Bombe «italiane» allo Yemen, il giallo divieti

Nello Scavo
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Sono molti i punti da chiarire nell’indagine della procura di Brescia sulle esportazioni di armi assemblate in Italia e dirette verso la coalizione saudita impegnata nella guerra dello Yemen. Nel fascicolo aperto dal procuratore Fabio Salamone, oltre alle denunce di Rete Disarmo e all’inchiesta di Avvenire, sono entrati almeno un paio di documenti ufficiali da Berlino, riguardanti la tedesca ‘Rwm’, la cui branca italiana da diversi anni consegna bombe all’Arabia Saudita e ad altre forze armate del Golfo. L’incartamento del Bundestag, il Parlamento tedesco, conferma l’esistenza di contratti con Riad e altri Paesi della coalizione impantanata nel conflitto contro i ribelli Houthi. Dell’alleanza militare fanno parte anche Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan. La vendita di armi, secondo il capo d’accusa per il momento rivolto ad ignoti, non sarebbe lecita perché in violazione delle norme italiane che vietano l’export verso Paesi in guerra, soprattutto se le operazioni militari vengono condotte senza alcuna copertura internazionale.
L’INCHIESTA: bombe italiane da Cagliari allo Yemen

La Rwm tace, ma da quanto trapela il gruppo, con stabilimento in Sardegna e sede legale nel Bresciano, si trincera dietro le autorizzazioni ottenute dai governi italiani a partire dal 2012. Sebbene sostenuti dagli Usa, non vi è infatti alcuna risoluzione Onu che autorizza l’intervento e ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha avvertito: «Ci deve essere l’obbligo di rispondere della condotta scioccante di questa intera guerra», alludendo ai responsabili dei crimini commessi ai danni dei civili. Da Roma, però, non arrivano parole chiare sulla fornitura di almeno 5mila ordigni alle forze aeree saudite. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni con un tweet ha ribadito che l’Italia «condanna il bombardamento contro un funerale a Sanaa. Inaccettabile escalation attacchi ai civili. Negoziati per fermare la guerra». Ma la titolare della Difesa, Roberta Pinotti, che di recente si è recata a Riad attirando le critiche di alcuni parlamentari e di ong come Amnesty a sua volte minacciate di Querela, domenica ha chiamato in causa la Farnesina: «Il ministero della Difesa non si occupa dell’export di armi, è una questione che dipende dal ministero degli Esteri».

Anche questo dovrebbe essere accertato dagli inquirenti. «Il ministero della difesa è comunque coinvolto – ribadisce il coordinatore nazionale della Rete Italiana Disarmo, Francesco Vignarca – perché grazie agli accordi militari che l’Italia può stipulare con vari Paesi, la procedura di autorizzazione può essere in qualche modo bypassata, come aveva denunciato, da parlamentare, anche l’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella». Dagli atti dell’inchiesta si deduce che la Germania già dal gennaio 2015 avrebbe bloccato la vendita di armi ai sauditi. Ma poiché le bombe della Rwm sono prodotte in Italia, sarebbe stato più facile superare le scelte di Berlino, consentendo di rifornire i bombardieri almeno fino alla scorsa estate. Come provano le immagini di alcune bombe inesplose, del tutto identiche a quelle ‘Made in Italy’.

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Fonte:
http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Bombe-Yemen-il-giallo-divieti—3.aspx

A Monaco è strage della follia

Scia di sangue. 18enne tedesco iraniano con gravi disturbi psichici, ammiratore del neonazista norvegese Breivik. È lui il responsabile della strage di ieri nel centro commerciale Olympia, a Monaco di Baviera, nel quinto anniversario del massacro di Utoya.. Nove le vittime, 5 sono adolescenti. Suicida il killer solitario. La polizia esclude legami con l’Isis e indica come probabile “movente” la volntà di vendetta per gli atti di bullismo subiti dal ragazzo. Ma in Europa è sempre più panico sicurezza

Nato e cresciuto in Baviera, famiglia di origine iraniana, il padre tassista (interrogato nella notte), la madre impiegata in un supermercato. La polizia tedesca ha ricostruito il profilo di Ali Sonboly, il 18enne che ha fatto strage ieri pomeriggio nel centro commerciale Olympia, a Monaco di Baviera. Escludendo qualsiasi legame con l’Isis e tracciando anzi una vistosa linea rossa che collega il massacro di ieri al quinto anniversario della strage di Utoya, in Norvegia, dove morirono 77 persone. Il ragazzo infatti era un fan del neonazista norvegese Anders Behring Breivik, che sta scontando la pena per quei fatti. Ma in generale sembrava ossessionato dagli omicidi di massa e dai “giustizieri” solitari. Con tanto di falso account facebook e la promessa di un “menù gratis” ha cercato di attirare quanta più gente possibile nel MacDonald del centro commerciale in cui aveva deciso di agire. Probabilmente puntava agli ex compagni di classe che a suo dire – ma ci sono già le prime ammissioni – lo avevano tormentato per anni. Era in cura presso un centro psichiatrico per una forte depressione.

Sonboly ha agito solo – il dato di tre assolitori diffuso inizalmente è stato presto smentito dai fatti – servendosi di una Glock 9mm con 300 proiettili al seguito. Nove le vittime, 4 adulti e 5 adolescenti, 3 di nazionalità kosovara, forse altrettanti turchi. Tra i feriti – tre sono in gravi condizioni – ci sono anche bambini. Poco prima della strage – ma l’esatta sequenza dei fatti è ancora oggetto di chiarimenti – il 18enne ha ingaggiato dal tetto del centro commerciale il dialogo surreale – e subito virale – con una persona che riprendeva la scena dal palazzo di fronte (“Per causa vostra sono stato vittima di bullismo per sette anni, e ora comprato una pistola per spararvi”) In seguito è uscito continuando a sparare sui passanti, si è allontanato indisturbato dall’edificio e a circa un km di distanza si è suicidato con un colpo di pistola.

Germania in lutto nazionale. E città di Monaco “riaperta” solo in mattinata, ancora stordita dall’emergenza che per tutta la serata di ieri ha costretto i suoi cittadini a restare dove si trovavano in quel momento. Trasporti bloccati, stazioni sigillate, strade deserte, informazioni contrastanti che si rincorrevano. Mentre la polizia e le forze speciali cercavano ancora di capire cosa era esattamente successo nel centro commerciale Olympia.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/a-monaco-e-strage-della-follia/

Loi Travail (Francia – riforma del lavoro); Sciopero Sociale transnazionale

 

238° puntata: corrispondenza con la Francia; in collegamento un co-redattore di Corrispondenze Operaie, un compagno di Chroniques syndicales, trasmissione di Radio Libertaire (attiva a Parigi dal 1981) che parla di conflitti lavorativi, e una compagna francese che ci aiuta nella traduzione.

Parliamo della Loi El Khomry (la riforma del lavoro, anche conosciuta come Loi Travail) e delle mobilitazioni di protesta che da marzo infiammano tutta la Francia. Per il 14 giugno è prevista una nuova mobilitazione nazionale.

La seconda corrispondenza con una compagna, di stanza a Parigi, della piattaforma per lo Sciopero Sociale transnazionale, che ci informa di un incontro previsto per l’11 giugno in Place de la Republique, la piazza che è caratterizzata, da marzo, dalle Nuit Debout (Notti in piedi). Nello specifico, inoltre, per l’autunno si sta organizzando un incontro sulla convergenza delle lotte a livello europeo in cui cercare di coinvolgere i lavoratori di Amazon francesi, tedeschi e polacchi.

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Fonte:

http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/loi-travail-francia-riforma-del-lavoro-sciopero-sociale-transna

POST DAL CONFINE SERBO-UNGHERESE DOPO LE CARICHE E I GAS CONTRO I MIGRANTI

Pubblichiamo questo post scritto da Valentina un’attivista della staffetta #overthefortress

Quello che abbiamo visto ieri al confine serbo-ungherese è sicuramente una delle cose più angosciati e vergognose che possano capitare alle porte dell’Europa fortezza.

Da mezzanotte di lunedì migliaia di persone sono confluite in questo punto del confine, memori dei giorni precedenti in cui si riusciva ancora a passare in Ungheria e la Merkel dichiarava di accogliere tutti. Le informazioni che il confine si stava fortificando arrivavano anche a loro, ma nessuno credeva sino in fondo che la militarizzazione sarebbe stata così spinta. Due giorni fermi lì, quindi, in piedi davanti al cancello, urlando “open the door open the door we want freedom thank you Germany“, ma niente.

All’inizio la polizia ungherese sembrava “tranquilla” sebbene in assetto antisommossa. Poi manganellate sulle mani a chi si appoggiava al cancello. Alcuni scuotono la rete e partono gli spray urticanti. Qualcuno lancia dentro degli oggetti ed immediatamente lacrimogeni.

Inizia una mezz’ora di delirio, copertoni bruciati, dal lato ungherese si avvicina un camion-idrante che spara acqua, sale e urticante.

La polizia serba osserva senza agire, suggerisce solo di stare attenti. Tutto ad un tratto la polizia ungherese indietreggia e abbassa gli scudi, lo stesso fa il camion. I migranti si fermano e si avvicinano tranquilli al cancello, felici, applaudendo e urlando “thank you thank you“.

Si apre un varco nella rete, entra la prima persona, un ragazzo siriano con un megafono gestisce la situazione tenendo calme le persone. Lentamente iniziano ad entrare le persone, si avvicinano piano alla polizia ferma, che non reagisce. Gli uomini si fermano a metà (mentre altri aprono definitivamente il cancello verde e spostano le barriere antipanico), la gestione dei presenti da parte dei ragazzi davanti è perfetta: no caos, no agitazioni. A questo punto sembra fatta: il muro della fortezza Europa è caduto, si può passare, una donna con due bambini mi abbraccia, entrambe con le lacrime agli occhi. “Troppo facile“, penso. “Fanno passare avanti donne e bambini“. Ma no, donne bambini e giornalisti davanti, non può succedere niente“. Vedo tre persone dietro la polizia con la pettorina dell’UNHCR, trattano con polizia, qualche volontario e le prima donne arrivate davanti. E’ fatta, ne sono tutti sicuri. Due, tre o quattrocento persone confluiscono a ridosso della polizia. “Ora si spostano, ora si spostano.” Indietreggio per lasciare passare questo fiume di persone che sorride e piange di felicità. “Li fanno passare!”

E’ un attimo, un rumore, un urlo.. La polizia carica. Quanti sono? 50 o 100 poliziotti, caricano tutti, manganellano, il camion spara in aria lacrimogeni che cadono sulla gente che scappa verso la Serbia, fuga, paura negli occhi delle persone, bambini che urlano e piangono dal male che fa il gas. Bambini che sanguinano, donne disperate, giornalisti feriti. Panico, 10 minuti di puro panico. Le ambulanze serbe soccorrono i feriti.

Ma c’è qualcuno che non è riuscito a tornare indietro: la donna che ho abbracciato con i suoi figli non si vede, probabilmente è stata trattenuta e sicuramente non per fare richiesta asilo. Un padre ha perso il figlio (di cui abbiamo il documento). Temiamo che ci siano feriti gravi, dentro.

La domanda è: era tutto premeditato, vero? Perché li avete fatti entrare per poi caricarli così brutalmente? Perché?

Staffetta ‪#‎overthefortress‬, 17 settembre 2015

 

 

Fonte:

http://www.meltingpot.org/Post-dal-confine-serbo-ungherese-dopo-le-cariche-e-i-gas.html#.Vfs6MJerF6J

BARILI-BOMBA E OPPRESSIONE. DA COSA SCAPPANO I SIRIANI

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(di Amr Salahi, per Middle East Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). La scorsa settimana foto e video di rifugiati siriani disperati che giungono in Europa – o muoiono nel tentativo di farlo – sono stati tra le notizie di apertura dei media di tutto il mondo, ma ben poca enfasi è stata data alle cause della crisi e le voci dei rifugiati sono rimaste ampiamente inascoltate. La copertura mediatica è stata incline a ritrarre la crisi come una catastrofe naturale o a esagerare il ruolo che Daesh, altrimenti detta Stato islamico (Is), avrebbe svolto nel crearla.

Il conflitto in Siria viene ritratto sempre di più come un conflitto tra il regime del presidente Bashar al Asad e Daesh, con il primo dipinto come il minore tra i due mali. Le organizzazioni della società civile che ancora lavorano sul terreno – allo scoperto nelle zone controllate dalle forze dell’opposizione moderata, di nascosto in quelle controllate dal regime di Asad e da Daesh – sono ampiamente ignorate dai media e le voci dei rifugiati non sono ascoltate.

Uqba Fayyad, giornalista siriano della città di Qusair, nella provincia di Homs, dice che è stato costretto a fuggire dalla sua città-natale nel marzo 2013, appena prima che venisse invasa dalle forze del regime siriano e dai loro alleati di Hezbollah. Racconta che nel mese precedente alla caduta nelle mani del regime, centinaia di persone in questa città di 5.000 abitanti sono state uccise dagli attacchi aerei e via terra da parte del regime. Attacchi che includevano “barili-bomba, bombe a grappolo e napalm” e – racconta –  “poco prima che prendessero d’assalto la città, hanno usato bombe a vuoto in grado di risucchiare l’ossigeno di qualunque edificio, riducendolo in polvere nel giro di secondi”. Non ha avuto altra scelta che quella di fuggire.

“Per tre giorni – continua – abbiamo viaggiato attraverso i boschi senza cibo né acqua, portando sulle spalle i feriti, mentre le loro piaghe si infettavano. Siamo riusciti a raggiungere le città [controllate dall’opposizione] nella zona del Qalamun”. Tuttavia, non sono stati accolti con benevolenza: gli abitanti avevano visto la brutalità dell’assalto a Qusair e temevano che se avessero accolto gli sfollati, un destino simile sarebbe toccato anche a loro. Sono scoppiati scontri e Uqba e gli altri sono fuggiti ancora una volta, verso Arsal in Libano, dove sono stati soggetti a regole molto dure da parte delle autorità locali, incluso un coprifuoco dalle ore 18.00 in poi. Alla fine è riuscito a contattare il consolato svedese in Libano e ha ottenuto asilo in Svezia.

I siriani non scappano, però, solo dai bombardamenti del regime nelle zone controllate dall’opposizione. A volte, quando una zona viene catturata dalle forze di opposizione, alcuni abitanti fuggono in aree ancora sotto il controllo del regime. Di solito temono ciò che il regime potrebbe fare alle aree controllate dai ribelli, tra cui bombardamenti simili a quelli descritti da Uqba oppure – in zone circondate da territorio controllato dal regime – assedi prolungati che conducono alla morte per fame degli abitanti.

Muhammad Manla è un attivista siriano dell’opposizione rifugiato in Germania da quasi tre anni. È fuggito dal quartiere Salah ad Din di Aleppo quando è stato sottratto ai ribelli da parte delle forze del regime siriano nel luglio 2012, ed è arrivato nella parte occidentale di Aleppo, rimasta nella mani del regime. Salah ad Din è diventato poi uno dei luoghi più pericolosi del mondo quando il regime siriano l’ha colpito coi barili-bomba, insieme ad altri quartieri di Aleppo sotto il controllo dei ribelli.

Eppure, anziché trovare la sicurezza nel territorio del regime, ogni volta che Muhammad usciva, veniva fermato ai checkpoint e minacciato da soldati del regime e da agenti che lo accusavano di essere legato ai ribelli, solo perché sulla sua carta d’identità c’era scritto che era di un quartiere controllato dall’opposizione. Due mesi dopo è fuggito ancora una volta, in Egitto, e da lì in Germania.

A questi checkpoint e negli uffici governativi, la gente viene spesso rapita o arrestata in modo arbitrario. Un altro rifugiato della provincia nord di Aleppo controllata dall’opposizione – che preferisce restare anonimo – ha detto che suo padre, un uomo di 70 anni, è stato arrestato quando è andato a ritirare la pensione in un ufficio governativo nella parte occidentale di Aleppo. Accusato di essere un membro di Jabhat al Nusra, è stato tenuto in una cella di 2 metri per 1 metro e mezzo con altri sei prigionieri e picchiato. È stato rilasciato solo perché un amico di famiglia aveva contatti nei servizi di sicurezza.

Il fratello di Muhammad, studente all’università di Aleppo, lo ha raggiunto in Germania di recente dopo aver lasciato la Siria. Una legge approvata da poco ha reso obbligatorio per tutti gli studenti che si stanno laureando di unirsi all’esercito. La possibilità di coscrizione nelle file dell’esercito del regime siriano è un fattore importante che spinge i giovani uomini a lasciare il Paese. Si trovano a tutti gli effetti davanti alla scelta di combattere e forse morire per un regime cui molti di loro si oppongono, oppure intraprendere un pericoloso viaggio all’estero.

Muhammad è chiaro su quella che ritiene essere la soluzione al conflitto: “Una no-fly zone rafforzerebbe di nuovo la rivoluzione. Scuole e università potrebbero venire aperte in zone controllate dall’opposizione, cosa che impedirebbe ai giovani di venire influenzati dall’ideologia dittatoriale del regime e da quella estremista di Daesh. Permetterebbe anche ai ribelli di organizzarsi per combattere Daesh e il regime”.

Mentre le proposte di una no-fly zone suscitano polemiche negli Stati Uniti e in Europa, con molti politici che temono il coinvolgimento in una guerra in Medio Oriente, tra i siriani l’idea è accettata a un livello molto più ampio. La richiesta è stata ufficialmente avallata da Planet Syria, un gruppo di coordinamento composto da oltre 100 organizzazioni della società civile siriana, e dai Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione civile che lavora soprattutto nel salvataggio dei sopravvissuti agli attacchi coi barili-bomba del regime.

Il governo siriano ha il monopolio totale della forza aerea nel conflitto siriano. Gli attacchi aerei hanno causato oltre il 40% delle morti tra i civili verificate dal Centro per la documentazione delle violazioni (Vdc), organizzazione siriana che monitora il numero di civili morti e gli abusi dei diritti umani. L’arma aerea più comunemente usata è il barile-bomba. I barili-bomba sono mortali, indiscriminati e incessanti. Ne sono stati sganciati oltre 11 mila dall’inizio del 2015 e attivisti siriani mettono l’accento sul fatto che da allora il regime ha ucciso 7 volte più civili di quanti ne abbia uccisi Daesh. Pur trattandosi di un’arma molto semplice – barili di greggio senza guida riempiti di esplosivo e scarti metallici – sono comunque mortali, indiscriminati e incessanti.

Mentre gli analisti occidentali continuano a dare la propria interpretazione delle cause della crisi dei rifugiati siriani, con alcuni di loro che addossano la colpa all’estremismo di Daesh e altri che lanciano moniti sui pericoli di un intervento, un’immagine del tutto diversa della crisi emerge dalle storie dei rifugiati e dai dati raccolti da organizzazioni siriane che lavorano sul terreno. I responsabili delle politiche occidentali farebbero bene ad ascoltare ciò che i siriani raccontano su quanto sta accadendo nel loro Paese e sul perché lo stanno lasciando. (Middle East Monitor, 13 settembre 2015)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/barili-bomba-e-oppressione-le-radici-della-crisi-dei-rifugiati-siriani.html

Memorandum greco: privatizzazioni made in EU

Il Memorandum rivela il nuovo tentativo dell’UE di imporre la privatizzazione dell’acqua in Grecia.

L’obbligo di svendere € 50 miliardi di patrimonio pubblico è uno degli aspetti più controversi dell’ “accordo” che i paesi dell’Eurozona e la troika hanno costretto a firmare il governo greco durante “la notte della vergogna” di metà luglio.

I dettagli di ciò che esattamente la Grecia è tenuta a privatizzare sono ormai emersi con la fuoriuscita del “Protocollo d’intensa per un programma triennale dell’ESM (Meccanismo Europeo di Stabilità ndr)” preparato dal Fondo Monetario Internazionale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea [1]. Il documento trapelato elenca 23 beni dello Stato, che vanno dagli aeroporti alle aziende di pubblica utilità, e presenta passaggi e scadenze precise per la privatizzazione.

E’ scioccante che questo elenco comprenda due grandi aziende pubbliche dell’acqua: Atene Water Supply & Sewerage S. A. (EYDAP) e Salonicco Water Supply & Sewerage S. A. (EYATH), che forniscono acqua potabile per le due più grandi città del paese. La troika aveva insistito per la privatizzazione dell’acqua nel Memorandum precedente, ma una forte opposizione dell’opinione pubblica aveva bloccato la proposta.

Nel giugno 2014 il Consiglio di Stato, la più alta corte amministrativa del paese, aveva stabilito che il trasferimento di un pacchetto azionario di maggioranza dell’azienda dell’acqua pubblica di Atene EYDAP in mani private era incostituzionale, a causa della responsabilità dello Stato di proteggere “il diritto fondamentale dei cittadini alla salute” [2]. Il nuovo protocollo prevede la cessione dell’11% delle azioni EYDAP, che sembra poco rispetto al valore nominale, ma dato che il 38,7% delle azioni di EYDAP sono già di proprietà di aziende private e singoli, si lascerebbe il 49,7% dell’azienda di pubblica utilità in mani private.

Come a Salonicco dove un referendum non vincolante si è tenuto nel maggio 2014, con il 98% dei voti contro la privatizzazione dell’acqua. Questa iniziativa dei cittadini ha mobilitato 218,002 elettori e ha inviato un messaggio chiarissimo rifiutando la prevista cessione del 51% delle azioni Eyath a investitori privati (la Suez, multinazionale francese dell’acqua e la Merokot, aziende statale israeliana, avevano mostrato interesse). Il memorandum trapelato ordina ora la liquidazione del 23% delle azioni di proprietà dello Stato; sapendo che un altro 26% è già in mano ai privati, questo renderebbe la società al 49% privata.

In entrambi i casi, la troika chiede una svendita al massimo livello possibile, senza entrare in conflitto direttamente con la sentenza della Corte. George Archontopoulos, il presidente del sindacato dei lavoratori dell’azienda dell’acqua di Salonicco, teme che agli investitori privati “sarà dato il controllo della gestione in regalo”. Quindi “se si tratta del 49% o del 51%, ci opponiamo ad un’ulteriore privatizzazione della società”, dice Archontopoulos.

Giustamente perché ci sono numerosi esempi di cosiddetti partenariati pubblico-privato in cui le multinazionali dell’acqua possiedono poco meno della metà delle azioni, ma ne controllano la società de facto. Un esempio ironico è quello della capitale della Germania Berlino, che ha venduto il 49,9% della sua società dell’acqua (BWB) nel 1999. Nonostante la quota di minoranza, le società private controllavano la gestione e si erano garantiti alti profitti mediante contratti segreti. Nel 2013, l’acqua di Berlino è stata presa di nuovo in mano pubblica, dopo quasi 15 anni di privatizzazione impopolare. Come riportato dal The Guardian la settimana scorsa, la spinta da parte del governo tedesco e le istituzioni dell’UE a privatizzare l’acqua greca contraddice decisamente l’andamento del resto d’Europa, dove le città stanno “rimunicipalizzando” l’acqua dopo gli esperimenti falliti di privatizzazione. Il settore idrico della Germania è prevalentemente pubblico di proprietà e di gestione e la popolazione tedesca gode di servizi idrici di alta qualità forniti da queste aziende municipalizzate.

Già abbastanza danni sono stati fatti. Le aziende idriche pubbliche di Atene e Salonicco sono state quotate nella Borsa di Atene per quasi 15 anni. Da allora il numero di dipendenti a Salonicco è diminuito da 700 a 229. Si tratta veramente di un piccolo numero di lavoratori per una città di oltre un milione di abitanti e 2.330 km di rete idrica. In una città paragonabile come Amsterdam (1,3 milioni di abitanti e 2.700 km di rete), la società idrica pubblica impiega 1.700 dipendenti. Tagli simili ci sono stati anche ad Atene.

I servizi idrici sia di Atene che di Salonicco sono moderni e ben funzionanti e non c’è giustificazione logica per la privatizzazione. Nonostante la grave crisi sociale in Grecia, EYDAP e EYATH hanno fornito servizi essenziali e di alta qualità, a una delle tariffe più convenienti in Europa. Le aziende sono efficienti e hanno i conti in ordine.

L’insistenza della Troika per la privatizzazione è guidata da un’ideologia fuorviante. Prima di tutto, la vendita delle azioni delle aziende dell’acqua produrrà guadagni insignificanti se si considera il quadro generale.

Peggio ancora, consegnare il controllo di servizi essenziali a multinazionali private presenta gravi rischi per i più vulnerabili della popolazione greca colpita dalla crisi. L’imposizione testarda e aggressiva della privatizzazione va contro la volontà dei cittadini greci e rappresenta un attacco diretto alla democrazia. E’ scandaloso che la Commissione europea, una delle tre istituzioni che formano la Troika, ignori ancora una volta il suo obbligo derivante dal trattato UE di rimanere neutrale quando si tratta di proprietà dei servizi idrici. [3]

Traduzione: Vanessa Bilancetti

Pubblicato su: Corporate Europe Observatory

[1] Il documento è disponibile sul sito dell’europarlamentare Sven Giegold dei Verdi tedeschi: “Greece Memorandum of Understanding for a three year ESM programme” http://www.sven-giegold.de/wp-content/uploads/2015/08/MoU-draft-11-Augus… ANNEXES 1 HRDAF Asset Development Plan 30 July 2015 http://www.sven-giegold.de/wp-content/uploads/2015/08/Privatisation-Prog…

HRDAF Government Pending Actions 30 July 2015 http://www.sven-giegold.de/wp-content/uploads/2015/08/Government-Pending… The list of privatisation projects is in the first annex.

[2] La sentenza è accaduta dopo che il 27,3% delle azioni erano state trasferite al fondo di privatizzazione HRADF nel i gennaio 2014, per essere vendute agli investitori privati. La corte ha bloccato il previsto trasferimento di un altro 34,03% alla HRADF

[3] ¨EU Commission forces crisis-hit countries to privatise water ¨, October 17th 2012; http://corporateeurope.org/pressreleases/2012/eu-commission-forces-crisi…

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/memorandum-greco-privatizzazioni-made-in-eu

GRIDIAMO FORTE IL NOSTRO OXI EUROPEO

 

La bambina siriana uccisa e l’umanità sempre più rara

ratiocropNon sono le guerre, le dittature, la povertà che uccidono, gli assassini sono sempre gli uomini e spesso decidono di farlo con diabolica premeditazione. Avrebbe dovuto compiere 11 anni la bambina siriana che, insieme alla sua famiglia qualche giorno fa, era partita dall’Egitto per arrivare in Italia. Il viaggio era costato 3000 euro a persona, pensavano di partire su una nave da crociera e invece si sono ritrovati su una barca come sempre inadatta a percorrere lunghi tratti di mare e ad ospitare così tante persone. Le persone che si ritrovano a partire in queste condizioni non possono più tornare indietro, hanno pagato, sono diventate automaticamente merce degli scafisti, sono in loro potere, se si ribellano rischiano di essere ammazzate. La bambina aveva con sé uno zainetto con i suoi farmaci perché era diabetica, gli scafisti, nonostante le proteste dei familiari della piccola, le avevano gettato lo zainetto in mare. Qualche ora dopo la partenza la bambina era entrata in coma ed è morta fra le braccia della madre. Non so che nome avesse quella bambina, forse non lo saprò mai, il suo corpo è stato abbandonato in mare dopo la benedizione dell’Imam richiesta dalla sua famiglia. E’ stata uccisa dagli scafisti che non hanno mostrato nessuna pietà verso di lei, verso la sua famiglia e verso tutta la disperata umanità che cerca salvezza, è stata uccisa come migliaia di altri uomini, donne e bambini che sperano che un viaggio dall’altra parte del mediterraneo possa dare loro un futuro migliore. Il dolore della perdita di un bambino sembra non scalfire i cuori induriti, se non congelati, dalla macchina dell’odio che la propaganda fascio-leghista da tempo ha messo in moto nel nostro paese. Si leggono commenti terrificanti su questa vicenda, gli stessi che leggiamo ogni qualvolta si parla di migranti. Questa bambina viene ripetutamente uccisa dagli italiani che pensano che sia un bene che una persona in meno metta piede nel nostro paese. Questa bambina viene ripetutamente uccisa da chi non crede che la sua, e le altre storie della disperazione di chi fugge, siano vere. Questa bambina viene ripetutamente uccisa da chi dice che se potevano pagare 3000 euro per un viaggio allora potevano starsene a casa loro, fra le bombe, la mancanza di beni di prima necessità, perché i soldi li avevano. Questa bambina viene ripetutamente uccisa a Roma da chi manifesta contro i migranti a fianco di CasaPound. Questa bambina viene ripetutamente uccisa dai fascisti, e da chi li applaude, che ieri a Treviso hanno impedito al personale di una cooperativa di fornire del cibo ai migranti. Stiamo diventando un paese senza cuore, le difficoltà in cui versano alcuni nostri concittadini vengono sfruttate dalla propaganda dell’odio che cela il malcostume nostrano. Il cancelliere tedesco Angela Merkel qualche giorno fa aveva detto ad una bambina palestinese che non possiamo accogliere tutti, ma cosa ha fatto l’Europa per rimuovere le cause che portano milioni di persone in fuga dai loro paesi? Come fa fronte il nostro continente a questa ondata di disperazione? Ci si barcamena sulle cifre di migranti da accogliere nei vari paesi mentre alcune nazioni come l’Ungheria erigono muri per contrastare l’arrivo degl’immigrati. Restare umani è un impegno sempre più difficile quando ogni giorno nelle nostre televisioni personaggi come Matteo Salvini alimentano l’odio per lo straniero, quando ogni giorno vengono condivise notizie false sui migranti dai siti spazzatura. Fra qualche giorno, forse solo fra qualche ora, nessuno ricorderà più la notizia della bambina siriana uccisa dagli scafisti, arriveranno nuovi migranti con le loro tragedie, altri non riusciranno ad arrivare, la pietà sarà un sentimento sempre più raro.19 luglio 2015

Fonte:
http://www.articolo21.org/2015/07/la-bambina-siriana-uccisa-e-lumanita-sempre-piu-rata/

AD ATENE IL FRONTE DEL NO TORNA IN PIAZZA

A quanto pare, la Grecia, dopo aver vinto una battaglia, si prepara a perdere la guerra. A una settimana dalla vittoria referendaria, il governo greco di Alexis Tsipras cede al ricatto del gigante tedesco preparandosi a pesanti riforme in cambio di aiuti. Già da ieri il popolo greco è tornato a scendere in piazza per protestare contro questo accordo.  Forse il governo  greco sta tradendo il suo popolo o forse la Grecia è stata lasciata sola da parte di altri paesi europei che avrebbero potuto costituire una coalizione antitedesca, per esempio la Francia. Comunque sia il fronte del No all’austerity, del No alla troika si sta preparando per una mobilitazione europea prevista per domani, termine ultimo per l’approvazione delle riforme.
Staremo a vedere come il popolo greco e i solidali di tutta Europa faranno sentire la loro voce per un No alla resa.

D. Q.

 

  • 14 Lug 2015 12.34

Ad Atene il fronte del no torna in piazza

Il 13 luglio, dopo che Atene ha trovato un accordo con i creditori a Bruxelles, i cittadini sono tornati in piazza Syntagma per esprimere dissenso rispetto all’intesa. “L’Europa ci umilia”, hanno affermato i manifestanti che hanno criticato Alexis Tsipras per la sua decisione di firmare il piano.

Tra i partecipanti alla manifestazione il sindacato del pubblico impiego, Adedy, che ha indetto uno sciopero di 24 ore per il 15 luglio, quando il parlamento dovrà votare le nuove misure di austerità concordate con l’eurozona.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/video/2015/07/14/atene-proteste

 

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Cosa resta dell’Europa?

L’Eurosummit si chiude con la vendetta della Germania nei confronti di Atene. Entro mercoledì nuova tranche di riforme “lacrime e sangue” e poi via alle privatizzazioni in cambio degli aiuti economici. Dopo la trattativa di questa settimana molte cose non saranno più come prima

Dopo diciassette ore di trattative l’Eurosummit si è chiuso con un accordo che avrà probabilmente conseguenze devastanti. Un pacchetto di aiuti che si aggira tra gli 82 e gli 86 miliardi di euro verrà stanziato per un periodo di tre anni a favore della Grecia, se e solo se in questa settimana la Grecia approverà un pacchetto di riforme enormi. Perciò il parlamento di Atene è chiamato a votare entro il 15 luglio, cioè meno di tre giorni, su: la riforma delle pensioni, del fisco – comprensiva dell’innalzamento dell’IVA – l’autonomizzazione dell’istituto nazionale di statistica e la piena applicazione del Fiscal Compact, che prevede, tra le altre cose, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Entro il 22 luglio si dovrà riformare il codice civile e applicare pienamente la direttiva sulle crisi bancarie (Brrd).

Una volta approvate queste riforme e quindi ristabilita “la fiducia” dei creditori nei confronti del governo greco, l’Eurogruppo potrà dare il suo via libera per il Memorandum of Understanding, che dovrà essere votato in seguito, secondo le procedure dei singoli stati, da almeno sei parlamenti nazionali, tra cui – chiaramente – il parlamento tedesco. “Al fine di costituire la base per una conclusione di successo del protocollo d’intesa, l’offerta greca di misure di riforma deve essere seriamente rafforzata (…). Il governo greco deve formalmente impegnarsi a rafforzare le proprie proposte in un numero di aree identificate dalle Istituzioni”, con tempi chiari, obiettivi precisi, standard di riferimento e ispirandosi alle buone pratiche europee (traduzione nostra). Cosa bisogna “riformare”? E’ necessaria un’ “ambiziosa” riforma delle pensioni, una piena liberalizzazione del mercato dei beni e servizi (ex: farmacie, traghetti, aperture la domenica…), privatizzazione della compagnia elettrica, “una rigorosa revisione e modernizzazione del mercato del lavoro”, in particolare per ciò che riguarda la contrattazione collettiva e le misure industriali, rafforzare il sistema finanziario, eliminando qualsiasi possibilità di interferenza politica nel sistema bancario.

A queste riforme si aggiunge la costituzione di un fondo di 50 miliardi che si occuperà di gestire un massiccio processo di privatizzazione. Gli assets – o meglio i beni pubblici – considerati “valuables” verranno trasferiti a questo fondo che si occuperà di “monetizzarli” attraverso la loro vendita al migliore offerente. I fondi così ricavati verranno utilizzati per ripagare una parte del prestito triennale, per ammortizzare una parte del debito pubblico e per investimenti per far “ripartire l’economia”. Il fondo avrà sede in Grecia, e non in Lussemburgo come inizialmente previsto, e verrà gestito dalle istituzioni greche, sotto la supervisione delle Istituzioni europee. Ovviamente sono presenti minacciose clausole di salvaguardia, quali anche noi ben conosciamo.

Durante i negoziati la Grecia aveva costruito la propria linea di difesa attorno a quattro punti principali: il rifiuto della partecipazione dell’FMI al terzo programma di aiuti, l’opposizione al fondo per le privatizzazioni, la ristrutturazione del debito, la garanzia di liquidità alle banche. Soltanto sull’ultimo punto – stando al tenore delle dichiarazioni di queste ore – il governo greco sembra essere riuscito a strappare qualcosa, per il resto – a parte il trasferimento del fondo per le privatizzazioni dal Lussemburgo ad Atene – il governo Tsipras è stato costretto a capitolare. La stessa discussione attorno alla ristrutturazione del debito è presente nel testo dell’accordo in termini molto vaghi.

Durante il negoziato, come riporta questa infografica del Guardian di ieri, lo schieramento dei “falchi” dell’austerity, con a capo la Germania, ha portato fino in fondo il progetto ordoliberale europeo: o la Grexit o la capitolazione della Grecia. In entrambi i casi la Germania avrebbe vinto. I termini in cui si sono svolte le trattative e il contenuto stesso dell’accordo fanno emergere in piena luce un progetto di Europa costruito attorno a un blocco tedesco, forte di una maggioranza schiacciante all’interno dell’Eurosummit. La stessa proposta avanzata negli ultimi giorni dal ministro Schäuble sulla possibilità di una Grexit “a tempo” chiarisce la posizione della Grosse Koalition tedesca sul futuro dell’Europa. Se, come sosteneva Varoufakis nei scorsi giorni, l’eurozona è qualcosa di più di un’area a cambi fissi, ma è qualcosa di meno di uno entità statale, è altrettanto vero che il ricatto tedesco in questi giorni si è basato proprio sulla possibilità della Germania di aggredire i capitali ellenici in caso di uscita della Grecia dall’euro. Un’alternativa tra default e austerity che poteva essere rotta solo attraverso la costituzione di un fronte antitedesco al tavolo del negoziato, con la Francia in prima fila. Tutto ciò non è avvenuto e la scommessa di Tsipras sulla trattativa si è rivelata perdente.

Ora il parlamento greco dovrà votare questo pessimo accordo uscito dall’Eurosummit, lo scenario più probabile è che Syriza si divida e una parte voti contro, aprendo di fatto una crisi di governo cui potrebbe seguire la prospettiva di un governo di unità nazionale o addirittura le elezioni anticipate. In ogni caso, un’eventuale crisi di Syriza rappresenterebbe per la Merkel la ciliegina sulla torta. Diverso effetto, soprattutto in vista di elezioni anticipate e di un ricompattamento della sinistra radicale, potrebbe avere un clamoroso gesto di dimissioni di Tsipras al primo rilancio ricattatorio della trojka.

Di fatto sappiamo chi pagherà: i precari, i disoccupati, i lavoratori e un paese pauperizzato e umiliato. Non possiamo negarlo, questo accordo rappresenta una forte battuta di arresto alla possibilità di ridisegnare lo spazio europeo. Il potere economico tedesco ha utilizzato tutto il suo potere di ricatto, ma il più grande merito del governo greco è stato far emergere con forza esplosiva le contraddizioni dell’UE. La vittoria dell’#Oxi della scorsa domenica è stata innanzitutto l’apertura di uno spazio per riprendere in mano la decisione politica, ed è ancora questa la sfida che abbiamo di fronte: comprendere qual è lo spazio e la scala per poter tornare a decidere. In Grecia sono previste manifestazioni già oggi pomeriggio, mentre mercoledì è stato annunciato uno sciopero del settore pubblico, e sta circolando l’appello per una mobilitazione europea nei prossimi giorni. Lo spazio di mobilitazione sociale aperto dal referendum non è chiuso e chi ha votato “no” vuole rimanere in piedi. Su ciò che resta dell’Europa.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-resta-delleuropa

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