Messina, quattro operai morti per esalazioni sul traghetto

Tragedia sul lavoro. Stavano ripulendo l’interno quando sono stati investiti dai gas. Altri due sono rimasti feriti. I sindacati: serve una inchiesta approfondita su attrezzature e mezzi di prevenzione

La nave Sansovino

Sono trascorsi quasi trent’anni dalla tragedia di Ravenna, quando nel marzo dell’87 tredici operai morirono asfissiati nella nave gasiera «Elisabetta Montanari», di proprietà della Mecnavi, mentre stavano effettuando lavori di saldatura. Una tragedia che colpì l’opinione pubblica, s’invocò, da più parti maggiore sicurezza negli ambienti di lavoro.

Un secolo è passato, ma sembra che nulla sia cambiato. Come allora, si continua a morire nei posti di lavoro. Quattro le vittime ieri a Messina, due i feriti. Come a Ravenna, anche in questo caso la camera della morte è la cisterna di una imbarcazione. I sei stavano effettuando operazioni di pulizia e di saldatura nella sentina del traghetto Sansovino della Caronte & Tourist, ormeggiato nel molo Norimberga. Quando sono stati investiti dal gas che si è sprigionato per cause che saranno accertate dalla Procura che ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e lesioni, al momento contro ignoti.

«La catena di solidarietà», così la chiamano gli esperti, è stata fatale per quattro dei sei lavoratori: quando il primo si è sentito male il compagno di lavoro ha cercato di soccorrerlo ma anche lui ha finito per inalare i gas letali, così come altri due operai.

Le vittime sono Gaetano D’Ambra, secondo ufficiale di coperta di Lipari; Christian Micalizzi, primo ufficiale di Messina; Santo Parisi, operaio di Terrasini (Pa) e Ferdinando Puccio, giovanotto di macchina, palermitano.
I vigili del fuoco, nonostante le condizioni siano apparse subito gravi, sono riusciti, grazie all’utilizzo di autorespiratori, a entrare nello stretto passaggio di imbocco dei locali sentina, a estrarre e consegnare al personale medico tutta l’intera squadra di operai che si trovava all’interno. I feriti sono il comandante Salvatore Virzì e Ferdinando Puccio, giovanotto di macchina. Il procuratore aggiunto, Giovannella Scaminaci, ha delegato le indagini alla Capitaneria di porto.

Un’inchiesta interna è stata aperta anche dall’armatore che si è detto pronto a collaborare con gli inquirenti che hanno sequestrato il traghetto. Filt-Cgil, Fit-Cisl e UilTrasporti sollecitano anche «un’inchiesta immediata da parte degli enti di controllo del ministero dei Trasporti», intanto «rileviamo che altre vite umane si aggiungono alla tragica e fitta schiera delle morti bianche, indegna di un Paese civile».

«Questo tragico evento a pochi giorni da un altro nel porto di Salerno – denunciano i sindacati – mette sotto gli occhi di tutti l’urgenza di un immediato intervento legislativo di adeguamento delle norme che disciplinano la sicurezza nei porti e sulle navi»”. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, parla di «tragedia che rappresenta un monito sulla necessità di intensificare ancora di più l’impegno per la prevenzione degli infortuni, specie dove ci sono più rischi».

Maria Carrara, esperta di sicurezza nei luoghi di lavoro, pone alcuni interrogativi che potrebbero essere utili alle indagini: «Prima che gli operai effettuassero le attività nella cisterna sono state realizzate dall’esperto nell’utilizzo delle attrezzature le misurazione sul livello d’ossigeno e sulla concentrazione di gas e sostanze pericolose? Gli operai erano stati formati sugli “spazi confinati” come obbliga il decreto 81 del 2008 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro? Inoltre, i lavoratori erano dotati degli indumenti specifici necessari per questo tipo di attività?».

Sarà la magistratura – spiega l’esperta – ovviamente ad accertare se il datore di lavoro abbia rispettato le disposizioni di legge. Purtroppo la letteratura in materia indica che spesso i lavoratori operano in ambienti pericolosi senza essere messi nelle migliori condizioni. La prevenzione, la formazione e il rispetto delle norme sono fondamentali per evitare tragedie come quella di Messina.

L’esperta aggiunge: «Prima dell’ingresso di un lavoratore in uno “spazio confinato”, come nel caso della cisterna di una nave, è necessario acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente e bisogna effettuare le attività previste come la manutenzione, la bonifica e le ispezioni». I rischi in ambienti del genere sono tanti, sottolinea Maria Carrara: asfissia per mancanza di ossigeno, intossicazione per inalazione o per contatto epidermico di sostanze pericolose per la salute come gas, vapori o fumi, incendio e esplosione. E ancora: caduta dall’alto, inciampo o scivolamento, contatto con parti abrasive o taglienti, urto, colpo o schiacciamento, contatto con parti in movimento, proiezione di parti solide o liquide, contatto con tensione elettrica.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/messina-quattro-operai-morti-per-esalazioni-sul-traghetto/

 

Leggi anche qui:

http://ilmanifesto.info/morte-da-topi-come-trentanni-fa-alla-mecnavi/

Lavoro: Ancora morti bianche. Mattarella: ‘Ferite per Italia’

Tre vittime: a Taranto, Roma e Trieste. Sciopero nazionale di un’ora dei metalmeccanici, mercoledì 21 settembre

Tre nuove morte bianche, una all’Ilva di Taranto, una a Roma e a Trieste. Scoppiano le polemiche. I sindacati proclamano a Taranto lo sciopero immediato e ricordano che l’ultimo incidente nello stabilimento siderurgico, anche questo mortale, si era verificato a novembre dell’anno scorso, quando un altro operaio era rimasto schiacciato da un tubo. Ma l’Azienda ribatte: “Applicate tutte le norme di sicurezza, nessun cedimento strutturale”. Rabbia del presidente della Puglia, Michele Emiliano: “La nostra pazienza è finita”.

Dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella arriva un richiamo per la garanzia della sicurezza sui posti di lavoro. “Ogni morte sul lavoro costituisce una ferita per l’Italia e una perdita irreparabile per l’intera società. Non è ammissibile che non vengano adeguatamente assicurate garanzie e cautele per lo svolgimento sicuro del lavoro”.

“E’ inammissibile che ci siano morti sul lavoro in un Paese la cui Costituzione prevede che sia fondato sul lavoro”. Afferma anche il presidente del Senato Pietro Grasso, arrivato alla Festa dell’Unità di Roma. “Vorrei ricordare che abbiamo leggi severe e adeguate per prevenire questi infortuni, ma bisogna applicarle: purtroppo per troppe disattenzioni, o peggio colpe, accadono ancora questi avvenimenti” ha concluso.

L’incidente all’Ilva – L’operaio morto si chiamava Giacomo Campo, era di una ditta dell’appalto, la Steel Service. L’incidente sul lavoro è avvenuto nel reparto Afo4 dello stabilimento.

Società, non vi è stato nessun cedimento strutturale – Dopo l’incidente mortale avvenuto questa mattina, l’Ilva “ha immediatamente riunito il comitato di crisi, composto dai commissari, dal management e dai tecnici della Società, che in queste ore sta collaborando con le autorità competenti per approfondire la dinamica dell’incidente”. Lo riferisce l’azienda in una nuova nota dove in merito alla dinamica dell’incidente precisa che “non vi è stato il crollo di alcun carrello né alcun cedimento strutturale” La Società ribadisce che “l’operazione di pulizia del nastro, eseguita dalla ditta esterna, è avvenuta dopo che il nastro è stato disattivato e privato di alimentazione elettrica. Mentre l’operatore stava effettuando attività di pulizia sul rullo di rinvio il nastro si è mosso per cause in corso di accertamento e l’operaio è rimasto incastrato tra il rullo e il nastro”. La Società, conclude la nota, darà ulteriori aggiornamenti sulla situazione “appena si sarà fatta chiarezza e si avranno nuovi elementi”.

Sciopero nazionale di un’ora dei metalmeccanici, mercoledì 21 settembre, per dire “basta” alle morti sul lavoro. E’ quello indetto da Fim, Fiom e Uilm dopo le ultime tre tragedie di questi giorni, dal morto di Piacenza a quelli di oggi all’Ilva di Taranto e all’Atac romana. Si tratta, dicono i segretari Marco Bentivogli, Maurizio Landini e Rocco Palombella in una nota congiunta, di una situazione “drammatica” e di un dato, quello di “500 lavoratori morti mentre lavoravano” da inizio anno che è “inaccettabile”.

Un morto in agriturismo a Trieste  – Una persona è morta in un incidente sul lavoro avvenuto in serata nell’agriturismo “Zollia” a Trieste, in località Samatorza, nella zona del Carso, a ridosso del confine con la Slovenia. La vittima è rimasta schiacciata mentre lavorava – secondo le prime informazioni – con una macchina operatrice. L’uomo é morto sul colpo. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118 con un’automedica e un’ambulanza, i Vigili del Fuoco, i Carabinieri e il medico legale.

Operaio muore nel deposito Atac Roma-Viterbo – Un operaio è morto in un incidente sul lavoro avvenuto in un deposito Atac sulla Roma-Viterbo. La dinamica dell’incidente, fa sapere Atac in una nota, è in via di accertamento anche da parte di una commissione interna disposta dall’azienda. L’incidente è avvenuto nella prima mattinata di oggi “nel corso di manovre di esercizio”. L’azienda esprime profondo cordoglio per l’accaduto ed è vicina ai familiari. L’operaio, un italiano di 53 anni, è stato trovato morto stamattina poco prima delle nel deposito Atac di via dell’Acqua Acetosa. Sul posto gli operatori del 118 che non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Secondo quanto si è appreso, è stato trovato vicino a una cabina elettrica e sarebbe deceduto per arresto cardiaco. Sarà l’autopsia a chiarire se è morto in seguito a un malore o per una scarica elettrica.

Fim, Fiom, Uilm e Usb di Taranto hanno proclamato uno sciopero dei lavoratori dell’Ilva a partire dalle 12 di oggi (per il secondo e terzo turno di otto ore) fino alle 7 di domani (18 settembre). Attacca il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli:  “E’ assurdo, inaccettabile, una vergogna per tutto il Paese morire di lavoro nel 2016”. L’ultimo incidente mortale all’Ilva si era verificato a novembre dell’anno scorso, quando un altro operaio – Cosimo – era rimasto schiacciato da un tubo: non è passato neanche un anno e si è verificato di nuovo, “un’altra morte innocente e un’altra famiglia distrutta”.

Ira di Emiliano: “Incontenibile la rabbia della Puglia” –  “Ennesimo grave incidente nel siderurgico tarantino. La nostra pazienza è finita. La fabbrica è troppo vecchia e insicura. Ci ha portato ancora una volta via un giovane di soli 24 anni. Il dolore della Puglia diventa rabbia incontenibile”. È un passaggio del post con cui il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, commenta su Facebook la morte del giovane operaio nell’ incidente nel siderurgico.

Viceministro Bellanova a Taranto per capire dinamica, è in contatto con Renzi – “Una tragedia”. Cosi la Viceministro Teresa Bellanova da Taranto, dove si è immediatamente recata dopo aver appreso della morte del venticinquenne Giacomo Campo, morto stamane nel reparto Afo4 dell’Ilva di Taranto. Il viceministro è in comunicazione, da stamane, con il Presidente Renzi che ha chiesto di essere costantemente informato. “C’è urgentissima necessità – afferma Bellanova – di comprendere come sia potuta accadere questa tragedia e per quali cause il nastro trasportatore abbia ceduto. In questa direzione siamo già impegnati con i vertici dell’Azienda. Mi auguro che dinanzi a un evento così drammatico e lacerante e che falcia una vita così giovane, nessuno – ripeto nessuno – voglia accomodarsi al tavolo degli opportunismi di qualsiasi natura”.

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Piacenza, tir si lancia su picchetto davanti alla Gls: ucciso un operaio

Questa notte, durante un picchetto indetto dall’Usb davanti alla Gls di Piacenza, un operaio è stato travolto e ucciso da un tir che ha forzato appositamente il blocco indetto dai lavoratori. Secondo testimoni presenti sul posto, l’uomo alla guida del mezzo sarebbe stato incitato da un addetto molto vicino all’azienda. A Roma alle 15 è stata convocato un presidio sotto il Ministero del Lavoro.

Questa notte a Piacenza si stava svolgendo un picchetto di lavoratori dell’Usb davanti alla Gls di Piacenza. Il blocco a un certo punto è stato forzato da un tir, che si è lanciato sugli operai che stavano lì davanti: un uomo di 53 anni è stato così ucciso davanti ai suoi colleghi. Un fatto gravissimo, soprattutto perché sembra che l’uomo alla guida del mezzo fosse stato incitato da un addetto vicino all’azienda, che lo spronava a partire e a investire il picchetto di lavoratori. Per denunciare il gravissimo fatto accaduto, i lavoratori hanno convocato una conferenza stampa alle 11 davanti il magazzino: intanto il presidio continua a diventare sempre più grande, con numerose persone che stanno arrivando a portare la loro solidarietà agli operai. Anche a Roma è stato lanciato un presidio sotto il Ministero del Lavoro alle 15 e probabilmente altri appuntamenti si aggiungeranno nel corso della giornata. Pubblichiamo qui di seguito il comunicato dell’Usb in merito a quando accaduto questa notte.

UN LAVORATORE DELL’USB DURANTE UN PICCHETTO E’ STATO ASSASSINATO ALLA GLS DI PIACENZA.

PIACENZA 14 settembre ore 23.45 si muore per lottare si muore per i diritti.

“Ammazzateci tutti” è il grido dei lavoratori della logistica di Piacenza.

Un nostro compagno, un nostro fratello è stato assassinato durante il presidio e lo sciopero dei lavoratori della SEAM, ditta in appalto della GLS questa notte davanti ai magazzini dell’azienda.

Il gravissimo fatto è l’epilogo di una serata di gravi tensioni, la USB aveva indetto una assemblea dei lavoratori per discutere del mancato rispetto degli accordi sottoscritti sulle assunzioni dei precari a tempo determinato. Di fronte al comportamento dell’azienda i lavoratori, che erano rimasti in presidio davanti ai cancelli, hanno iniziato lo sciopero immediato. Proprio durante l’azione di sciopero, un lavoratore, padre di 5 figli e impiegato nell’azienda dal 2003, è stato assassinato, sotto lo sguardo degli agenti di polizia da un camion in corsa che ha forzato il blocco.

Questo assassinio è la tragica conferma della insostenibile condizione che i lavoratori della logistica stanno vivendo da troppo tempo. L’USB si impegna alla massima denuncia dell’accaduto: violenza, ricatti, minacce, assenza di diritti e di stabilità sono la norma inaccettabile in questo settore.

Oggi 15 settembre alle ore 11.00 conferenza stampa davanti al magazzino di Piacenza.

Prosegue comunque il presidio dei lavoratori che si è formato dopo la tragedia e si sta arricchendo sempre più con l’arrivo di altri lavoratori degli stabilimenti vicini.

 

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/piacenza-tir-si-lancia-su-picchetto-davanti-alla-gls-ucciso-un-operaio

Loi Travail (Francia – riforma del lavoro); Sciopero Sociale transnazionale

 

238° puntata: corrispondenza con la Francia; in collegamento un co-redattore di Corrispondenze Operaie, un compagno di Chroniques syndicales, trasmissione di Radio Libertaire (attiva a Parigi dal 1981) che parla di conflitti lavorativi, e una compagna francese che ci aiuta nella traduzione.

Parliamo della Loi El Khomry (la riforma del lavoro, anche conosciuta come Loi Travail) e delle mobilitazioni di protesta che da marzo infiammano tutta la Francia. Per il 14 giugno è prevista una nuova mobilitazione nazionale.

La seconda corrispondenza con una compagna, di stanza a Parigi, della piattaforma per lo Sciopero Sociale transnazionale, che ci informa di un incontro previsto per l’11 giugno in Place de la Republique, la piazza che è caratterizzata, da marzo, dalle Nuit Debout (Notti in piedi). Nello specifico, inoltre, per l’autunno si sta organizzando un incontro sulla convergenza delle lotte a livello europeo in cui cercare di coinvolgere i lavoratori di Amazon francesi, tedeschi e polacchi.

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Fonte:

http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/loi-travail-francia-riforma-del-lavoro-sciopero-sociale-transna

Corteo in ricordo di Clément Meric

Domenica 05 Giugno 2016 15:08

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Il 4 di giugno a Parigi si è reso omaggio con un corteo antifascista partecipato e determinato a Clément Méric, militante antifascista ucciso da estremisti di destra tre anni fa. La manifestazione di ieri arriva in pieno movimento sociale contro la Loi travail, in un momento di criminalizzazione dei gruppi militanti che vede un particolare accanimento nei confronti dei compagni dell’Antifa Paris Banlieue, in seguito al caso della macchina della polizia bruciata, per la quale alcuni di loro sono stati accusati. Proprio in questo senso va letta la decisione della prefettura di obbligare la manifestazione di ieri a percorrere il canale sul quai de Valmy, luogo ostile in termini di mobilità per la prossimità al canale e luogo in cui la famosa macchina della polizia è stata data alle fiamme qualche settimana fa. Molti slogan hanno infatti mostrato la solidarietà agli incolpati sottolineando la strategia della prefettura a colpire nel mucchio cercando di delegittimare e indebolire il movimento.

Arrivati dunque all’altezza di quai de Valmy la polizia ha deciso di bloccare il corteo che avrebbe dovuto proseguire il percorso fino a Menilmontant effettuando una sorta di vendetta a colpi di cariche violente, lacrimogeni, granate (le stesse che hanno ridotto in coma un giornalista due settimane fa) e flashball. Nonostante la volontà delle prime file di proteggere il corteo e di avanzare, la violenza del dispositivo poliziesco ha impedito alla manifestazione di continuare oltre, finendo per creare una “nassa” (modalità di accerchiamento dei manifestanti) sotto una pioggia di lacrimogeni. La situazione si è quindi cristallizzata per più di quattro ore, concludendosi con varie decine di persone portate in commissariato per un controllo di identità, dove all’uscita hanno trovato un presidio di solidarietà ad attenderle.

Il 4 giugno a Parigi è stata una giornata importante, densa di voci che all’unisono hanno scandito “Siamo tutt* antifascist*”, di solidarietà di fronte a chi tenta di dividere chi lotta, di ricordo a tutte le vittime del fascismo e della polizia. Ma anche difficile da affrontare in un contesto sempre più repressivo che ha il chiaro obiettivo di impedire con ogni arma, poliziesca o giuridica, l’espressione del conflitto.

Da Clement a Dax passando per Zyed e Bounna, un solo grido : on n’oubli pas on ne pardonne pas (non dimentichiamo e non perdoniamo).

Parigi 5 giugno 2016

Fonte:

Ottava giornata di scioperi in Francia

Dal blog di Bob Fabiani:

May

26

Ottava giornata di scioperi in Francia.

Oggi, 26 maggio, i lavoratori delle 19 centrali nucleari del paese hanno deciso di aderire allo sciopero per un giorno. La mobilitazione contro la #LoiTravail ha già coinvolto altri settori, tra cui l’aviazione civile, le ferrovie e i porti. Sei delle otto raffinerie sono chiuse e le autorità francesi sono state costrette a imporre il razionamento dei carburanti e ad attingere alle riserve strategiche. Il premier Manuel Valls – più arrogante che mai – ha ribadito ieri, 25 maggio, che il suo governo non è disposto a negoziare sulla riforma (sbagliata secondo i francesi).
(Fonte.:bbc)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/world-europe/french-labour-dispute-nuclear-power-plant-workers-to-joint-strike

Fonte:

La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

9 maggio: Festa per Ciro Principessa

9 maggio: Festa per Ciro Principessa

Expo 2015 e le diverse forme di violenza

Voglio scrivere una mia personale riflessione su quello che è accaduto e sta accadendo in questi giorni per l’Expo 2015. A me fa schifo l’Expo, sono sempre stata contraria e mi fa schifo anche quello che è successo il primo maggio a Milano, non tanto perchè mi preoccupi la conta dei danni, ma perchè quelli che hanno spaccato e bruciato alla cazzo per l’ennesima volta, non c’entrano nulla con la politica. E’ solo gente che non ha niente di meglio da fare. E così rovinano tutto il lavoro dei movimenti No Expo che da tempo si davano da fare per cercare di far capire le ragioni del perchè non si può pensare di nutrire il pianeta con la merda delle multinazionali – come McDonald’s e Coca Cola, solo per fare qualche esempio – nè con lo sfruttamento gratis nascosto sotto il termine “volontariato” nè con l’inquinamento causato dalla Via d’Acqua  nè con le politiche di occupazione, permettendo la partecipazione di paesi come Israele. Io sono dell’idea che le proteste per essere efficaci e sensate dovrebbero essere fatte con intelligenza, non bruciando alla cazzo, ma facendo casino in altro modo, con modi che facessero sentire la propria voce, portando per strada veri lavoratori, con l’arte, con la musica, con gli slogan, con strumenti musicali, con strumenti qualsiasi, mostrando facce pulite contro l’ipocrisia dei potenti. E questo in qualche modo è stato fatto durante il corteo dai movimenti No Expo. Ma, sì sa, i media preferiscono dare spazio alle immagini di violenza e questo fa sì che episodi simili coprano la vera faccia dei movimenti. Io penso che se  poi proprio si volessero fare delle azioni dimostrative avrebbe più senso farle invece che contro vetrine e macchine a caso, contro le sedi delle istituzioni per esempio. Ma credo pure che queste siano cose che lascerebbero il tempo che trovano e che l’invito al boicotaggio e a seguire percorsi alternativi, su modelli di produzione sostenibili, resterebbe, nel lungo periodo, la forma migliore per un  progetto politico dal basso.
Detto questo,  mi preme ora evidenziare quelle che per me sono diverse forme di violenza. Credo non ci sia solo la violenza dei black block. C’è la violenza dei media che sbattono sulle pagine di tutti i giornali foto e un’intervista fatta chissà come di un vecchio compagno anarchico, Lello Valitutti, presente in questura durante l’omicidio di Pinelli. Un compagno che nonostante l’età e la disabilità da una grande testimonianza essendo presente alle più importanti mobilitazioni e che si è visto prima picchiato e minacciato di morte da parte della polizia – come lui stesso riferisce – e poi etichettato dai giornali come il black block in carrozzina. C’è la violenza di una legge fascista da codice Rocco, come quella del reato di devastazione e saccheggio per cui sono previste pene fino a 15 anni di carcere, che gli arrestati di questi giorni (ammesso siano colpevoli) adesso rischieranno. Si ripete così lo stesso copione degli arresti per il g8 2001.
C’è, inoltre, una violenza ancora più taciuta: quella della morte di un giovane ragazzo di soli 21 anni di origine albanese, Klodian Elezi. Klodian lavorava al cantiere della Teem, la tangenziale est esterna milanese, una delle tre opere infrastrutturali di Expo. A poche settimane dall’apertura dell’Esposizione Universale, Klodian è morto cadendo da più di dieci metri d’altezza mentre smontava un ponteggio. Secondo diverse testimonianze, l’azienda per cui lavorava, la Iron Master, non avrebbe fornito né imbracatura né casco di sicurezza.
Per un evento mondiale, che pretende di nutrire il pianeta attraverso lo sfruttamento di giovani al servizio di multinazionali, un ragazzo è morto per mancanza di sicurezza sul lavoro. Ma nessuno ha tempo per pensarci. C’è una città da ripulire e un grande evento da portare avanti, anche se i padiglioni sono fatiscenti e cadono a pezzi, come le illusioni che nascondono.

D. Q.

 

elezi-klodian

(Fonte immagine: http://www.giuliocavalli.net/2015/05/01/buon-primo-maggio-klodian-morto-po-dexpo/


 

 

 




Tonino Micciché

Venerdì 17 Aprile 2015 07:21

17 aprile 1975, 19 di sera, quartiere operaio della periferia nord di Torino. Un gruppo di compagni e compagne del comitato di lotta

17 aprileper la casa di Falchera sta sistemando la sua nuova sede appena liberata. Tra loro c’è Tonino Micciché, 25 anni, emigrato siciliano, ex operaio Fiat licenziato per motivi politici. Un uomo col soprabito si avvicina al gruppo. Cammina tranquillo. Quando si trova a un metro da Tonino estrae una calibro 7.65, di quelle in dotazione alle guardie giurate, e spara. Dritto in fronte: Tonino muore all’istante.
Emigrare al nord per trovare lavoro significa rinunciare alla propria terra, alla vicinanza degli affetti, alla casa. Perché i grandi industriali del Piemonte si sono scordati, nei loro piani di produzione, di pensare che quelle migliaia di operai che risalgono la penisola, abbiano anche bisogno di un tetto sotto il quale passare le poche ore che separano un turno dal successivo. Così nascono le speculazioni. Il centro storico è pieno di soffitte in cui i letti vengono condivisi da tre o più persone, “che quando arrivi per coricarti devi svegliare il compagno che ti liberi il posto“. La risposta della Fiat all’emergenza abitativa sarebbe quella di sistemare le maestranze in vecchi stabilimenti della cintura torinese isolati dallle città, che vengono pubblicizzati come “ fiore all’occhiello, con tutti i comfort, con attorno giardini verdi, dove i buoni operai [potrebbero] rigenerarsi dalle fatiche della catena di montaggio e liberare il corpo e lo spirito al contatto con la natura“. Addirittura Cgil, Cisl e Uil si oppongono a quelli che definiscono “villaggi di concentrazione”.
Le case popolari esistono, e formano veri e propri ghetti fuori dalle “mura” della Torino bene. Sono stati fatti costruire interi quartieri dormitorio alla periferia estrema della città, e a Falchera e Mirafiori lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) inizia ad edificare nuovi lotti per un totale di 20.000 abitanti. Le pratiche per l’assegnazione sono lente e sempre più famiglie si trovano strette nella morsa di affitti esorbitanti e alloggi fatiscenti.
Da queste premesse iniziano le occupazioni, che se nascono in modo molto spontaneo, non tardano a convergere in percorsi politici di appositi comitati di quartiere. A Falchera, quartiere costruito negli anni ’50 in barriera di milano, si assiste al fenomeno più ampio. Centinaia e centinaia di famiglie arrivano da tutta la città e si organizzano per occupare e amministrare le case non ancora assegnate. La risposta istituzionale non si fa attendere. Immediatamente lo IACP riprende a piena lena le assegnazioni degli alloggi, in modo da mettere assegnatari e occupanti gli uni contro gli altri. Dal canto loro i giornali iniziano subito a spendersi per dipingere il fenomeno come parte della tanto comoda “guerra tra poveri”.
Nel comitato di occupazione di Falchera, Tonino Micciché diventa presto una figura tra le più importanti: è lui che va a parlare con le istituzioni quando è necessario, ed è lui che spesso si prende la briga di assegnare gli alloggi alle nuove famiglie di occupanti. E’ lui che viene eletto dai suoi compagni “il sindaco di Falchera”. Il motivo del suo omicidio va ricercato nel clima di tensione che l’IACP ha tentato di creare tra occupanti e assegnatari. Nonostante la maggior parte degli assegnatari condivida con gli altri le esperienze di lotta e la militanza nei comitati, restano comunque alcuni, pochi, che dal loro status di “privilegati” vogliono trarre il massimo. Tra questi ultimi anche Paolo Fiocco, guardia giurata iscritta alla CISNAL, che si è preso un box auto in più oltre a quello già assegnatogli dall’Istituto. In quel box il comitato per la casa vorrebbe fare le sue riunioni, e non valendo a nulla le richieste di liberarlo fatte a Fiocco, decide di prenderselo quel 17 aprile 1975.

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/1173-17-aprile-1975-lomicidio-di-tonino-miccich%C3%A9