Egitto, si suicida l’attivista Sarah Hegazi: arrestata per una bandiera arcobaleno

Rifugiata in Canada dopo il carcere, non è riuscita a superare il trauma delle torture e degli abusi subiti.
ROMA – Non ce l’ha fatta Sarah Hegazi, rifugiata di origine egiziana che tre anni fa ha dovuto lasciare il suo Paese e trasferirsi in Canada dopo essere stata incarcerata per il fatto di essere lesbica. Dietro le sbarre la donna aveva denunciato violenze e torture, poi una volta fuori si erano aggiunte pressioni e stigma sociale. Due giorni fa la 30enne si e’ tolta la vita, e come riferisce il quotidiano ‘Egypt today’, prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta”.

La donna era un’attivista per i diritti umani e della comunita’ Lgbt. Le difficolta’ per lei avevano avuto inizio nel 2017, quando era stata arrestata con l’accusa di aver esposto una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo. A incriminare lei e un suo amico, una foto che la ritraeva sorridente mentre sventolava il simbolo della comunita’ Lgbt. La procura del Cairo accuso’ entrambi di far parte di un movimento che intendeva diffondere l’ideologia omosessuale nel Paese.

In Egitto non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma queste persone possono incorrere in denunce e arresti per aver tenuto “comportamenti immorali”, giudicati come “attacchi” alla cultura tradizionale.

In carcere, Hegazi ha raccontato di aver subito torture, anche dalle altre detenute, con accuse di violenze sessuali.
Nel 2018 l’attivista era stata rilasciata ma qualche tempo dopo aveva chiesto l’asilo politico in Canada, poiche’ temeva nuovi procedimenti penali e soprattutto stava ricevendo pressioni da parte della societa’ egiziana, prevalentemente conservatrice. In Canada, pero’, la donna sarebbe caduta in uno stato depressivo.

Qualche giorno prima di togliersi la vita, Hegazi ha pubblicato una foto su Instagram accompagnata dal commento: “Il cielo e’ meglio della terra, e io voglio il cielo, non la terra”.

“I segni e il ricordo della tortura non ti lasciano in pace neanche in esilio” ha dichiarato all’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. Secondo Noury, questa e’ “un’altra storia che chiama in causa le autorita’ egiziane”.

 

Fonte:

https://www.dire.it/15-06-2020/473930-egitto-si-suicida-lattivista-sarah-hegazi-arrestata-per-una-bandiera-arcobaleno/?fbclid=IwAR3S1bdiulYBctLwJ0PF3_PYXgBvFF-gXxnY3a6_rENBl7sxct5WiGlUK4Q

Ecco la testimonianza di un detenuto uscito venerdì dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a Bologna aumentano i contagi.

 CARCERE  13 Apr 2020 21:00

«Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto»

A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal sindacato di polizia penitenziaria

L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al covid 19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio.

 

Alcune delle ferite riportate da un detenuto di Santa Maria Capua Vetere dopo il pestaggio

 

La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena.

 

Altri segni del pestaggio

 

A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta.

«Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».

Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza.

 

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/detenuti-picchiati-carcere-da-300-agenti-volto-coperto/?fbclid=IwAR0dRIzTzCpthNKHCd1a-6dirNA3WxZ2nW1MT5m0VdhwdkDxRT-F3b51FJU


Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi a Bologna

Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale

Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza.  Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro.

«Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati», denuncia  Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna.

«Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid – ha aggiunto – e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».

I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale.

Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto – inizialmente – rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso – da parte dell’azienda sanitaria – per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: «Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri».

Fonte:

https://www.ildubbio.news/2020/04/13/ancora-contagi-carcere-10-nuovi-casi-bologna/

Il silenzio sulle violenze in carcere dopo le rivolte di marzo

Dal profilo Facebook della giornalista
Maria Elena Scandaliato

7 h 

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Il servizio sulle violenze nelle carceri dopo le rivolte andato in onda questa mattina a Buongiorno regione Lombardia

BUONA PASQUA AI DETENUTI

Domani, su Rai tre, alle 7.30 Buongiorno Regione Lombardia trasmetterà un mio servizio con le testimonianze dei parenti dei detenuti che hanno partecipato (o di questo sono stati sommariamente accusati) alle rivolte di inizio marzo.
È un servizio cui tengo moltissimo, perché moltissimo è costato a chi ha accettato di denunciare. Non solo chi – come vedrete – ci ha messo la faccia (Alfonsina e Federica), ma anche chi ha scelto l’anonimato ed è stato costretto a rivivere dei momenti terribili, in cui non sapeva se il proprio marito, il proprio figlio, fossero vivi o morti chissà come nel chiuso di una cella.
Nelle rivolte di inizio marzo sono morti 14 detenuti. Abbiamo scoperto i loro nomi da poco; alcuni erano in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria), uno sarebbe dovuto uscire dopo due settimane. Si tratta per lo più di stranieri: chissà le loro famiglie – magari lontane, magari no – cosa avranno provato.
Di questa strage si è parlato poco e male. Dando per certo il fatto che questi si fossero strafatti di roba dando l’assalto alle infermerie. Una cosa che ha la stessa verosimiglianza del fatto che io sia un’attivista occulta della Lega nord. Eppure, tutti zitti.
No, non tutti. Per fortuna, ci sono i parenti dei detenuti; e i loro gruppi, in cui si passano le informazioni che lo Stato nega loro, in modo crudele e padronale. E poi le associazioni. Come Associazione Yairaiha Onlus, senza la quale non avrei raccolto alcuna testimonianza.
Il carcere è una realtà ristretta e amplificata al tempo stesso. Le rivolte dei detenuti sono state l’unico segno di lucidità e di vita, in una società che ormai delega a élite ultrarisicate anche la libertà di uscire di casa.
Loro sapevano che avrebbero pagato: eppure si sono ribellati. Eppure, si sono ribellati.


Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa

(disegno di sam3)

Franco (nome di fantasia), recluso nelle sezioni di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene “isolato” in infermeria per verificare l’evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l’impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l’associazione Antigone e l’ufficio del garante dei detenuti che la situazione per ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid-19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno.

La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all’interno dell’istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano ed escono moltissime persone. «Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia», sostiene invece il procuratore Gratteri. A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti).

Franco intanto è stato ricoverato. È il weekend che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l’orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l’occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l’accesso in sezione è stato riversato dell’olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare.

Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano di fronte al muro del Dap e del ministero.

A questo punto la storia cominciata con il contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva la magistratura di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall’ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c’è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all’interno delle “camere di pernottamento”. Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l’istituto, anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne.

Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana, le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzano una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all’interno si respira un’aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: «Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato?».

In questo video un detenuto racconta, attraverso una telefonata, le violenze di questi giorni al carcere di Santa Maria Capua Vetere

Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri)stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare un sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest’energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla Procura della Repubblica (solo Antigone ne ha già depositai tre, in diversi penitenziari del paese) che dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano.

La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. È tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un intero piano di una sezione è stato isolato.

Se il sistema sta svelando un’altra falla, dopo gli ospedali e le case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo – dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco – misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poiché il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all’ordine del giorno.

“Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo (Mc 15,16-20)”. Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse, per evitare che il massacro continui. (luigi romano)

Fonte:

https://napolimonitor.it/il-carcere-di-santa-maria-capua-vetere-e-la-mattanza-della-settimana-santa/?fbclid=IwAR1okhjICUkXQ-OZc4QQ4g7V545OoGmdumNlTY1cqiGVxu9XmhDmaIaYkcE

SIRIA, L’ACCUSA DEGLI USA A ASSAD: “50 IMPICCAGIONI AL GIORNO E FORNI CREMATORI NEL CARCERE DI SEDNAYA”

Siria, l’accusa degli Usa ad Assad:
«50 impiccagioni al giorno e forni crematori nel carcere di Sednaya»

Il Dipartimento di Stato Usa mostra una serie di immagini satellitari che provano la costruzione di una struttura per bruciare i corpi degli oppositori detenuti e uccisi nella prigione militare. La Casa Bianca: «Siria non sicura fino a quando ci sarà Assad»

Una delle immagini diffuse dal Dipartimento di Stato che mostra a destra la costruzione adibita a forno crematorio Una delle immagini diffuse dal Dipartimento di Stato che mostra a destra la costruzione adibita a forno crematorio

«Assad sta impiccando cinquanta persone ogni giorno e usa i forni crematori per sbarazzarsi dei corpi degli oppositori uccisi». L’accusa, pesantissima, arriva dagli Stati Uniti. Il responsabile del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente Stuart Jones, durante una conferenza stampa che si è tenuta a Washington, ha spiegato di avere prove dell’esistenza di una fornace, vicino al carcere di Sednaya, la prigione militare a nord di Damasco, i cui orrori sono già stati denunciati, tra gli altri da Amnesty International il febbraio scorso in un dettagliato rapporto. E la Casa Bianca torna a lanciare un ultimatum al regime: «La Siria non sarà sicura e stabile finché Assad sarà al potere», ha detto il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer.

Secondo il Dipartimento di Stato il forno sarebbe stato utilizzato per sbarazzarsi dei corpi dei prigionieri morti. Gli americani sono in possesso di diverse immagini satellitari, presentate alla stampa, da cui si desume che una struttura all’interno della prigione militare è stata modificata trasformandola in un crematorio. Sempre secondo l’intelligence qui vengono impiccati almeno 50 detenuti ogni giorno un dato che coincide con quanto riportato da Amnesty International che parlava nel suo rapporto di 13 mila morti in 6 anni. Nella prigione si trovano migliaia di persone, detenute dal regime in sei anni di guerra civile. Il mondo, ha detto Stuart Jones, assistente segretario per gli Affari esteri del Vicino Oriente, è di fronte a «nuovi livelli di depravazione raggiunti» dal regime di Bashar Assad.

Amnesty International e molti oppositori hanno denunciato in passato gli orrori del carcere militare fatto costruire dagli Assad negli anni ‘80 e da sempre utilizzato per far sparire i dissidenti. «Quando ci dissero che saremmo andati a Sednaya cominciammo a piangere. E non smettemmo per tutto il tragitto», ha raccontato al Corriere della Sera uno dei sopravvissuti. Appena arrivati lui e i suoi compagni sono fatti denudare e picchiati duramente. Dopodiché sono loro spiegate le poche semplici regole della prigione. «Primo non puoi alzare la testa e guardare i secondini in faccia. Pena la morte. Ho visto molta gente essere uccisa così», ha aggiunto l’uomo. L´altra regola è quella del silenzio: i prigionieri non possono parlare tra loro, nemmeno sussurrare. Dopo questo «benvenuto» il testimone ha raccontato al Corriere di essere stato rinchiuso in una cella sotterranea da nove persone, grande circa due metri quadrati. Uno dormiva, e gli altri stavano in piedi. «Tutti completamente nudi uno attaccato all’altro».

Secondo quanto si legge nel rapporto di Amnesty le esecuzioni avvenivano di notte, ogni lunedì o martedì, quando nella prigione regnava il silenzio, gruppi di 50 detenuti venivano impiccati due o tre volte a settimana. Una pratica tenuta segreta e praticata tra settembre 2011 e dicembre 2015 ma che potrebbe essere tuttora in vigore. Molti prigionieri, spiegava ancora la ong, sono morti anche per le «politiche di sterminio» delle autorità, che comprendono torture ripetute, privazione del cibo, dell’acqua e delle medicine. Secondo Amnesty le esecuzioni erano state autorizzate dal governo siriano ai più alti livelli.

La rivelazione americana arriva alla vigilia della nuova tornata di colloqui negoziali sulla Siria previsti per martedì a Ginevra e che – ha detto l’inviato dell’Onu in Siria, Staffan De Mistura – procedono «in tandem» con i negoziati di Astana. Per De Mistura i colloqui di Ginevra servono a «battere il ferro finché è caldo» e a disegnare, a partire dagli accordi di Astana, un «orizzonte politico» per il paese mediorientale devastato dal conflitto civile.

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http://www.corriere.it/esteri/17_maggio_15/siria-l-accusa-usa-ad-assad-50-impiccagioni-giorno-forni-crematori-carcere-sednaya-59c90362-398c-11e7-8def-9f1d8d7aa055.shtml

Russia, arrestati alcuni attivisti gay. Protestavano contro abusi in Cecenia verso gli omosessuali. Altre informazioni da Amnesty International

La polizia russa ha arrestato una decina di attivisti gay oggi a San Pietroburgo nel corso di una protesta contro i presunti abusi nei confronti degli omosessuali in Cecenia, denunciate da Novaya Gazeta. Lo ha constato un giornalista presente oggi a San Pietroburgo e la testata online Fontanka.ru.
Attivisti Lgbt sono allarmati dopo le notizie diffuse da Novaya Gazeta che da circa un mese pubblica una serie di reportage denunciando che la polizia cecena arresta, tortura e uccide le persone sospettate di essere omosessuali.
Fontanka.ru ha scritto che gli attivisti arrestati hanno urlato “Kadirov (il leader ceceno filo-Cremlino, ndr) all’Aia”, riferendosi alla Corte penale internazionale.

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Fonte:

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Altre informazioni e un appello da Amnesty International:

Cecenia: uomini sospettati di omosessualità rapiti, torturati e uccisi

Il 1 aprile il Novaya Gazeta, quotidiano indipendente russo, ha riportato che oltre cento uomini sospettati di essere omosessuali erano stati rapiti nei giorni precedenti, nell’ambito di una campagna coordinata. A quanto si dice, gli uomini sono stati torturati o comunque maltrattati e costretti a svelare l’identità di altre persone LGBTI a loro note. Novaya Gazeta ha affermato di aver verificato le informazioni su almeno tre uomini che sono stati uccisi dai loro carcerieri, anche se affermano che in base alle loro fonti ci sono stati molti altri omicidi.

Pare che alcuni degli uomini rapiti siano stati riconsegnati alle loro famiglie, probabilmente perché i loro rapitori non hanno confermato il loro orientamento sessuale, ma essi rimangono in grave pericolo a causa dell’intolleranza omofobica locale. Membri dell’Ong Russian LGBTI network hanno confermato queste informazioni e hanno creato una linea telefonica diretta per offrire aiuto a coloro che potrebbero star cercando protezione al di fuori della regione.

Le reazioni dei funzionari ceceni a queste notizie variano dalla negazione (per esempio da parte di Alvi Karimov, portavoce del leader ceceno) al ritenerle false, a ulteriori velate minacce. Il 3 aprile Dimitry Peskov, addetto stampa dell’Amministrazione Presidenziale Russa, ha annunciato che il Ministero degli Interni stava “verificando le informazioni sulla presunta persecuzione di uomini con orientamento non-tradizionale”.

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lgbti-cecenia

Minacce contro i giornalisti che hanno denunciato le persecuzioni in Cecenia

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BAHRAIN: GLI ORGANISMI LOCALI SUI DIRITTI UMANI, SOSTENUTI DAL REGNO UNITO, SONO VENUTI MENO ALLE PROMESSE DI RIFORME

21 novembre 2016

In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha dichiarato che, cinque anni dopo la rivolta del 2011 in cui manifestanti pacifici vennero picchiati, feriti e uccisi, le riforme introdotte per rispondere alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza devono ancora portare giustizia alla maggior parte delle vittime e dei loro familiari.

Il rapporto descrive in dettaglio le gravi carenze riscontrate nell’azione di due organismi istituiti nel 2012, che secondo le autorità del Bahrein e quelle del Regno Unito – strenuo alleato del regno del Golfo persico – avrebbero dovuto dimostrare l’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani.

“Nessuno nega che il governo del Bahrein abbia fatto bene a istituire organismi per indagare sulle violazioni dei diritti umani e portare di fronte alla giustizia i responsabili, ma purtroppo queste riforme risultano profondamente inadeguate. I maltrattamenti e le torture da parte delle forze di sicurezza proseguono, in un contesto di radicata impunità segnato dalla mancanza d’indipendenza del potere giudiziario” – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per la ricerca presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Beirut.

“Un vero cambiamento dev’essere ben più che di facciata. Le autorità del Bahrein non possono continuare a ingannare il mondo con una mera patina di riforme, quando l’assunzione di responsabilità per le violazioni dei diritti umani scarseggia e i difensori dei diritti umani continuano a venire arrestati in modo arbitrario, a subire condanne a seguito di processi iniqui, a essere privati della nazionalità o a vedersi impedito di viaggiare all’estero” – ha commentato Maalouf.

La brutale repressione delle proteste del 2011 suscitò l’indignazione internazionale. Su raccomandazione della Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein, istituita dal re Hamad bin Isa al-Khalifa, le autorità emendarono alcune leggi e costituirono alcuni organismi di monitoraggio e per indagare e processare persone sospettate di aver commesso violazioni dei diritti umani.

Tra queste istituzioni, dal 2012 vi sono l’ufficio del Difensore civico presso il ministero dell’Interno e l’Unità speciale per le indagini presso l’Ufficio del procuratore generale. Entrambe hanno ricevuto formazione e sviluppo delle rispettive capacità istituzionali da parte del Regno Unito.

Sebbene abbiano ottenuto qualche risultato, Amnesty International giudica che queste due istituzioni non siano state in grado di fermare in modo significativo le violazioni dei diritti umani.

“La descrizione fattane dal governo di Londra come istituzioni modello è profondamente falsa, come illustriamo nel nostro rapporto. Invece di raccontare mezze verità al mondo intero sui progressi del Bahrein, il Regno Unito e gli altri alleati internazionali dovrebbero smetterla di dare priorità alla difesa e alla cooperazione in materia di sicurezza, a scapito dei diritti umani” – ha sottolineato Maalouf.

L’ufficio del Difensore civico è generalmente reattivo nel segnalare le denunce di tortura e di altre gravi violazioni dei diritti umani all’Unità speciale per le indagini. Tuttavia, in alcuni casi, non ha assunto rapide iniziative per proteggere i detenuti dai maltrattamenti e dalla tortura, indagare sulle loro denunce o assicurare il loro accesso alle cure mediche.

Ad esempio, nonostante i ripetuti allarmi di Amnesty International circa il rischio che il difensore dei diritti umani Hussain Jawad potesse subire torture dopo il suo arresto, avvenuto il 16 febbraio 2015, l’ufficio del Difensore civico non ha verificato immediatamente le condizioni del detenuto e non è riuscito a evitare che venisse torturato. Jawad ha riferito di essere stato bendato, picchiato con le mani ammanettate dietro la schiena e minacciato di violenza sessuale se non avesse “confessato”.

L’ufficio del Difensore civico ha anche ritardato di due anni l’inchiesta sulla denuncia di tortura sporta da Mohamed Ramadhan, guardia di sicurezza aeroportuale, condannato a morte dopo essere stato giudicato colpevole di aver preso parte a un attentato.

L’Unità speciale per le indagini, dal canto suo, ha sottoposto a procedimento 93 appartenenti alle forze di sicurezza ma sono risultati condannati solo 15 funzionari di basso livello. Nessun alto dirigente delle forze di sicurezza che sovrintendeva alle gravi violazioni dei diritti umani del 2011 è mai stato incriminato.

Dei casi di maltrattamento o tortura, decesso in carcere o uccisione illegale registrati da Amnesty International a partire dalla rivolta del 2011, solo 45 su circa 200 sono arrivati a processo.

Ali Hussein Neama, 16 anni, venne ucciso da un agente di polizia nel settembre 2012. Nonostante le prove fotografiche e il certificato di morte indicassero che il ragazzo era stato colpito alle spalle, l’Unità speciale per le indagini ha concluso che l’agente agì per autodifesa contro il ragazzo e un altro manifestante che stavano scagliando bombe Molotov.

L’Unità speciale per le indagini risulta anche lenta nell’esame delle denunce. In un caso, le sono voluti oltre due anni per raccogliere elementi sulle torture riferite da un prigioniero di coscienza, col risultato che prove scientifiche e altri indizi sono andati persi.

Sia l’ufficio del Difensore civico che l’Unità speciale per le indagini non sono riusciti a ottenere la fiducia dell’opinione pubblica, in parte per la percepita mancanza d’indipendenza e d’imparzialità. Entrambi gli organismi sono considerati eccessivamente vicini al ministero dell’Interno e ad altre istituzioni di governo e alimentano la disistima non tenendo adeguatamente informate vittime e famiglie sugli sviluppi delle indagini.

La giornalista Nazeeha Saeeda ha raccontato che nel 2011 è stata picchiata, presa a calci, umiliata e sottoposta a scariche elettriche mentre veniva interrogata dalle forze di sicurezza. Tre anni dopo, l’Unità speciale per le indagini l’ha condotta nella medesima stanza delle sevizie perché riconoscesse i suoi torturatori. Nonostante il trauma e pur avendo identificato cinque persone, il caso è stato chiuso per “assenza di prove”.

Un altro caso emblematico è quello di Ali Isa al-Tajer, che ha denunciato di essere stato torturato per 25 giorni. L’ufficio del Difensore civico non è stato in grado di garantire che egli fosse tenuto in un luogo sicuro e protetto dalla tortura, mentre l’Unità speciale per le indagini non ha agito tempestivamente sulla sua denuncia, evitando anche di disporre una visita di un medico legale. Entrambi gli organismi non hanno reagito agli allarmi che il detenuto era sottoposto a tortura né hanno tenuto informata la sua famiglia sugli sviluppi delle indagini.

“L’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini hanno la possibilità di apportare i tanto necessari cambiamenti e di migliorare la situazione complessiva dei diritti umani. Ma per essere davvero efficaci, devono operare con trasparenza e rapidità e dimostrare la loro indipendenza, nell’ambito di un più ampio progresso verso la fine dell’impunità e delle pratiche repressive e in direzione di una reale indipendenza del potere giudiziario” – ha aggiunto Maalouf.

“Il governo del Bahrein prese una decisione importante quando creò le due istituzioni, conferendo loro un mandato tale da poter favorire un reale cambiamento. Ora deve dare l’esempio, dimostrando che gli ostacoli politici e giudiziari all’impunità possono essere superati e che ha il coraggio necessario per rendere l’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini due istituzioni solide, in grado di ottenere la fiducia dell’opinione pubblica e agire efficacemente contro le violazioni dei diritti umani” – ha concluso Maalouf.

Ulteriori informazioni

Il rapporto si basa su oltre 90 interviste condotte dal 2013 con vittime di violazioni dei diritti umani, loro familiari, avvocati e difensori dei diritti umani, su informazioni tratte dalla corrispondenza intrattenuta con il governo e altre istituzioni locali del Bahrein e sulle costanti ricerche di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel paese.

FINE DEL COMUNICATO                                                                          Roma, 21 novembre 2016

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/bahrein-gli-organismi-locali-sui-diritti-umani-sostenuti-dal-regno-unito-sono-venuti-meno-alle-promesse-di-riforme

Australia: Nauru, una prigione a cielo aperto per i rifugiati

L’isola di Nauru

 17 ottobre 2016

In un rapporto diffuso oggi, dal titolo “L’isola della disperazione: come l’Australia tratta i rifugiati a Nauru”, Amnesty International ha accusato il governo australiano di sottoporre richiedenti asilo e rifugiati a un complesso e crudele sistema di abusi, contrario al diritto internazionale, allo scopo di tenere queste persone lontano dalle coste del paese.

Il rapporto, basato su mesi di ricerche e di interviste a oltre 100 persone sull’isola di Nauru e in Australia, chiama le procedure adottate dal governo australiano in materia di rifugiati col loro vero nome: un deliberato e sistematico regime di crudeltà e diniego.

A Nauru, il governo australiano gestisce una prigione a cielo aperto il cui scopo è di infliggere la sofferenza ritenuta necessaria per scoraggiare alcune delle persone più vulnerabili del mondo a cercare riparo in Australia” – ha dichiarato Anna Neistat, direttrice delle ricerche di Amnesty International, una delle poche persone che è riuscita a mettere piede sull’isola, remota e impenetrabile, per svolgere ricerche sulle violazioni dei diritti umani.

“Il governo australiano isola donne, uomini e bambini vulnerabili in un luogo remoto da cui non possono fuggire, con la specifica intenzione di farli soffrire. Quella sofferenza produce effetti devastanti e, in alcuni casi, irreparabili” – ha denunciato Neistat.

Appena poche settimane dopo che, al Summit delle Nazioni Unite sui rifugiati, il primo ministro Malcolm Turnbull aveva descritto la politica del suo governo come un modello da imitare, il rapporto di Amnesty International mostra che quella politica, basata solo sulla deterrenza, è direttamente responsabile di uno sconvolgente campionario di violazioni dei diritti umani.

“Quella politica è esattamente l’opposto di quello che i paesi dovrebbero fare. È un modello che minimizza la protezione e massimizza il danno fisico. L’unica direzione verso cui l’Australia sta dirigendo il mondo in materia di rifugiati è un precipizio” – ha commentato Neistat.

Sei decenni fa, fu la firma dell’Australia a far entrare in vigore la Convenzione sui rifugiati. Ora, per terribile ironia, è quello stesso paese a violare clamorosamente il diritto internazionale e a incoraggiare altri paesi a fare altrettanto” – ha aggiunto Neistat.

L’Australia ha speso miliardi di dollari australiani per creare e mantenere un sistema offshore intrinsecamente abusivo per esaminare le posizioni dei richiedenti asilo. Secondo fonti ufficiali, ogni anno questo sistema – vigente, oltre che a Nauru, sull’isola di Manus, che appartiene a Papua Nuova Guinea – è costato 573.000 dollari australiani (poco meno di 400.000 euro) a persona.

Buona parte di questo denaro è stato speso in contratti con aziende, molte delle quali hanno annunciato che cesseranno di lavorare a Nauru. Non pochi loro dipendenti hanno deciso di rivelare la disperata situazione sull’isola e per questo rischiano procedimenti penali.

“Le autorità australiane dovrebbero arrivare alla stessa conclusione: chiudere il centro di Nauru e fare un uso migliore delle tasse dei loro cittadini riconoscendo che i richiedenti asilo e i rifugiati che si trovano a Nauru hanno il diritto di fare ingresso in Australia immediatamente. Queste persone non possono aspettare un momento di più che si trovi una soluzione umana” – ha commentato Neistat.

Punire le vittime

I richiedenti asilo e i rifugiati che si trovano a Nauru sono diventati il bersaglio delle angherie e della violenza di parte della popolazione locale e anche di persone che sono in posizione di potere. Nonostante le attendibili prove emerse su decine e decine di aggressioni, anche di natura sessuale, a quanto risulta ad Amnesty International nessun cittadino nauruano è stato incriminato.

Al contrario, a essere arrestati arbitrariamente e imprigionati sono i richiedenti asilo e i rifugiati. Nelle parole di un fornitore locale, “si tratta di una prassi intimidatoria comune sull’isola”.

Hamid Reza Nadaf, un rifugiato iraniano con un figlio di otto anni, ha raccontato di essere stato imprigionato dal 3 giugno al 7 settembre 2016, sulla base di prove chiaramente fabbricate, con ogni probabilità come punizione per aver scattato delle foto all’interno del Centro per l’esame dei richiedenti asilo. Per buona parte dei tre mesi di prigione suo figlio, che è malato di tubercolosi, è stato lasciato completamente da solo.

Le autorità di Nauru hanno anche arrestato richiedenti asilo e rifugiati per atti di autolesionismo, ponendoli esattamente in quella condizione di reclusione a tempo indeterminato che è causa del profondo deterioramento della salute mentale di una persona.

“È un circolo vizioso: persone che cercano di porre fine alla loro vita per fuggire alla disperazione vanno a finire dietro le sbarre, in una prigione costruita dentro una prigione a cielo aperto” – ha spiegato Neistat.

Salute mentale in deterioramento

Quasi tutte le persone incontrate da Amnesty International, bambini compresi, sono in cattive condizioni di salute mentale. Secondo l’Ordine degli psichiatri di Australia e Nuova Zelanda, è innegabile che la detenzione a tempo prolungato o indeterminato abbia un effetto diretto e negativo sulla salute mentale.

A Nauru, le persone che hanno problemi di salute mentale o di altro genere non ricevono le cure di cui hanno bisogno. “Laleh” (nome di fantasia), una donna iraniana fuggita col marito e la loro figlia di tre anni, ha riferito ad Amnesty International di soffrire di depressione ma che “a quelli non interessa”.

Anche “Nahal”, la figlia di “Laleh”, ha sviluppato problemi di salute mentale durante i 18 mesi trascorsi in una tenda. Il medico che l’ha visitata ha prescritto farmaci inadatti ai bambini. Quando i genitori hanno protestato, ha risposto: “Se non vi sta bene, tornatevene al vostro paese”.

Permettere che la salute mentale peggiori senza fornire cure mediche adeguate pare far parte volutamente della politica di deterrenza adottata dal governo australiano.

Peter Young, ex direttore del reparto di Salute mentale dell’International Health and Medical Services, ha detto ad Amnesty International che nei contesti offshore di esame dei richiedenti asilo “ogni cosa diventa strumentale all’obiettivo di ‘fermare le imbarcazioni'”.

Un trattamento che costituisce tortura

Amnesty International è giunta alla conclusione che il sistema cui sono sottoposti i richiedenti asilo e i rifugiati a Nauru equivalga a tortura.

La combinazione tra la profonda sofferenza mentale dei rifugiati, il fatto che questa sia prodotta intenzionalmente e il ricorso all’esame offshore come mezzo d’intimidazione e coercizione allo scopo di raggiungere un obiettivo, significa che il sistema offshore australiano di esame dei richiedenti asilo rientra nella definizione che della tortura dà il diritto internazionale.

Il primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, rivendica il fatto che il governo deve assicurare che il sistema deve rimanere “duro”.

Quando era ministro delle Comunicazioni, nel 2014, dichiarò: “Abbiamo posto in essere misure dure, qualcuno potrebbe anche chiamarle crudeli… Ma se vuoi fermare questo lucroso traffico di esseri umani devi essere duro, molto duro”. Nel settembre 2015, pur dicendosi preoccupato per la situazione sull’isola di Nauru, disse: “Ok, so che è duro ma dobbiamo avere una severa politica di protezione dei confini. Può anche essere dura ma funziona”.

Sebbene l’Australia non desideri che la reale dimensione degli abusi a Nauru sia resa pubblica e abbia adottato misure straordinarie per tenerla nascosta, i potenziali richiedenti devono sapere che se cercheranno di chiedere protezione via mare subiranno una punizione. Il “successo” dei controlli di frontiera dipende dunque dalla sofferenza umana.

“Il governo australiano sta vendendo al mondo come un successo una politica di cui ha riconosciuto la crudeltà. Ma una politica che legittima gli abusi sistematici è un punto morto, non solo per i rifugiati ma anche per l’Australia. È una politica che ha fatto conoscere questo paese come quello che fa di tutto per assicurare che i rifugiati non raggiungano le sue coste e per punire coloro che ci hanno provato” – ha concluso Neistat.

Fatti e cifre

Nauru ha una popolazione di 10.000 abitanti. Con la presenza di 1159 richiedenti asilo e rifugiati, è il terzo paese al mondo per il rapporto tra rifugiati e abitanti.

La superficie totale dell’isola è di soli 21 chilometri quadrati.

Il costo della politica di deterrenza (respingimenti, valutazioni offshore e detenzione obbligatoria) per il periodo 2013-2016 è stimato in 9,6 miliardi di dollari australiani (oltre 6,64 miliardi di euro), non tenendo conto delle spese legali a seguito di denunce, delle revisioni in appello e delle inchieste da parte di ispettori e agenzie nominati dal governo.

Secondo l’Ufficio studi del parlamento australiano, il sistema di valutazione offshore in vigore a Nauru e sull’isola di Manus costa ogni anno 573.000 dollari australiani a persona (quasi 396.000 euro).

Attualmente a Nauru si trovano 1159 richiedenti asilo e rifugiati: 410 all’interno del Centro per l’esame dei richiedenti asilo e 749 fuori da questa struttura.

Di queste 1159 persone, 173 sono bambini (134 dei quali rifugiati e 39 richiedenti asilo). A Nauru, il sistema di protezione dei minorenni è praticamente inesistente.

La maggior parte dei richiedenti asilo e dei rifugiati viene dall’Iran. Molti altri sono apolidi o provengono da Afghanistan, Iraq, Myanmar, Pakistan e Sri Lanka. Secondo un padre che si trova nel Centro per l’esame dei richiedenti asilo, la maggior parte dei quasi 40 bambini che si trovano in questa struttura – compreso suo figlio – ha la tubercolosi.

FINE DEL COMUNICATO                                                     Roma, 17 ottobre 2016

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/australia-nauru-una-prigione-a-cielo-aperto-per-i-rifugiati

16 settembre 1976 la “Noche de los lapices” in Argentina

Il 16 settembre del 1976 a La Plata, Argentina, un’operazione della polizia militare portava al sequestro di sei studenti tra i 14 e 17 anni, poi desaparecidos.

I sei giovanissimi liceali, militanti dell’organizzazione peronista Unione degli Studenti Secondari, furono sequestrati dallo Stato e internati in differenti campi di tortura in quanto “sovversivi”, ovvero “colpevoli” di lottare per i diritti degli studenti, nello specifico in quanto promotori di una mobilitazione per il riconoscimento del trasporto gratuito per gli studenti, un decreto approvato un anno prima e poi revocato dal governo militare (lotta che è proseguita fino allo scorso anno, quando è stata finalmente e nuovamente approvata la legge, oggi definanziata dal governo Macri con l’obiettivo di annullarla de facto).

Oltre ai sei desaparecidos, Claudio De Acha, María Clara Ciocchini, María Claudia Falcone, Francisco López Muntaner, Daniel Racero e Horacio Ungaro, in quei giorni furono arrestati altri quattro giovanissimi studenti, anch’essi tra i 14 e i 17 anni, tra cui Pablo Diaz, militante della Gioventù Guevarista, uno dei quattro sopravvissuti del gruppo. Grazie alle sue testimonianze questa storia di desapariciòn e torture di Stato è stata successivamente ricostruita, tanto da essere poi pubblicata nel libro “La noche de los lapices”, da cui fu tratto un omonimo film (in italiano il titolo è stato tradotto “La notte delle matite spezzate”).

Uno dei responsabili dell’operazione e dei centri di tortura dove i ragazzi furono detenuti prima della desapariciòn, Miguel Osvaldo Etchecolatz, condannato a sei ergastoli per crimini di lesa umanità (sia per questi fatti che per le responsabilità in moteplici altri casi di tortura e sparizioni, nell’ambito dello sterminio di una generazione politica combattiva), è salito agli onori delle cronache suscitando proteste in tutto il paese lo scorso luglio per la richiesta, accordata ma non resa effettiva, di scontare il resto della pena ai domiciliari per motivi di salute. Va ricordato inoltre che il testimone chiave del processo che ha condannato il genocida Ethchecolatz è Julio Lopez, sequestrato e sopravvissuto durante la dittatura, nuovamente desaparecido per la seconda volta dieci anni fa, mentre era in corso il processo, in tempi di democrazia. Una mostra d’arte, intitolata “Dieci anni con Julio Lopez: dove sei finito?”, che ha visto la partecipazione di decine di artisti argentini ed internazionali, lo ricorda proprio in questi giorni a Buenos Aires, nell’indifferrenza del governo e dei tribunali, mentre il 18 settembre è stata lanciata una manifestazione per chiedere verità e giustizia che attraverserà il centro della capitale argentina per concludersi a Plaza de Mayo. Il nome di Julio Lopez, così come dei sei desaparecidos della “Notte delle matite spezzate”, appaiono insistentemente in queste settimane su stencil, murales e scritte nelle scuole e sui muri della città.

A 40 anni dai fatti, mentre in tante città argentine si scende in piazza per ricordare i sei ragazzi rivendicando con forza la memoria e la lotta dei giovanissimi studenti torturati e desaparecidos dalla dittatura civico-militare, l’attualità delle loro battaglie continua ad essere lampante. Che l’educazione come pratica di liberazione ed emancipazione costituisca un problema per chi vuole imporre il pensiero unico, ieri come oggi, è evidente dalle recenti dichiarazioni del ministro dell’educazione Bullrich, esponente del governo Macri.

Inaugurando un liceo in Patagonia, Bullrich proprio ieri ha dichiarato: “Inauguriamo con Macri una nuova Campagna del Deserto, questa volta non con le spade ma con l’educazione”. Il riferimento è chiaro: si parla dello sterminio degli indigeni della Patagonia, avvenuto con la cosiddetta “Campagna del deserto” nel 1870 guidata dal generale Roca, recentemente “riabilitato” dal quotidiano conservatore La Nacion e dal governo Macri, che ha rivendicato pubblicamente la figura di un militare passato alla storia come genocida. Il “deserto” a cui si riferisce il nome della campagna militare era la Patagonia: peccato che il cono sud del paese non fosse assolutamente un “deserto”, nè un territorio disponibile ad essere conquistato dalla “civiltà” dello Stato Nazione in formazione, ma una terra abitata da migliaia di persone disposte a lottare per difendere la propria libertà, la propria terra e la propria cultura, infine sterminate dai militari mandati da Buenos Aires in nome della civilizzazione e dello Stato nazione.

Rivendicare quella infame campagna per pubblicizzare il nuovo corso delle politiche del governo conservatore argentino in materia di educazione la dice lunga tanto sulla cultura politica dei ministri del governo in carica quanto sull’attualità delle lotte degli studenti desaparecidos 40 anni fa, così come dell’importanza delle lotte di quelli che oggi in migliaia ne rivendicano proprio in queste ore il ricordo nelle piazze di decine di città, testimoniando ancora una volta l’importanza della memoria come strumento di lotta. L’accostamento della “Conquista del deserto” alla politica educativa è un fatto aberrante, come se gli studenti, le scuole e università fossero un “deserto” da conquistare. Una logica che presuppone una pedagogia violenta ed autoritaria, disconoscendo volutamente il fatto che gli studenti e i docenti siano soggetti attivi e dotati di senso critico, che le scuole e le università siano spazi in cui sviluppare conoscenze, condividere sapere critico, praticare la libertà di apprendimento ed insegnamento e crescere collettivamente: oggi come ieri, il sapere e l’educazione sono un campo di battaglia.

Dato che sappiamo da che parte stare, oggi ricordiamo con forza quei giovanissimi studenti massacrati dallo Stato: coscienti che la memoria debba continuare ad essere uno strumento partigiano di lotta collettiva, noi non dimentichiamo e siamo al fianco degli studenti che lottano oggi, il miglior modo per ricordare gli studenti desaparecidos di ieri.

 

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/16-settembre-1976-la-noche-de-los-lapices-in-argentina

UN POETA NELLE CARCERI DI ASSAD

 

Faraj Bayrakdar è stato torturato per quasi 14 anni in quanto scrittore dissidente. Oggi, pluripremiato e libero, sente che le sue sofferenze sono niente rispetto al dolore del popolo siriano

di Joshua Evangelista*

Dalla “festa di benvenuto”, la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato quasi 14 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. «Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà», scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. «La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più».

Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa?

Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis.

Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine.

Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione.

Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa.

L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente.

Come siamo arrivati a questo?

Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i “nostri” dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi.

Così è stato.

Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro.

Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti.

È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi.

Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano?

Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte.

Dalle sue parole traspare molto pessimismo.

Eppure non ho paura del futuro. Prima o poi i siriani ricostruiranno la Siria. Ma la soluzione inizia con la fine del regime. La storia insegna che siamo diversi da come veniamo dipinti dai media europei: non siamo mai stati paurosi delle minoranze. Faccio un esempio: da chi è stata gestita la transizione post francese? Da Fares al-Khoury, un cristiano, che è stato ministro, presidente e molto altro ancora. E per essere rappresentati nelle assemblee, i musulmani si rivolgevano a lui.

Se non ha paura del futuro, avrà immaginato come sarà ricostruzione. Quale sarà il ruolo della diaspora?

La diaspora tornerà in Siria, sosterrà la rinascita con soldi, training, con il know how appreso all’estero. Ma sarà chi è rimasto a costruire la nuova Siria. Ma, come per le crisi degli anni passati, dipenderà tutto dagli accordi che la nuova classe dirigente prenderanno con le potenze internazionali e dal “conto” economico e di persone che queste chiederanno. Noi, da fuori, faremo lobby, manderemo soldi: se necessario lavoreremo 14 ore al giorno e la metà del salario la destineremo alla ricostruzione.

A proposito di superpotenze impegnate in Siria, avrà sicuramente seguito il tentato golpe in Turchia. Le purghe che sono seguite hanno ricordato, a qualcuno, quelle che Hafez perpetrò nel 1982 nei confronti degli insorti della Fratellanza musulmana. 

Due cose sopra tutte le altre mi preoccupano della Turchia. La libertà d’espressione e la questione curda. Ma i paragoni non reggono: il regime turco non ha ancora perpetrato crimini di un livello equiparabile a quello siriano. Nel 1982 Assad bombardava Hama e faceva almeno 14000 morti. L’Erdogan del post golpe non ha ancora fatto nulla di simile, sebbene abbia arrestato migliaia di persone, ma è presto per farsi un’idea completa. Lo tengo d’occhio, può diventare una feroce dittatura.

Cosa ne pensa dell’accoglienza turca verso i migranti siriani?

A passarsela peggio sono i siriani in Libano. Dovremmo prima di tutto preoccuparci per le loro condizioni. I turchi sono stati accoglienti, anzi: il popolo ha dato più di quello che ha ricevuto. Sappiamo bene che un’Europa così attenta ai soldi e che non vuole spendere nell’accoglienza conviene mantenere i rifugiati in Turchia, questo è ovvio. Ma allora io lancio una provocazione: se è chiaro che nella società turca i siriani hanno maggiori possibilità di integrazione, i soldi europei per l’accoglienza ai rifugiati dovrebbero essere molti di più.

Nel frattempo però, la Turchia è scesa prepotentemente in campo contro i curdi del Rojava. Che idea si è fatto del confederalismo democratico curdo e, più in generale, del ruolo dei curdi nel conflitto?

Li stanno usando e quando la guerra sarà finita il mondo si dimenticherà di loro. Ha sempre fatto così. I curdi sono utopici, hanno grandi sogni. Eppure in tutto il corso della storia qualcuno li ha sfruttato. Li usano e poi li abbandonano. Io sono sempre stato, in Siria, un attivista per i diritti dei curdi. Lo ero quando Assad impediva di parlare la loro lingua, di preservare la loro cultura. Molti in Siria mi considerano un poeta curdo, addirittura. Lo dico, non stimo Saleh (co-presidente del PYD, ndr), non mi piace la sua ambiguità verso Assad. Ma penso che quando la guerra finirà la Siria dovrà fare i conti con la voglia d’indipendenza dei curdi. Andrà fatto un referendum per capire cosa vuole la popolazione delle regioni a prevalenza curda. Ma sono sincero, non credo che le super potenze permetteranno la creazione di uno stato del Kurdistan. Indipendenza o meno, io sarò sempre dalla loro parte e mi batterò affinché abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.

A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa?

Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io.

E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture?

In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola.

C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio?

No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli.

Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni?

Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza.

E oggi come dà senso all’esistenza?

Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione “impegna”. Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo.


*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su “Il Dubbio” del 20 agosto 2016.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2016/09/siria-faraj-bayrakdar-poeta-carceri-assad/

VADEMECUM PER SOPRAVVIVERE ALLE PRIGIONI SIRIANE

Da:

http://frontierenews.it/2016/09/vademecum-sopravvivere-prigioni-siriane/

 

 

Dal 2011, anno in cui sono iniziate le sollevazioni popolari che hanno portato all’attuale rivoluzione siriana,  sono morte oltre 17mila persone nelle prigioni governative, molte delle quali dopo aver subito torture di ogni tipo (dalle scariche elettriche agli stupri). Un documento di Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 65 sopravvissuti, in cui vengono raccontate le agghiaccianti e inumane condizioni in cui vivono i detenuti nelle strutture detentive dei servizi di sicurezza siriani e nella prigione militare di Saydnaya, nei sobborghi di Damasco.


La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma.

Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori.

Per non morire di fame, si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo.

Molti detenuti hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale a causa del sovraffollamento e della mancanza di luce solare.

‘It breaks the human’: Torture, disease and death in Syria’s prisons – Amnesty International, agosto 2016


Le testimonianze raccolte, oltre a mostrare il sadismo istituzionalizzato che prende di mira chiunque sfidi l’autorità costituita in Siria (oppositori, attivisti per i diritti umani, giornalisti, etc.), hanno tracciato un percorso mentale comune a cui i detenuti sopravvissuti sono dovuti ricorrere per superare l’orrore delle torture e della prigionia.

8 modi per sopravvivere ai lager siriani

1. Non rivelare le proprie condizioni mediche

“Nella ‘festa di benvenuto’, venne chiesto a ognuno di noi se fossimo in qualche modo malati o meno. Pensavo che avrei dovuto dire loro della mia insufficienza renale, così mi avrebbero trattato bene. Chiesero prima al mio amico, che rispose: ‘Sì, ho problemi respiratori. Ho l’asma’. La guardia disse ‘Va bene, il tuo è un caso particolare’. Iniziarono a picchiarlo, fino a lasciarlo senza vita, lì, di fronte a me. Quando arrivò il mio turno dissi che ero in perfetta salute, che stavo bene”.

La "festa di benvenuto". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “festa di benvenuto”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
2. Rimanere neutrali

“Le guardie mi costrinsero a guardare i loro colleghi picchiare i detenuti, per un ora. Usarono diversi oggetti, tubi, pali, persino una sbarra in ferro con dei chiodi all’estremità. Le prime tre volte piansi, ma quando lo feci le guardie iniziarono a picchiare anche me. Per il resto dell’ora dovetti rimanere completamente neutrale. Ripetevo a me stesso che non era reale, che era solo un film dell’orrore e che dopo quindici minuti sarebbe tutto finito”.

Il "tappeto volante". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
“Bisat al-Rish”, il “tappeto volante”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun

LA TRAGEDIA SIRIANA IN NUMERI

Oltre 17mila                        65mila                        Oltre 11 milioni

detenuti morti                                detenuti scomparsi                               sfollati e profughi

3. Stare al caldo

“D’inverno faceva molto freddo. Per non disperdere il calore dovemmo unire le lenzuola e avvolgerci in una sorta di bozzolo. Avevamo a nostra disposizione soltanto i vestiti che indossavamo durante l’arresto. Chi veniva arrestato d’estate soffriva tantissimo durante l’inverno”.

Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Sovraffollamento. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
4. Diventare una famiglia

“Gli altri prigionieri diventano molto più che fratelli. Si ottiene una vicinanza che nella vita normale non si può mai raggiungere. Persone con cui si era in contrasto, persone prima che si odiavano, in carcere diventano la propria famiglia. Atei e sunniti devoti diventano migliori amici. Abbiamo condiviso ogni cosa, anche i vestiti, e ci siamo sostenuti a vicenda quando uno piangeva o l’altro usciva fuori di testa”.

La "ruota". © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
La “ruota”. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
5. Dimenticare

“L’unico modo per fermare il tempo in prigione è pensare alla propria famiglia e ai propri amici. Ma poi si impara a lasciar perdere anche loro. Ho iniziato a dimenticare. Ho perso ogni memoria dei volti dei miei amici dell’università. Poi ho dimenticato ogni volto incontrato negli ultimi anni. Sono andato a ritroso, fino a quando riuscii a ricordare soltanto il viso di mia madre, quando ero piccolo”.

6. Mangiare qualsiasi cosa

“All’inizio ci diedero una scatola di arance e una di cetrioli. Iniziammo a mangiare le arance, gettando a terra le bucce, e gli altri prigionieri corsero ad addentarle. Per loro le bucce d’arancia erano così gustose. Una sorta di premio! Anche noi saremmo diventati come loro, fu uno shock tremendo. Iniziammo a mangiare persino i gusci d’uovo, per assumere il calcio. Mettevamo insieme riso, zuppo, bucce d’arancia e gusci d’uovo, il tutto avvolto in un pezzo di pane. In quel modo avevamo l’impressione di consumare un pasto vero. Era disgustoso mettere insieme tutte quelle cose, ma in qualche modo fu d’aiuto”.


Il governo italiano deve usare la propria influenza per assicurare che osservatori indipendenti siano autorizzati ad avviare indagini sulle condizioni di detenzione in Siria.

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7. Farsi torturare a turno

“La guardia ci chiedeva continuamente di mandare cinque persone da torturare. Ci organizzammo in modo da risparmiare i più giovani e i più anziani. Facemmo un gruppo di circa 20 persone, tra le più forti. Tre di noi andavano quasi sempre. Io andavo, perché avevo bisogno di urlare. Ero terrorizzato, perché ero diventato insensibili e non provavo più dolore, non avevo più alcuna emozione. Può sembrare strano, ma mi facevo avanti per essere picchiato in modo da poter sentire nuovamente qualcosa”.

Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Pestaggi. © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
8. Barattare il cibo

“Iniziò tutto con un tizio che se ne stava seduto, in cella, e non faceva che piangere di continuo. Mi disse che aveva person ogni speranza di lasciare quel posto. ‘Non sono arrabbiato, sto solo morendo di fame. Penso soltanto al cibo’. Provai a pensare a come aiutarlo, ma eravamo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Se gli avessi dato il mio cibo, sarei potuto morire; se lui ne avesse dato a me, sarebbe potuto morire lui.

Alla fine gli diedi il mio pezzo di pane e metà della mia porzione di riso. È lì che iniziò l’idea del baratto. Gli dissi che il prezzo per la mia mezza pagnotta era una pagnotta intera, ma che mi avrebbe potuto pagare un po’ alla volta, nell’arco di quattro giorni. Eravamo tutti senza cibo, nella miseria più totale, ma questo stratagemma ci aiutò a sopravvivere. Potemmo infatti condividere il cibo con chi soffriva di più e mantenere attiva la nostra mente. Stavamo sempre a pianificare qualcosa, a reagire, a restare umani. Prima i nostri cervelli poterono soltanto pensare ad una cosa: mangiare, mangiare, mangiare, mangiare. Ma nel tempo riuscimmo a unire le nostre menti per cooperare, per agire insieme”.

Gli stupri, un'arma quotidiana per annullare l'identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun
Gli stupri, un’arma quotidiana per annullare l’identità dei detenuti siriani © Amnesty International / Mohamad Hamdoun