Le ambiguità del Vaticano sulla dittatura argentina

Papa Francesco alla basilica di San Pietro, il 20 novembre 2016. - Tiziana Fabi, Reuters/Contrasto
Papa Francesco alla basilica di San Pietro, il 20 novembre 2016. (Tiziana Fabi, Reuters/Contrasto)
  • 28 Nov 2016 16.36

L’annuncio dell’apertura degli archivi della conferenza episcopale argentina e del Vaticano è l’ennesimo tentativo di imbiancare una storia vergognosa senza fare nessuno dei passi previsti dallo stesso catechismo della chiesa cattolica per il sacramento della riconciliazione, del perdono o della penitenza: ammettere e condannare i crimini o i peccati commessi, impegnarsi a non ripeterli e riparare il danno causato. L’apertura si limiterà alla corrispondenza ecclesiastica su circa tremila vittime del terrorismo di stato, che sarà accessibile solo ai familiari diretti, ai superiori degli ordini ecclesiastici e ai giudici sulla base di richieste concrete. Astenersi giornalisti e ricercatori. Questa è un’operazione pubblicitaria e non ha niente a che fare con la ricerca della verità.

Il presidente della conferenza episcopale argentina, José María Arancedo, ha detto che l’apertura è cominciata con lo stesso papa Francesco che, prima di diventare pontefice, decise di pubblicare il documento Chiesa e democrazia, e ha previsto che verranno a galla più luci che ombre nel comportamento episcopale durante il periodo che va dal 1976 al 1983. Le cose andranno così, perché la tecnica applicata da Bergoglio, dai suoi predecessori e dai suoi successori consiste nell’ignorare dei documenti fondamentali, mutilando quelli in cui i vescovi proclamano la loro adesione alla dittatura occidentale e cristiana, organizzando il materiale in ordine cronologico senza indicare quali documenti furono resi pubblici e quali restarono segreti, ammettendo solo quanto è già trapelato e non può essere negato. È la stessa tecnica seguita dal Vaticano per rendere più rispettabile l’immagine di Pio XII rispetto al nazismo.

Un dialogo imbarazzante
Il 15 novembre 1976 la commissione esecutiva dell’episcopato prese parte a un pranzo di cortesia con la giunta militare. Le forbici di Bergoglio tagliarono dalla minuta redatta all’epoca la parte in cui i vescovi espressero la loro adesione alla dittatura, perché “un fallimento porterebbe, con molta probabilità, al marxismo”.

A proposito del dialogo tra i rappresentanti episcopali e il dittatore Jorge Videla del 10 aprile 1978, la raccolta indica solo che i vescovi parlarono della situazione legata alle proteste dei familiari dei detenuti o delle persone scomparse. Ma non cita il testo inviato quello stesso giorno al Vaticano. In quel documento si spiega che i presenti discussero di come impedire ai familiari di continuare a importunare la chiesa.

Gli ecclesiastici suggerirono al governo di riconoscere la morte dei detenuti scomparsi, ma Videla si rifiutò, perché questo avrebbe portato a “una serie di domande sul luogo di sepoltura: in una fossa comune? In quel caso, chi li aveva messi nella fossa? Una serie di domande a cui il governo non può rispondere sinceramente per le conseguenze sulle persone”, ovvero i sequestratori e gli assassini.

L’allora presidente della conferenza episcopale, il cardinale Raúl Primatesta, accettò la posizione di Videla, perché “la chiesa vuole capire, cooperare”, e misurò ogni parola perché sapeva bene “il danno che può fare al governo” (ovvero il bene che avrebbe potuto fare alle sue vittime). Quando ho pubblicato questo documento segreto, una giudice ne ha richiesto la consegna alla conferenza episcopale presieduta da Bergoglio che solo allora, nel 2012, ha inviato una copia presa da quell’archivio la cui stessa esistenza era negata dall’episcopato.

Una pastorale di guerra
Nel 2000, per il Giubileo del terzo millennio, l’episcopato argentino chiese perdono a Dio e non alle vittime, per gli atti altrui e non per i propri (“per la partecipazione effettiva di molti dei tuoi figli allo scontro politico, alla violazione delle libertà, alla tortura e alla delazione, alla persecuzione politica e all’intransigenza ideologica, alle lotte e alle guerre, e alla morte assurda che hanno insanguinato il nostro paese”), e mise sullo stesso piano la guerriglia e il terrorismo di stato.

Per mettere alla prova questa richiesta di perdono, il Centro di studi legali e sociali (presieduto dall’autore di quest’articolo) chiese già all’epoca l’apertura degli archivi. La conferenza episcopale rispose dicendo di avere soltanto il volantino del 1982, Chiesa e diritti umani, con “estratti di alcuni documenti”. In quell’edizione tutti i paragrafi di lusinga alla dittatura, quelli che aprivano i documenti e che finirono sulle prime pagine dei giornali dell’epoca, furono censurati, mentre erano presenti quelli finali, che iniziavano con qualche “tuttavia” o “non è possibile omettere che…”. Invece sono state diffuse, come se fossero stati documenti pubblici, le lettere di critiche e di reclamo che la chiesa consegnava alla giunta militare nel massimo segreto. Così la lettera pastorale collettiva Paese e bene comune, firmata meno di due mesi dopo il colpo di stato, è stata ridotta a quattro brevi paragrafi generici, separati da righe piene di puntini di sospensione.

Questa pastorale di guerra fu elaborata durante l’assemblea plenaria dell’episcopato

È scomparsa invece la giustificazione dei procedimenti illegali diffusa il 15 maggio 1976, secondo cui gli organismi di sicurezza non potevano agire “con la purezza chimica del tempo di pace, mentre scorre il sangue ogni giorno”. Questa pastorale di guerra fu elaborata durante l’assemblea plenaria dell’episcopato, dal 10 al 15 maggio del 1976, in cui ogni vescovo informò dei sequestri, delle torture e delle persone scomparse nella propria diocesi. In mancanza di un accordo, la proposta di denunciare questi gravissimi fatti fu sottoposta al voto: diciannove vescovi si dichiararono a favore, ma altri trentotto, il doppio, si opposero. I vescovi corressero tre versioni della bozza, ognuna più compiacente di quella precedente. Nel 1982 trovarono solo alcuni paragrafi da pubblicare che non fossero vergognosi.

Il 25 maggio 2010, in occasione del Te Deum del bicentenario, quando Bergoglio era a capo dell’episcopato, uno dei suoi componenti, il vescovo di Mercedes-Luján, Agustín Radrizzani, consegnò al governo una richiesta di amnistia firmata da Videla e da un altro centinaio di detenuti per crimini contro l’umanità. Nel 2012 Videla ha ammesso i suoi crimini in diverse interviste, si è vantato del sostegno e della cooperazione della nunziatura apostolica e dell’episcopato argentino e ha detto di essere stato amico di Primatesta.

Uno dei giornalisti ha visto arrivare “un uomo dai capelli bianchi con il calice in mano”. In seguito a questo episodio, un gruppo di laici che si fanno chiamare Cristiani per il terzo millennio ha chiesto alla conferenza episcopale di mettere fine allo “scandalo” del “libero e periodico accesso all’eucarestia” dell’ex dittatore, nonostante questi avesse riconosciuto le “sue azioni criminali” senza pentirsi. Nella sua risposta, l’episcopato ha negato che “i fratelli maggiori che ci hanno preceduto” abbiano avuto “qualsiasi complicità con fatti delittuosi”.

I Cristiani per il terzo millennio avevano progettato di andare in Vaticano per insistere davanti alla Santa Sede, un proposito che è rimasto incompiuto quando Benedetto XVI ha deciso di ritirarsi e la burocrazia vaticana ha designato Jorge Bergoglio per sostituirlo. Oggi diversi Cristiani per il terzo millennio fanno parte del gruppo chiamato Laudatianos, che celebra ogni parola di papa Francesco. La chiesa cattolica vuole di più. Ora chiede applausi.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/opinione/horacio-verbitsky/2016/11/28/vaticano-archivio-argentina

Messico, una gigantesca fossa comune

Desaparecidos. Scoperti 4.600 resti ossei. Forse vittime dei Los Zetas

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Una scoperta dantesca. In Messico, una zona desertica di Coahuila potrebbe nascondere una gigantesca fossa clandestina. Su una superficie di 56.000 metri quadrati, sono stati individuati 4.600 frammenti ossei e altri oggetti. Secondo gli inquirenti, potrebbe essere un luogo di discarica del potente cartello dei Los Zetas.

Alla zona si è arrivati grazie al lavoro del gruppo Vida, che si dedica alla ricerca dei desaparecidos ricostruendo le testimonianze della popolazione locale. La drammatica realtà delle fosse comuni clandestine è emersa durante la ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala dopo essere stati attaccati da polizia e narcotrafficanti tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Il mondo si è accorto allora di quanto torture e violazioni dei diritti umani siano prassi comune, nelle caserme e nei commissariati, e quanto poco valga la vita di chi sopravvive a stento nelle campagne, stretto tra il ricatto della miseria e quello delle cosche, ben innervate a un sistema politico violento e diseguale. I movimenti popolari continuano a cercare i 43. Forti dell’appoggio di una voluminosa controinchiesta alternativa che ha evidenziato menzogne e depistaggi, hanno ottenuto dal governo la riapertura dell’inchiesta. E intanto, grazie all’attività di organizzazioni come Vida, si è dato un nome a molte vittime della tratta o delle cosche, dai confini con gli Stati uniti al resto del paese.

Alla fine del 2015, il numero degli scomparsi ammontava a 27.887. Questa nuova, macabra, scoperta potrebbe elevare di molto le cifre. Secondo i periti, i 4.600 resti appartengono a persone scomparse a partire dal 2004, uccise tra il 2007 e il 2012 dagli Zeta. Secondo le testimonianze, in quegli anni, si sono visti uomini armati arrivare nella zona a bordo di furgoni, scaricare corpi e bruciarli. Gli abitanti raccontano anche che altri corpi venivano «dissolti» in grandi recipienti e che le urla dei condannati si udivano per tutto il circondario. I famigliari delle vittime hanno denunciato l’inadempienza delle autorità di Coahuila che hanno minimizzato l’accaduto. Molti componenti degli Zetas provengono dalle forze speciali dell’esercito.

 

Fonti:

http://ilmanifesto.info/messico-una-gigantesca-fossa-comune/

16 settembre 1976 la “Noche de los lapices” in Argentina

Il 16 settembre del 1976 a La Plata, Argentina, un’operazione della polizia militare portava al sequestro di sei studenti tra i 14 e 17 anni, poi desaparecidos.

I sei giovanissimi liceali, militanti dell’organizzazione peronista Unione degli Studenti Secondari, furono sequestrati dallo Stato e internati in differenti campi di tortura in quanto “sovversivi”, ovvero “colpevoli” di lottare per i diritti degli studenti, nello specifico in quanto promotori di una mobilitazione per il riconoscimento del trasporto gratuito per gli studenti, un decreto approvato un anno prima e poi revocato dal governo militare (lotta che è proseguita fino allo scorso anno, quando è stata finalmente e nuovamente approvata la legge, oggi definanziata dal governo Macri con l’obiettivo di annullarla de facto).

Oltre ai sei desaparecidos, Claudio De Acha, María Clara Ciocchini, María Claudia Falcone, Francisco López Muntaner, Daniel Racero e Horacio Ungaro, in quei giorni furono arrestati altri quattro giovanissimi studenti, anch’essi tra i 14 e i 17 anni, tra cui Pablo Diaz, militante della Gioventù Guevarista, uno dei quattro sopravvissuti del gruppo. Grazie alle sue testimonianze questa storia di desapariciòn e torture di Stato è stata successivamente ricostruita, tanto da essere poi pubblicata nel libro “La noche de los lapices”, da cui fu tratto un omonimo film (in italiano il titolo è stato tradotto “La notte delle matite spezzate”).

Uno dei responsabili dell’operazione e dei centri di tortura dove i ragazzi furono detenuti prima della desapariciòn, Miguel Osvaldo Etchecolatz, condannato a sei ergastoli per crimini di lesa umanità (sia per questi fatti che per le responsabilità in moteplici altri casi di tortura e sparizioni, nell’ambito dello sterminio di una generazione politica combattiva), è salito agli onori delle cronache suscitando proteste in tutto il paese lo scorso luglio per la richiesta, accordata ma non resa effettiva, di scontare il resto della pena ai domiciliari per motivi di salute. Va ricordato inoltre che il testimone chiave del processo che ha condannato il genocida Ethchecolatz è Julio Lopez, sequestrato e sopravvissuto durante la dittatura, nuovamente desaparecido per la seconda volta dieci anni fa, mentre era in corso il processo, in tempi di democrazia. Una mostra d’arte, intitolata “Dieci anni con Julio Lopez: dove sei finito?”, che ha visto la partecipazione di decine di artisti argentini ed internazionali, lo ricorda proprio in questi giorni a Buenos Aires, nell’indifferrenza del governo e dei tribunali, mentre il 18 settembre è stata lanciata una manifestazione per chiedere verità e giustizia che attraverserà il centro della capitale argentina per concludersi a Plaza de Mayo. Il nome di Julio Lopez, così come dei sei desaparecidos della “Notte delle matite spezzate”, appaiono insistentemente in queste settimane su stencil, murales e scritte nelle scuole e sui muri della città.

A 40 anni dai fatti, mentre in tante città argentine si scende in piazza per ricordare i sei ragazzi rivendicando con forza la memoria e la lotta dei giovanissimi studenti torturati e desaparecidos dalla dittatura civico-militare, l’attualità delle loro battaglie continua ad essere lampante. Che l’educazione come pratica di liberazione ed emancipazione costituisca un problema per chi vuole imporre il pensiero unico, ieri come oggi, è evidente dalle recenti dichiarazioni del ministro dell’educazione Bullrich, esponente del governo Macri.

Inaugurando un liceo in Patagonia, Bullrich proprio ieri ha dichiarato: “Inauguriamo con Macri una nuova Campagna del Deserto, questa volta non con le spade ma con l’educazione”. Il riferimento è chiaro: si parla dello sterminio degli indigeni della Patagonia, avvenuto con la cosiddetta “Campagna del deserto” nel 1870 guidata dal generale Roca, recentemente “riabilitato” dal quotidiano conservatore La Nacion e dal governo Macri, che ha rivendicato pubblicamente la figura di un militare passato alla storia come genocida. Il “deserto” a cui si riferisce il nome della campagna militare era la Patagonia: peccato che il cono sud del paese non fosse assolutamente un “deserto”, nè un territorio disponibile ad essere conquistato dalla “civiltà” dello Stato Nazione in formazione, ma una terra abitata da migliaia di persone disposte a lottare per difendere la propria libertà, la propria terra e la propria cultura, infine sterminate dai militari mandati da Buenos Aires in nome della civilizzazione e dello Stato nazione.

Rivendicare quella infame campagna per pubblicizzare il nuovo corso delle politiche del governo conservatore argentino in materia di educazione la dice lunga tanto sulla cultura politica dei ministri del governo in carica quanto sull’attualità delle lotte degli studenti desaparecidos 40 anni fa, così come dell’importanza delle lotte di quelli che oggi in migliaia ne rivendicano proprio in queste ore il ricordo nelle piazze di decine di città, testimoniando ancora una volta l’importanza della memoria come strumento di lotta. L’accostamento della “Conquista del deserto” alla politica educativa è un fatto aberrante, come se gli studenti, le scuole e università fossero un “deserto” da conquistare. Una logica che presuppone una pedagogia violenta ed autoritaria, disconoscendo volutamente il fatto che gli studenti e i docenti siano soggetti attivi e dotati di senso critico, che le scuole e le università siano spazi in cui sviluppare conoscenze, condividere sapere critico, praticare la libertà di apprendimento ed insegnamento e crescere collettivamente: oggi come ieri, il sapere e l’educazione sono un campo di battaglia.

Dato che sappiamo da che parte stare, oggi ricordiamo con forza quei giovanissimi studenti massacrati dallo Stato: coscienti che la memoria debba continuare ad essere uno strumento partigiano di lotta collettiva, noi non dimentichiamo e siamo al fianco degli studenti che lottano oggi, il miglior modo per ricordare gli studenti desaparecidos di ieri.

 

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/16-settembre-1976-la-noche-de-los-lapices-in-argentina

RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SULL’EGITTO: CENTINAIA DI PERSONE SCOMPARSE E TORTURATE

Rapporto di Amnesty International sull’Egitto: centinaia di persone scomparse e torturate in un’ondata di repressione brutale

Un immagine delle forze speciali egiziane

In Egitto, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) si rende responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate nel tentativo di incutere paura agli oppositori e spazzare via il dissenso pacifico: è quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un drammatico nuovo rapporto, che mette in luce una scia senza precedenti di sparizioni forzate dai primi mesi del 2015.

Il rapporto, intitolato “Egitto: Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo“, rivela una vera e propria tendenza che vede centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, compresi 14enni, sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia.

Secondo le organizzazioni non governative locali, la media delle sparizioni forzate è di tre-quattro al giorno. Di solito, agenti dell’Nsa pesantemente armati fanno irruzione nelle abitazioni private, portano via le persone e le trattengono anche per mesi, spesso ammanettate e bendate per l’intero periodo.

Questo rapporto rivela le scioccanti e spietate tattiche cui le autorità egiziane ricorrono nel tentativo di terrorizzare e ridurre al silenzio manifestanti e dissidenti” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità” – ha aggiunto Luther.

Le autorità egiziane si ostinano a negare l’esistenza del fenomeno delle sparizioni forzate, ma i casi descritti nel nostro rapporto forniscono ampie prove del contrario. Denunciamo non solo le brutalità cui vanno incontro gli scomparsi ma anche la collusione esistente tra le forze di sicurezza e le autorità giudiziarie, il cui ruolo è quello di mentire per coprire l’operato della sicurezza o non indagare sulle denunce di tortura, e che in questo modo si rendono complici di gravi violazioni dei diritti umani” – ha sottolineato Luther.

FIRMA ORA L’APPELLO PER CHIEDERE AD ABDEL FATTAH AL-SISI DI FERMARE LE SPARIZIONI FORZATE IN EGITTO.

Sparizioni forzate e tortura 

Il rapporto descrive in dettaglio i casi di 17 persone sottoposte a sparizione forzata, detenute illegalmente per periodi varianti da diversi giorni a sette mesi, tagliate fuori dal mondo esterno e private di contatti con avvocati e familiari e di qualsiasi supervisione giudiziaria.

Il rapporto comprende inoltre drammatiche testimonianze delle torture praticate durante sessioni d’interrogatorio che possono durare fino a sette ore, allo scopo di estorcere “confessioni” che verranno poi usate come prova durante gli interrogatori ufficiali davanti al giudice e che condurranno alla condanna. In alcuni casi, sono stati torturati anche dei minorenni.

Uno dei casi più agghiaccianti è quello di Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa “confessione”.

Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, è stato vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, negli uffici dell’Nsa di Città 6 ottobre (nella Grande Cairo). Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la “confessione”.

I due 14enni sono tra i cinque minorenni vittime di sparizione forzata per fino a 50 giorni descritti nel rapporto di Amnesty International. Alcuni di loro, anche dopo che ne era stato disposto il rilascio, sono stati sottoposti nuovamente a sparizione forzata prima di venire raggiunti da nuove accuse.

In altri casi, sono stati arrestati i familiari di persone da cui si voleva ottenere una “confessione”. Nel luglio 2015 Atef Farag è stato arrestato insieme al figlio 22enne Yehia. I loro familiari sostengono che Atef è stato arrestato per aver preso parte a un sit-in mentre suo figlio, che è disabile, è stato preso per costringere il padre a “confessare” una serie di gravi reati. Dopo una sparizione forzata durata 159 giorni, padre e figlio sono stati rinviati a processo per appartenenza al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana.

L’evidente aumento delle sparizioni forzate risale al marzo 2015, ossia alla nomina a ministro dell’Interno di Magdy Abd el-Ghaffar, che in precedenza aveva fatto parte del Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato (Ssi), la famigerata polizia segreta dei tempi di Mubarak, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani: è stata smantellata dopo la rivolta del 2011 ma solo per essere rinominata Nsa.

Nel 2015 Islam Khalil, 26 anni, è stato sottoposto a sparizione forzata per 122 giorni. Tenuto bendato e ammanettato per l’intero periodo, è stato picchiato brutalmente e sottoposto a scariche elettriche anche sui genitali. Una volta, negli uffici dell’Nsa della città di Tanta (a nord del Cairo), è stato tenuto sospeso per i polsi e le caviglie per ore e ore fino a quando ha perso conoscenza.

Una volta, un agente che lo stava interrogando gli ha detto: “Pensi di avere qualche valore? Ti possiamo uccidere, arrotolarti in una coperta e buttarti in una discarica e nessuno chiederà di te“.

In un’altra occasione, un secondo agente lo ha sollecitato a dire le ultime preghiere mentre gli stava somministrando scariche elettriche.

Dopo 60 giorni Islam Khalil è stato trasferito in quello che ha chiamato “l’inferno”, ossia gli uffici dell’Nsa a Lazoughly, dove sono proseguite le torture.

A Lazoughly, a giudizio unanime il peggior centro di detenzione dell’Nsa, si stima si trovino centinaia di detenuti. Questa sede dell’Nsa si trova dentro il ministero dell’Interno, ironicamente a poca distanza da piazza Tahrir, dove cinque anni fa migliaia di persone avevano manifestato contro la tortura e le brutalità delle forze di sicurezza di Mubarak.

La sparizione forzata dello studente italiano Giulio Regeni, trovato morto al Cairo nel febbraio 2016 con segni di tortura, ha attratto l’attenzione dei mezzi d’informazione di ogni parte del mondo. Le autorità egiziane si ostinano a negare qualsiasi coinvolgimento nella sparizione e nell’uccisione di Giulio Regeni, ma il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Nsa e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese.

Le sparizioni forzate non solo aumentano il rischio di tortura e collocano i detenuti al di fuori della protezione della legge, ma hanno anche un impatto devastante sulle famiglie degli scomparsi, che sono lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari.

Tutto quello che voglio sapere è se mio figlio è vivo o morto” – dichiarava mesi fa Abd el-Moez Mohamed, padre di Karim, uno studente d’Ingegneria di 22 anni scomparso per quattro mesi dopo essere stato rapito nella sua abitazione del Cairo da agenti dell’Nsa pesantemente armati, nell’agosto 2015.

Alcuni familiari hanno denunciato la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura ma nella maggior parte dei casi non sono scattate le indagini. Nelle rare occasioni in cui ciò è accaduto, le indagini sono state chiuse dopo l’ammissione che lo scomparso era nelle mani dell’Nsa anche se questi ha continuato a vedersi negati i contatti con parenti e avvocati.

Il presidente Abdel Fattah al-Sisi deve ordinare a tutte le agenzie per la sicurezza dello stato di porre fine alle sparizioni forzate e alla tortura e dire chiaramente che chiunque ordinerà o commetterà queste violazioni dei diritti umani, o se ne renderà complice, sarà portato di fronte alla giustizia” – ha affermato Luther.

Tutte le persone detenute in tali condizioni devono avere accesso a familiari e avvocati e coloro che sono trattenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e alla libertà di riunione devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni” – ha aggiunto Luther.

Il rapporto chiede inoltre al presidente al-Sisi di istituire con urgenza una commissione indipendente d’inchiesta che indaghi su tutte le denunce di sparizione forzata e di tortura commesse dall’Nsa o da altre agenzie per la sicurezza dello stato e che abbia il potere di chiamare a deporre tutte le agenzie governative, comprese quelle militari, senza subire interferenze.

Collusione e inganno

Il rapporto di Amnesty International contiene forti accuse nei confronti della procura egiziana, colpevole di accettare prove dubbie ottenute dall’Nsa – che falsifica regolarmente le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata -, di emettere incriminazioni basate su “confessioni” estorte sotto coercizione e di non disporre indagini sulle denunce di tortura, evitando ad esempio di ordinare esami medici e di includerne i risultati negli atti ufficiali.

Nei rari casi in cui la procura autorizza esami medici indipendenti, gli avvocati dei detenuti non possono prendere visione dei risultati.

Siamo molto critici nei confronti della procura egiziana, che si rende complice di violazioni dei diritti umani e tradisce in modo crudele il dovere, assegnatole dalla legge, di proteggere le persone dalle sparizioni forzate, dagli arresti arbitrari e dalla tortura. Se l’istituto della procura non verrà riformato per garantire la sua indipendenza dal potere esecutivo, ciò sarà fatto di proposito” – ha chiarito Luther.

L’Egitto è considerato da molti paesi occidentali un partner chiave nella lotta al terrorismo a livello regionale e questa è la giustificazione usata per rifornirlo di armi e altro materiale nonostante le prove che tali forniture vengono usate per commettere gravi violazioni dei diritti umani. Molti paesi continuano a tenere strette relazioni diplomatiche, commerciali e di altra natura con l’Egitto senza dare priorità ai diritti umani.

Tutti gli stati, particolarmente quelli dell’Unione europea e gli Usa, devono usare la loro influenza per spingere l’Egitto a porre fine a queste terribili violazioni dei diritti umani, perpetrate col falso pretesto della sicurezza e del contrasto al terrorismo” – ha sottolineato Luther.

Invece di proseguire ciecamente a fornire equipaggiamento di sicurezza e di polizia all’Egitto, questi paesi dovranno annullare tutti i trasferimenti di armi e altro materiale che vengono usati per compiere gravi violazioni dei diritti umani fino a quando non saranno poste in essere garanzie efficaci contro il loro uso improprio, non saranno condotte indagini esaurienti e indipendenti sulle violazioni dei diritti umani e i responsabili di queste ultime non saranno portati di fronte alla giustizia” – ha concluso Luther.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 13 luglio 2016

Il rapporto “Egitto: ufficialmente tu non esisti’ Scomparsi e torturati nel nome della lotta al terrorismo” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e online a questo indirizzo.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Rapporto-Egitto-centinaia-persone-scomparse-torturate

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Notizia scritta il 21/06/16 alle 13:44. Ultimo aggiornamento: 22/06/16 alle: 09:06

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Clb1voSWMAAwcrYSale il bilancio dei maestri uccisi dagli spari della polizia domenica 19 giugno 2016 a Asuncion de Nochixtlan, stato di Oaxaca, Messico. Il bilancio ufficiale delle vittime dell’operazione repressiva per rimuovere le barricate di maestri, studenti e movimenti sociali in lotta è salito a nove maestri, e un giornalista: 10 morti, quindi, che diventano almeno 12 secondo altre fonti, come TeleSur.  Ci sono poi 32 desaparecidos, 28 arrestati e decine di feriti. La protesta non riguarda solo  Oaxaca, teatro, nel 2006, anche della straordinaria esperienza della APPO, l’assemblea popolare dei popoli di Oaxaca, rimasta in piazza con 80mila maestri in lotta sgomberati con violenza nel giugno di dieci anni fa: arresti si segnalano anche nel Chipilango, Michocan e a Città del Messico.

Lavoratrici e lavoratori dell’educazione, assieme alla centrale sindacale CNTE, sono in lotta ormai dallo scorso 15 maggio contro la riforma dell’istruzione voluta dal presidente Enrique Pena Nieto, che prevede – tra molte altre cose, tutte in senso ultraprivatistico – un test governativo unico per gli insegnanti, in base al quale verranno assunti o non assunti, pagati o non pagati, inseriti in organico a pieno orario o per pochi giorni. Per i maestri, gli studenti e i movimenti sociali, non è una riforma educativa, ma una controriforma del lavoro, schiacciata sul servilismo al potere, sul liberismo e sulla ricattabilità perenne. A rischio sarebbe almeno il 60% del corpo docente, senza alcun riferimento a educazione e formazione.

Clicca qui per l’approfondimento sulle motivazioni della lotta di lavoratori/trici dell’educazione in Messico: una protesta che non nasce oggi.

Dopo la mattanza di due giorni fa a Nochixtlan, ora è stato annunciato un incontro domani tra il sindacato e Osorio Chong, il segretario di stato di Pena Nieto. Intanto a Oaxaca le realtà sociali in lotta, con la solidarietà di una larga ClXcJxHVYAA5iqGparte dei movimenti messicani, tra cui il chiapaneco EZLN, hanno diffuso un’ “allerta umanitaria” per le violenze della polizia, sorpresa da numerosi video e immagini a sparare sulla folla, anche con agenti in borghese. Una scena che ricorda da vicino altri massacri, come quella di , del 26 settembre 2014, con l’uccisione e la sparizione, targata polizia, narcos e politici, di 43 studenti normalisti della scuola rurale di .

Un nuovo massacro, quindi, quello di Nochixtlan, che vede per protagonista ancora una volta Enrique Pena Nieto, del PRI, oggi presidente dello Stato ma governatore ai tempi dei massacri di San Salvador Atenco, nello stato di Città del Messico, nel 2006, anche lì con morti, feriti e desaparecidos nelle proteste contro la decisione di ampliare un aeroporto.

Abbiamo raggiunto Federico Mastrogiovanni, giornalista indipendente che vive a Città del Messico, per aggiornamenti. Ascolta o scarica l’intervista [Download

Clicca qui per il nostro articolo su quanto accaduto a Nochixtlan di lunedì 20 giugno 2016.

APPELLO SOLIDALE – Da Mexiconosurge:

‪#‎MexicoNosUrge‬ AL FIANCO DEI MAESTRI E DELLE MAESTRE DELLA CNTE IN MESSICO

“Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo.”
Art. 1 trattato di libero commercio tra il Messico e l’UnioneEuropea

Un anno dopo siamo ancora qui a dire #MexicoNosUrge

Dopo gli omicidi del foto giornalista Rubén Espinosa, dell’attivista Nadia Vera, della studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di altre due donne che si trovavano con loro, Mile Virginia Martin e Alejandra Negrete, avvenuti a Città del Messico venerdì 31 luglio 2015, l’appello ‪#‎MéxicoNosUrge‬ volle rompere il silenzio. Perché non si può rimanere in silenzio di fronte alle violenza nei confronti di chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese, il Messico, che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale. Rimanere in silenzio sarebbe una forma di complicità.

Un anno dopo, nel giugno del 2016, torniamo a urlare che #MéxicoNosUrge, dopo che domenica 19 giugno nello Stato di Oaxaca abbiamo assistito al massacro di 10 cittadini. La Polizia Federale è tornata a reprimere la lotta degna dei maestri e delle maestre del sindacato CNTE che lottano contro la riforma educativa. Pistole, fucili di precesione e cecchini hanno operato assieme alla polizia in assetto anti-sommossa, per sgomberare uno dei tanti blocchi stradali che dal 15 maggio batte il tempo della resistenza contro la svendita e la distruzione della scuola pubblica messicana. A maggio avevamo celebrato il decimo anniversario dalla nascita dell’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, figlia dello sgombero violento di un presidio di maestre e maestri della CNTE nella capitale dello stato di Oaxaca. Negli ultimi mesi sono a decine gli arresti “politici” che colpiscono aderenti della CNTE e simpatizzanti. Già a dicembre 2015, in Chiapas, due maestri sono stati uccisi dalla Polizia durante gli scontri.

Nel maggio del 2016 sono stati ricordati,anche, i dieci anni dal massacro di San Salvador Atenco. Una Commissione Civile di Osservazione dei Diritti Umani -i cui componenti erano cittadini europei- nel giugno del 2006 ha presentato al Parlamento Europeo un rapporto sui fatti e sulle gravi violazioni dei diritti umani in relazione allo sgombero forzato di una comunità per costruire il nuovo aeroporto di Città del Messico in una zona ejidal (cioè di proprietà collettiva) dello Stato del Messico.

La mattanza di Nochixtlan inauguara una nuova fase nello schema repressivo messicano: la polizia spara sulla folla uccidendo e la stessa polizia si rivendica di aver usato armi da fuoco. Non era mai successo prima.

Negli ultimi dieci anni, infatti, la situazione si è fatta se possibile ancora più grave, con decine di migliaia di sparizioni forzate, violenza sistematica contro chi vuole difendere e promuovere i diritti umani, contro attivisti dei movimenti sociali e contro i giornalisti e fotografi che documentano la condizione di violenza strutturale scelta come forma di“politica attiva” dai governi di Felipe Calderón, prima, e di Enrique Peña Nieto (che nel 2006 era governatore dello Stato del Messico durante i fatti di Atenco), ora.

Tra gli attivisti e giornalisti minacciati e perseguitati ci sono anche cittadini italiani ed europei; tra le vittime ci sono anche cittadini italiani ed europei (come il finlandese Jyri Antero Jaakkola,assassinato dai paramilitari nello stato del Oaxaca nel 2010).

In questo panorama di violenza diffusa e repressione contro i civili ricordiamo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa,avvenuta la notte del 26 settembre del 2014 nella città di Iguala, stato del Guerrero, in cui sono coinvolti la polizia municipale di Iguala ed elementi dell’esercito messicano.

Il 30 giugno 2014 l’esercito messicano, con un ordine scritto dall’Alto Comando Militare, fucilava 22 ragazzi in un’esecuzione extragiudiziale, una delle tante esecuzioni extragiudiziali portate a termine dall’esercito che ha l’ordine di “abbattere” civili considerati delinquenti senza alcun diritto ad avere un processo.
L’ONU ha recentemente spiegato come in Messico la tortura sia un metodo utilizzato in maniera sistematica negli interrogatori da tutte le forze di sicurezza.

Tutto questo accade nel silenzio della cosiddetta “comunità internazionale” e l’Unione Europea di fatto si disinteressa dei crimini dello stato messicano, continuando a mantenere relazioni commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani.

Tra il 2007 e il 2016 in Messico ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila persone. Organizzazioni dei diritti umani dicono che se oggi venisse fatto un conto di morti e desaparecidos i numeri andrebbero verso il raddopio.

A fronte di tutto questo l’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione internazionali è impressionante e complice.

Per tutto questo, #MexicoNosUrge e non possiamo rimanere in silenzio.

Chiediamo che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico,in particolare per le costanti aggressioni ai giornalisti e difensori dei diritti umani.

Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea che si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini.

Italia, giugno 2016

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Fonte:

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/

SIRIA: NESSUN HASHTAG PER CHI SPARISCE

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)

(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-il-massacro-che-non-avra-un-hashtag.html

“SALVATE I SUPERSTITI”, IN SIRIA PIU’ DI 80MILA DETENUTI SPARITI – SABATO 31 GENNAIO PRESIDIO DELLA CAMPAGNA “SAVE THE REST” A ROMA

a. a lettere (Nota: questa foto non era presente sull’edizione cartacea de Il Garantista, solo in quella on-line e proviene in realtà dalla Palestina, non dalla Siria. Lo scrivo per correttezza d’informazione. Ciò non muta il contenuto dell’articolo. D. Q.)

 

Sembravano banconote da 500 lire siriane, piegate e abbandonate negli angoli delle vie di Damasco. Una volta aperti, i foglietti si rivelavano volantini della campagna Inquzu al baqia, ”Salvate i Superstiti”. Siamo a dicembre del 2014 e un gruppo di attivisti vuol riaccendere i riflettori sulla questione dei prigionieri e dei dispersi dall’inizio della rivolta contro Assad, dal marzo del 2011. «Sono 215.000 i detenuti di cui si ha certezza nelle carceri del regime, lo ha verificato sulla base agli standard internazionali, il Syrian Network for Human Rights (SN4HR)» ci dice Susan Ahmad, la portavoce della campagna.

Numeri che si riferiscono ad un rapporto del SN4HR dell’aprile del 2013, l’ultimo che è stato possibile realizzare, e riguardano solo le persone di cui sono noti il nome, la data e le circostanze dell’arresto. Nello stesso rapporto di parla di 80.000 persone sparite, ma questo numero, come quello dei prigionieri, è ben al di sotto di quello reale. «In molti casi non possiamo registrare gli arresti sommari o le detenzioni perché i parenti hanno paura di parlarne» prosegue la Ahmad «I prigionieri non sono arrestati in virtù di un crimine, tutt’altro. Non sono rari i casi di arresti arbitrari e casuali ai check point, è persino nato un mercato intorno agli arresti: quando una persona viene presa, spesso i famigliari vengono contattati e ricattati da militari che si offrono di “aiutare” a far uscire il loro caro in cambio di una ricompensa a a sei zeri. Ci sono famiglie che hanno venduto casa e rinunciato a tutto, per poi scoprire che loro figlio era morto sotto tortura da tempo».

Capita anche il contrario: quando il regime comunica la morte di un detenuto, i famigliari devono recarsi a recuperare la carta d’identità della vittima e firmare, volenti o nolenti, una dichiarazione in cui si dice che il loro congiunto è morto per cause naturali, rinunciando quindi ad ogni ipotesi di rivalsa legale. «Spesso il cadavere non viene consegnato ed è accaduto più volte che un prigioniero dato per morto bussasse alla porta di casa dopo mesi. Sono migliaia le famiglie che non hanno certezza della morte dei loro cari».

”Salvate i superstiti” chiede la liberazione dei prigionieri di coscienza, di quelli in mano agli estremisti (una goccia nel mare), la fine degli arresti arbitrari e che i colpevoli di abusi siano processati. L’ obiettivo immediato è che tutti i luoghi di detenzione siano rivelati e resi accessibili alle ispezioni e all’intervento della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa siriana e che siano rivelati anche i luoghi di sepoltura. La campagna ha raggiunto l’apice nell’ultima settimana di gennaio, con manifestazioni nel nord della Siria ma anche all’estero, in Libano, Canada, negli USA, o qui in Europa a Londra, Istanbul e Parigi, mentre a Roma e Berlino si muoveranno il 31. Durante le iniziative in piazza si leggono lettere dei prigionieri e si rappresentano le condizioni di detenzione. La protesta si è espressa anche attraverso i social network, invasi di testimonianze, interviste, vignette, e col“twitter storm” del 26 di questo mese. Uno sforzo coordinato dalla società civile che resiste in Siria, ma che ha visto coinvolti i siriani della diaspora sparsi ormai in tutto l’occidente ed il mondo arabo.

La prigionia

Oltre alle carceri, ci sono prigionieri chiusi nelle strutture dei servizi segreti e in luoghi sconosciuti. Basta poco per finire in questi gironi infernali: poche righe scritte da qualche informatore in un “taqrir”, un rapporto, magari una parola di troppo davanti al fruttivendolo sotto casa, la foto di una manifestazione o i contatti sbagliati nella rubrica del cellulare. Può bastare anche solo il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le condizioni di detenzione variano, ma sono sempre disumane. Nelle carceri destinate ai prigionieri politici e nelle sedi dei servizi segreti la brutalità delle torture fisiche e psicologiche raggiungono il loro picco. Alle percosse continue e gli elettroshock si aggiungono il freddo, il sovraffollamento, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche drammatiche: ogni giorno c’è chi muore di stenti o per banali infezioni. Anche l’umiliazione fa parte della quotidianità, anche le più elementari esigenze fisiologiche sono strumento di tortura, in celle con 50 persone ed oltre in cui si dorme a turno, corpi straziati che si incastrano gli uni con gli altri in cerca di riposo prima di un altro giorno di agonia. Diffuse anche le torture relative alla sfera sessuale, dai “semplici” stupri fino ai casi di detenuti costretti ad assistere o persino a partecipare allo stupro di propri congiunti. In alcune strutture detenuti privilegiati possono comprare, corrompendo i carcerieri, un po’ di dignità, ma si tratta di una esigua minoranza.

Le testimonianze

 Già nell’estate del 2012, un rapporto basato su 200 interviste ad ex detenuti realizzato da Human Right Watch (HRW) denunciava il sistematico ricorso alla tortura da parte del regime di Assad, svelando la collocazione di 27 delle numerose strutture segrete e descrivendo nei dettagli i più comuni metodi di tortura riportati dai superstiti. Nel settembre del 2013 HRW ha avuto accesso ad alcuni di questi luoghi dopo la conquista di Raqqa da parte delle forze ribelli. Qui sono stati trovati strumenti di tortura e documenti che provano i crimini descritti nel precedente rapporto. Le prove più consistenti sono però nel cosiddetto “rapporto Caesar”: un documento di 31 pagine con le foto di 11.000 corpi, trafugate dal disertore chiamato Caesar, che tra settembre 2011 ed agosto 2013 aveva il compito di fotografare e catalogare i morti nelle prigioni di Assad di un’area del Paese. Immagini esaminate da giuristi e procuratori del calibro di Desmon De Silva, ex procuratore capo del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, che ha detto al quotidiano britannico The Guardian che le prove «documentano uccisioni su scala industriale» e ha aggiunto: «Questa è la pistola fumante che non avevamo mai avuto prima » mentre David Crane, anche lui tra i procuratori del Tribunale Speciale, ha affermato che: «Si tratta esattamente del tipo di prove che un procuratore cerca e si augura di trovare. Ci sono foto con numeri che corrispondono a documenti governativi e c’è la persona che le ha scattate. Sono prove che vanno al di là di ogni ragionevole dubbio». Tuttavia, nonostante le foto siano state mostrate al Congresso USA ed al Consiglio di Sicurezza dell’ Onu, non ci sono state conseguenze per il regime di Assad che oggi sembra sempre più riabilitato, quasi un alleato dell’occidente nella lotta contro il sedicente “Stato Islamico”.

Presente e memoria

Le foto trafugate da Caesar mostrano corpi emaciati, con chiari segni di percosse e torture elettriche, alcuni hanno gli occhi cavati o altre mutilazioni. Foto che ricordano tragicamente quelle scattate dall’Armata Rossa 70 anni fa nel campo di Auschwitz. C’è un filo rosso che lega il 27 gennaio del ‘45 ed il nostro presente e non è solo nella similitudine tra quelle foto: il regime di Hafiz al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, si era servito della consulenza di vari criminali di guerra nazisti nel formare ed addestrare i servizi segreti e le forze speciali. Il più noto era l’austriaco Alois Brunner, la cui morte è stata accertata solo quest’anno. Il gerarca, ritenuto responsabile dell’uccisione di 140.000 ebrei, giunse in Siria nel 1954 dove divenne consigliere di Hafiz al Assad col nome di Dr. Georg Fischer. Nella sua ultima intervista, rilasciata nell’ 87 dalla sua casa di Damasco, Brunner dichiarò «Tutti gli ebrei meritavano di morire, erano agenti del demonio e la feccia dell’umanità. Non mi pento e lo rifarei ancora».

Forse dovremmo ripensare il senso della Giornata della Memoria: si dice che, quando l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il mondo scoprì le dimensioni tragiche dell’olocausto nazi-fascista. Stavolta non ci sono scuse, sappiamo in dettaglio cosa sta succedendo in Siria, continueremo a ripeterci, con aria contrita, “Mai più!” o faremo qualcosa per fermare lo sterminio in atto ?

 

 

Fonte:

 http://ilgarantista.it/2015/01/27/salvate-i-superstiti-in-siria-piu-di-80mila-detenuti-spariti/

 

 

Sabato 31 gennaio 2015 ci sarà a Roma un presidio della campagna Save The Rest:

Sabato dalle ore 9.45 alle ore 14.30
Accogliamo l’invito a mobilitarci che ci giunge dalla società civile siriana, il grido di dolore per coloro che vivono un esperienza da molti descritta come peggiore della morte: la prigionia e la tortura nelle carceri, nelle celle segrete di Assad e nelle sedi dei servizi segreti.
Con un pensiero anche per i prigionieri delle altre forze controrivoluzionarie o sedicenti rivoluzionarie, che tuttavia tradiscono gli ideali di Libertà e Dignità in nome dei quali il popolo siriano era sceso in piazza fin dal marzo 2011, rapendo o detenendo cittadine e cittadini senza un giudizio equo e/o in condizioni disumane.Ecco il messaggio che abbiamo raccolto e fatto nostro e che ripeteremo di fronte alla sede ONU qui a Roma, in piazza San Marco, sul lato destro di piazza Venezia guardando l’altare della patria.-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_
Una campagna per i Diritti Umani, per salvare migliaia di detenuti innocenti e di rapiti nelle prigioni siriane. Salviamoli!”Questa testimonianza non potrà ridarmi indietro ciò che ho perduto. Ho perso parte della mia vita e momenti preziosi con la mia famiglia. Ho perso alcuni tra i miei più cari amici, morti sotto i miei occhi, nonostante io abbia tentato disperatamente di salvarli.
Ma la morte è stata più svelta di me e la ferocia dei carcerieri più forte dei miei tentativi”.Queste sono poche righe da una lettera di un detenuto politico nelle carceri di Assad, ottenuta con grande difficoltà. Mentre leggete queste righe, forse quell’uomo potrebbe essere ancora torturato, umiliato, sofferente ed affamato. Chiuso ed avvolto in tenebre in cui avvengono cose difficili persino da immaginare.

Con il crescere della violenza e brutalità delle forze di Assad, il numero di prigionieri siriani e di desaparecidos è in aumento: solo nell’agosto del 2014, 250 persone sono morte sotto tortura, mediamente 8 persone ogni giorno!

Il regime di Assad non ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e, nonostante la detenzione arbitraria e l’uccisione sotto tortura di cui si è reso colpevole siano tra i crimini più documentati di sempre, gli Stati del “mondo libero” non si sono assunti le loro responsabilità.

In un rapporto presentato anche alle Nazioni Unite, il fotografo che ha disertato le fila dell’esercito siriano regolare noto come “Caesar”, ha documentato l’uccisione sotto tortura di 11.000 persone attraverso le foto che ha trafugato.
Di fronte a tali evidenze, non possiamo restare a guardare gli uomini di Assad mentre uccidono altre migliaia di innocenti sotto tortura.

Con la campagna #SaveTheRest , “Salvate i superstiti”, chiediamo:

– La liberazione di tutti i prigionieri di coscienza e di sapere dove sono e quali siano le sorti degli scomparsi.

– La fine dei processi sommari che rappresentano un flagrante oltraggio ai Diritti Umani.

– La persecuzione e il processo di tutti coloro che si sono macchiati del crimine di tortura o hanno abusato dei detenuti.

In attesa che si realizzi quanto detto, chiediamo urgentemente:

– L’invio di commissioni investigativa per constatare le condizioni di detenzione dei prigionieri, sia nelle carceri che negli altri luoghi di detenzione noti o segreti.

– Provvedere alle cure mediche necessarie, sotto la supervisione della Croce Rossa Internazionale e della Mezzaluna Rossa siriana.

– Che siano rivelati i luoghi di prigionia o la sorte di tutti gli scomparsi.

– Conoscere i luoghi di sepoltura delle vittime della tortura.

Link su Facebook:

I DESAPARECIDOS SIRIANI: GLI OPPOSITORI SPARISCONO NEI CENTRI SEGRETI DI DETENZIONE


29 AGOSTO 2014
| di

Alla vigilia della Giornata internazionale per gli scomparsi, che si celebra il 30 agosto, Amnesty International ha denunciato che in Siria le sparizioni continuano senza sosta, nonostante la risoluzione del Consiglio di sicurezza del febbraio 2014 che chiedeva la fine di questa e di altre terribili violazioni dei diritti umani.

“Non si contano gli attivisti, i giornalisti, i medici e gli avvocati che il governo siriano considera suoi oppositori, arrestati in mezzo alla strada o prelevati dalle loro abitazioni e scomparsi nei buchi neri della detenzione segreta. Le autorità siriane ricorrono sistematicamente alle sparizioni come strumento per sopprimere il dissenso” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Gli scomparsi rimangono nascosti agli occhi del mondo in centri di detenzione sparsi in tutta la Siria. La maggior parte di loro subisce condizioni di prigionia inumane, maltrattamenti e torture. Non è noto il numero di coloro che sono morti durante la detenzione segreta.

A febbraio, gli stati membri del Consiglio di sicurezza si erano impegnati ad assumere ulteriori misure se la Siria non avesse rispettato la risoluzione. L’assenza di tali misure a sei mesi di distanza ha consentito al governo di Damasco di portare avanti senza sosta la sua campagna di intimidazioni nei confronti del dissenso.

Ecco alcuni degli oppositori scomparsi:

Nasser Saber Bondek, poeta, è stato prelevato dalle forze di sicurezza siriane nella sua casa a Damasco il 17 febbraio 2014. Da allora non si sa più nulla di lui né sono state formulate delle accuse nei suoi confronti. Negli ultimi mesi si era prodigato nell’aiuto agli sfollati. La moglie ha lasciato la Siria con i bambini per paura di essere arrestata.

Khalil Ma’touq, avvocato dei diritti umani e direttore del Centro siriano per gli studi legali, è stato arrestato ad un posto di blocco insieme al suo amico Mohammed Thatha il 2 ottobre 2012. Da allora non si hanno più sue notizie. Le autorità siriane non hanno voluto dare informazioni sul suo destino. Negli anni Ma’touq ha difeso centinaia di prigionieri politici e di coscienza. Precedentemente gli era stato proibito di lasciare il Paese. Khalil soffre di una malattia polmonare cronica e ha difficoltà respiratorie.

 

Mohamed Bachir Arab, medico di Aleppo, è scomparso il 2 novembre 2011 dopo aver detto ai suoi amici di avere un appuntamento. La famiglia ha scoperto del suo arresto sui social media. Il governo non ha ancora fatto sapere nulla del suo destino. Alcuni detenuti rilasciati hanno testimoniato di averlo visto in alcuni centri di detenzione tra Aleppo e Damasco. L’ultima informazione risale al dicembre 2013.

Ali Mahmoud Othman, citizen journalist, dava notizie sul destino di Homs quando è stato arrestato nel marzo del 2012. I giornalisti stranieri lo conoscevano perché dava loro notizie e li aiutava ad uscire ed entrare ad Homs, tra questi Paul Conroy e la francese Edith Bouvier, entrambi feriti durante i bombardamenti della città.

Dopo la sua scomparsa alcuni ex detenuti hanno raccontato di averlo visto nei centri di detenzione  di Aleppo e Damasco ma alla famiglia non è stato comunicato nulla fino a maggio del 2012 quando Othman è apparso sulla tv di Stato e presentato come un giornalista che aveva complottato contro il Paese. Da allora nessuno ha più avuto sue notizie.

 

 

Fonte:

http://lepersoneeladignita.corriere.it/2014/08/29/i-desaparecidos-siriani-gli-oppositori-spariscono-nei-centri-segreti-di-detenzione/

 

Vedi anche qui:

http://www.amnesty.it/Siria-continuano-senza-sosta-le-sparizioni-degli-oppositori

 

Qui si può firmare un appello anche se chiamare Sua Eccellenza Bashar al-Assad mia dà la nausea:

http://www.amnesty.it/giornata-internazionale-scomparsi-2014

 

 

 

Dal 30 aprile 1977 a oggi: Madres de Plaza de Mayo

http://www.puertodebuenosaires.com/images/casarosada4.jpg

Fonte: http://www.puertodebuenosaires.com/images/casarosada4.jpg

di Sabatino Annecchiarico (*)

 

Hebe denunciò i responsabili. Denunciò i militari. Denunciò la Chiesa. Denunciò le aziende transnazionali. Denunciò i corrotti avvocati. Denunciò il silenzio di quelli che non erano innocenti. Reclamò in ogni istanza la «comparsa in vita» dei cari, non solo egoisticamente i suoi, quelli di tutti. Socializzò la battaglia per i diritti negati. Soprattutto per quelli che non avevano voce. Oggi è la presidente dell’Associazione delle Madres de Plaza de Mayo. In quella irreale realtà dell’autunno del ’77 solo persone pazze, o di eccezionale coraggio, erano in grado di alzare la testa, di alzare la voce. Fu un giovedì d’aprile di quell’anno che un gruppuscolo di donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco si diedero appuntamento nella Plaza de Mayo, storica piazza antistante alla casa di governo, occupata dai militari.
L’autunno australe a Buenos Aires si fa sentire. Il forte vento gelido che soffia dall’Atlantico arriva in città dal sudest assieme alle fitte piogge che bagnano persino le ossa; sono le caratteristiche climatiche di quella passionale città già culla del tango. Uscire in piazza in quella stagione, fare una passeggiata all’aria aperta, sono ricordi attaccati nella memoria dell’estate appena trascorsa.
Ma quell’aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del Paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. Da allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea argentina, oggi nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo argentino, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembrava come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tran-tran quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arricchivano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del Paese era consentito pur di arraffare ricchezze.
In quell’assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quell’habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli
«squadroni della morte», sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un’altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianchi cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano
«chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga». Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di
machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il Paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nello spostare l’asse delle sorti del Paese, ribaltandone l’ignominiosa situazione sociale. Gli argentini ripresero coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, oggi non ci sono più. Hebe è lì, in piazza dal 30 aprile 1977 e al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.

Hebe María Pastor de Bonafini – il suo nome completo – è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Su lei, e sulle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una laurea
ad honorem in Padagogia, e a ritirarla è Hebe con una delegazione di Madres. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 invece non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una radio. Sono protagoniste della costruzione di case nei quartieri più poveri del Paese. Partecipano alla vita sociale, a ogni lotta popolare, attive nelle fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zanon o dell’Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila:
«Noi siamo state partorite dai nostri figli […] e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido, che soffia dall’Atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.
(*) Questo articolo era già uscito sulla bella rivista on line «El Ghibli».

 

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