La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

Per Edo

Lo sa solo il cielo il perché. Per sempre con noi. Ciao Edo
curva nord – stadio Marassi – Genova

I colori non dividono un’amicizia. Ciao Edo
curva sud – stadio Marassi – Genova

 

Edoardo e Carlo si conoscono al liceo scientifico: Carlo è in 3° (Carlo è avanti un anno), Edo in 1°. Tra loro nasce subito un’amicizia forte che li lega oltre la scuola, negli interessi comuni, nelle amicizie, nelle partite a pallone.
Un’amicizia che continua a tenerli vicini, anche dopo la fine della scuola; come è normale nella vita, alternano momenti in cui si frequentano di più, a periodi in cui non si sentono per un po’… per poi tornare insieme.

Dopo il 20 luglio 2001, Edo scriverà su un muro di Piazza Manin, (la piazza degli incontri con gli amici comuni), “Un amico, un fratello: ciao Carlo”.

E dal 20 luglio 2001, Edoardo non riuscirà più a staccarsi da Piazza Alimonda.
Fino al 2 febbraio 2002.
Edoardo va in Svizzera, a Zurigo, per partecipare alla manifestazione contro il WTO e poi per seguire una sua grande passione: il Genoa, che giocherà a Como.
Si incontra con un suo amico, Mattia, che abita a Riva San Vitale, e vanno insieme al corteo. Quando tornano a casa, Edo si sente stanco, dice all’amico che ha voglia di dormire un po’ e si sdraia su un letto…
E’ il 2 febbraio 2002, Edoardo muore per una miocardite.

 

 

 

Fonte:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/edo/index.php

 

Su Elena Angeloni, Carlo Giuliani, stragi di Stato e depistaggi

Ripropongo qui un mio vecchio articolo leggermente modificato.

 

 

Oggi è l’anniversario della morte di Elena Angeloni. Infoaut (che ha il merito di avere una sezione, denominata Storia di classe, dedicata alla memoria) ha pubblicato un articolo per ricordare il fallito attentato (dimenticando di dire che nelle intenzioni di chi lo aveva preparato doveva essere solo dimostrativo ma poi qualcosa è andato storto causando la morte dei due compagni, Angeloni e il giovane militante greco Giorgio Tsekouris) all’ambasciata Usa di Atene il 2 settembre 1970.
Qui potete leggere l’articolo di Infoaut: http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2481-2-settembre-1970-fallito-attentato-del-superclan-allambasciata-usa-di-atene
Purtroppo sul web non si trovano informazioni soddisfacenti sulla storia di Elena Angeloni un pò perchè fu a lungo dimenticata o taciuta un pò perchè fu tirata in ballo solo qualche anno fa in un articolo del quotidiano Il giornale. L’articolo in questione arriva ad accennare alla storia di Angeloni partendo dall’analisi di alcune foto del giovane Carlo Giuliani durante le manifestazioni del g8 del 2001. Il giornalista, Gian Marco Chiocci, mette in relazione due eventi completamente diversi così come lontani nel tempo (la donna è morta otto anni prima che nascesse Carlo), perchè Angeloni era la zia di Giuliani. Così facendo l’autore tenta di dar credito alle sue analisi delle foto di Carlo – descritto come un black block – come se le vicende passate della zia (peraltro poco conosciute come lo stesso giornalista ammette), potessero fornire la prova mancante del profilo criminale del giovane Carlo Giuliani, qualora non bastassero il passamontagna e le barricate. Qui l’articolo: http://www.ilgiornale.it/news/ecco-foto-inedite-black-bloc-giuliani.html
Su questo articolo e su uno più recente sempre dello stesso autore sulle stragi di Bologna e di Piazza della Loggia (dove Gian Marco Chiocci parla di depistaggi e tenta di rispolverare l’ipotesi – da tempo dimostrata essere falsa – delle piste rosse, questa, sì, vero depistaggio: qui l’articolo di Chiocci sulle stragi: http://www.ilgiornale.it/news/interni/stragi-e-br-quei-depistaggi-bologna-e-brescia-854592.html), ha scritto qualche tempo fa, sul suo blog, Francesco “baro” Barilli. Barilli è autore, tra l’altro, del bellissimo libro Carlo Giuliani, il ribelle di Genova , edito da BeccoGiallo, con disegni di Manuel De Carli, in cui si racconta , anche attraverso il dialogo con i familiari del ragazzo, la vera storia di Carlo.

 

CARLO GIULIANI

Francesco Barilli vanta una vasta pubblicazione sui temi del g8 di Genova, sulle stragi di Stato e su diversi fatti di cronaca. Vale la pena dunque leggere la sua amara riflessione su un certo modo di fare giornalismo dove dà anche un accenno del contesto storico della vicenda in cui perse la vita Elena Angeloni. Per la vera storia di Angeloni, Barilli rimanda ad un testo molto interessante scritto da Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani e pubblicato nel 2012 da DeriveApprodi: il libro s’intitola Non per odio ma per amore. Storie di donne internazionaliste, nel quale si narrano, attraverso dei racconti, le storie di sei donne, tra cui Elena Angeloni, che hanno dedicato le loro vite a sostegno delle lotte di liberazione di altri popoli.

 

A questo link potete leggere la riflessione di Barilli: http://francescobarilli.blogspot.it/2013/01/da-piazza-della-loggia-carlo-giuliani.html
Concludo dicendo che il mio voleva essere un post per ricordare Elena Angeloni ma vi sono storie che si intrecciano con altre e la memoria è fatta anche di questo, di rimandi, di collegamenti perché non si spezzi il filo della storia e perché si cerchi di fare della verità il fine dell’informazione.

 

D.Q.

Piovono pietre, Lauro da Piazza Alimonda all’Olimpico

Il vicequestore Lauro è il nuovo responsabile sicurezza dell’Olimpico. Fu lui che il 20 luglio 2001 accusò un manifestante di aver ucciso Carlo Giuliani con un sasso

 

di Checchino Antonini

«Piovono pietre, si potrebbe dire così, all’Olimpico», dice Giuliano Giuliani dopo aver appreso questa notizia da Popoff. La prima stagionale all’Olimpico per la Roma di Garcia, contro il Fenerbahce, coincide con il battesimo del vicequestore Adriano Lauro, dal 19 agosto dirigente del commissariato Prati e nuovo responsabile del Gos, il Gruppo operativo sicurezza che s’è riunito oggi per mettere a punto l’organizzazione della sfida contro i campioni turchi. Lauro, che arriva da San Basilio, sostituisce Bruno Failla, trasferito al commissariato Trevi.
In una stagione che si annuncia particolarmente delicata, dopo la morte del tifoso napoletano Ciro Esposito, per cui è indagato l’ex ultrà fascista e romanista Daniele De Santis, lascia perplessi la designazione di Lauro, che il 20 luglio 2001 durante il tragico G8 di Genova, gestì l’ordine pubblico in piazza Alimonda, proprio dove e mentre fu ucciso Carlo Giuliani. Era lui il personaggio che mise in scena, a uso probabilmente delle telecamere Mediaset, la breve rincorsa a un manifestante gridando all’incirca: “Sei stato tu a uccidere Carlo col sasso che hai tirato!”. Ma se qualcuno ha adoperato una pietra è stato certamente un carabiniere («a meno che non sia stato il bosone di Higgs», ironizza il padre di Carlo) come si può evincere dalle foto scattate nell’immediatezza nelle quali c’è un grosso sasso che “cambia posto” intorno alla testa del ragazzo ucciso.

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/08/13/piovono-pietre-lauro-da-piazza-alimonda-allolimpico/

Carlo Giuliani

Il 20 luglio 2001, durante il G8 di Genova, a Piazza Alimonda, rimase ucciso il giovane Carlo Giuliani.
Questo è il sito del Comitato a lui dedicato:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/

BREVE CRONOLOGIA DEI FATTI DEL 20 LUGLIO 2001:
PIAZZA ALIMONDA ORE 17.27

Venerdì 20 luglio
Il vicepresidente del Consiglio, on. Gianfranco Fini, con altri esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui l’on. Ascierto, si trovano nella Caserma dei Carabinieri di San Giuliano dove si trattengono per diverse ore. Le forze dell’ordine vengono dislocate nelle zone dove passeranno i cortei e nelle vicinanze delle piazze tematiche.
Sono stati rimossi i cestini della spazzatura ma molti cassonetti si trovano tuttora lungo i percorsi e nelle piazze dove si raccolgono i manifestanti.
Fin dalla mattina compare il Black block: gruppi di 10, 15, al massimo 20 persone alla volta, molte delle quali dall’accento straniero, si aggirano per la città distruggendo vetrine, incendiando cassonetti, auto, motorini.
Fanno incetta di sassi, spranghe e bastoni.
Diversi privati cittadini, da varie zone della città, denunciano il fatto alle autorità competenti. Un gruppo si concentra in piazza Paolo da Novi, la piazza tematica dei Cobas; inizia a smantellare la pavimentazione e a caricare i cassonetti con pietre.
Alcuni manifestanti tentano di fermarli.
Le forze dell’ordine, che si trovano a breve distanza, no.
Indietreggiano, sparando lacrimogeni. Li inseguono nelle vie adiacenti senza mai fermarli davvero.
(Alcuni filmati, anche del sabato, riprenderanno strani personaggi che prima parlano con le forze dell’ordine e poi si avvicinano ad alcuni Black block. Altri filmati riprendono dei personaggi che, in motorino, prima parlano con i Black block, poi con le forze dell’ordine, e così via).
Il black block passa sotto il tunnel della ferrovia all’altezza di corso Torino dividendosi quindi in due gruppi : uno si dirige verso il Carcere, l’altro sale la scalinata Montaldo verso piazza Manin.
Ore 15. Un filmato riprende alcuni blindati dei Carabinieri nella piazza antistante il Carcere di Marassi e gruppi di agenti a piedi.
Una ventina di Black block si avvicina al carcere lanciando sassi.
I Carabinieri si ritirano.
I Black block rompono alcuni vetri delle finestre del Carcere e incendiano un portone ed una finestra. Poi se ne vanno indisturbati.
Nel frattempo il corteo dei Disobbedienti, “armati” con scudi di plexiglass, imbottiture di polistirolo, gommapiuma e bottiglie di plastica, lasciato lo Stadio Carlini, si avvia lentamente lungo il tragitto autorizzato, incontrando sul suo cammino cassonetti rovesciati e auto bruciate.
A metà di via Tolemaide viene duramente e improvvisamente aggredito dai Carabinieri, sostenuti da 4 blindati. Ricordiamo che i portavoce dei Disobbidienti avevano precedentemente concordato con la Questura il percorso fino a piazza Verdi, (la piazza che si trova di fronte alla stazione Brignole). Ci sarebbero, quindi, ancora circa 500 metri di strada da percorrere. La zona rossa, protetta dalle grate in ferro, è ben più lontana.
L’attacco respinge per alcuni metri i manifestanti che, retrocedendo, si compattano verso corso Gastaldi. Non ci sono vie di fuga: alle spalle 10000 persone premono non comprendendo cosa stia accadendo; da un lato la massicciata della ferrovia, dall’altro file continue di palazzi.
Nel frattempo, i Black block saliti a piazza Manin, dove sono radunati Pax Christi, Mani Tese, Rete Lilliput, ecc., proseguono indisturbati verso piazza Marsala; dietro a loro sopraggiunge la Polizia che spara lacrimogeni e carica i pacifisti con le mani, pitturate di bianco, alzate; vengono picchiate e ferite soprattutto le donne.
Tornando a via Tolemaide, dopo ogni carica al corteo dei Disobbedienti, i blindati e i militari indietreggiano, ritirandosi fino all’angolo con corso Torino.
Alcuni ragazzi del corteo li inseguono, tirando sassi e cercando di rompere i vetri dei blindati.
Una camionetta, dopo aver percorso a velocità sostenuta, su e giù, quel tratto di strada, minacciando di travolgere i manifestanti, si blocca improvvisamente a marcia indietro contro un cassonetto. L’autista fugge lasciando soli i colleghi.
I carabinieri schierati poco più avanti non intervengono in loro aiuto.
I ragazzi assaltano il blindato, visibilmente infuriati, con sassi e spranghe; permettono comunque ai carabinieri che occupano il mezzo di allontanarsi. Quindi lo incendiano.
La Polizia respinge il corteo in via Tolemaide.
Ore 16.30 circa – Carlo si unisce al corteo dei Disobbedienti, che già da tempo, bloccato frontalmente, stremato dalle cariche ripetute, intossicato dai lacrimogeni, scottato dagli idranti urticanti, tenta di defluire per le vie laterali e di tornare al Carlini.
Carlo indossa un pantalone della tuta blu, una canottiera bianca e una giacca della tuta grigia legata in vita.
A questo punto le forze dell’ordine, carabinieri e polizia, attaccano nuovamente il fronte del corteo: blindati lanciati a 70Km/h sui ragazzi, idranti urticanti, colpi d’arma da fuoco, lacrimogeni al gas CS, manganelli Tonfa.
I ragazzi rispondono lanciando sassi, lanciando indietro alcuni lacrimogeni, facendo piccole barricate con i bidoni per la raccolta differenziata della carta e della plastica.
Carlo indossa il passamontagna blu.
Sul fianco di via Tolemaide si aprono 2 strade strette, che portano in piazza Alimonda.
Ore 17.15. Un drappello di una ventina di carabinieri appoggiato da 2 defender si posiziona in una di queste due stradine. Partono i lacrimogeni, che vengono lanciati in mezzo al corteo.
I manifestanti reagiscono.
I militari, improvvisamente, cominciano ad indietreggiare, fino a scappare disordinatamente verso via Caffa, attraverso piazza Alimonda.
Un gruppo di manifestanti li inseguono urlando.
I due defender proseguono in retromarcia, superano un primo cassonetto che si trova in mezzo alla strada di fronte alla Chiesa del Rimedio.
Un defender, raggiunto uno slargo, fa manovra e raggiunge i colleghi in via Caffa; l’altro si ferma contro un cassonetto di rifiuti mezzo vuoto che si trova sul lato destro della strada.
Un plotone di polizia, con defender e blindati, è schierato in via Caffa a pochi metri dal defender. Un ingente schieramento di forze di polizia e blindati si trova in piazza Tommaseo, la piazza in cui sfocia via Caffa, lunga 300 metri.
Alcuni manifestanti raggiungono il defender fermo in piazza Alimonda, alcuni di loro tornano indietro verso via Tolemaide, altri cominciano a tirare sassi contro le forze dell’ordine schierate in via Caffa, altri ancora lanciano pietre e tirano colpi con assi di legno al defender.
Una persona raccoglie da terra un estintore, comparso sulla scena in questo momento, e lo lancia da una distanza ravvicinata e nel senso della lunghezza, contro il defender; l’estintore colpisce il lunotto posteriore e cade fermandosi sulla ruota di scorta.
Uno scarpone spunta dal lunotto e lo scalcia facendolo rotolare a terra.
In questo momento attorno al defender ci sono 4 fotografi e 5 manifestanti.
Una pistola spunta dal lunotto posteriore.
Un ragazzo con la felpa grigia vede la pistola, si china e scappa.
Carlo, si avvicina, si china a raccogliere l’estintore, si alza in torsione per ritrovarsi quasi di fronte al retro del defender…
… Solleva l’estintore sopra la testa…

In questo momento, Carlo si trova a 3,37 metri di distanza dal lunotto posteriore del defender.
Sono le 17.27.
Parte il primo sparo.
Carlo cade a terra in avanti, trascinato dall’estintore che sta lanciando, e rotola sul fianco destro verso il defender.
I manifestanti presenti nella piazza scappano precipitosamente mentre parte un secondo colpo di pistola. I fanali della retromarcia del defender sono accesi.
Qualcuno grida “fermi, stop” al Defender che passa due volte sul corpo di Carlo, una prima volta in retromarcia sul bacino, la seconda in avanti sulle gambe.
Sono passati 5 secondi dal secondo sparo quando il defender è già in via Caffa, oltre lo schieramento della Polizia.
I giornalisti che si trovano vicino al defender cominciano a fotografare e riprendere Carlo a terra, che sta morendo.
Si avvicinano alcuni manifestanti che cercano di fermare lo zampillo di sangue che sgorga a ritmo cardiaco dallo zigomo sinistro di Carlo.
A questo punto, le forze di polizia avanzano, sparando lacrimogeni e disperdendo i pochi manifestanti ancora nei pressi.
Le forze di polizia circondano il corpo.
10 minuti dopo, un’infermiera del GSF che cerca di soccorrere Carlo sente ancora il suo cuore che batte. Arriva una seconda infermiera.
Le infermiere tolgono il passamontagna a Carlo e notano sulla fronte una grossa e profonda ferita che non sanguina, una ferita, dunque, che è stata provocata da un colpo in fronte inferto dopo l’uccisione. Sulla tempia destra di Carlo ci sono abrasioni e ferite.
Più di un testimone racconterà di aver visto rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno preso a calci in testa Carlo prima che arrivassero le infermiere del GSF.

Nella relazione del primo semestre 2002, i Servizi Segreti italiani hanno ammesso “infiltrazioni di elementi di estrema destra tra i black block a Genova durante le manifestazioni anti-G8”.

Tutto quanto raccontato è visibile dai numerosi filmati elencati in questo sito alla voce “Bibliografia”, o dalle numerose fotografie riportate nelle contro-inchieste.
Sul Black Block e l’assalto al Carcere di Marassi si veda in particolare “Le strade di Genova”, di Davide Ferrario.

» La ricostruzione e qualche domanda

 

 

Fonte:
http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/20lug.php

Nel sito del Comitato Piazza Carlo Giuliani è presente molto altro  materiale, tra cui videi di documentari che ricostruiscono l’omicidio. Rinvio alla visita del sito stesso.

Su Carlo Giuliani ho letto un paio di libri di cui consiglio la lettura. Si tratta di una raccolta di racconti  dedicati a Carlo e pubblicati a dieci anni dalla sua uccisione e di un grafic novel che ne racconta la vita.

Per sempre ragazzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CARLO GIULIANI

 

La famiglia Giuliani da quel giorno lotta per sapere la verità sull’omicidio del figlio, sui fatti del g8 di Genova 2001 e dà il suo sostegno anche per tutti gli altri casi di malapolizia. Costante è dunque l’impegno della madre Haidi Gaggio Giuliani , cofondatrice, insieme a Francesco Barilli, del sito http://www.reti-invisibili.net/, del padre Giuliano e della sorella Elena.

Qui gli ultimi articoli sull’omicidio di Carlo:

G8, "Giusto sparare a Giuliani" Sallusti a giudizio per diffamazione

 

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/23/APcfvxoF-giuliano_giuliani_voglio.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/26/APbPurpF-giuliano_giuliani_morto.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/10/09/AQhu73c-ritorna_morte_giuliani.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/01/27/AQ0MALdB-credevo_colpito_giuliani.shtml

http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/03/27/news/g8_giusto_sparare_a_giuliani_sallusti_a_giudizio_per_diffamazione-82065957/

Segnalo il prossimo evento organizzato per ricordare Carlo:

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?tribe_events=per-non-dimenticarlo-genova-19-20-luglio-2014

G8 Genova, fotoreporter Mark Covell: “Voglio i nomi di chi mi stava per uccidere. Nell’archivio Scajola forse la verità”

Arianna Giunti, L’Huffington Post  |  Pubblicato:   Aggiornato: 23/05/2014 11:50

 

“I responsabili del mio tentato omicidio non hanno ancora un nome. Se la verità è contenuta in quei dossier, ora è il momento di tirarla fuori. Per me e per le altre vittime”.

 

Il blitz alla scuola Diaz di Genova, una delle pagine più nere della storia della Repubblica italiana, ancora oggi dopo tredici anni continua a rimanere una ferita aperta, piena di misteri. Uno di questi è l’identità mai rivelata dei quasi quattrocento agenti in tenuta antisommossa che quella notte hanno fatto ingresso nella scuola genovese dando inizio a una feroce mattanza, in quella che è stata definita come “la più grave sospensione dei diritti umani in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

 

Alcuni di questi agenti sono responsabili di un tentato omicidio, quello del fotoreporter inglese Mark Covell: in seguito al feroce pestaggio venne lasciato a terra senza essere soccorso per venti minuti; riportò danni alla spina dorsale e è rimase in coma profondo per 14 ore. Nonostante una lunga inchiesta e tre processi la Procura di Genova, infatti, non è mai riuscita a identificarli. L’indagine sul tuo tentato omicidio è stata archiviata un anno fa dal gip di Genova Adriana Petri. Nessun testimone si è fatto avanti. I responsabili sono stati protetti da un invalicabile muro di omertà – come denunciarono gli stessi magistrati – che si è immediatamente innalzato a difesa degli appartenenti alle forze dell’ordine.

 

A capo del Viminale, in quei giorni di guerriglia urbana, sedeva Claudio Scajola. Nella cui abitazione proprio in questi giorni i magistrati che indagano sull’inchiesta Matacena hanno trovato alcuni dossier privati. Uno di questi riguarda appunto il G8 di Genova.

 

Oggi Mark Covell ha 46 anni. Disabile, vive in una casa popolare di Londra. E chiede a gran voce che si faccia luce su quei documenti, che potrebbero contenere la verità anche sui nomi degli agenti coinvolti nel blitz.

 

Lei sostiene che quei 340 nomi fossero ben noti ai vertici della polizia, ma che furono fatti sparire.

 

Esatto, le indagini coordinate dal pubblico ministero Enrico Zucca della Procura di Genova hanno trovato da subito un ostacolo enorme. Da parte delle istituzioni e dei ministri del governo Berlusconi ci fu immediatamente uno scaricabarile di responsabilità. Penso per esempio a Fini – vice presidente del Consiglio presente in quei giorni a Genova – e, appunto, a Scajola. Però tutti quanti fecero immediatamente quadrato con i servizi segreti e i vertici delle forze dell’ordine.

 

Perché Scajola, a capo del Viminale, avrebbe dovuto sapere qualcosa su quei nomi? Chi coordinò il blitz alla scuola Diaz?

 

È ormai accertato da tre sentenze che il blitz alla scuola Diaz fu ordinato per “punire” i black bloc. Erano passate poche ore dall’omicidio di Carlo Giuliani e la polizia era in fibrillazione. Il blitz alla Diaz fu pretestuoso, lo sapevano benissimo che in quel palazzo dormivano solo manifestanti inermi e giornalisti, come me. I poliziotti del I Reparto Mobile (un reparto di polizia creato ad hoc proprio in quei giorni, ndr) arrivarono portandosi dietro prove false, le bottiglie molotov. Ci sono filmati e tre sentenze che lo dimostrano. I loro capi erano tenuti ad avere una lista dei poliziotti che vi avevano preso parte. Così come di quelli appartenenti al Settimo nucleo speciale della Mobile, responsabili dei pestaggi. Succede per tutte le altre operazioni di ordine pubblico. Queste liste finiscono direttamente al Viminale.

 

Questi nomi però non vennero mai comunicati alla Procura di Genova, che li chiese una volta iniziate le indagini…

 

Solo in parte sono stati comunicati, con molta fatica. Se questo fosse stato fatto, con facilità – anche grazie alle telecamere – avremmo potuto identificare i poliziotti che mi hanno massacrato di botte fino quasi ad uccidermi, in quella che nei processi è stata definita una “macelleria messicana”. Io sono convinto che Scajola sia un personaggio chiave in questa storia. Non direttamente responsabile, sicuramente. Però sono certo che sappia molto di più di quello che, allora, ha fatto capire di sapere.

 

Secondo lei dunque in quei dossier relativi al G8 potrebbe essere contenuta la verità sul blitz di quella notte e su altri aspetti controversi di quei giorni a Genova?

 

Io sono convinto che qualcuno abbia nascosto i files con i nomi dei 340 agenti. Grossissime responsabilità sono da imputare non solo ai vertici della polizia ma anche ai ministri del governo Berlusconi, che hanno insabbiato la verità, distrutto le prove e protetto i colpevoli. E poi ci sono troppe incongruenze legate a quella notte. Penso per esempio alla sostituzione del vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, l’unico che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in Tribunale. Ci devono la verità. Non solo a me ma anche a Lena Zulke, Niels Martensen, Jaroslaw Engel, Melanie Jonachse, Daniel Albright e gli altri manifestanti pestati a sangue quella notte. Se Scajola decidesse di parlare si potrebbe riaprire l’indagine sul mio tentato omicidio.

 

Ha mai ricevuto scuse ufficiali da parte delle istituzioni e dal governo?

 

Chiedere scusa significa ammettere la propria colpevolezza. E quindi certo che no, non ho mai ricevuto scuse. Il G8 di Genova continua a rimanere un’ombra nera nella mia vita, che mi perseguita. Però io voglio continuare a credere che un giorno qualche poliziotto onesto trovi il coraggio di rompere il silenzio su quella maledetta notte che ha stravolto la mia vita. Ancora oggi, quando torno in Italia, io non sono tranquillo. Vivo con la paura di incontrare uno dei poliziotti della Diaz, e che le minacce di quella notte diventino realtà.

 

 

 

 

 

Fonte:
http://www.huffingtonpost.it/2014/05/23/g8-genova-fotoreporter-mark-covell-intervista_n_5377292.html?1400837794&utm_hp_ref=fb&src=sp&comm_ref=false

Scajola e il “dopo Diaz” della polizia

 

 

di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova

Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ’77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono schioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile.

Scajola era all’epoca il ministro dell’Interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vice presidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.

Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, un “rompiscatole”. Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo).

Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto. Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di stato e il ministero dell’Interno dall’altro.

Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vice capo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.

Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti.

Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.

Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente:

“Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa”. Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.

(9 maggio 2014)
Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/scajola-e-il-%E2%80%9Cdopo-diaz%E2%80%9D-della-polizia/?fb_action_ids=656596614421337&fb_action_types=og.likes

Lino Aldrovandi: «Federico era il fratello di Francesco Lorusso»

lunedì 10 marzo 2014 21:52

Il papà di Federico: «Se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli. Siamo fratelli». Corteo a Bologna per l’11 marzo.

 


 

L’intervento del papà di Federico al presidio dell’8 marzo in via Mascarella dove, nel 1977, venne ucciso Francesco Lorusso. Nell’anniversario sono previsti il tradizionale appuntamento alle 10 e un corteo alle 18

di Lino Aldrovandi

L’11 marzo 1977, quando qui in questo posto, fu ucciso Francesco Lorusso, ma potrei fare tantissimi altri nomi di ragazzi leggermente più grandi di me morti assurdamente per mano “amica” (amica tra virgolette ovviamente), io ero un studente di quinta Itis e di lì a poco mi sarei diplomato come perito elettrotecnico. Giorgiana Masi, Roberto Franceschi, studenti universitari, alcune delle vittime uccise, di una lista lunghissima di tanti giovani, con un futuro e una vita davanti. Fino a qualche anno fa non sapevo chi fossero. Il mio pensiero e la mia preoccupazione, e forse me ne vergogno un poco, erano quelli di avere una fidanzatina, di giocare a pallone, di dire stronzate, di divertirmi. Questi ragazzi, invece, hanno dato la vita per degli ideali e questo li rende in un certo senso immortali.

“Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente”

Penso che chi ha scritto queste parole, contenute in un libro, sia una persona sensibile, speciale e grandiosa, testimone di questi tempi o meglio di “altri tempi” che è poi appunto il titolo del suo libro: Stefano Tassinari. Testimone indimenticato di un passaggio storico che non è servito ad evitare altre morti, figlie di “quei tempi”. La cara Haidi, madre di Carlo Giuliani, un giorno diceva a Patrizia: “perdonami Patrizia non sono riuscita a salvare Federico”. Cara Haidi anche io e Patrizia non siamo riusciti a salvare altri figli. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e chissà quanti. Stefano Tassinari, scrittore e poeta, con città natale Ferrara e città adottiva Bologna, ci ha lasciato un messaggio forte e chiaro: “non arrendetevi mai alle ingiustizie”. La vita è lotta, è resistenza, e non si può né contrattare né vendere.

La storia di Federico penso che la conosciate un po’ tutti e ringrazio Mauro Collina, ragazzo rivoluzionario ma dal cuore grande e giusto, che quest’anno mi ha invitato a partecipare qui con voi, in una città che amo, per condividere la memoria di un’altra ingiustizia, perché ogni giovane che muore, ricordiamocelo tutti, è una sconfitta atroce per lo Stato, ma soprattutto per chi, questi giovani, avendoli conosciuti ed amati, è costretto a sopravvivere.

Cosa possiamo fare?

Stare uniti e non stancarci mai di chiedere che i diritti di “tutti” siano sempre rispettati, e mai calpestati, soffocati o uccisi come i nostri ragazzi.

C’è una frase famosa che credo ci accomuni tutti: “se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli”.

Siamo fratelli.

Ecco anche il comunicato che convoca le iniziative per l’anniversario dell’11 marzo:

“L’istruttoria svolta contro di noi ha avuto caratteri di inquisizione contro il movimento. Essa è una mostruosità giuridica prodotta da una mostruosità politica, ha avuto origine dal tentativo di trovare dei ‘responsabili’ cui attribuire la gravissima colpa di avere sconvolto la pace sociale regnante nella città ‘più democratica del mondo’…

Il nostro movimento è stato represso duramente perché ha rifiutato di integrarsi, perché si è posto come punto di riferimento alternativo per gli strati emarginati e sotto-occupati, per lottare contro le loro precarie condizioni materiali…

Ciò che si è dovuto colpire è quello che rappresentiamo, la nostra colpa gravissima è di essere tenuti responsabili delle autoriduzioni, delle occupazioni, della contestazione alla amministrazione comunale; affermiamo che quello che si vuole introdurre a livello giuridico è un vero e proprio concetto di rappresaglia”.

Queste parole furono lette dai compagni arrestati nelle giornate del marzo ’77 nell’aula del tribunale di Bologna, durante il processo. Andrebbero bene anche in questi giorni come risposta ai provvedimenti repressivi (i divieti di dimora) notificati il 6 marzo scorso a 12 compagni che nel maggio 2013, assieme ad altre centinaia di manifestanti, si opposero alla militarizzazione di Piazza Verdi.

Quella fu una giusta pratica di resistenza che studenti e precari attuarono per ribadire nel cuore della cittadella universitaria, come in qualsiasi altra piazza pubblica i propri spazi di libertà e autonomia.

Del resto, dal ’77 ad oggi, Piazza Verdi ha visto tante volte tentativi di normalizzazione ed ogni volta nuove generazione di movimento si sono contrapposte e battute contro questi tentativi.

Per queste ragioni, condividiamo la scelta di organizzare per il pomeriggio dell’11 marzo un corteo che ricordi l’assassinio di Francesco Lorusso da parte dei Carabinieri, avvenuto in via Mascarella 37 anni fa, e per esprimere la solidarietà incondizionata ai compagni colpiti dai provvedimenti di Polizia di questi giorni.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare alla manifestazione.

“Siamo colpevoli di avere professato pubblicamente le nostre idee, di appartenere al movimento 77, di non accettare alcun compromesso”, affermarono i compagni arrestati davanti al giudice. “Da quel giorno dell’11 marzo abbiamo cercato costantemente di spostare lo squilibrio dalla paura verso la libertà”. Oggi siamo ancora lì che ci stiamo provando.

Vag61 – Spazio libero autogestito

– alle 18 manifestazione @ piazza Verdi

– dalle 21 @ Vag61 mostra e proiezione “Le strade di marzo”

La mattina dell’11 marzo 1977 a Bologna, in seguito a un contrasto sorto nell’Istituto di Anatomia fra alcuni militanti del movimento e il servizio d’ordine di Comunione e Liberazione, i giovani del gruppo cattolico si barricano all’interno di un’aula, invocando l’intervento delle forze di polizia. Appena giunti sul posto, con mezzi spropositati, i carabinieri si scagliano contro gli studenti di sinistra intenti a lanciare slogan. La carica fa subito salire la tensione. Nel corso degli scontri successivi, che interessano tutta la zona universitaria, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua, viene raggiunto da un proiettile mentre sta correndo, insieme ai suoi compagni, per cercare riparo. Muore sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Alcuni testimoni riferiranno di aver visto un uomo, poi identificato nel carabiniere ausiliario Massimo Tramontani, esplodere vari colpi, in rapida successione, poggiando il braccio su un’auto per prendere meglio la mira. Lo sparatore, arrestato agli inizi di settembre e scarcerato dopo circa un mese e mezzo, sarà in seguito prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi.

Quando si diffonde la notizia dell’assassinio, migliaia di persone affluiscono all’Università. Dopo che il corteo, partito nel pomeriggio, viene disperso da violente cariche, una parte dei manifestanti occupa alcuni binari della stazione ferroviaria, scontrandosi con la polizia, mentre altri si dirigono verso il centro della città e sfogano la propria rabbia anche infrangendo le vetrine dei negozi. Le iniziative di protesta dei giorni successivi sono duramente represse. Numerosi i fermi e gli arresti. Finiscono in carcere, tra gli altri, i redattori di Radio Alice, emittente dell’area dell’Autonomia Operaia chiusa dalla polizia armi alla mano.

I fatti di Bologna caricano di tensione l’imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.

Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell’assassinio. In quell’occasione al fratello di Francesco fu vietato l’intervento dal palco.

[Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi]

 

Fonte:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99247&typeb=0&Lino-Aldrovandi-