La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

ANKARA, TURCHIA: UN ENORME MASSACRO

Più di 100 vittime ad Ankara in seguito all’attentato di questa mattina. Ancora una volta un attacco alle esperienze curde di autonomia e alla pace.

10 / 10 / 2015

Ancora una volta la Turchia è scossa da un attentato. Questa mattina nel centro di Ankara sono esplose due bombe, a poca distanza l’una dall’altra, nelle vicinanze della stazione ferroviaria dove stava per aver inizio la Marcia per la Pace.

Questa marcia era stata indetta dal partito Hdp, insieme a sindacati di sinistra Disk e Kesk e dagli ordini degli ingegneri e dei medici, con l’obiettivo di chiedere il cessate il fuoco nel sud-est dell’Anatolia, dove da qualche mese sono ripresi i combattimenti tra forze di sicurezza turche e Pkk.

Come a Diyarbakir lo scorso giugno e a Suruç quest’estate, l’obiettivo degli attentatori è colpire la società civile, democratica e filo-curda, che vede in Erdogan e nel suo partito il principale oppositore al processo di pace. Lo afferma anche il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas : “Stiamo assistendo a un enorme massacro. Un atroce e barbaro attacco è stato compiuto”.

Il sabotaggio del processo di pace con il Pkk e la conseguente campagna di attacchi alle città curde del sud-est del Paese, in particolare rivolte verso quelle che come Cizre e Diyarbakir stessa hanno saputo concretizzare gli ideali di autonomia e autogoverno espressi nel confederalismo democratico, fanno parte di un piano molto più grande ideato da Erdogan stesso, teso a gettare il paese nel caos in vista delle prossime elezioni del 1 Novembre, dove si presenterebbe come il canditato forte e l’unico in grado di riportare l’ordine in Turchia. A questo caos si aggiunge la forte repressione nei confronti della stampa che si scaglia contro il regime di Erdogan e che cerca in tutti i modi di rompere la cortina di censura creata dal suo governo e che anche in questo caso si potrebbe ripercuotere sulle indagini avviate a seguito dell’attentato.

Ad Ankara rimangono sull’asfalto oltre 100 innocenti vite e tanti altri feriti, in un attentato che come i precedenti non è stato rivendicato e, tutt’ora, non se ne conoscono le modalità. Ma è ancora  più chiaro che la polizia e le forze di sicurezza sono corresponsabili per il fatto che non garantiscono la sicurezza dei manifestanti. Infatti, in seguito all’attentato una parte della folla si è scagliata contro la polizia, accorsa in tenuta antisommossa, colpevole appunto di non aver garantito la sicurezza della Marcia per la Pace. In seguito sono stati sparati anche alcuni colpi di arma da fuoco e lanciati lacrimogeni per disperdere i manifestanti.

Nel frattempo tutte le altre manifestazioni politiche nel paese sono state annullate e a chi stava raggiungendo la città di Ankara è stato chiesto di tornare indietro per paura di altri attentati.

In attesa di ulteriori notizie e rivendicazioni, ci stringiamo ancora una volta attorno a chi combatte per la pace. Her Biji Kurdistan!

 

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/stiamo-assistendo-a-un-enorme-massacro/19476

SIRIA: NESSUN HASHTAG PER CHI SPARISCE

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)

(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-il-massacro-che-non-avra-un-hashtag.html

POST DAL CONFINE SERBO-UNGHERESE DOPO LE CARICHE E I GAS CONTRO I MIGRANTI

Pubblichiamo questo post scritto da Valentina un’attivista della staffetta #overthefortress

Quello che abbiamo visto ieri al confine serbo-ungherese è sicuramente una delle cose più angosciati e vergognose che possano capitare alle porte dell’Europa fortezza.

Da mezzanotte di lunedì migliaia di persone sono confluite in questo punto del confine, memori dei giorni precedenti in cui si riusciva ancora a passare in Ungheria e la Merkel dichiarava di accogliere tutti. Le informazioni che il confine si stava fortificando arrivavano anche a loro, ma nessuno credeva sino in fondo che la militarizzazione sarebbe stata così spinta. Due giorni fermi lì, quindi, in piedi davanti al cancello, urlando “open the door open the door we want freedom thank you Germany“, ma niente.

All’inizio la polizia ungherese sembrava “tranquilla” sebbene in assetto antisommossa. Poi manganellate sulle mani a chi si appoggiava al cancello. Alcuni scuotono la rete e partono gli spray urticanti. Qualcuno lancia dentro degli oggetti ed immediatamente lacrimogeni.

Inizia una mezz’ora di delirio, copertoni bruciati, dal lato ungherese si avvicina un camion-idrante che spara acqua, sale e urticante.

La polizia serba osserva senza agire, suggerisce solo di stare attenti. Tutto ad un tratto la polizia ungherese indietreggia e abbassa gli scudi, lo stesso fa il camion. I migranti si fermano e si avvicinano tranquilli al cancello, felici, applaudendo e urlando “thank you thank you“.

Si apre un varco nella rete, entra la prima persona, un ragazzo siriano con un megafono gestisce la situazione tenendo calme le persone. Lentamente iniziano ad entrare le persone, si avvicinano piano alla polizia ferma, che non reagisce. Gli uomini si fermano a metà (mentre altri aprono definitivamente il cancello verde e spostano le barriere antipanico), la gestione dei presenti da parte dei ragazzi davanti è perfetta: no caos, no agitazioni. A questo punto sembra fatta: il muro della fortezza Europa è caduto, si può passare, una donna con due bambini mi abbraccia, entrambe con le lacrime agli occhi. “Troppo facile“, penso. “Fanno passare avanti donne e bambini“. Ma no, donne bambini e giornalisti davanti, non può succedere niente“. Vedo tre persone dietro la polizia con la pettorina dell’UNHCR, trattano con polizia, qualche volontario e le prima donne arrivate davanti. E’ fatta, ne sono tutti sicuri. Due, tre o quattrocento persone confluiscono a ridosso della polizia. “Ora si spostano, ora si spostano.” Indietreggio per lasciare passare questo fiume di persone che sorride e piange di felicità. “Li fanno passare!”

E’ un attimo, un rumore, un urlo.. La polizia carica. Quanti sono? 50 o 100 poliziotti, caricano tutti, manganellano, il camion spara in aria lacrimogeni che cadono sulla gente che scappa verso la Serbia, fuga, paura negli occhi delle persone, bambini che urlano e piangono dal male che fa il gas. Bambini che sanguinano, donne disperate, giornalisti feriti. Panico, 10 minuti di puro panico. Le ambulanze serbe soccorrono i feriti.

Ma c’è qualcuno che non è riuscito a tornare indietro: la donna che ho abbracciato con i suoi figli non si vede, probabilmente è stata trattenuta e sicuramente non per fare richiesta asilo. Un padre ha perso il figlio (di cui abbiamo il documento). Temiamo che ci siano feriti gravi, dentro.

La domanda è: era tutto premeditato, vero? Perché li avete fatti entrare per poi caricarli così brutalmente? Perché?

Staffetta ‪#‎overthefortress‬, 17 settembre 2015

 

 

Fonte:

http://www.meltingpot.org/Post-dal-confine-serbo-ungherese-dopo-le-cariche-e-i-gas.html#.Vfs6MJerF6J

IL LIBANO SCENDE IN PIAZZA. CHE SUCCEDE NEL PAESE DEI CEDRI?

La fine del mese di agosto ha visto l’accendersi di un forte movimento di protesta in Libano. In migliaia sono scesi in piazza a Beirut per protestare contro il mancato intervento delle autorità nello smaltimento dei rifiuti, allo stesso tempo contestando anche la corruzione e l’immobilità della classe politica del paese. Di seguito l’intervista ad Elia El Khazen, 29 anni, attivista del “Socialist Forum” di Beirut.

 

Quali sono i motivi che hanno portato recentemente tante persone a manifestare a Beirut? Come è nata la protesta che scoppiata nella capitale del Libano? Quali gli slogan ed i claims di chi è sceso in strada a far sentire la sua voce?

Dalla fine del mese di luglio, si stanno verificando proteste in Libano contro il fallimento del governo, per concordare un nuovo contratto per lo smaltimento dei rifiuti e il conseguente accumulo di rifiuti per strada . Alcune di queste proteste hanno avuto luogo spontaneamente nei quartieri più poveri, dove a partire dal 1998, il governo ha designato che la spazzatura di Beirut e del Monte Libano fosse destinata in una discarica a sud di Beirut (Naameh), e alcune proteste sono state organizzate dagli attivisti dei social media utilizzando l’hashtag ‘YouStink’ – “Puzzate”. Le manifestazioni hanno raggiunto uno dei punti più alti della storia contemporanea nella giornata di sabato 29 agosto, con decine di migliaia di persone – alcune stime dicono fino a 100.000 – convergenti per protestare contro entrambi i poli della classe dirigente. Il 29 agosto si è anche contestata, tra le altre cose, la violenza di stato che si è verificata in un modo senza precedenti nella manifestazione del 22 agosto e nelle altre proteste seguenti. Le richieste dei manifestanti variano tra il comunicato ufficiale degli organizzatori del movimento “YouStink” che chiedono un programma riformista esigendo impegni di responsabilità sul tema della repressione di stato e reclamando le dimissioni sia del ministro dell’ambiente e della sicurezza interna; inoltre viene richiesto il decentramento del riciclaggio dei rifiuti da parte del comune di Beirut e la richiesta di elezioni parlamentari. Le richieste delle parti della società più radicali e rivoluzionarie fanno leva lotte di carattere sociale per abbattare il regime nel suo complesso, richiamandosi all’idea della costituzione di comitati popolari ovunque per rovesciare l’attuale regime settario. Questi movimenti più radicali chiedono anche la creazione di una società laica e statale, lo scioglimento del parlamento, elezioni immediate sulla base di una non settaria proporzionale rappresentanza.

 

Qual è stato il livello di repressione di questa protesta da parte delle forze dell’ordine?

Il 22 agosto, la polizia antisommossa ed i soldati hanno usato i manganelli, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e anche proiettili veri contro migliaia di manifestanti che si erano riuniti nel centro di Beirut. La retorica che ha preceduto questa oppressione da parte dello Stato era quella avviata dagli organizzatori di “YouStink”, i quali all’inizio delle proteste avevano etichettato una considerevole porzione di altri manifestanti come “infiltrati” e “provocatori”: questo ha dato carta bianca a qualsiasi repressione che sarebbe seguita. Fortunatamente la maggior parte dei manifestanti ha riggettato l’etichetta di “infiltrati” e contrapposto il tentativo di dividere il movimento tra quello di un “pacifico” corteo della società civile in piazza Martyr e quello degli “infiltrati violenti” nella piazza Riad el Solh, gridando slogan come “siamo TUTTI infiltrati, non abbiamo bisogno di attivisti benpensanti per etichettarci “- indossando queste parole sulle magliette e dipingendole sui muri. Per quanto riguarda i numeri della repressione, più di 24 persone sono ancora detenute, 7 dei quali sono minorenni…

 

Il Libano è situate nel cuore del medio – oriente, confinante con la Siria ed Israele. Qual è stata l’influenza della crisi Siriana? Quali i rapporti con Israele oggi?

Libano è stata enormemente influenzata dai suoi vicini ed è a sua volta restituito il favore. In primo luogo, Israele ha invaso il Libano innumerevoli volte da quando quest’ultimo ha proclamato l’indipendenza, creando pretesti per invasioni vuoti e senza senso, commettendo genocidi e bombardando molti villaggi e città, distruggendo le infrastrutture ed uccidendo i civili. L’aggressione di Israele del 2006 è stato uno degli ultimi esempi di continue violazioni di Israele che ha interessato gran parte delle infrastrutture e la capacità di stare in piedi sulle proprie gambe del Libano, questo senza togliere la presenza nel paese di una classe politica corrotta, nei suoi due poli, che ha governato Libano dalla fine della guerra civile. Due poli politici che hanno fallito miseramente nel fornire il più fondamentali dei servizi alle persone che risiedono in Libano, al contrario entrambi i poli hanno presieduto la continuazione delle politiche neoliberiste e la protezione perpetua del settore bancario che detiene oltre il 60 % del debito pubblico. Per quanto riguarda il regime siriano, è stato intrinsecamente legato alla classe dirigente libanese sin dalla sua occupazione del Libano nel 1976. Con l’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, Hezbollah è stato coinvolto nel salvataggio del regime siriano al fine di evitare che collassasse completamente. Dal 2012 questo a sua volta ha polarizzato la scena politica in Libano e fatto si da mettere la difesa del regime come unica ragion d’essere di Hezbollah, politica perseguita dalla sconfitta contro Israele nel 2006. Con l’escalation delle politiche neoliberiste negli ultimi anni attraverso le privatizzazioni ed i tagli sulle prestazioni dei lavoratori, molte sezioni della popolazione libanese usate per supportare Hezbollah stanno mettendo in discussione la loro fedeltà e riconsiderano se vale ancora la pena e se è ancora una priorità che i loro figli della classe operaia sono inviati a morire in Siria inutilmente mentre la loro classe dirigente sta al caldo nelle loro case, mentre la popolazione ha una molto limitata accesso ad acqua, elettricità e altri servizi di base. Il 29 agosto la manifestazione ha visto il più grande afflusso di settori della classe operaia che soffrono di più dalla crisi gestione dei rifiuti e altre crisi da entrambi i sobborghi di Beirut e nelle aree rurali con organizzazioni locali alle loro prime fasi. Nella parte Siriana i profughi sono quelli che stanno scoprendo il più il peso della crisi della gestione dei rifiuti e altre crisi socio-economiche, ma sono purtroppo esclusi da qualsiasi protesta o manifestazione per i loro diritti più elementari, dato che lo stato libanese ha fatto si da negare loro sia fisicamente che ideologicamente ogni possibilità di organizzazione collettiva o di sindacalizzazione.

 

Cos’è il Forum Socialista? Quali le sue prospettive politiche?

Il Forum Socialista è un’organizzazione socialista rivoluzionaria in Libano. E’ emerso tra i due gruppi di sinistra radicale nel 2010. Ma ciascuno di questi gruppi ha una storia: uno di loro è iniziato nel 2000 e l’altra nel 1970. Fondamentalmente nel Forum Socialista abbiamo due pubblicazioni. Uno di loro è un quotidiano una piattaforma online quotidiana di nome “Al-Man –Hour”. L’altro è una rivista periodica araba che viene pubblicata due volte l’anno come un libro, prodotta da gruppi proveniente da Egitto, Siria, Tunisia, Marocco e Iraq. Il suo nome è “Thawra Daima” e si traduce in “Rivoluzione permanente”, un motto trozkista. I nostri gruppi hanno tenuto posizioni di sostegno alle rivolte arabe e le rivolte in tutto il mondo. Vediamo che la situazione attuale richiede una posizione che faccia da bussola nella realtà sulla questione della resistenza al capitalismo e la resistenza contro la dittatura, insieme con e per la democrazia progressista. Il forum Socialista è anche un ente fondatore del “Shaab Al youreed”, movimento formato in seguito alla protesta del 22 agosto scorso prima citata. Questo movimento raggruppa studenti, femministe radicali, attivisti di sinistra ed indipendenti sotto la bandiera di un movimento e si propone di elevare la discussione politica a una visione più strutturale della crisi in corso, facendo un collegamento di altre lotte tra loro. La nostra strategia è quella di andare verso la formazione di un partito politico, un partito rivoluzionario in Libano.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/il-libano-scende-in-piazza-che-succede-nel-paese-dei-cedri

 

UN ALTRO GIORNO DI LOTTA AI CONFINI INTERNI DELLA FORTEZZA EUROPA

 

La repressione delle autorità europee contro i migranti si intensifica ovunque, e nello stesso tempo crescono le lotte per opporsi al regime dei controlli e delle frontiere.
Una breve panoramica sulle ultime 24 ore.

Ungheria

A Bicske, a 40 km da Budapest, la maggior parte migranti che erano stati fatti salire con l’inganno, facendogli credere di essere diretti in Germania, ma destinati ad un centro identificazione, hanno resistito alla deportazione e la protesta continua tuttora. Oltre alla segregazione nei centri, rifiutano anche acqua e cibo: tutto quel che vogliono è poter lasciare il paese.

Ungheria: i migranti in protesta a Bicske

Nel centro identificazione , sempre a Bicske, i migranti stamattina sono fuggiti.

Ungheria: i migranti in fuga dal centro identificazione di Bicske

A Budapest, mille persone migranti bloccate alla stazione di Keleti hanno intrapreso stamattina una marcia per raggiungere l’Austria a piedi.

#Ungheria La marcia dei migranti a Budapest, per lasciare il paese

Nel centro di detenzione di Roszke , al confine con la Serbia, stamattina centinaia di persone recluse sono riuscite a scappare. E’ intervenuta la polizia antisommossa con lacrimogeni e spray urticanti.

#Ungheria la fuga dal centro detenzione e la repressione a Röszke

Grecia

Nel centro di detenzione di Amygdaleza, vicino ad Atene, i migranti reclusi hanno cominciato ieri sera uno sciopero della fame. Le condizioni del centro, rimasto aperto malgrado le promesse governative, sono rimaste disastrose, il cibo è pessimo e manca l’assistenza sanitaria.

Nell’isola di Kos ieri sera i migranti sono stati attaccati e picchiati da un gruppo di fascisti, e ciò è avvenuto davanti alla stazione di polizia, senza che questa muovesse un dito. Ne è seguita una protesta e un blocco stradale dei migranti per lasciare l’isola, questa volta la polizia ha caricato e lanciato gas lacrimogeni sui migranti e i solidali.

Grecia: Cariche della polizia contro i migranti

Nell’isola di Lesbo un migliaio dei diecimila e più migranti presenti hanno protestato e provato a imbarcarsi su una nave diretta ad Atene: anche in questo caso la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni, sgomberando la zona del porto.

Francia

A Calais ieri sera presidio dei migranti, che hanno rifiutato di entrare nel ghetto di Jules Ferry, uno pseudo centro accoglienza creato dalle autorità . Rifiutano l’assistenza umanitaria, il cibo e l’acqua erogati dal centro di distribuzione Salaam e vogliono libertà di movimento.

Francia: la protesta dei migranti a Calais

Italia

Ieri protesta dei migranti dei centri accoglienza davanti al Municipio di Taranto, per chiedere documenti d’identità per tutti e l’elargizione dei pocket money.

Taranto, presidio davanti al municipio

Oggi a Foggia manifestazione dei lavoratori agricoli migranti e dei solidali per rivendicare permessi di soggiorno, residenza, rispetto dei minimi contrattuali, casa acqua e trasporto gratuiti per tutti.

Domani 5 settembre a Roma, presidio in solidarietà ai/alle reclusi nel CIE di Ponte Galeria.

5settembrePonteGaleria

Fonte:
http://hurriya.noblogs.org/post/2015/09/04/un-altro-giorno-di-lotta-ai-confini-interni-della-fortezza-europa/

KURDISTAN: AGGIORNAMENTI AL 4° GIORNO DALL’INIZIO DELL’ATTACCO TURCO

Articoli tratti da http://www.uikionlus.com/
Sirrin e’ Liberato !

Sirrin e’ Liberato !

Dopo 27 giorni di combattimenti, YPG/YPJ/Burkan Al Firat hanno liberato l’importante e strategica città di ‪#‎Sarrin‬ a sud di Kobane. Segnalati ancora scontri a fuoco. Purtroppo s …

YPG: l’esercito turco attacca postazioni delle YPG e del FSA vicino a Kobane

YPG: l’esercito turco attacca postazioni delle YPG e del FSA vicino a Kobane

l Comando generale delle YPG ha rilasciato una dichiarazione che denuncia l’attacco da parte dell’esercito turco contro le postazioni della Unità di difesa del popolo (YPG) e dell’ …

Il DBP chiede di protestare contro gli attacchi politici e militari

Il DBP chiede di protestare contro gli attacchi politici e militari

Il Partito democratico delle regioni (BDP) ha inviato una comunicazione ai consigli dei giovani e delle donne,ai co-presidenti dei distretti e delle città,agli amministratori local …

La polizia uccide un giovane a Nusaybin

La polizia uccide un giovane a Nusaybin

I giovani che sono scesi in strada a Nusaybin,distretto di Mardin, per protestare contro gli attacchi aerei turchi contro la zona di difesa della Medya controllata dalla guerriglia …

Comunicato congiunto di emergenza dei partiti curdi

Comunicato congiunto di emergenza dei partiti curdi

I co-presidenti dell’HDP (Partito democratico dei popoli),del DBP (Partito democratico delle regioni,ex BDP),dell’ HDK (Congresso democratico dei popoli) e del DTK (Congresso democ …

3° giorno di operazioni dello Stato Turco

3° giorno di operazioni delle forze speciali Turche nella guerra lanciata da Erdogan contro i Curdi ed il PKK: gli arresti salgono a 618 persone, di cui 518 sono Curdi e militanti …

KCK: La resistenza deve immediatamente aumentare

KCK: La resistenza deve immediatamente aumentare

La co-presidenza del Consiglio Esecutivo del KCK in una dichiarazione scritta prende posizione sugli attacchi aerei dell’esercito turco: “Alla fine del 2012 è iniziata di fatto una …

Erdogan all’attacco, In casa e fuori

Erdogan all’attacco, In casa e fuori

July 26, 2015

PALESTINA: L’ATTIVISTA ITALIANA SAMANTHA COMIZZOLI FERITA DA RUBBER BULLETS

Samantha

Attivista  italiana ferita dai soldati israeliani durante una manifestazione per i 67 anni dalla Nakba

 

Samantha Comizzoli, attivista per i diritti umani (e di tutti gli esseri viventi), oggi è stata ferita dai soldati Israeliani durante una manifestazione per i 67 anni dalla Nakba al checkpoint di Howara, come quella che si è svolta ieri,  ad Ofer (Ramallah), durante la quale ha documentato l’attacco dei soldati israeliani al villaggio di Betunia ed al gruppo di giornalisti.

Da quanto racconta Samantha si trovava con altri manifestanti al checkpoint di Howara, per marciare per la Nakba. “Stavo semplicemente camminando verso il checkpoint con le braccia aperte”, scrive sul suo profilo FB, “quando hanno iniziato a sparare le sound bomb ed i gas NON mi sono spostata. Hanno piazzato il cecchino e, sempre cno le braccia aperte, mi muovevo veloce orizzontalmente per fare da scudo agli shebab [i giovani attivisti, ndr]. Essendo donna ed internazionale pensavo fermasse il cecchino che, invece, mi ha sparato due rubber bullet e ha sparato un’altra rubber bullet a Nidal che stava fotografando”.
Ancora una volta ci corre l’obbligo di ricordare che chi è disposto a fare da scudo umano non necessariamente autorizza il nemico a trasformarlo in un bersaglio. Ma vallo a spiegare a quei vigliacchi in divisa….

Samantha è stata colpita da due rubber bullet, ad un braccio e al seno, si trova in ospedale e speriamo di avere al più presto buone notizie. Qui i suoi ultimi messaggi su Twitter.

 

Qui una foto di una delle ferite riportate:

FeritaBraccio

Nel mese di aprile è iniziato il tour italiano del suo secondo documentario, “israele, il cancro”, proiettato anche a Torino in una sala piena presso la Cascina Roccafranca, con un collegamento via Skype con Samantha e con uno dei protagonisti ai quali il Consolato italiano ha negato il visto per il tour italiano del docufilm.

Tutta la nostra solidarietà a Samantha Comizzoli, vediamo se il consolato così attento a selezionare i visitatori palestinesi sarà altrettanto solerte nell’agire per tutelare la vita degli attivisti italiani.

Aggiornamento ore 14:20 – Scrive Samantha Comizzoli sul suo profilo FB: “sono a casa, non è nulla di grave, ovviamente fa male. no posso pubblicare le foto ora perchè mi hanno fatto delle medicazioni che devo tenere per 3 ore ed anche perchè ho bisogno di riposare. a dopo…scusate se non sto su fb ora e grazie a tutti per i messaggi. un abbraccio.”

Per capire di cosa stiamo parlando, questo è un RUBBER BULLET:

RubberBullet

 

 

 

 

 

 

 

 

Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/palestina-samantha-comizzoli-attivista-e-regista-di-due-documentari-ferita-da-rubber-bullet/

 

BAHRAIN: PROTESTE PER ANNIVERSARIO RIVOLTA

 

(Agenzie). La capitale del Bahrein, Manama, è stata teatro di nuove proteste e scontri proprio in occasione del quarto anniversario della rivolta contro la monarchia.

I manifestanti hanno bruciato pneumatici e usato bidoni della spazzatura e rami per bloccare le strade. La polizia a sua volta è intervenuta lanciando gas lacrimogeni e proiettili di gomma, proprio mentre la folla gridava alle riforme.

Amnesty International ha esortato il governo del Bahrain a fermare il dispiego delle forze di sicurezza e a “cogliere l’opportunità del quarto anniversario della rivolta per annunciare riforme vere e durature”.

 

 

Fonte:

http://arabpress.eu/bahrein-proteste-per-anniversario-rivolta/57227/

Ennesimo massacro in Egitto: uccisi almeno 30 ultras del Zamalek

9 / 2 / 2015

Un altro giorno di “ordinaria repressione” nel regime del generale Sisi: sono almeno 30 gli Ultras White Knights (tifoseria della squadra cairota Zamalek) rimasti uccisi negli scontri con la polizia all’esterno dello Stadio dell’Aeronautica al Cairo, di proprietà dell’esercito egiziano. Secondo le notizie disponibili, i disordini sono cominciati quando gli ultras hanno tentato di “espropriare” lo spettacolo scavalcando e forzando gli ingressi con l’ausilio di bastoni e spranghe. I decessi sarebbero stati causati dal soffocamento provocato dall’uso sconsiderato di lacrimogeni e pallini, e dal conseguente accalcarsi dei giovani in fuga. Non è ancora chiaro se la polizia abbia usato proiettili di piombo o meno. Quasi tutte le vittime avevano tra i 17 e i 23 anni. Nonostante la tragedia, la partita non è stata interrotta. L’unico giocatore che si è rifiutato di proseguire – Omar Gaber – è stato sospeso dal suo stesso club. Nel frattempo i vari lacchè di corte stanno facendo a gara per discolpare lo stato, dal presidente del Zamalek – che ha attribuito la colpa degli omicidi ai Fratelli Musulmani per poi aggiungere che gli ultras sono criminali intenzionati a danneggiare la nazione – agli onesti cittadini fedelissimi del generale – che sostengono su internet che chi vuole entrare senza biglietto merita di morire.

Gli ultras sono stati una delle principali forze di strada della rivoluzione, uno dei pochi gruppi in grado di organizzare in modo durevole i giovani dei quartieri più emarginati. In seguito all’insurrezione del 2011, i due rivali storici del Cairo – la tifoseria dell’Ahly e quella del Zamalek – avevano messo da parte le rivalità per concentrarsi nella lotta contro lo stato di polizia, che tentava di ripristinare il proprio potere e la propria impunità nell’uccidere e torturare. Non a caso, il massacro di Port Said dell’1 febbraio 2012 è visto come la prima grande vendetta della polizia egiziana sugli ultras. In quell’occasione, un gruppo di ultras El Masry attaccò la tifoseria dell’Ahly, nota appunto per la sua militanza anti-regime, facendo 72 morti. Le uscite da cui gli ultras Ahly avrebbero potuto fuggire erano state precedentemente saldate e la polizia si limitò a osservare la carneficina bloccando le altre uscite. In molti sostengono che il massacro sia stato organizzato da notabili del vecchio regime in collaborazione con la polizia. Dopo le rivolte scatenatesi nei giorni successivi, le partite furono chiuse al pubblico e l’accesso era stato ripristinato solo di recente.

Ma nonostante la pausa forzata, gli ultras sembrano avere ancora le idee piuttosto chiare. “Abbasso lo stato” recita il post della pagina FB degli UAW che accompagna la foto degli scontri. E fuori dall’obitorio il lavaggio del cervello propinato alle tv di stato non fa affatto presa: tutti sanno che gli assassini sono la polizia egiziana e il regime di Sisi.

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/ennesimo-massacro-in-egitto-uccisi-almeno-30-ultras-del-zamalek/18674

 

 

Sulla strage di Port Said leggere qui:

http://osservatorioiraq.it/approfondimenti/egitto-i-fantasmi-di-port-said