ, l’autrice Vera Gheno propone – a suo stesso dire, in modo scherzoso – l’introduzione dello schwa, simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale e spesso corrispondente a una vocale media-centrale. Per fare un esempio, nella frase “Buonasera a tutti” rivolta a un gruppo misto di persone, si potrebbe sostituire il maschile sovraesteso espresso dalla desinenza “-i” con lo schwa e dire dunque “Buonasera a tuttə”. La pronuncia corrisponde a un suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia.

A prendere spunto da questa riflessione è stata proprio la casa editrice effequ in un’altra delle sue pubblicazioni. In “Il contrario della solitudine”, scritto dall’autrice brasiliana Marcia Tiburi e tradotto da Eloisa Del Giudice, effequ ha infatti introdotto lo schwa in riferimento a una moltitudine mista. Nel testo originale Tiburi ha adottato una delle soluzioni più utilizzate dai movimenti femministi e dalla comunità LGBTQIA+ di lingua spagnola, ovvero sostituire la desinenza maschile “-o” e quella femminile “-a” con una neutra “-e”, scrivendo per esempio “todes” al posto di “todos”. Per mantenere la neutralità del linguaggio e rispettare la scelta politica dell’autrice, effequ ha perciò deciso di tradurre “todes” con “tuttə”.

Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta anch’esso dei limiti. Come spiega infatti proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBT Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura: conseguenza di ciò è che scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata “Italiano inclusivo”, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa e superare il binarismo linguistico. “Italiano inclusivo” infatti offre diversi strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare il fonema.

Nel frattempo, molte altre sono le proposte di cui si discute nell’ambito degli studi di genere, come l’asterisco o la vocale “-u” (che però in alcuni dialetti italiani indica il maschile). In una nota introduttiva al suo saggio “Post porno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali” (Eris Edizioni), ad esempio, l’autrice Valentine Wolf chiarisce che, “in un’ottica di inclusività”, nel testo si è preferito non ricorrere al maschile generalizzato ma utilizzare l’asterisco e la desinenza “-u”. Proprio pochi giorni prima dell’uscita del “Buongiorno” di Feltri in cui si è parlato dello schwa, anche la condivisione di questa nota sui social ha generato una serie di reazioni polemiche e sprezzanti.

Il linguaggio inclusivo negli altri paesi

Mentre l’Accademia della Crusca ha manifestato ritrosia nei confronti della presa in considerazione di soluzioni inclusive, in molti altri paesi il tema dell’inclusività e il rispetto delle soggettività sono centrali anche da un punto di vista linguistico. Nel 2019 il celebre vocabolario statunitense Merriam-Webster ha scelto il pronome “They” come parola dell’anno. Nella lingua inglese infatti si sta sempre più diffondendo l’uso di “they” e “them” come pronomi singolari, per riferirsi alle persone non binarie e che dunque non si riconoscono nei pronomi “he/him” (lui), “she/her” (lei).

In Svezia, invece, nel 2015 l’Accademia che ogni dieci anni aggiorna il dizionario ufficiale della lingua, ha introdotto il pronome neutro “hen”, da utilizzare in relazione a persone che non si identificano nel pronome maschile (“han”) o femminile (“hon”) o laddove non si voglia fare riferimento al genere di qualcuno. Per quanto riguarda la Germania, dove il dibattito è da tempo molto acceso, il ministero della Giustizia ha di recente invitato gli uffici pubblici a utilizzare un linguaggio neutro nelle comunicazioni ufficiali. E ancora, nello spagnolo, oltre alla già citata desinenza “-e”, si sta diffondendo l’uso del simbolo “-@” e della lettera “-x” per sostituire il maschile generalizzato.    

Una nuova esigenza sociale

Ogni scelta linguistica è una scelta politica”, ha scritto la giornalista Jennifer Guerra nel suo saggio femminista “Il corpo elettrico” (edizioni Tlon). In una vera e propria “Nota alla traduzione”, infatti, l’autrice parla della necessità di un continuo confronto che durante la stesura del libro, proprio come fa di solito chi traduce un testo, ha dovuto mettere in atto con il linguaggio e con le parole, affinché la complessità potesse essere raccontata al meglio.

Di complessità ha parlato anche la stessa Vera Gheno nel suo intervento a “Prendiamola con filosofia”, evento organizzato dall’Associazione Tlon il 23 luglio scorso. “Saper vivere la complessità del presente”, infatti, è una delle competenze che la linguista definisce essenziali per essere pienamente cittadini, da aggiungere a “saper leggere, scrivere e far di conto”, menzionate da Don Milani. Saper vivere la complessità del presente vuol dire, secondo la studiosa, anche riconoscere il cambiamento e provare curiosità nei suoi confronti, anziché rifiutarlo a priori. Proprio le discussioni attorno allo schwa, continua Gheno, testimoniano che qualcosa attorno a noi si sta muovendo: “C’è una nuova esigenza sociale alla quale la lingua sta cercando di stare dietro”, ha detto la studiosa, e ha aggiunto che se una lingua viva continua a creare parole nuove è perché “la realtà continua a cambiare”.

Immagine in anteprima via breezy.hr

 

Fonte:

https://www.valigiablu.it/linguaggio-inclusivo-dibattito/

 

What do you want to do ?

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Cat calling e street harassment: hai mai ricevuto una molestia travestita da “complimento”?

Ti è mai capitato di essere molestata con un complimento? I dati ci dicono che la tua risposta è sì: non sei da sola e puoi reagire così.

commenti molesti cat calling

PRAETORIANPHOTOGETTY IMAGES

L’accusa più frequente è che stai esagerando, che non sei capace di ricevere un complimento, che te la tiri. Nel 99,9% dei casi sono commenti volgari e frasi che feriscono, urlati per strada mentre sei di spalle, senza nemmeno guardarti negli occhi. O sui mezzi pubblici. Hanno il suono di un fischio e l’eco delle risatine sarcastiche del branco quando il molestatore agisce in gruppo, magari mentre cerca in modo maldestro di abbordarti in un locale.

Il cat calling o street harassment nasconde arroganza e insicurezza. Chi ti molesta con un complimento lo fa consapevolmente: non sei tu che ti senti molestata, lo sei effettivamente. Lo spazio per l’interpretazione è minimo, l’intenzione è chiara sia a te, sia al tuo aggressore. Esistono anche complimenti che sono davvero complimenti e il confine con la molestia non è neppure tanto sottile.

In molti casi la molestia verbale viene accompagnata da un’aggressione fisica.

“Tornavo dal mare con mia zia e mia cugina. Un uomo, passandomi accanto, mi toccò il culo e poi scappò via. Indossavo un bikini e una maglietta e avevo 14 anni. Non capii neanche perché l’avesse fatto. Probabilmente la mia infanzia finì lì”.

È una delle tante testimonianze raccolte dal progetto #SonoSoloComplimenti, le autrici sono 4 ragazze ventenni che hanno deciso di dar voce a questa nuova ondata di Me Too: Martina Bellani, fondatrice del progetto, assieme alla sociologa Tonia Peluso, l’illustratrice Tamara Garcevic e Daniela Minuti che ha creato il logo.

“La cosa bella di questo progetto è che ha creato una sinergia tra donne incredibile,” ci raccontano. “La pagina è seguita principalmente da donne, ma siamo fiere che ci sia un buon 10% di uomini, percentuale che speriamo aumenti sempre di più perché per questo tipo di sensibilizzazione la loro partecipazione è fondamentale”.

Il parallelismo con lo tsunami #MeToo è potente perché siamo davvero in tante a poter dire “è successo anche a me”. L’aspetto più evidente è che molte vittime di questa molestia decidono di non parlare. Magari lì per lì reagiscono ignorando l’aggressore, accelerando il passo per allontanarsi quando capita per la strada, divincolandosi da un bacio o un abbraccio non richiesto. Ma quando decidono di raccontare l’accaduto, specialmente se l’aggressore è una persona conosciuta, come un amico di famiglia, il capo o il collega, un adulto che in qualche modo ha un legame pregresso con la vittima, vengono sminuite.

Non sono solo complimenti

Molte testimonianze raccolte dal progetto “Sono Solo Complimenti” sono ricordi della preadolescenza, che bruciano ancora: episodi accaduti quando le vittime erano poco più che bambine, avvicinate da uomini adulti, spesso mentre erano da sole. La reazione più comune? Spaesamento, confusione, senso di colpa. Ti chiedi: avrò fatto qualcosa per provocarlo? Saranno i pantaloncini corti o il trucco appariscente? Ovviamente no, la colpa non è mai della vittima, ma questo pensiero che ti sfiora è il frutto della narrazione “te la sei cercata” difficilissima da sradicare soprattutto nella visione patriarcale e maschiocentrica della società.

Come è nata l’idea di lanciare il progetto #SonoSoloComplimenti?

“È nata da un mio sfogo su Instagram Stories, dopo una corsa in pausa pranzo al parco,” ci racconta Martina. “Ero molto frustrata perché sottoposta per l’ennesima volta a episodi di catcalling. A questo sfogo sono seguite decine di testimonianze sul mio profilo privato. Ho pensato quindi di non lasciarle cadere nel vuoto, ma di dare a loro uno spazio sicuro di espressione, in modo che questo profilo potesse anche essere uno strumento di denuncia tramite fatti, senza retorica, né filtri. Infatti spesso le storie sono pubblicate senza editing, perché la scrittura di getto si porta con sé dei refusi che però a mio avviso sono molto potenti lato comunicativo. In un solo giorno abbiamo avuto un riscontro incredibile e da lì circa 50-100/messaggi al giorno di testimonianze”.

C’è un tratto che accomuna le storie che avete raccolto?

“Tutte le storie che pubblichiamo sono anonime, per preservare la fiducia che ci viene data nel raccontare fatti, episodi e pezzi di vita che spesso sono fonte di molto dolore e disagio. Un tratto comune a quasi tutte le testimonianze è il senso di vergogna: a volte ci scrivono che siamo le prime a cui raccontano questa cosa, perché non hanno mai trovato il coraggio. Oltre al senso di vergogna, c’è il senso di colpa: viene quasi sempre specificato l’abbigliamento nel momento in cui è accaduto il fatto. Come se questo in qualche modo rendesse più sensato il torto subito. Molte testimonianze raccolte riguardano anche il mondo LGBTQ+. Un fatto che ci ha stupite molto è stato leggere molte testimonianze che iniziavano con “avevo rimosso tutto, poi leggendo le altre storie mi sono chiesta ma è capitato anche a me? E da lì sono tornati alla mente tutti gli episodi. Come se mi rendessi conto per la prima volta che non c’era proprio niente di normale”.

Come reagire ai complimenti molesti?

Niente di normale. Un’epifania che può aiutarti a sbarazzarti dal fardello di disagio: non devi vergognarti, non è colpa tua, tu sei la vittima ma non significa che devi subire. Puoi reagire, subito. Ne abbiamo parlato con la scrittrice Roberta Marasco, ideatrice del blog femminista molto seguito Rosapercaso sul quale pochi giorni fa ha pubblicato un post sulle istruzioni per l’uso dei complimenti molesti.

“Quelli che qualcuno chiama ‘complimenti’, sì, perfino quelli che sembrano così poco offensivi, in realtà sono uno sfoggio e un’esibizione di potere. Sono il modo in cui alcuni uomini urlano la posizione in cui si trovano rispetto alle donne, il loro posto nel mondo. I complimenti, quelli veri, dovrebbero avere più a che fare con chi li riceve e meno con l’egocentrismo, il potere e il bisogno di affermazione di chi li pronuncia. Soprattutto se vengono urlati per strada”.

Come funziona il gioco di potere di chi fa un complimento molesto sulla persona che lo riceve, o meglio lo subisce?

“Nessuno può urlare a qualcun altro un apprezzamento sul suo corpo, dal nulla, senza un contesto e senza un saluto o due parole di presentazione, se non partendo da una posizione di potere. Ogni volta che un uomo fischia dietro una ragazza o le fa sapere che cosa pensa del suo sedere, in realtà quello che sta facendo è riaffermare quel potere. Non sta dicendo soltanto che quella ragazza ha un bel sedere, ma che lui può dirlo perché ha il potere di farlo, sta dicendo che il metro secondo cui si giudica il corpo di una donna è il desiderio e il piacere maschile, e che lei ha il dovere di essere interessata alla sua opinione, quando non riconoscente. Se una donna reagisce diversamente, sta trasgredendo le regole del gioco e quindi non resta che cercare una giustificazione esterna alla situazione (è arrabbiata, ce l’ha con gli uomini, si dà troppe arie…)”.

IL CAT CALLING HA SEMPRE UN SOTTOFONDO SESSUALE. I COMPLIMENTI GRIDATI PER STRADA RIENTRANO IN QUELLA DINAMICA DI COPPIA CHE SI FONDA SU UN PATTO TACITO DI NON AGGRESSIONE DA PARTE DEGLI UOMINI. NON HANNO NIENTE DI INGENUO, ANCHE QUANDO NON C’È ALCUNA INTENZIONE DI FAR SEGUIRE UN CORTEGGIAMENTO O UN INVITO.

“In un mondo ideale non dovrebbe servire un uomo al nostro fianco per difenderci, o un gruppo di amiche pronte a fare quadrato per difenderci da una molestia. Il cat calling di solito avviene quando siamo più vulnerabili”.

Come possiamo reagire da sole o con le amiche (se la molestia arriva da parte di un gruppo di maschi)?

“Il fatto che il cat calling non arrivi mai quando una donna è abbracciata a un uomo, se non come messaggio indiretto a quell’uomo, dovrebbe bastare a smentire ogni pretesa di ingenuità e innocenza. Io credo che sia fondamentale sapere che siamo nel giusto noi, che il nostro fastidio è motivato e che abbiamo tutto il diritto di pretendere che le molestie cessino immediatamente. Detto questo, credo anche che ciascuna donna debba essere libera di reagire come meglio crede, senza sentirsi obbligata a dimostrarsi forte o invincibile. E sono convinta che parlarne sia davvero fondamentale e sia un’arma preziosa, perfino più di quanto possa sembrare”.

Fonte:

https://www.cosmopolitan.com/it/lifecoach/a32953565/cat-calling-street-harassment-complimenti-molestie/

Yulia Tsvetkova, l’artista e attivista russa che rischia 6 anni di galera per i suoi disegni della vagina. La mobilitazione per fermare il processo

10 Luglio 2020

Yulia Tsvetkova è un’artista e un’attivista russa impegnata nella difesa dei diritti delle donne e Lgbt. Il suo lavoro ha provocato cambiamenti positivi nelle discussioni sulla body positivity (il movimento che vuole trasmettere un messaggio ottimista nei confronti del proprio corpo) e sugli stereotipi di genere. Eppure questo successo l’ha resa un bersaglio.

Il 9 giugno scorso Tsvetkova è stata accusata di “produzione e diffusione di materiale pornografico” per aver pubblicato, nel 2018, sul social network russo VKontakte alcuni disegni stilizzati di vagine per promuovere una campagna sulla body positivity nella pagina del suo gruppo “Monologhi della vagina”, che prende il nome dal titolo dell’opera teatrale di Eve Ensler e che si pone come obiettivo celebrare il corpo femminile e protestare contro i tabù che lo circondano.

Se condannata, la donna rischia sei anni di carcere.

Residente a Komsomolsk-on-Amur, una cittadina della Russa orientale, in un’area della Siberia che ospitava i gulag, il 22 novembre 2019 Tsvetkova è stata messa agli arresti domiciliari revocati quattro mesi dopo, il 16 marzo 2020, ed è tuttora sottoposta a severe restrizioni di viaggio.

Da quando le autorità l’hanno pesa di mira la 27enne non può più esercitare le sue attività.

A marzo dello scorso anno è stata infatti costretta a cancellare il Festival delle arti della gioventù da lei curato perché la polizia lo ha ritenuto un gay pride camuffato.

In Russia la “propaganda omosessuale” viene punita in base a una legge controversa entrata in vigore nel 2013 e condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2017 perché omofoba.

In un’intervista telefonica rilasciata alla CNN, Tsvetkova ha raccontato che i problemi con la polizia sono cominciati all’inizio del 2019, quando ha portato in scena, con la compagnia teatrale Merak da lei diretta, due spettacoli che affrontavano temi particolarmente scottanti per le autorità: gli stereotipi di genere e il militarismo.

«Non so quale sia stato lo spettacolo peggiore per loro, se quello sul genere, che non capiscono e di cui hanno paura, o l’altro, che era piuttosto politico, molto acuto. Immagino sia stata la combinazione di entrambi», ha detto.

Da quel momento la donna è stata convocata alla stazione di polizia periodicamente. All’inizio ogni settimana, poi ogni due settimane, per essere interrogata sui suoi disegni, una serie di vignette sulle donne accompagnate da didascalie come “Le donne vere hanno i peli sui propri corpi ed è normale” o “Le donne vere hanno i muscoli ed è normale”.

A novembre dello scorso anno la polizia ha perquisito la sua abitazione, sequestrando materiale informatico e documenti.

«Mi hanno fatto molte domande e poi hanno trovato il mio lavoro su Internet e hanno capito in che modo poter costruire il caso», ha dichiarato. «È uno schema abbastanza comune: la polizia va alla ricerca di un reato che può trovare nel lavoro dell’attivista e poi apre il caso».

A causa di un disegno raffigurante due famiglie dello stesso sesso con bambini, accompagnato dalla didascalia “La famiglia è dove c’è amore. Sostieni le famiglie Lgbt!”, a gennaio 2020 Tsvetkova è stata inoltre accusata di “propaganda omosessuale”.

Tsvetkova – che organizza conferenze per la comunità Lgbt e che tiene lezioni sull’educazione sessuale vietata nelle scuole russe – ha dichiarato di non essersi stupita per l’accusa di propaganda sessuale e per aver ricevuto una sanzione (50.000 rubli russi che corrispondono a circa 620 euro), ma di essere rimasta molto sorpresa per l’incriminazione del reato di pornografia. «So che cos’è la pornografia e non è quella», ha detto riferendosi ai suoi disegni.

L’attivista, che nel frattempo ha ricevuto e continua a ricevere minacce, non è molto ottimista sul processo: «Sto cercando di non perdere la speranza, ma in Russia solo l’1% dei casi è assolto. Questo significa che ho solo l’1% [di possibilità] di essere prosciolta».

Insignita lo scorso 17 aprile del premio Freedom of Expression 2020 nella categoria “arte” conferitole da Index on Censorship (un’organizzazione per la difesa della libertà di espressione con sede a Londra), la donna ritiene di essere stata accusata dalle autorità di diffondere materiale pornografico perché si tratta di un reato “infamante”, che può ridurre al minimo il sostegno in suo favore dell’opinione pubblica, e pensa che la “vaghezza” della legge sulla pornografia sia un buon pretesto per reprimere il suo attivismo.

 

In Russia, le autorità promuovono fortemente i valori familiari tradizionali. Non è un caso che gli emendamenti costituzionali recentemente approvati con una consultazione referendaria abbiano incluso un articolo in cui si afferma che il matrimonio è esclusivamente quello celebrato tra un uomo e una donna, vietando di fatto i matrimoni omosessuali.

Come riportato da Deutsche Welle, un recente sondaggio condotto da Levada Center, il principale istituto indipendente che si occupa di rilevazioni in Russia, ha rivelato che il 50% delle persone intervistate pensa che gli omosessuali debbano essere “liquidati” o tenuti isolati dalla società. La percentuale scende al 27% se si tratta di femministe, poiché il concetto di “femminismo” è spesso visto come appartenente all’Occidente ed estraneo alla Russia. Eppure, in passato, il paese è stato a lungo all’avanguardia nell’uguaglianza di genere, garantendo nel 1917 pari diritti alle donne e diventando nel 1920 il primo paese a legalizzare l’aborto.

Nonostante si sia aperta una caccia alle streghe, è grande il sostegno mostrato nei confronti di Yulia Tsvetkova.

Associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani come Amnesty International e la ONG russa Memorial l’hanno dichiarata prigioniera di coscienza e una petizione lanciata su change.org, in cui viene chiesto il ritiro delle accuse, ha raccolto quasi 240.000 firme.

Il 27 giugno, Giornata nazionale della gioventù in Russia, oltre cinquanta agenzie di stampa hanno organizzato lo “sciopero dei media per Yulia”, chiedendo che il procedimento giudiziario contro di lei venga fermato. Scrittori, giornalisti, attori, influencer e blogger hanno pubblicato post con l’hashtag #forYulia (#заЮлю) e #FreeJuliaTsvetkova (#СвободуЮлииЦветковой).

Durante l’ultimo fine settimana di giugno circa quaranta manifestanti sono stati arrestati a Mosca e a San Pietroburgo nel corso di una manifestazione pacifica a sostegno dell’attivista russa. A riferirlo OVD-info, un gruppo che fornisce assistenza legale alle vittime di arresti arbitrari. La maggior parte dei dimostranti sarebbe stata fermata per aver violato il regolamento sui raduni pubblici, incluso il divieto di organizzare eventi di massa introdotto nel paese a marzo scorso per bloccare la diffusione del COVID-19.

Sui social tantissime donne hanno mostrato il proprio sostegno all’attivista russa pubblicando foto in cui mostrano i propri corpi o immagini e disegni femministi o oggetti di uso quotidiano, come fiori o frutti, che sembrano vagine, accompagnate dallo slogan “il mio corpo non è pornografia”.

Di recente, l’Alto commissario dei diritti umani della Federazione Russa, Tatyana Moskalkova, ha annunciato che a seguito del grande “riscontro pubblico” sollevato dal caso intende seguirlo personalmente inviando un membro del suo staff a monitorare il processo.

Per Tsvetkova il supporto nazionale e internazionale è “incredibile” e rappresenta un’ancora di salvezza. «Mi aiuta a non sentirmi sola. L’anonimato è la cosa più spaventosa. Lo so perché ero sola all’inizio e questo significava che quando andavo alla stazione di polizia, sapevo che avrebbero potuto fare quello che volevano e nessuno lo avrebbe mai scoperto», ha detto.

L’attenzione suscitata nell’opinione pubblica ha dimostrato che l’attivismo della giovane donna russa ha colpito nel segno mostrando quanto il paese abbia bisogno di una discussione pubblica sull’uguaglianza di genere e la comunità Lgbt.

«Voglio continuare a lavorare come attivista. E il fatto di essere stata incriminata aumenta soltanto il mio desiderio di cambiare le cose e combattere le ingiustizie».

Immagine anteprima “Le donne non sono bambole”, 2018 – Yulia Tsvetkova/TAN via Ministry of Counterculture

Fonte:
https://www.valigiablu.it/yulia-tsvetkova-artista-russa-processo/
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L’OMICIDIO DI MARIELLE FRANCO RISVEGLIA LA SOCIETA’ BRASILIANA

Marielle Franco durante un’intervista a Rio de Janeiro, il 9 gennaio 2018. (Ellis Rua, Ap/Ansa)

Argentina, libertà e assoluzione per Higui

ARGENTINA #LibertadYAbsolucionParaHigui
Oggi, 17 maggio, Giornata Nazionale di mobilitazione per la libertà immediata e per l’assoluzione di Eva Analia de Jesus, detta Higui,ingiustamente detenuta da sette mesi per essersi difesa dall’ attacco di una banda di dieci uomini che volevano infliggerle uno stupro correttivo perchè lesbica.

Aveva con sè un coltello, perchè minacciata più volte in altre occasioni e, mentre era a terra con dieci uomini che la picchiavano e la minacciavano di stupro, non ha esitato ad autodifendersi, ferendo a morte uno degli assalitori. Quando è arrivata la polizia Higui era ancora lì, sanguinante, ferita e con gli abiti strappati. Si è ritrovata in una cella, dove è agli arresti dall’ottobre 2016, accusata di omicidio. I suoi assalitori sono tutti a piede libero. Questa in breve la vicenda drammatica che sta mobilitando nel Paese numerose organizzazioni e associazioni femministe perchè Higui venga rilasciata e assolta per legittima difesa. A tutt’ oggi non è ancora stata definita la data del processo, sono stati negati gli arresti domiciliari e tutto il fascicolo che riguarda Higui è pieno di gravi irregolarità. Per tutte queste ragioni è stata indetta per oggi, giornata globale di lotta contro l’omolesbotransfobia, una mobilitazione nazionale per la libertà immediata di Higui.

In questi mesi la mobilitazione militante ha prodotto diversi video che raccontano la vicenda e la vita di Higui. La sua famiglia è molto attiva nell’ organizzare la mobilitazione per liberarla. Qui di seguito i link di video, articoli e la traduzione del comunicato del Coordinamento per la Libertà e l’Assoluzione di Higui postato dal collettivo Cagne Sciolte di Roma.
http://agenciapresentes.org/…/negaron-excarcelacion-a-higu…/
https://vimeo.com/216850987
https://www.facebook.com/notes/cagne-sciolte/siamo-tutt-per-limmediata-liberazione-e-assoluzione-per-higui/1552050808152903/

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Il Ban di Trump e la Guerra Santa del nerd canadese

31 gennaio 2017

Pubblicato da

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. L’ordine mondiale è scosso dal Ban di Trump, che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti a i cittadini di Iran, Iraq, Libya, Somalia, Sudan, Syria and Yemen. Sulla prima pagina del New York Times tiene banco il conflitto istituzionale circa la nomina del nuovo Attorney General, in relazione alla legalità del Ban e dell’opportunità che i legali del Dipartimento della Giustizia lo dichiarino ammissibile. La nostra agenda ci porta, però, in Canada, a Quebec City, appresso ad una notizia che sta riscuotendo attenzione molto inferiore alla portata del fatto, di gravità pari, se non superiore a vari altri che abbiamo seguito e discusso. Si tratta dell’attentato alla moschea locale, nel corso del quale sono morte sparate sei persone e otto altre sono rimaste ferite. Il fatto, del quale si trova traccia soltanto nei tagli bassi delle testate di tutto il mondo, avrebbe di certo suscitato una diversa attenzione, qualora l’obiettivo fosse stato altro, cioè uno dei riferimenti dell’occidente libero e democratico e l’attentatore fosse stato un musulmano qualunque, uno di quelli che urlano “Allah Akbar”, per capirci, che poi hanno spesso e volentieri urlato altro, come s’è detto e ridetto. Gli elementi di interesse, almeno per noi, sono moltissimi. Prima di tutto il profilo di questo Alexandre Bissonnette, un vero freak da tutti i punti di vista, poi il fatto che questo episodio abbia luogo in Canada all’inizio dell’era Trump, in relazione alla posizione liberal che Trudeau ha assunto sulla questione dell’immigrazione, quindi, forse soprattutto, il tema della “Guerra Santa”, che, misteriosamente, non affiora a titoloni cubitali sulle prime pagine dei giornali. Anche limitandoci allo squallido teatrino di casa nostra viene soprattutto da domandarsi dove sia l’editoriale di Panebianco, dove siano i memi di Oriana che aveva previsto tutto e perché oggi la guerra santa non “la fa l’ACI” (lo so, ce lo devo mettere ogni volta, è un po’ un tormentone, ma fa troppo ride’). Inoltre, e questo è l’aspetto che ci ricollega a tutta la questione delle fake news, nelle prime ore seguenti l’attentato circolava nei mezzi d’informazione la notizia che l’autore dell’attentato fosse un marocchino non meglio identificato, di quelli che appunto urlano “Allah Akbar” prima di ammazzare la gente.

Lorenzo. Mettiamo due cose una dietro l’altra, concedendoci il tempo di fare quello che abbiamo fatto con Masharipov, Amri e tutta la compagnia. E ripetendo il mantra delle 36 ore, prima delle quali dire qualcosa di sensato è sostanzialmente inutile e dopo le quali è quasi del tutto inutile dire qualcosa, perché le idee e le emozioni sul fatto si sono già ampiamente formate. Primo: appiccico un po’ di cose su questo “allah akbar”, riguardo al cui uso e alla cui diffusione in quanto meme – lo ricordo anche qui – ho già abbondantemente dato (e quindi un knowledge base purchessia ce l’ho). Al centro commerciale di Monaco il 18enne tedesco-iraniano aveva urlato “sono tedesco, turchi di merda” ma un testimone giurava di averlo sentito urlare “allah akbar”. Chi sa il tedesco afferma che l’assassino avesse anche un certo accento del sud. Nell’agguato nella metropolitana, sempre a Monaco, uno squilibrato aveva urlato davvero “Allah Akbar” ma non era neanche lontanamente mai stato musulmano, né aveva mai avuto un legame famigliare con quel mondo. Non sappiamo se dimostrasse di avere un qualche accento particolare. Di Amri, l’assassino di Berlino abbattuto a Sesto S. Giovanni, si era detto che avesse urlato “allah akbar” ma invece poi fu confermato che aveva detto “poliziotti bastardi”. Questa volta un testimone afferma che l’attentatore aveva un forte accento del Quebec e urlava “allah akbar”. La nota sull’accento rende il testimone credibile. In più la cosa avviene in una moschea, un luogo dove è abbastanza facile che ci siano persone che “Allah Akbar” lo dicono un bel po’ di volte al giorno, poiché pregano. Ricordando poi un numero elevato di casi in cui l’espressione è stata usata per scopi che vanno dallo scherzo stupido al sarcasmo pesante, giungo a pensare che il Gemello abbia davvero urlato “Allah akbar”, per un suo qualche oscuro motivo. Ciò certifica definitivamente, se ce ne fosse bisogno, che il lanciare l’urlo “Allah Akbar” prima di un fatto violento non segnala assolutamente niente di rilevante al fine di stabilire le responsabilità ultime dell’atto, almeno dal punto di vista delle affiliazioni ideologiche, cosa che va tanto per la maggiore quando bisogna dire che siamo soldati crociati ecc. in stile Panebianco. Resta da capire, se l’ha fatto, perché Alexandre Bissonnette l’ha fatto. Ma diciamo che a questo punto ci può interessare il giusto, cioè niente. Però è da segnalare che a un certo punto ieri si è capito che questo killer con l’ISIS non c’entrava davvero una mazza e dunque i giornali online hanno iniziato a togliere dai titoli quell’”allah akbar” (sbagliando, secondo me, ma va bene). A quel punto c’è stato, come il commentatore di un pezzo di Repubblica, chi ha sollevato dubbi e paventato gombloddi. Arrivando tardi alla lettura del pezzo “Sikomoro” scrive: “Perchè non è stato scritto, come su tutti gli altri giornali, che gli attentatori gridavano Allah Akbar? Si vuole per caso nascondere qualcosa? Si vuole per caso influenzare l’opinione?”. La parola che trovo – ricordo che la usava Jaime intorno al 1988 – per definire tutto questo è “inquietante”.

Anatole. Tragicamente inquietante, ma la cosa che, per usare un’altra espressione del tempo, è ancora più flesciante è il rilievo che la notizia assume nell’opinione pubblica. Cioè, detto senza mezzi termini, appare confermato che se spari dentro una moschea e ammazzi sei persone non gliene frega letteralmente un cazzo a nessuno! E questo fatto sembrerebbe contraddire anche le tradizionali leggi del giornalismo, secondo le quali “cane morde uomo” dovrebbe interessare meno di “uomo morde cane”. Ora, volendo anche applicare questo criterio utterly incorrect alla situazione attuale, ma con trump al potere e i nazi alla casa bianca va di moda, senza meno un canadese bianco, pallidissimo anzi, con nome e cognome da film dei Cohen, per dire, che spara in una moschea dovrebbe essere “uomo morde cane”, stante l’agenda corrente, no? Eppure niente, non fa notizia. Il che dimostra che la forte polarizzazione ideologica ha smantellato le regole basilari dell’attenzione, la legge di mercato della comunicazione, a vantaggio di un meccanismo di allarme orientatissimo, e lo dico anche in senso proprio etimologico (occidentatissimo sarebbe il contrario, diciamo). Come dice Alessandro Lanni qua:

Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.

Il filtro informativo individuale opera in una direzione secondo la quale le notizie vere, quelle “uomo morde cane”, non fregano a nessuno, poiché obbligano a fare un ragionamento del tipo di quello che stiamo facendo noi da un anno, dunque a preoccuparsi di una situazione che stiamo contrastando con strumenti inadatti, con guerre sbagliate, eleggendo figure pericolosissime, in ragione dell’incapacità di identificare i problemi in ordine ai quali la situazione corrente si viene a determinare, tanto sul piano economico che su quello sociale, che ancora su quello culturale.

Lorenzo. Passo alla seconda che consiste nel ricordare che c’è un assassino solitario di massa occidentale dal profilo molto simile: Anders Behring Breivik. Ho letto un bel po’, ieri, su Bissonnette e noto, con crescente senso di inquietudine, che i tratti in comune sono fin troppi. Entrambi hanno un curriculum di destra molto “classico”, una destra stile Trump se si guarda agli Stati Uniti, e una destra nazionalista se l’attenzione cade sull’Europa, oggi soprattutto in Francia. Una destra che però guarda a Israele con una certa ammirazione: entrambi i profili ci raccontano questo (qui Bissonnette, qui Breivik). Anche nel caso di Bissonnette dire “nazista” o “neonazista” è un po’ riduttivo, non è proprio esattissimo. C’è quel quid di islamofobo e ultraliberistissimo che ci riconduce agli stereotipi di – chessà – un Salvini e di un Borghezio e financo di un Beppegrilllo. Insomma non un antisemita dichiarato, lo definirei un criptoantisemita in un certo senso. Uno che sul modello antisemita fonda un suo nazismo ufficialmente non-antisemita, stavolta islamofobo. Certamente c’è un aggiornamento del profilo, data l’età. Bessonnette, ad esempio, è il classico troll del cazzo che ti entra nella tua pagina normale, in cui dici cose belle, per disturbare e far perdere tempo alle persone brave.

Anatole. Da quello che si capisce si tratta comunque di uno di quei coglioni che ci vanno sotto alla propaganda di destra (estrema o no, è tutta uguale) sugli immigrati. Molto attivo sui siti xenofobi, grande fan della Le Pen, era stato anche a sentirla durante la sua visita in Quebec. È anche preparato quanto basta da sostenere gli argomenti classici della destra che ci circonda, grazie ad un curriculum di studi a cavallo tra Scienze Politiche e Antropologia, un tempo bastione dell’ultrasinistra, ma oggi, per ragioni che abbiamo più volte sottolineato (ad esempio qua), praticatissimo anche da quella destra che ha fatto benchmark sull’ultrasinistra (tipo Spencer, per capirci). Cioè, un matto sicuro, non meno lupo solitario degli altri, magari integrato in un sistema di relazioni labili e liquide, come avrebbe detto Bauman, attorno alle quali un’identità te la crei, certo, ma sempre molto da solo, in quella solitudine che, come abbiamo detto in tutte le salse, si consuma nella rete telematica, offrendo un’ombra di appartenenza a persone bisognose di attenzione. Di sicuro: «He was not a leader and was not affiliated with the groups we know», come ha spiegato François Deschamps, il job counselor di Carrefour Jeunesse, un’organizzazione che aiuta a trovare lavoro, ma anche attivista di Bienvenue aux Réfugiés, che ha avuto modo di tracciare l’attività di pubblicista anti-immigrazione dell’attentatore.

Lorenzo.  Sulla questione dell’estremismo di destra in Canada è uscito un bell’articolo, molto documentato sul Montreal Gazzette: “L’effetto Trump e la normalizzazione dell’odio in Quebec”. Vale la pena dargli una letta e visionare la tabella, molto esplicativa:
1111-city-hate-gr1

Certo oggi i destrorsi operano in un contesto “garantito” a tutti gli effetti dalla presidenza americana. Cioè, c’è Steve Bannon nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti d’America, per dire. Non a caso Richard Spencer non ha perso l’occasione di trollare Trudeau a proposito del suo discorso ispirato a seguito della sparatoria alla moschea di Quebec City, rilanciando l’analogia con la Francia, anche in cerca di simpatie transoceaniche:

 

specer

 

Anatole. Il quadro in cui questi figuri operano oggi è molto diverso, ma non dissimile da quello che si ricostruisce attorno al classico attentatore islamico. Voglio dire che c’è un quadro di riferimento istituzionale rispetto al quale questi personaggi si sforzano di apparire conformi, l’ISIS per gli uni, gli USA di Trump, Bannon e Spencer per gli altri. Lo si poteva già vedere nel corso della campagna elettorale americana con i bersagli accesi dalla propaganda antiliberal, soprattutto nel formato del Pizzagate, di cui abbiamo già parlato qua. Il qualcunismo omicida non è più una semplice forma di appartenenza contro i valori liberal che stanno abbattendo le frontiere tra ciò che “la tradizione” (un costrutto ideologico folle, come sappiamo, una cosa mai esistita) ci ha consegnato come una cosa che ci appartiene e tutto quello che invece no e quindi deve restarsene fuori dal posto che identifichiamo come ”casa nostra”, anche se poi a casa nostra i siriani non ci vengono e non ne abbiamo mai visto uno manco per sbaglio. È quello che capita quando la destra nazi prende il potere, che i mezzi matti si sentono appartenenti ad una milizia che opera in un quadro di ”legalità”. lo si vedeva già all’indomani dell’elezione di Trump, con le migliaia di piccoli atti di bullismo rivoltante ai danni di ebrei, musulmani, neri, omosessuali, donne di ogni razza e ceto sociale, perpetrati da maschi bianchi, ritornati in pieno controllo di una prospettiva identitaria ”forte”. In sostanza, una cosa molto simile al fascismo.

Lorenzo. Esatto. Il modulo è quello del lupo solitario, forse ancor più di prima, perché oggi anche lo xenofobo fascista ha il suo quadro di riferimento ideale proiettato in uno scenario istituzionale.

Anatole. Penso che alla fine quello che abbiamo detto e ridetto, che cioè questa guerra santa la stanno combattendo un pugno di mezzi matti sobillati da altri mezzi matti (i Panebianco di tutto il mondo, per capirci) è una cosa vera. Quello che oggi è cambiato è che, come dici tu, alcuni di questi mezzi matti, della prima e della seconda categoria, sono oggi al potere in tutto il mondo. Ma non mi sembra un messaggio rassicurante sul quale concludere.

Lorenzo. Possiamo peggiorare la visione, rendendola ancora più fosca.

Anatole. Facciamolo.

Lorenzo. Ragioniamo anche un po’ sulla ricezione del fatto, voglio dire. L’altra volta dicevo delle vittime del Reina, che erano più o meno tutte di origine musulmana, tranne mi sembra due canadesi (dei quali non conosciamo l’appartenenza religiosa). Dicevo che c’è stato questo intitolarsi le vittime, questo parlare di crociate mentre, come dicevi all’inizio, oggi non vedo quest’ansia di intitolatura, anzi. Quindi, giusto per mettere un po’ le cose in chiaro, completerei – dopo aver citato l’articolo sul Canada – il ragionamento con questo progetto sulla mappatura dell’islamofobia negli Stati Uniti e quest’altro sull’islamofobia in Europa. Cioè, detta fuori dai denti: i nostri simpatici amici teorici del conflitto di civiltà, i crociati da poltrona in pantofole, hanno effettivamente contribuito ad elaborare un paradigma di crociato che trova riscontro nella società. Ma ciò facendo non hanno descritto una cosa che esiste come tale di per sé. Cioè, nessuno dei potenziali crociati è di per sé un crociato, così come nessuno dei potenziali estremisti del cosiddetto jihad islamico lo è in quanto è nato così o perché le sue condizioni di esistenza lo portano naturalmente a diventarlo. È il quadro ideologico di riferimento, elaborato dai nostri amici del conflitto di civiltà, quelli che la Guerra Santa “la fa l’ACI”, che offre un contesto all’interno del quale situare azioni come quelle sulle quali ragioniamo da più di un anno. Quindi, perlomeno, la prossima volta, evitino di parlare di timidezze e buonismi, di occidenti pavidi e altre idiozie, ché manca poco all’aperto incitamento all’odio razziale. E, quasi quasi, sembrano aver letto i manuali di Abu Mus’ab al-Suri (sistema vs organizzazione, del quale dicevamo l’altra volta). Qui, come abbiamo detto ormai fino alla noia, il tema sarebbe un altro, collegato, come abbiamo ripetuto alla nausea, al dramma identitario in cui sprofonda la piccolissima borghesia promossa dal debito e messa in ginocchio dalla crisi.

Anatole. A questo proposito abbiamo prodotto un congruo pregresso.

Lorenzo. Talmente congruo che, come alcuni nostri detrattori auspicano, ce la potremmo anche far finita.

Anatole. Sarei d’accordo con loro, se solo si alzasse ogni tanto mezza voce da qualche parte a far notare le cose che stiamo ripetendo. Personalmente avrei anche da fare, diciamo. Mi blinderei volentieri nel XII secolo, per dire.

Lorenzo. Eh, infatti, a chi lo dici. E vi sono segnali che dimostrano quanto ripetitivi stiamo diventando.

Anatole. Forse perché diciamo una cosa vera? Potrebbe anche darsi.

Lorenzo. La verità è ripetitiva, questo di sicuro. E noiosa.

Anatole. Infatti abbiamo chiuso questo pezzo in un’ora. Per noia.

Lorenzo. Speriamo che si sia capito il concetto.

Anatole. Io penso di sì. E sinceramente me la farei finita volentieri, se non temessi che  l’episodio di oggi potrebbe essere solo uno dei primi accenni di una cosa sinistra che sta per accadere. Non l’ho mai pensato fino ad ora, ma la strizza a questo punto sale per davvero. Non già la paura di una Guerra Santa, quanto piuttosto il terrore che questi qualcunisti, quelli di casa nostra soprattutto, abbiano trovato un’identità forte dietro la quale nascondere il loro microscopico cazzetto, ecco. Perché a questa cosa dell’allarme democratico non ci avevamo alla fine mai creduto davvero, diciamolo. Oggi forse un po’ di più ci crediamo, sinceramente. Leggendo questo, ad esempio, non mi viene da ridere. Ne mi tranquillizza questo, pur straordinario, capolavoro artistico:

 

capitan america

 

Lorenzo. No, neanche a me. Sì, c’è una certa strizza e anche una certa rabbia per come le cose sono state fatte deteriorare. Forse dobbiamo capire, nei prossimi tempi, se proprio siamo circondati, se le cose sono già andate avanti troppo, se c’è un rimedio.

Anatole. La Women’s March è il rimedio. L’unico vero. Forse. Speriamo. Perché il movimento femminista è l’unica forza capace di metterti in discussione per quello che sei, per come vivi davvero, invece che per quanto figo ti senti su un social network o dove che sia. In quest’epoca qualcunista è davvero un ancoraggio straordinario ad un piano di verità basata su scelte di vita, sincerità di quello che provi, coraggio di affrontare gli aspetti meno evidenti e più scomodi della realtà che ti disegni attorno. Per questa ragione è probabile che sia l’unica forza propulsiva di un rinnovamento democratico progressista, capace di demistificare i meccanismi di idealizzazione del quotidiano grazie ai quali la demagogia populista fa presa, ritraendo maschi disperati e miserabili come campioni dell’emancipazione di masse inascoltate, che in realtà non hanno niente da dire. Sono donne come Kamala Harris e Cecile Richards che devono stare davanti oggi, in America e in tutto il mondo, e tutti quelli che vogliono combattere questo orrore devono limitarsi a sostenerle.

Lorenzo. …. [sgrana gli occhi]

Anatole. …. [guarda altrove, un po’ come se questa cosa che ha appena detto non l’avesse detta lui]

Lorenzo. Si è riaccesa la luce della stanza. Proprio mi sono visto davanti questo libro di Valentina Fedele che indaga sui modelli maschili nel mondo islamico, specie nelle comunità di migranti maghrebine in Europa. “Islam e mascolinità”. Cose di cazzetti piccoli se vogliamo metterla così. Fuori dallo stupidario delle robe che girano, davvero.

Anatole. Ecco.

Lorenzo. Daje.

Anatole. Daje sì.

 

 

Fonte:

https://www.nazioneindiana.com/2017/01/31/ban-trump-la-guerra-santa-del-nerd-canadese/