Un documentario sull’asessualità

Tra pochi minuti sul canale Cielo.

 

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Stasera su Cielo va in onda alle 23.15 il documentario “Asex – Liberi di non farlo”, dedicato all’asessualità (noi ne avevamo parlato qui: http://bit.ly/2sfUvzk). Ieri la Gazzetta di Parma ha pubblicato un’intervista alla regista Eleonora Soresini e su Facebook le è arrivata una marea di insulti, tra cui: “Ma chi ti scopa”, “Con quella faccia chi ti si ficca”, “Malata di mente”. Ecco la risposta di Eleonora: “Le persone asessuali e le persone lgbtqia provano questo genere di discriminazione sulla loro pelle ogni giorno. L’ignoranza, unitamente all’intolleranza, genera odio. Quello che possiamo fare noi è metterci la faccia e non aver paura di dire a tutti chi siamo”. Grazie Eleonora per il tuo esempio! #SiamoTuttiAsessuali

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Pedofilia, premiato il docufilm italiano che inguaia papa Bergoglio

«Una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza; divieto di qualsiasi contatto con i minori; assidua sorveglianza da parte di responsabili individuati dal vescovo di Verona». È la pena più pesante inflitta ai sacerdoti pedofili protagonisti di una delle più agghiaccianti vicende di violenza su minori compiuti in ambito ecclesiastico mai emerse in Italia: gli stupri di decine di ospiti dell’Istituto per bambini sordomuti A. Provolo di Verona, perpetrati lungo tutta la seconda metà del secolo scorso. Uno dei destinatari di questo «precetto penale» comminato dalla Santa Sede è don Eligio Piccoli, come si legge nella lettera (di cui Left è in possesso) che fu inviata il 24 novembre 2012 dal presidente del Tribunale ecclesiastico di Verona, monsignor Giampietro Mazzoni, all’avvocato delle vittime riunite nell’associazione sordi Provolo. Per le violenze compiute nell’istituto, nel quale era educatore, Piccoli era stato riconosciuto colpevole al termine di una inchiesta indipendente affidata dalla Santa Sede a un magistrato “laico”, Mario Sannite. Si trattava in quel momento, nel 2012, dell’unica inchiesta mai avvenuta sul Provolo. A causa della prescrizione la magistratura italiana non era potuta intervenire. Come i nostri lettori sanno, all’epoca raccontammo questa storia su Left (aggiornandola successivamente diverse volte). Era l’ennesima puntata di una vicenda iniziata nel 2009 quando alcune delle vittime ormai adulte resero pubbliche le violenze subite, dopo aver preso coraggio sulla scia di situazioni analoghe accadute in tutta Europa (Irlanda, Olanda, Belgio, Inghilterra, Germania etc).Oggi si torna a parlare nuovamente di don Eligio Piccoli in occasione dei “DIG Awards 2017”, i premi internazionali per le migliori inchieste e reportage video della scorsa stagione. È lui infatti il protagonista de Il caso Provolo, l’inchiesta realizzata da Sacha Biazzo per Fanpage.it che ha vinto il primo premio della sezione “Short”. Il docufilm di Biazzo dura circa 15 minuti e don Piccoli da un letto di ospedale conferma al bravo giornalista quanto emerse dall’inchiesta di Sannite parlando di almeno 10 preti coinvolti e confessando di aver abusato. Come è noto, molti preti della lista presentata dall’associazione Sordi Provolo al magistrato incaricato dalla Santa Sede oggi sono morti, alcuni sono stati trasferiti in Argentina e altri – come don Piccoli e don Pernigotti per citarne un paio – sono ancora in vita.

Riassumiamo in breve la storia. Le accuse formulate da 67 giovani ospiti dell’Istituto sin dalla metà degli anni 80 e inascoltate per quasi 30 anni, riguardavano 25 persone tra sacerdoti e fratelli laici. Al termine dell’indagine nel 2012 Sannite ravvisò elementi di colpevolezza solo per tre di loro: don Piccoli, don Danilo Corradi e frate Lino Gugole. Per Corradi le accuse «non risultano provate», ma «stante il dubbio», la Santa Sede formulò nei suoi confronti un’ammonizione canonica, vale a dire «una stretta vigilanza da parte dei responsabili dei suoi comportamenti». Corradi (come del resto don Piccoli) è pertanto rimasto prete ed è finito sotto il controllo di chi per anni aveva ignorato le accuse nei suoi confronti. Ancor più sconcertante, se possibile, il paragrafo relativo al terzo uomo.

«Gugole – si legge nel testo della Santa sede – è affetto da una grave forma di alzheimer che lo rende del tutto incapace di intendere e di volere. È ricoverato in una casa di riposo presso l’ospedale di Negrar. Nessun provvedimento, stante la sua condizione, è stato preso nei suoi confronti». In realtà sarebbe stato difficile anche solo recapitargli di persona un telegramma, poiché, come mi raccontò nel 2013 il portavoce dell’associazione, Marco Lodi Rizzini, «Lino Gugole è morto nel 2011, con tanto di necrologi pubblicati sui giornali locali e i gazzettini parrocchiali». Cioè un anno prima della “sentenza”.

Riguardo gli altri accusati la Santa Sede liquidò la faccenda affermando che su alcuni di loro – quelli davvero rimasti in vita – avrebbero continuato a indagare. Ma, come vedremo, non risulta. Tra i “prosciolti” infatti figura il nome di don Nicola Corradi (che non è parente di don Danilo) finito in carcere nel novembre del 2016 a Mendoza in Argentina con l’accusa di aver abusato alcuni bambini nella più importante sede sudamericana del Provolo in cui fu trasferito a metà anni 80 dal Vaticano e di cui è stato direttore fino all’arresto. E c’è anche il nome dell’ex vescovo di Verona mons. Giuseppe Carraro, per il quale il 16 luglio 2015 papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto riguardante le sue «virtù eroiche», inserendolo tra i venerabili, primo passo verso la beatificazione. Il loro accusatore, Gianni Bisoli, nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a «masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali».

In particolare, Bisoli ha sempre raccontato di essere stato violentato dal vescovo anche nel 1964, durante il suo ultimo anno di permanenza nell’istituto. Tuttavia, quando lo intervistai nel 2013 per uno dei miei libri su Chiesa e pedofilia, mi spiegò che il dottor Sannite gli fece vedere un documento firmato da don Danilo Corradi nel quale era apposta come data di sua dismissione dall’Istituto Provolo il 20 giugno 1963. La data quindi non coincideva con la ricostruzione fornita dalla presunta vittima. Ebbene, mi disse Bisoli, «sull’originale che mi fu mostrato la data ha un refuso, appare abrasa e modificata ed è scritta con una grafia diversa rispetto al resto del documento, ma soprattutto è antecedente a quella della mia ultima pagella a firma dell’insegnante don Eligio Piccoli, che ricordavo datata 27 giugno 1964». A nulla portarono le sue perplessità. Nonostante le evidenti manomissioni non fu creduto.

Ma proprio la grossolana manomissione potrebbe costar caro alla diocesi di Verona sotto la cui giurisdizione ricade l’istituto cattolico per sordomuti. A gennaio scorso è stata aperta un’inchiesta nei confronti dei responsabili del Provolo da parte della magistratura scaligera in seguito ad alcuni esposti presentati dall’associazione Rete L’Abuso. E in seguito, il 27 febbraio, anche l’associazione sordi Provolo e Bisoli – che nel frattempo ha ritrovato l’originale della pagella del 1964 – hanno depositato formale querela per la presunta manomissione del documento.

Inoltre, in riferimento all’arresto di don Nicola Corradi, il 29 marzo, la Rete L’Abuso e Bisoli, come riportano diverse testate locali e non, hanno chiesto tramite un esposto alla procura di Verona di accertare eventuali omissioni giuridicamente rilevanti «in capo ai soggetti preposti al controllo dell’operato dei sacerdoti pure in termini di insufficiente vigilanza o di negligenza nel mettere in atto le cautele necessarie ad impedire la reiterazione di gravi reati come quello di pedofilia». Vale a dire i responsabili dell’istituto di Verona. La sede legale dell’istituto Provolo argentino sito in Mendoza e diretto da Corradi fino all’arresto risulta infatti coincidere con quella italiana, in Stradone Provolo 20, a dieci minuti a piedi dalle più famose attrazione turistiche del capoluogo scaligero: l’Arena e la casa di Giulietta.

Nei confronti di don Nicola, oggi 80enne, la magistratura italiana non è mai potuta intervenire per via della prescrizione ma il presidente della Rete l’Abuso, Francesco Zanardi, mi ha spiegato che l’esposto serve ad appurare eventuali responsabilità della diocesi di Verona: «Abbiamo chiesto di verificare se ci sono state omissioni e negligenze, dal momento che Corradi era già stato denunciato dalle vittime italiane ben prima dei fatti di cui è accusato in Argentina, senza che venisse preso alcun provvedimento». L’obiettivo di Rete l’Abuso è far riaprire il caso anche in Italia. «Perché – si chiede Zanardi – don Corradi nonostante le accuse nei suoi confronti venne trasferito dalla Curia di Verona in un’altra sede, sempre a contatto con dei minori, invece di essere rimosso dai suoi incarichi?».

Questa domanda ci riporta a don Eligio Piccoli e al documentario di Sacha Biazzo. Ascoltando ciò che questo sacerdote afferma davanti alla cinepresa appare evidente che la condanna ecclesiastica a «una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza» non abbia sortito alcun effetto. Seppur affaticato dalla malattia fisica che lo costringe in ospedale, don Piccoli racconta di aver abusato con estrema naturalezza e che altri suoi “colleghi” preti lo hanno fatto (nel video esibisce un ghigno mostruoso).

Tipica dei pedofili è la totale assenza di emozioni. Come ho potuto riscontrare più volte, nel caso dei preti l’unica preoccupazione è di aver peccato. Questa idea distorta è figlia di una cultura secondo la quale in fin dei conti è il bambino, diavolo seduttore, a indurre in tentazione il sant’uomo. E questo cede, offendendo Dio.

La realtà però è un’altra e dice senza appello che la pedofilia non è un’offesa alla castità, non è un delitto contro la morale, non è il Male. Non è un atto di lussuria come peraltro scrivono certi giornalisti affermati citando il canone 2351 del Catechismo della Chiesa cattolica. L’abuso non è un rapporto sessuale tra due persone consenzienti che si lasciano andare ma è pura violenza agita da un adulto nei confronti di un bambino “scelto” con “cura” dal suo violentatore. Il pedofilo non prova alcun desiderio, è una persona anaffettiva. La vittima, in quanto in età prepuberale, non ha e non può mai avere né sessualità, né desiderio.

Chi abusa un bambino è un grave malato mentale ma non occorre essere psichiatri per comprendere che non può guarire invocando la madonna. Basta un minimo di buon senso. A meno che non si pensi – come fanno i religiosi cattolici, pedofili e non – che l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè, appunto, un peccato. Seppur annoverato tra i delitti più gravi, secondo la visione degli appartenenti al clero si tratta di un crimine contro la morale. “Abuso morale” lo ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Di conseguenza i responsabili devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. È sempre stato così ed è così anche oggi sotto il pontificato del presunto innovatore argentino.

Appena eletto, papa Francesco ha messo in cima alla agenda pontificia la lotta contro la pedofilia. Dedicando a questo tema almeno un annuncio a settimana, non mancando mai di farsi fotografare con atteggiamenti affettuosi – a volte ricambiati, a volte no – in mezzo a dei bambini, emanando una serie di decreti volti ad accentrare in Vaticano tutte le indagini e le decisioni sui casi più scabrosi e ad avvicinare le norme della Santa Sede alle indicazioni della Convezione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza siglata nel 1991 e ratificata nel 2014. Segnali forti, amplificati dalla parola d’ordine spesso pronunciata dal pontefice argentino e diligentemente rilanciata dai media italiani: «Tolleranza zero». Un passaggio epocale, sulla carta, è avvenuto il 5 settembre 2016, con l’emanazione del decreto Come una madre amorevole che prevede, oltre all’inasprimento delle misure anti-abusi, la rimozione dei vescovi responsabili di condotta negligente del proprio ufficio nei casi di violenza su minori o adulti vulnerabili. Vale a dire, di insabbiamento delle denunce relative a preti pedofili. Poco più di un anno prima, il 5 giugno 2015 al fine di rendere possibile l’individuazione e la punizione di vescovi negligenti, secondo quanto si legge sul sito della Santa Sede, al papa era stata sottoposta, da una commissione consultiva appositamente insediata, la proposta di creare un Tribunale apostolico all’interno della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) alla quale già spetta il compito di giudicare i sacerdoti accusati di pedofilia. Si trattava solo di un suggerimento ma la stampa italiana annunciò il tribunale dei vescovi come cosa fatta descrivendolo come l’ennesimo segnale di svolta rispetto al passato compiuto da Bergoglio. In realtà la stessa pena, ossia la rimozione del porporato insabbiatore, colmava un vuoto procedurale poiché era già disciplinata sin dal 1962 dalla legislazione canonica vigente per cause gravi (Crimen sollicitationis) e rinnovata nel 2001 da un provvedimento di Giovanni Paolo II (De delictis gravioribus). Ma senza essere mai applicata. E cosa ancor più interessante, il tribunale seppur annunciato e osannato non è mai entrato in funzione né mai accadrà perché il papa non lo ha mai creato. A dare la smentita – con quasi due anni di ritardo rispetto ai titoli a nove colonne dei media nostrani – è stato il 5 marzo scorso niente meno che il prefetto della Cdf, card. Gerard Müller, il quale intervistato dal Corriere della sera ha precisato che il tribunale per i vescovi «era solo un progetto».

Questi sono solo alcuni esempi di come la Chiesa di papa Francesco stia affrontando la questione delle violenze sui minori al proprio interno. La strategia è collaudata e vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Alle parole del papa, alle sue intenzioni, ai suoi desiderata raramente, per non dire mai, seguono dei fatti concreti. E su questo i media sono disposti a chiudere un occhio, molto spesso tutti e due (come abbiamo avuto modo di dimostrare su Left n. 20/2017).

In questa ottica il lavoro di Sacha Biazzo andrebbe doppiamente premiato, in quanto contribuisce a mantenere viva l’attenzione sull’inerzia e sulla tolleranza (verso i preti violentatori) del Vaticano che dunque, anche sotto Bergoglio, continua a combattere la pedofilia solo a parole. Al più, a colpi di avemaria.

 

Fonte:

https://left.it/2017/06/26/pedofilia-premiato-il-docufilm-italiano-che-inguaia-papa-bergoglio/

RIO 2016. CONTO ALLA ROVESCIA. RIMOZIONI

RIO 2016. CONTO ALLA ROVESCIA. EP.1 “RIMOZIONI”
[guarda il video in HD – assista em HD]
Nei tre mesi che precedono l’inizio dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, la serie di documentari “Conto alla Rovescia” punta le cineprese sulle violazioni dei diritti umani che hanno segnato tutto il processo di preparazione della città. Le rimozioni forzate sono una delle eredità più perverse di queste Olimpiadi. Negli anni pre-olimpici, Rio de Janeiro ha conosciuto la più brutale politica di rimozioni della sua storia: più di 60.000 famiglie hanno perso le loro case dal 2009, anno in cui Rio de Janeiro è stata scelta come sede delle Olimpiadi del 2016. La storia della resistenza di queste famiglie è al centro del primo episodio di “Conto alla Rovescia”.[guarda il video su Vimeo: https://vimeo.com/172275477]
Realizzazione: Justiça Global e Couro de Rato
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Direzione: Luis Carlos de Alencar
Poesia Originale: Elaine Freitas
Musica Originale: Mano Teko e Mc Lasca
versione originale del video su YouTube:
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“Il Resto del Carlinho (Utopia)”
Il Brasile che NON vi raccontano.
Articoli, reportages, video e film raccolti in ordine sparso e tradotti in italiano
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QUEI BARILI BOMBA CHE PER IL PRESIDENTE SIRIANO NON ESISTONO

20 APRILE 2016 | di

Eccoli di nuovo, quei barili bomba che il presidente siriano Bashar al-Assad continua a negare contro ogni evidenza.

I barili bomba sono armi rudimentali quanto mortali realizzate con barili di petrolio, taniche di benzina o bombole del gas riempiti con materiale esplosivo, carburante e frammenti metallici e sganciati da elicotteri o aerei. Sono, per loro natura, armi imprecise che non dovrebbero mai essere usate nei pressi di insediamenti civili.

Sono stati filmati e fotografati, quei maledetti ordigni, innumerevoli volte ma c’era, fino a ieri, qualcosa che non si era ancora visto: immagini girate tra il 2014 e la fine di febbraio di quest’anno dagli abitanti di Daraya, la città alla periferia della capitale Damasco sotto assedio e, per l’appunto, sotto i barili bomba dal novembre del 2012.

Secondo i dati raccolti dal Consiglio locale della città assediata, tra gennaio 2014 e febbraio 2016 le forze governative siriane hanno sganciato su Daraya circa 6800 barili bomba.

I danni e le distruzioni causati sono massicci. “Pochi”, al confronto, i morti e i feriti tra la popolazione civile: almeno 42 vittime, tra cui 17 bambini, e 1200 civili feriti. Ma questo numero è contenuto solo perché i civili sono ormai allenati a correre verso i rifugi non appena viene visto in lontananza un elicottero.

Del resto, la maggior parte degli abitanti di Daraya è fuggita anni fa e vi rimane ora solo una piccola parte della popolazione originaria, non più di 8000 persone.

Sebbene non vi siano stati più attacchi coi barili bomba dal 26 febbraio, giorno in cui è entrata in vigore la parziale “cessazione delle ostilità”, Daraya ha continuato a essere colpita dall’artiglieria siriana e i civili rimasti in città sono sempre senza elettricità, con scarso cibo e scorte di medicinali insufficienti.

Gli operatori sanitari non hanno forniture minimamente adeguate per affrontare la crisi umanitaria in atto. L’unico ospedale da campo rimasto in funzione nella città assediata è stato colpito 15 volte dalle forze governative.

L’Ufficio medico di Daraya ha inviato ad Amnesty International gli elenchi di oltre 100 tipi di medicinali, forniture e attrezzature di cui c’è urgente bisogno, tra cui antibiotici, antidolorifici, anestetici, disinfettanti e altro materiale per pulire, brande e barelle da ospedale e macchinari per la dialisi ed esami diagnostici.

Secondo un rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite al Consiglio di sicurezza e nonostante ripetuti solleciti da parte delle stesse Nazioni Unite, il 26 marzo (un mese dopo l’inizio della “cessazione delle ostilità”) il governo siriano non aveva ancora garantito l’accesso degli aiuti umanitari in almeno sei aree sotto assedio, tra cui Daraya e alcune zone della Ghouta orientale.

Amnesty International auspica che queste orrende testimonianze filmate spingeranno la comunità internazionale a sollecitare ulteriormente il governo siriano affinché garantisca immediato accesso a quegli aiuti umanitari indispensabili per salvare vite umane a Daraya e in tutte le altre aree sotto assedio.

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2016/04/20/quei-barili-bomba-che-il-presidente-siriano-si-ostina-a-negare/

 

Leggi anche qui:

http://www.internazionale.it/notizie/2016/04/17/siria-barili-bomba

In ricordo di Federico Aldrovandi a dieci anni dalla sua morte

Aldrovandi25 settembre 2005, viale Ippodromo a Ferrara. Federico di ritorno da una serata con gli amici decide di fare l’ultimo pezzo che lo separa da casa a piedi, sulla sua strada si imbatte nella volante alfa 3 con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. I difensori dei poliziotti sostengono che la volante fosse arrivata sul posto in seguito alla segnalazione da parte di una cittadina preoccupata dal frastuono proveniente dal parchetto di viale Ippodromo. Il legale della famiglia Aldrovandi ha ragione invece di sostenere che quelle urla e quei rumori fossero il prodotto della colluttazione in corso tra Federico e i due agenti. Pontani e Pollastri descrivono il giovane come un invasato, spuntato d’improvviso dalla boscaglia e che li avrebbe aggrediti senza motivo a colpi di karate. Dopo poco tempo arriva la volante alfa 2 con a bordo Monica Segatto e Paolo Forlani. Lo scontro diventa violentissimo e alla fine i poliziotti hanno la meglio sul ragazzo, che muore. Muore sull’asfalto schiacciato dalla forza dei 4 agenti per quella che in termini medici si chiama “asfissia da posizione” per una forte compressione al torace. La tecnica di contenimento e ammanettamento prevede tempi più rapidi ma in quel caso si è andati ben oltre, si è sfociati nell’abuso e il momento della compressione sul selciato è stato l’ultimo atto di una lunga serie di violenze: calci, pugni, manganellate sferrate con una forza tale da spezzarne due. Pontani nel colloquio con il centralinista del 113 dirà testualmente: ”abbiamo avuto una lotta di mezz’ora con questo” e poi affermerà: “ cioè, l’abbiamo bastonato di brutto”. Federico rimane a terra, privo di vita, sfigurato in volto, col cranio sanguinante, 54 lesioni verranno rilevate dalla perizia medico legale di parte civile. Alla fine del primo grado di processo verrà illustrato dal giudice monocratico che i depistaggi, le omissioni e le testimonianze in “copia carbone” dei quattro agenti non hanno consentito un capo di imputazione più pesante di quel controverso “eccesso colposo in omicidio colposo”. Non è stato possibile parlare di omicidio preterintenzionale perché le indagini di polizia giudiziaria immediatamente successive al’evento sono state condotte in modo da rendere ostica la formulazione di tale capo d’accusa. A operare ialdro5 primi rilevamenti, a cercare testimoni a redigere verbali, c’èrano per forza di cose amici e colleghi di quei quattro poliziotti.I quattro poliziotti verranno condannati in via definitiva a 3 anni e 6 mesi di reclusione (pena ridotta a 6 mesi grazie all’indulto). Dopo solo un mese di reclusione a Rovigo per Monica Segatto si apriranno le porte del carcere e beneficiando del decreto svuota carceri finirà di scontare la pena ai domiciliari. Anche Enzo Pontani dopo un mese a Milano otterrà i domiciliari. A luglio 2013 tre dei quattro poliziotti sono tornati in libertà. Pontani un mese dopo avendo iniziato la carcerazione più tardi per un cavillo tecnico. Per loro si prospetta la sospensione di sei mesi dal lavoro al termine dei quali potranno tornare ad indossare la divisa come se nulla fosse successo pur se le sentenze dei vari tribunali, dal I° all’ultimo grado di giudizio fino al tribunale di sorveglianza parlano di una “violenza ingiustificata prima” e “dissimulazione del vero poi” che gettò “discredito per il Corpo di Polizia cui ancora essi appartengono”, su un ragazzo che quella mattina non stava commettendo alcun reato e ne uscì ucciso da quattro individui che in cassazione, dal procuratore generale furono definite durante la sua arringa “quattro schegge impazzite”. 

Nel gennaio 2014 dopo i sei mesi di sospensione i quattro agenti sono tornati in servizio ricoprendo compiti amministrativi in varie città del Veneto e la madre in un’ intervista alla stampa si disse “umiliata, mortificata” da questo fatto. Quanto al fatto che non sia possibile la destituzione dalla polizia per condanne per reati colposi, la madre di Federico ribadisce quanto lei e il padre, Lino Aldrovandi, hanno sempre sostenuto: “in tutte le sentenze che si sono succedute, in particolare la prima, hanno sancito che non è stato possibile arrivare ad una pena maggiore a causa degli insabbiamenti dei colleghi. Io ho letto il regolamento della polizia, rimarca,: la destituzione, è prevista anche per il disonore alla divisa. E questo per me è alto tradimento. Basta leggerle le cose, basta volerle applicare, per me gli appigli ci sono. Ma forse non vogliono farlo”. “Qui non ci siamo solo noi, è la sua conclusione, ma è una questione che riguarda tutti, riguarda quello che decide di fare una istituzione di fronte ad una condanna per omicidio”.

Il 15 febbraio 2014 l’associazione di famigliari, amici e compagni di Federico Aldrovandi ha convocato un corteo che ha sfilato per Ferrara – città natale di Aldro – chiedendo che gli assassini del ragazzo vengano privati per sempre della possibilità di lavorare all’interno delle forze dell’ordine, una richiesta tanto basilare quanto fondamentale, un gesto di rispetto verso la morte di Federico dopo anni di umiliazioni, inchieste insabbiate e insulALDRO2ti che la sua famiglia ha dovuto subire. Il corteo è partito da via Ippodromo, la stessa in cui Aldro fu fermato in quella notte del 25 settembre 2005 per quello che doveva essere un semplice controllo di polizia ma che invece si trasformò in un pestaggio mortale, ed è arrivato fin sotto la Prefettura, dove una delegazione ha consegnato le richieste della piazza. Tantissime le persone che hanno preso parte alla manifestazione: in prima linea i genitori di Federico, che in tutti questi anni non hanno mai spesso di portare avanti la propria battaglia per la verità, ma anche amici, familari, ultras e soprattutto familiari e vittime di altri eclatanti casi di abusi in divisa.

Trovate qui sotto il documentario “E’ stato morto un ragazzo” documentario di Filippo Vendemmiati che racconta la triste vicenda di Federico.

Fonte:

Video intervista a Samantha Comizzoli, sequestrata ed espulsa dalla Palestina dall’esercito israeliano, rientrata il 18 giugno a Fiumicino dopo una settimana di detenzione

Rapita dai soldati israeliani e rinchiusa per ore in una cella di due metri per uno, Samantha Comizzoli non ha risposto alle domande ed ha dichiarato: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”. La trascrizione completa della videointervista rilasciata a poche ore dal suo rientro in Italia, dopo una settimana di detenzione nelle carceri israeliane e sotto pesanti torture psicologiche.

Il video completo dell’intervista

 

<<Venerdì 12 giugno 2015 stavo uscendo con un taxi dalla città di Nablus, a pochi km dalla città di Nablus, una strada principale, il taxi era in corsa , è uscita un jeep dei soldati israeliani che era nascosta in mezzo agli ulivi, ha affiancato dapprima il taxi, poi si è posizionata davanti al taxi, tutto questo in corsa, il taxi ha iniziato a rallentare, la jeep ha iniziato a rallentare, e mentre erano in corsa i soldati israeliani sono scesi dalle porte del retro della jeep e hanno assaltato il taxi puntando le armi.
Mi hanno aperto la portiera urlando e hanno iniziato a farmi domande, domande generiche, non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo e… continuavano a insistere che stavo andando ad una manifestazione, le domande sono diventate sempre più pressanti nei miei confronti e nel frattempo facevano domande al taxista e ad un ragazzo seduto nel posto davanti, nel taxi.

Il tempo passava, dopo un po’ mi hanno preso la borsa e preciso che nella prima frangia di domande non ho dato i documenti, non ho voluto dare i documenti, l’unica cosa che continuavo a dire è “voglio chiamare il consolato italiano”, e mi è stato negato, ovviamente. Gli ho ricordato che non potevano trattenermi più di due ore, perché conosco i miei diritti, e mi hanno risposto: “facciamo quello che vogliamo perché siamo soldati”. Dopo di che, appunto, mi hanno preso la borsa, mi hanno tirato fuori quello che c’era nella borsa, quindi un giubbino giallo fosforescente con la scritta “PRESS”, la kefiah, il portafoglio, hanno guardato dentro il portafoglio e poi hanno trovato il passaporto e quindi hanno detto “qui c’è il tuo passaporto e non ce l’hai dato prima, e poi hanno tirato fuori, io purtroppo come molte donne non pulisco mai la borsa (e quindi c’era molta spazzatura), oltre a fazzoletti di carta e cose varie c’erano molte carte, e c’era anche una cosa che io ho fatto con Photoshop mettendomi l’hijab musulmano e mettendo le generalità così, false, ma fatta da me in Photoshop e nemmeno in grandezza naturale e hanno detto “Questo è un documento falso?” , ho risposto “beh, no, lo vedete benissimo che questa è una cosa che non posso presentare”, mi hanno detto “Si, certo, ma perché l’hai fatto?” e ho detto “Ma perché è uno scherzo”, l’ho fatto io, così, l’ho fatto io con Photoshop, è una cosa che non posso assolutamente usare”. Sono passate quattro ore, durante queste quattro ore sono arrivati gli shabak israeliani, eh… quindi i servizi segreti, e poi la polizia israeliana. Sia gli shabak che la polizia israeliana sorridevano, quindi erano molto contenti di avermi trovata lì. Anche loro non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo, chi ero, cosa facevo, eh… anche se all’inizio i soldati mi hanno chiesto “cosa fai a Nablus” e gli ho risposto “Niente.”.

Dopo un po’ mi hanno detto: “OK, non sei in stato di arresto ma devi venire con noi perché ti dobbiamo interrogare”. Eh… non ho opposto resistenza, perché per me ormai era andata, quello era un chiaro rapimento, e comunque questo momento non poteva che esserci prima o poi, non me l’aspettavo con queste modalità ma sapevo che sarebbe arrivato, e nel taxi c’era una maschera antigas che il ragazzo palestinese ha detto “E’ mia”, ma nonostante questo loro hanno messo la maschera antigas dentro la mia borsa. Ironicamente hanno trovato una bandiera di Fatah e… essere presa con una bandiera di Fatah non mi entusiasmava sinceramente, ma sembrava che sapessero che non fosse mia perché non l’hanno messa né nella mia borsa, e nè l’hanno requisita addebitandola ad altre persone. Se la sono semplicemente messa in tasca, ed è sparita.

Eh… dopo di che hanno mandato via il taxi con il ragazzo palestinese e io sono rimasta seduta sulla strada, erano passate quattro ore e mezza sotto il sole, senz’acqua, con un soldato che mi puntava un fucile e la jeep della polizia israeliana. Dopo un po’ ho detto al soldato di spostare la canna del fucile e smetterla di puntarmi il fucile addosso, e lui l’ha spostata. E poi mi hanno fatto salire sulla jeep israeliana e mi hanno detto: “Ti ricordiamo che non sei in stato di arresto, al momento sei sotto investigazione, devi venire con noi”. Da lì mi hanno portato all’insediamento illegale di Ariel, dove mi hanno fatto aspettare per l’interrogatorio e gli shabak mi hanno interrogata. Ho risposto alle prime due domande, la prima è stata “a noi risulta che tu sei nel nostro paese, in Israele, in modo illegale da un anno e quattro mesi, ce lo puoi confermare?”, ho detto “Non posso confermarvi nulla e comunque i computer ce li avete voi, siete voi gli investigatori, fate il vostro lavoro”. Poi mi hanno chiesto appunto che cosa fosse quella… loro avevano una fotocopia di questa cosa fatta con Photoshop, e mi hanno detto “Che cos’è questa cosa?”, ho detto “E’ una cosa che ho fatto io con photoshop, vedete non è nemmeno nella grandezza naturale di un documento palestinese e mi hanno detto “Perché i soldati hanno dichiarato che tu non hai dato i documenti e dopo nello stesso verbale hanno dichiarato che tu l’hai dato come documento?”, ho detto “sinceramente io non l’ho dato come documento, non ho dato niente ai soldati perché io non dò nulla ai soldati, soprattutto se mi puntano addosso un’arma, quindi parlate con chi ha fatto il verbale.” . E da quel momento in poi ho detto “Mi state interrogando senza avvisare il consolato, senza un avvocato, quindi mi rifiuto di rispondere a tutte le domande che seguono, mi hanno preso le impronte digitali, il DNA [ prelievo salivare, ndr], fatto le fotografie, e mi hanno fatto aspettare ancora. Verso le dieci di sera mi hanno trasferita nella prigione di Ben Gurion, quando sono arrivata mi hanno fatto aspettare, mentre aspettavo ho chiesto ancora una volta di chiamare il Consolato italiano ma non mi hanno risposto, ho chiesto dell’acqua e non mi è stata data l’acqua nonostante fossero le 22:00, quindi ricordo che mi hanno presa alle 11:00 del mattino, quando sono arrivata all’interrogatorio ho riformulato nuovamente le stesse risposte “Non rispondo alle vostre domande perché non mi fate chiamare il consolato e non è in mia presenza e non c’è un avvocato quindi non rispondo a nessuna domanda” e  mi hanno chiesto: “A noi risulta che sei qua senza visto, questa è l’accusa che ti hanno fatto”, quindi era già sparito il discorso del documento fatto con photoshop, e mi hanno detto “Perché se eri qua senza visto non hai rinnovato il visto e sei stata qua in modo illegale?”, io ho risposto “Beh, perché per quanto mi riguarda se dovessi rinnovare un visto non lo vengo a chiedere a voi in un insediamento illegale, in un posto illegale, perché voi siete illegali, questa è la Palestina, non è Israele, quindi non vengo da voi a chiedere nulla”.

Dopo di che ho smesso di rispondere a tutte le domande e ho fatto questa dichiarazione: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”.

MaherAbu

Da quel momento mi hanno messo in cella d’isolamento, in sciopero della fame. Sono ritornati di notte, io stavo dormendo, e mi hanno detto: “Ti sei dimenticata di firmare questi fogli”, erano tutti in ebraico, e ho detto, nonostante stessi dormendo, “questi fogli sono in ebraico e io non firmo nulla perché non ho dichiarato nulla”. Ho cercato di continuare a dormire e mi hanno acceso la luce.

Sono stata nella prigione di Ben Gurion due giorni e mezzo in sciopero della fame e in isolamento, mi facevano uscire 5 minuti la mattina e 5 minuti al pomeriggio per fumare una sigaretta. Mi hanno tolto l’unico libro che avevo, nonostante fosse un libro di José Saramago, “Il vangelo secondo Gesù Cristo”. Gli altri prigionieri non erano trattati come me, i prigionieri presenti erano tutti con problemi di immigrazione, potevano stare fuori, potevano fumare, nei miei confronti è partita una serie di punizioni psicologiche. La luce accesa di notte, hanno messo l’aria condizionata facendo raggiungere una temperatura glaciale alla cella, io stavo con due coperte ma ero comunque congelata. Ero in sciopero della fame e lì per resistere ho cercato di pensare non a quello che mi mancava ma a quello che avevo: quello che avevo era il mio corpo e quello spazio, e quindi a quello che potevo fare per resistere. Continuavo a camminare dalla porta alla fine del muro, avanti e indietro. A volte cantavo, ho fatto molti addominali, molte flessioni. Era un posto dove le persone continuavano a picchiare sulle porte di ferro giorno e notte chiedendo acqua, chiedendo di poter uscire, chiedendo di poter telefonare. Io non ho mai picchiato una volta perché non volevo chiedergli nulla. Non volevo chiedere nulla a loro, quello che mi davano mi davano, ma io non chiedevo nulla. Dopo due giorni e mezzo mi hanno trasferita nella prigione di Givon, quando sono arrivata lì avevo una maglietta della Palestina, che raffigurava la Palestina, e ho capito che hanno detto “portala, portala dentro, nella prigione”. Mi hanno fatto camminare in un’ala della prigione dove c’erano quattro o cinque prigionieri fuori che lavoravano e ho capito di essere in una prigione per israeliani, per coloni. I prigionieri mi hanno guardato, quando sono arrivata, con tutto l’odio che avevano e c’è stato un altro interrogatorio, sempre con le stesse domande alle quali io mi sono rifiutata per l’ennesima volta di rispondere e di firmare e ho detto: “Continuo lo sciopero della fame e rimango qua per i trecento bambini palestinesi che voi state detenendo e non esco fino a quando loro non raggiungono prima la libertà. Non posso dargli la mia schiena e uscire da qua pensando che loro rimangono dentro”.

Mi hanno detto: “Va bene, ti portiamo in cella, ti mettiamo in isolamento”. Mi hanno messo in una… non si può definire cella, era una gabbia di due metri per uno dove il soffitto potevo toccarlo con la mano, era un container con un water, e nessuna apertura, solamente una piccola feritoia sulla porta di dieci centimetri, e quindi non c’era luce. Sono rimasta lì un po’ di ore, durante queste ore dall’altra parte della parete del container ho capito che stavano torturando una persona, un uomo, molto probabilmente era su una sedia di quelle tipo da studio, con le rotelle, lo buttavano ripetute volte contro il muro, molto probabilmente con o delle secchiellate d’acqua o con un getto d’acqua e lo sentivo rantolare, era come se fosse nella mia cella perché erano pareti di un container, non erano pareti di muro o di legno, e lo sentivo rantolare… e poi l’acqua ha iniziato ad entrare anche dalla feritoia della mia cella.

Sono venuti a richiamarmi e mi hanno detto: “Questa sarà la tua cella, dovrai continuare a stare qui, se non smetti di rimanere in sciopero della fame, perché sei un problema di sicurezza per noi.” Ho detto: “Che problema di sicurezza sono? Io ho solo il mio corpo, qual è il problema della sicurezza?”, “Se smetti di essere in sciopero della fame” [hanno risposto, ndr] “ti mettiamo con le altre”. Ho capito che non potevo più continuare, che non avrei resistito per giorni, per me la priorità non era la protesta per il mio arresto, ma resistere in prigione per i bambini. E quindi ho terminato lo sciopero della fame in quel momento perché il mio obiettivo era resistere il più possibile in prigione per smuovere sul rilascio dei bambini. Quindi in quel momento mi hanno dato da mangiare, hanno fatto l’ispezione al mio bagaglio, mi hanno tolto ancora il libro, mi hanno tolto tutte le magliette che riguardavano la Palestina, mi hanno tolto anche una maglietta che era per la libertà degli animali nello zoo [ Samantha ha condotto una lunga battaglia per la chiusura dello zoo di Ravenna ndr] ma nell’incertezza, siccome era scritto in italiano e non capivano bene che cosa fosse mi hanno tolto anche quella, e mi hanno tolto un maglione, forse perché se volevano ancora usare il discorso dell’aria condizionata avere un maglione sarebbe stato un problema, e poi mi hanno tolto il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette, mi hanno detto “No, non puoi averla”, e ho detto “Perché? Perché non posso avere il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette?” [le hanno risposto, ndr] “Perché puoi metterci dentro della droga”, e ho detto : “dove ce l’ho la droga?” e [le hanno risposto, ndr] “No, la puoi trovare in prigione, però puoi comprare le sigarette qua”, ho detto: “Va bene”.

Poi mi hanno fatto un’ispezione corporale, completamente nuda, facendomi abbassare, aprendomi le chiappe e infilando una mano dentro, mi hanno fatto girare, alzare il seno, dopo che hanno fatto questo mi hanno guardato e mi hanno detto: “Hai una pistola?”…..

OK, poi mi hanno dato una maglietta bianca, perché io, appunto, avevo indosso questa maglietta della Palestina, i vestiti che avevo addosso e mi hanno portato nella cella con le altre donne. Era nel braccio dell’immigrazione e mi hanno messo in una cella dove c’erano due donne, che ho capito subito …due donne della Costa d’Avorio, dove tutta la prigione delle donne non parlava con queste due donne perché avevano un carattere terribile… però siccome anch’io ho un carattere terribile, io sono stata… difendendo quello che avevo di mio, cioé il mio corpo, la mia mente, il mio cuore, e loro difendevano quello che avevano perché erano lì da due anni e sei mesi, e difendevano quella cella che per loro era tutto quello che avevano, come se fosse la loro casa, non uscivano neanche quando aprivano le porte. Dopo di che abbiano iniziato a fare amicizia, quindi ho un ricordo di loro bellissimo, di queste due donne, di grande rispetto, perché facevano resistenza all’interno della prigione per poter diventare rifugiati politici, quindi dovevano passare cinque anni in prigione, con i figli fuori, ho detto loro che non condividevo il posto che avevano scelto per diventare rifugiati politici ma potevano camminare sopra la mia testa e tutto il mio rispetto per la resistenza che avevano a stare lì dentro. Ovviamente con tutti i problemi loro mentali che portava come conseguenza vivere… avere questo tipo di vita. Dunque, la prigione di Givon ovviamente toglie la libertà alle persone, è un cimitero per i vivi come tutte le prigioni. Porte che venivano sbattute ripetutamente, ispezioni di giorno e di notte, non puoi mai alzare la voce verso la polizia, cosa che invece io ho fatto subito per una donna che si era sentita male e ho chiesto l’intervento del dottore [una donna ha perso i sensi, Samantha ha chiesto a gran voce che venisse chiamato un medico, ma sono passati circa 20 minuti prima che le guardie, che osservavano la scena, reagissero chiamando un sanitario, ndr] .

Sono riuscita a contattare il consolato di Tel Aviv, il console Nicola Orlando è stato molto umano, è venuto a trovarmi diverse volte in prigione, ci siamo sentiti molte volte al telefono. Il mio telefono miracolosamente ha iniziato a funzionare dopo un giorno nella prigione di Givon in modalità roaming nonostante Jawal non potesse funzionare lì [operatore di telefonia mobile palestinese attivo a Gaza e in WestBank ma che utilizza l’infrastruttura di rete israeliana al di fuori di quei territori, per tanto il roaming è normalmente interdetto ai numeri Jawal o con costi in accessibili e, in ogni caso, passa direttamente sotto il controllo delle compagnie telefoniche israeliane ndr]. Arrivavano a me e ad altri contatti che avevo sul telefono telefonate strane, ovviamente, quindi mi stavano facendo telefonare i servizi segreti, gli shabak, forse… non lo so, pensavano di scoprire chissà che cosa, io non ho niente da nascondere, quindi… Ero assolutamente tranquilla e facevo le mie telefonate e ricevevo le mie telefonate.
OK, dopo questa parentesi nella prigione di Givon, da quando è intervenuto il consolato devo dire che hanno iniziato ad avere un metodo un po’ più soft nei miei confronti, non più come quello di prima, sebbene continuassero nei miei confronti ad avere questa procedura di “prigioniero politico” e non di problemi con l’immigrazione. Una mattina mi son venuti a chiamare, non mi hanno detto nulla, mi hanno portato in uno stanzino molto piccolo. C’era una persona a un tavolo e poi c’era un traduttore in italiano e un soldato, hanno iniziato a farmi delle domande, ho capito che quello aveva la veste più o meno di un giudice, anche se quello non era un tribunale, non c’era un avvocato, era dentro uno stanzino di un container. Mi hanno chiesto “sei pronta a firmare i fogli che ti abbiamo dato e a lasciare il nostro paese?”, gli ho detto “No”, “Va bene puoi andare”, ho detto “Posso andare cosa, cosa vuol dire, che cos’è questo?”Ci rivediamo tra un mese, se trovi un avvocato che ti rappresenta possiamo dialogare, al momento ci rivediamo fra un mese”.
Ho riferito tutto quello che è stato al consolato, fino a quando appunto non è arrivato il messaggio l’altro ieri del console e in simultanea me lo stavano comunicando a voce, che avevano disposto la mia deportazione da Israele, così come lo chiamano loro, il giorno dopo con volo El Al, volo israeliano. Ho detto che avrei fatto resistenza passiva per non farmi portare via ma sempre con l’obiettivo dei trecento bambini.

Hanno disposto il mio trasferimento appunto al mattino presto, avevo detto che avrei fatto resistenza passiva, quindi che mi prendessero con la forza, ricordando loro che gli uomini non mi potevano toccare perché era molestia sessuale, che dovevano esserci le donne. Mi hanno fatto stare ancora una volta in quello stanzino da due metri per uno dove mi avevano messo la prima volta nella prigione di Givon insieme alle altre donne senza chiudere la porta, dopo di che mi hanno ridato tutto il materiale, quasi tutto, il materiale che mi avevano confiscato all’ingresso. Quando è arrivato il momento del trasferimento io ho detto: “Non posso, non posso uscire con le mie gambe, mi sono seduta per terra e hanno fatto salire tutti nell’autobus, compresa la mia telecamera, e mi hanno detto “va bene, noi abbiamo deciso di non usare la forza con te”, sono entrati tutti e mi hanno detto: “Tu resterai qua, in cella d’isolamento, fino al prossimo volo” e in quel momento, primo sapevo che non avrei saputo resistere nella cella d’isolamento ancora, e la mia telecamera era andata; ma, secondo, ho pensato che diventava una scelta irresponsabile per delle persone che mi stavano aspettando in Italia, che si erano trasferite a Roma per venirmi a prendere. E comunque era andata, oramai, ho visto che il consolato non aveva preso posizione sui bambini, che non era partita nessuna trattativa, che se n’erano fottuti dei diritti umani e che, comunque anche il console di Tel Aviv mi aveva confermato, “non sei stata per noi del consolato e della Farnesina presa in considerazione come prigioniero politico ma solamente con problemi d’immigrazione”, quindi per quanto riguarda essere un ago della bilancia per la liberazione dei bambini e per una battaglia dei diritti umani il consolato italiano, ma soprattutto la Farnesina, e questo lo dico io, se n’è sbattuta il cazzo, quindi lascia in prigione trecento bambini, nonostante avesse avuto la possibilità magari di trattare e usare me come ago della bilancia. Quindi in quel momento sono salita sull’autobus e mi hanno poi trasferita con una… jeep israeliana blindata fino all’aereo, io non ho mai visto l’aeroporto Ben Gurion. Quando sono salita sull’aereo è partita una protesta da parte delle persone nell’aereo perché erano tutti israeliani e mi hanno visto arrivare con la kefiah e accompagnata dalla polizia. Sono arrivata a Roma, sono stata accolta in un primo tempo dalla polizia italiana che ha dovuto formulare un report su quello che era successo e poi sono stata accolta dai miei amici e questo è stato un momento di felicità… per me. Nella jeep israeliana che mi ha portata all’aereo sono stata chiusa nella parte del retro, in un posto completamente chiuso e mi hanno messo l’aria calda, bollente, quindi non potevo respirare e quindi ho dovuto bussare dopo un po’ sul vetro e chiedere di poter respirare…e mi hanno detto “scusa, ci siamo dimenticati” e mi hanno dato l’aria.

Dunque, le considerazioni: so che in Italia sono usciti subito sulla stampa, sui media [ es. LA STAMPA, ANSA ndr ] , una dichiarazione ufficiale di questo documento falso che io avrei fornito ai soldati. Ho verificato questa cosa tramite il Consolato e la Farnesina per capire chi aveva rilasciato questa dichiarazione, questo è quello che è successo: mentre mi stavano trasferendo da Ariel alla prima prigione io ero nella jeep con due poliziotti, il poliziotto ha ricevuto una telefonata e ha parlato in inglese, e quindi ho capito che cos’ha detto, ha detto “la signora al momento non è in arresto, è in detenzione amministrativa, perché è priva di visto, quindi è in posizione illegale in Israele, e ha un documento falso palestinese ma è sotto indagine.” Poi, quando ha chiuso la telefonata il poliziotto mi ha detto: “Era il consolato di Gerusalemme, hanno chiesto, appunto, perché eri stata presa”. In quel momento mi sono meravigliata, anche la sera stessa, fino a quando poi non ho parlato con Tel Aviv, perché ho detto: “Caspita, il consolato finalmente ha la possibilità di mettersi in contatto e di sapere come sto e di poter parlare con me, non l’ha fatto, il Consolato di Gerusalemme, ma ha solamente verificato quali erano in quel momento le accuse, accuse che poi sono cadute, e l’ha comunicato alla stampa. Questo comportamento poi non c’è stato dal Consolato di Tel Aviv e dalla Farnesina, quindi io ho ritenuto veramente grave il comportamento del Consolato di Gerusalemme che parrebbe aver avuto un atto di diffamazione di una cittadina italiana che stava vivendo un atto di violenza, che io definisco rapimento perché non c’è nulla di legale, non c’è nessun foglio che mi accusa di qualcosa, non c’è nessun foglio che dice che io sono stata arrestata, che sono stata detenuta, nulla, non c’è nulla, quindi io sono stata a tutti gli effetti rapita da Israele… Quindi in quel momento il Consolato di Gerusalemme ha diffamato una cittadina italiana che era in queste condizioni, non ha cercato di mettersi in contatto e parlare con me per chiedere come stavo, che cosa mi stava accadendo, se mi avevano fatto qualcosa, cioè per chiedere qual erano le mie condizioni di cittadina italiana. [ il Consolato di Gerusalemme è lo stesso che di recente ha negato i visti ai due palestinesi, tra i protagonisti dell’ultimo docufilm “israele, il cancro”, per il tour italiano del film, nel mese di maggio]

Questa è una cosa molto grave, credo che la Farnesina dovrebbe prendere provvedimenti, non per me ma per i futuri cittadini italiani che, io non gli auguro possa capitare questo ma ai quali potrebbe capitare, perché il Consolato deve lavorare, appunto, per la Farnesina e per il governo italiano, non per il governo di Israele o per i media. Altresì dico che i pennivendoli che si affidano veramente alla prima scoreggia di un piccione per pubblicare notizie in questo modo, ecco a loro ricordo che in Palestina i giornalisti per documentare la verità sul posto si fanno sparare, si fanno sparare negli occhi, in faccia, al petto, nelle braccia, perdono le gambe, per documentare sul posto quello che è la verità. Ecco, voi siete la vergogna dei diritti umani,così come è Israele, cioè chi vi paga.

GiornalistiPalestina

Io in questo momento sono ovviamente provata, non ho mai parlato, non ho mai bussato su quelle porte per chiedere qualcosa loro, ho resistito perché avevo una missione in testa, che non era per me, era per i diritti umani e per i bambini e… continuerò a supportare la resistenza palestinese e a lavorare per i diritti umani. Adesso ho solo bisogno di un po’ di tempo per cercare di svuotare la mia mente dalla merda che Israele ha infilato dentro e fare entrare nuove idee. Grazie a tutti quelli che mi hanno supportato, so che siete stati in tanti, ma non avete supportato me, avete supportato i diritti umani quindi, visto che è responsabilità di tutti io vi ringrazio.

Ho chiesto di fornirmi documentazione di quello che è accaduto, di avere uno stralcio di qualcosa, del mio stato, a voce mi  hanno detto che sono stata deportata per 10 anni dalla Palestina, che non potrò più rientrare, ma che è tutto nei loro computer e che quindi non rilasciano nulla, nulla di cartaceo, di nero su bianco. Ovviamente quello che mi fa soffrire è il pensiero di non tornare più in Palestina e di non poter riabbracciare più i miei amici, e che loro sono là e che non posso più aiutarli sul posto, non posso più fare da scudo umano per tanti mini-shebab, tanti shebab , questa è la cosa che mi fa più male..

Non sono mai stata sola, ho sempre avuto i diritti umani con me, ma soprattutto ho sempre avuto, con me, anche quando non riuscivo a mettermi in contatto perché ero in isolamento, ho sempre avuto con me Simone, Simonetta e Sauro. E dire grazie è troppo poco, mi stanno accogliendo anche ora che non ho più nulla, perché quando sono partita per la Palestina io ho venduto tutto quello che avevo perché ho perso la residenza, e quindi  i problemi sono parecchi in questo momento ma, insomma, sono con loro… sono la mia famiglia in questo momento e lo saranno sempre.

Samantha Comizzoli>>

Per supportare e diffondere il preciso e puntuale lavoro d’informazione di Samantha Comizzoli:

Il BLOG di SAMANTHA COMIZZOLI

Il primo documentario sulla resistenza palestinese (2014), SHOOT (qui il video in streaming)

Il blog del documentario presentato in un tour italiano lo scorso mese, “israele, il cancro”

TGMaddalena, nel condividere e sostenere la battaglia di Samantha per la liberazione di tutti i bambini palestinesi, detenuti e torturati nelle carceri israeliane, ha aperto una campagna per supportare le prossime iniziative e consentire a Samantha di proseguire nel suo impegno per i diritti umani, per la Palestina e per la Libertà.

 

Trascrizione completa della videointervista, a cura di Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/intervista-samantha-comizzoli-sequestrata-ed-espulsa-da-israele/

 

SAMANTHA COMIZZOLI RIFIUTA DECRETO DI ESPULSIONE E DIFESA LEGALE: ” SE C’E’ UN AVVOCATO PRONTO A BATTERSI CON ME PER LA LIBERAZIONE DEI BAMBINI DETENUTI NELLE CARCERI ISRAELIANE ALLORA LO ACCETTO”

15/06/2015 ore 19:30
FreeSam6Arrestata il 12 giugno mentre da Nablus si stava recando ad una manifestazione a Kufr Qaddum in quello che sembra essere stato più un blitz mirato che non un fermo casuale, è stata detenuta prima nella prigione dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in ISOLAMENTO (per non meglio precisati “motivi di sicurezza”), e poi trasferita nel carcere di GIVON, dove è stata costretta sotto pesanti torture psicologiche ad interrompere il digiuno intrapreso dal momento dell’arresto, come unica forma possibile per proseguire la sua battaglia per la liberazione di tutti i bambini detenuti nelle carceri israeliane.
Samantha è stata arrestata in detenzione amministrativa perché il visto con il quale era entrata nel febbraio 2014 era scaduto da oltre un anno. Ha rifiutato l’assegnazione di un legale perché consapevole che non esiste alcuna possibilità di difesa in casi come questo: il visto è scaduto ed è quindi stata attivata la procedura di espulsione dopo una rapida udienza che si è svolta oggi nel carcere di Givon, alla presenza di un giudice, agenti di polizia, e nessun difensore. In realtà Samantha avrebbe anche accettato di buon grado un avvocato, se ne avesse trovato uno disposto ad affiancarla nella sua lotta per la liberazione dei bambini detenuti da Israele. Dal 1967 ad oggi secondo l’ong Military Court Watch sono 95.000 i bambini arrestati dal governo israeliano in Cisgiordania. Nel rapporto presentato a Ramallah sono documentate le testimonianze degli abusi perpetrati sui bambini, che Sam aveva già documentato nel suo primo film, Shoot, e nel documentario presentato di recente in un tour italiano “israele, il cancro”. Questo pomeriggio ha ricevuto la visita del console italiano, rientrato oggi da una vacanza. Proprio il console le ha spiegato che nella sua situazione potrebbero tenerla in carcere anche per un mese, ma pare che israele sia intenzionato ad attivare la sua espulsione entro le prossime 24, 48 ore e, poiché Samantha si è rifiutata di firmare l’accettazione di questa misura, è probabile che utilizzino la forza per assicurarsi il suo rientro in Italia (detenzione e viaggio di rientro saranno a carico del governo israeliano, precisazione utile per prevenire tormentoni del tipo “cos’è andata a fare in Palestina, era meglio se stava a casa sua” con tanto di “e ora le paghiamo pure il volo”).

Ieri il suo avvocato in Italia, Luca Bauccio, ha emesso un comunicato a seguito di alcuni articoli usciti su media nazionali che riferivano informazioni non veritiere, articoli che rischiavano di alimentare una diffamazione della quale Samantha è più volte stata vittima. “La vita e la storia di Samantha sono alla luce del sole: lei vive e opera per la libertà dei palestinesi e perché la giustizia e il diritto vengano ripristinati in quei territori.Questo è già noto.”, ha scritto ieri il legale, ed ha aggiunto “Nessuna mistificazione verrà accettata e subita come il prezzo da pagare per avere avuto la passione e il coraggio di dedicare la propria vita per la causa di vittime innocenti del più intollerabile e prolungato esproprio della storia. Samantha vive e opera per questo da sempre nel segno della sua convinzione democratica e del suo rifiuto di qualunque forma di persecuzione di razzismo, di antisemitismo e di odio religioso.”
A proposito di odio religioso, sarà questo che ha spinto i carcerieri a sequestrare a Samantha il libro di José Saramago “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”?

Sabato 13 giugno sotto la RAI di Torino si è tenuto un presidio per richiedere la liberazione di Samantha ed in solidarietà con i prigionieri palestinesi; attualmente sono circa 7000, di essi 450 in detenzione amministrativa, cioè senza capi d’accusa. Per il loro numero e la loro condizione essi sono un elemento cardine della Resistenza palestinese. E proprio in questi giorni tra i prigionieri ci sono forti avvisaglie di un nuovo sciopero della fame di massa. Sarà anche per questo, probabilmente, che oggi il Consiglio dei Ministri israeliano ha approvato un disegno di legge per contrastare la “minaccia” per il paese (da non credere!) costituita dai “detenuti che effettuano lo sciopero della fame”.

Il gruppo di solidali ha chiesto alla redazione del TGR Piemonte di diffondere la notizia dell’arresto e dell’anomala detenzione in isolamento, ma la risposta è stata chiara e senza spazi di discussione: c’erano notizie più importanti, un incidente, il salone dell’auto, etc.  Le informazioni vengono diffuse principalmente tramite social network, Twitter, Facebook, il volo di rientro è previsto ormai nelle prossime 24-48 ore ma si presume che la notizia verrà data solo successivamente all’imbarco di Samantha sul volo di rientro, per le stesse non meglio note “ragioni di sicurezza” che hanno spinto israele a detenere Samantha in isolamento.
FreeSam2

Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/samantha-comizzoli-rifiuta-decreto-di-espulsione-e-difesa-legale-se-ce-un-avvocato-pronto-a-battersi-con-me-per-la-liberazione-dei-bambini-detenuti-nelle-carceri-israeliane-allora-lo-accetto/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PALESTINA: L’ATTIVISTA ITALIANA SAMANTHA COMIZZOLI FERITA DA RUBBER BULLETS

Samantha

Attivista  italiana ferita dai soldati israeliani durante una manifestazione per i 67 anni dalla Nakba

 

Samantha Comizzoli, attivista per i diritti umani (e di tutti gli esseri viventi), oggi è stata ferita dai soldati Israeliani durante una manifestazione per i 67 anni dalla Nakba al checkpoint di Howara, come quella che si è svolta ieri,  ad Ofer (Ramallah), durante la quale ha documentato l’attacco dei soldati israeliani al villaggio di Betunia ed al gruppo di giornalisti.

Da quanto racconta Samantha si trovava con altri manifestanti al checkpoint di Howara, per marciare per la Nakba. “Stavo semplicemente camminando verso il checkpoint con le braccia aperte”, scrive sul suo profilo FB, “quando hanno iniziato a sparare le sound bomb ed i gas NON mi sono spostata. Hanno piazzato il cecchino e, sempre cno le braccia aperte, mi muovevo veloce orizzontalmente per fare da scudo agli shebab [i giovani attivisti, ndr]. Essendo donna ed internazionale pensavo fermasse il cecchino che, invece, mi ha sparato due rubber bullet e ha sparato un’altra rubber bullet a Nidal che stava fotografando”.
Ancora una volta ci corre l’obbligo di ricordare che chi è disposto a fare da scudo umano non necessariamente autorizza il nemico a trasformarlo in un bersaglio. Ma vallo a spiegare a quei vigliacchi in divisa….

Samantha è stata colpita da due rubber bullet, ad un braccio e al seno, si trova in ospedale e speriamo di avere al più presto buone notizie. Qui i suoi ultimi messaggi su Twitter.

 

Qui una foto di una delle ferite riportate:

FeritaBraccio

Nel mese di aprile è iniziato il tour italiano del suo secondo documentario, “israele, il cancro”, proiettato anche a Torino in una sala piena presso la Cascina Roccafranca, con un collegamento via Skype con Samantha e con uno dei protagonisti ai quali il Consolato italiano ha negato il visto per il tour italiano del docufilm.

Tutta la nostra solidarietà a Samantha Comizzoli, vediamo se il consolato così attento a selezionare i visitatori palestinesi sarà altrettanto solerte nell’agire per tutelare la vita degli attivisti italiani.

Aggiornamento ore 14:20 – Scrive Samantha Comizzoli sul suo profilo FB: “sono a casa, non è nulla di grave, ovviamente fa male. no posso pubblicare le foto ora perchè mi hanno fatto delle medicazioni che devo tenere per 3 ore ed anche perchè ho bisogno di riposare. a dopo…scusate se non sto su fb ora e grazie a tutti per i messaggi. un abbraccio.”

Per capire di cosa stiamo parlando, questo è un RUBBER BULLET:

RubberBullet

 

 

 

 

 

 

 

 

Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/palestina-samantha-comizzoli-attivista-e-regista-di-due-documentari-ferita-da-rubber-bullet/

 

9 maggio: Festa per Ciro Principessa

9 maggio: Festa per Ciro Principessa

Non è colpa del mare, lo tsunami raccontato dai pescatori

Una famiglia dello Sri Lanka decimata dallo tsunami del 2004 racconta il suo rapporto speciale con il mare.

 

Nel 2004 lo tsunami uccise otto membri di una famiglia di pescatori dello Sri Lanka. Ancora oggi chi è scampato alla devastazione vive in simbiosi con il mare e per sopravvivere continua a pescare. La casa dei pescatori è un rifugio di fortuna con vista sull’oceano, questo essere immenso e imprevedibile che dà vita e la toglie. Il documentario è stato realizzato da Daniel Klein e Mirra Fine e prodotto da theperennialplate.com, un sito di ricette sostenibili e di consumo alimentare responsabile.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/2014/12/tsunami-pescatori/