La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

Dichiarazione del prigioniero Nikos Romanòs

nicosDurante l’intervista al giornale online «Hit & Run», Nikos Romanòs ha definito «teatro dell’assurdo» la vicenda della negazione dei permessi di studio, al contrario di quanto previsto dall’emendamento votato dopo il suo lungo sciopero della fame, uno sciopero della fame che ha profondamente scosso tutta la società.

Nikos Romanòs ha attribuito al governo Syriza pesanti responsabilità, parlando di «strategie da campagna elettorale» e di «sfruttamento politico senza scrupoli delle persone che fanno parte del multiforme movimento di solidarietà».

Ecco come riassume la sua vicenda da gennaio, cioè da quando Syriza è salito al governo:

«Ho superato un terzo degli esami, come stabilito dalla normativa specifica, e ho fatto domanda per il permesso. Da quel momento in poi è iniziato il teatro dell’assurdo. Il consiglio del carcere non ha ritenuto valida la richiesta perché non è stato emanato nessun decreto ministeriale e ha così rimandato la domanda al giudice di corte d’appello Eftikis Nikòpoulos, sulla base della legge precedente. Nikòpoulos ha dato una risposta negativa perché non è stato pubblicato il decreto ministeriale e non può entrare nel merito dei contenuti della richiesta dal momento che, qualora approvata, la normativa abrogherebbe la legge precedente. Sulla base della decisione di Nikòpoulos, il consiglio del carcere ha rigettato la domanda e, di conseguenza, l’obiezione alla richiesta è ufficiale».

Per quanto riguarda Syriza, Nikos Romanòs annota:

«Ha avuto il ruolo di assorbire le tensioni sociali, di costruire capitale politico partecipando dall’interno alle lotte sociali e presentandosi come il loro braccio istituzionale, ma funzionando come forza anti insurrezionale, perché ha spostato il terreno di scontro dalle strade al parlamento. In poche parole, ha impersonato nel modo migliore possibile il ruolo politico del riformismo a livello centrale».

Di seguito l’intervista a Nikos Romanòs:

Raccontaci in poche parole la vicenda dei permessi di studio che ti spettano di diritto, dopo la normativa approvata in seguito al tuo sciopero della fame del novembre/dicembre 2014.

E’ andata così: ho superato un terzo degli esami, come stabilito dalla normativa in questione, e ho fatto domanda per il permesso. Da quel momento in poi è iniziato il teatro dell’assurdo. Il consiglio del carcere non ha ritenuto valida la richiesta perché non è stato emanato nessun decreto ministeriale e ha così rimandato la domanda al giudice di corte d’appello Eftikis Nikòpoulos, sulla base della legge precedente. Nikòpoulos ha dato una risposta negativa perché non è stato pubblicato il decreto ministeriale e non può entrare nel merito dei contenuti della richiesta dal momento che, qualora approvata, la normativa abrogherebbe la legge precedente. Sulla base della decisione di Nikòpoulos, il consiglio del carcere ha rigettato la domanda e, di conseguenza, l’obiezione alla richiesta è ufficiale.

Di fronte a queste misure Syriza, che durante lo sciopero della fame ha fatto campagna elettorale e ha sfruttato politicamente senza farsi scrupoli le persone del multiforme movimento di solidarietà, ha fatto come Ponzio Pilato, proprio come i suoi predecessori. Certamente non c’è da stupirci, dal momento che parliamo di politici, quindi di camaleontici ruffiani approfittatori, politicanti, opportunisti e ipocriti di professione, che hanno semplicemente vestito per un po’ di tempo i panni dei filantropi per perseguire scopi politici precisi. Chiaramente ci sono dei motivi anche più seri, ma di questo ne parlerò eventualmente nella prossima risposta. Rispetto agli sviluppi del mio caso, teoricamente dovrebbe essere approvata dal parlamento la delibera perché la normativa venga applicata, ma non mi pare ci siano molte possibilità che ciò avvenga.

Ritieni che dietro alle “dilazioni” rispetto alla questione del braccialetto ci siano degli scopi politici o un qualche tipo di rivalsa nei tuoi confronti?

Credo che nel caso specifico non esista alcun dispositivo elettronico (braccialetto), dal momento che, indipendentemente da ciò che il ministero della giustizia avvalla, noi che siamo in carcere sappiamo che non esiste neppure un detenuto in Grecia che sia stato scarcerato in questo modo. Ogni giorno molti detenuti vengono a chiedermi informazioni rispetto a questa questione e tutti si chiedono per quale ragione nessuno di quelli che ne hanno fatto richiesta abbia ricevuto risposta dal tribunale. I detenuti comunicano tra loro nelle carceri e scambiano informazioni sulle questioni che li riguardano, e posso dire con la massima certezza che non esiste neppure un detenuto che abbia messo piede fuori dal carcere in questo modo. Chiaramente, dal momento che una notizia del genere potrebbe paventare lo spettro di uno scandalo, vista la pubblicità sul caso, il mostro apparentemente senza volto della burocrazia dà la soluzione a questo problema.

La burocrazia in realtà non è un mostro senza volto, al contrario, è l’alibi dei volti che detengono le posizioni di potere, per scaricare le responsabilità su qualcosa di potenzialmente più grosso di loro: un alleato invisibile che si nasconde dietro comitati di legislatori, consiglieri tecnici, pile di incartamenti, interpretazioni molteplici e false speranze. Quello che sto dicendo, cioè che non esiste alcun dispositivo elettronico e che il ministero della giustizia sta solo prendendo deliberatamente in giro i detenuti per non destare scandalo, è un fatto che non lascia spazio ad alcun dubbio e che non può essere smentito da nessuno, dal momento che non esiste nessun detenuto che sia stato scarcerato o che abbia ottenuto licenze in questo modo.

Anche se non è necessaria ulteriore riprova, porterò un esempio dal carcere di Korydallòs, di cui conosco personalmente la situazione. Alcuni detenuti che studiano in diversi TEI (istituti tecnici universitari, n.d.t.), in base alla nuova normativa, hanno fatto richiesta al consiglio del carcere per i permessi di studio, ora che è periodo di esami. Visto che nessuno degli studenti era sotto processo, il consiglio del carcere non poteva nascondersi dietro la decisione di qualche magistrato, e ha respinto le richieste con bugie davvero ridicole, ad esempio che non erano riusciti in tempo a contattare le segreterie delle facoltà, invitando gli studenti a tornare a settembre. Questo fatto sta a significare che il consiglio del carcere ha ricevuto disposizioni precise dal ministero della giustizia affinché silenziasse la questione e non venissero alla luce le reali motivazioni di questi maneggiamenti.

Come giudichi la posizione del nuovo governo Syriza?

Per cominciare dal principio: Syriza ha assunto la forma del nemico molto prima di diventare governo. Ha avuto il ruolo di assorbire le tensioni sociali, di costruire capitale politico partecipando dall’interno alle lotte sociali e presentandosi come il loro braccio istituzionale, ma funzionando come forza anti insurrezionale, perché ha spostato il terreno di scontro dalle strade al parlamento. In poche parole, ha impersonato nel modo migliore possibile il ruolo politico del riformismo a livello centrale. Lo stesso Tsipras, prima di diventare primo ministro, aveva dichiarato che se non ci fosse stata Syriza ci sarebbero stati molti più scontri e molte più insurrezioni in Grecia durante gli anni delle manifestazioni contro il governo. Questo significa che l’elaborazione di un’agenda politica di sinistra come opposizione era tra le altre cose una scelta politica strategica per mettere in salvo la pace sociale e per ridisegnare ex novo e su nuove basi le istituzioni sociali distrutte.

La democrazia nasconde molti assi nella manica per rimanere al passo coi tempi, e una delle frecce al suo arco è la velocità di ricambio dei ruoli sulla scena politica, nel rimescolare le carte, nell’assimilare le spinte radicali che potrebbero ritorcerglisi contro. Arrivando ad oggi, e dunque all’ascesa al potere di Syriza, ci sono dei cambamenti strutturali nella sua retorica e delle enormi contraddizioni interne. Ovviamente, nonostante tutte le contraddizioni, la realtà dei fatti è Syriza mantiene in funzione le carceri di tipo “Gamma”, che esistono ancora dal momento che fuori dalla prigione di Domokos (località che ospita il carcere di massima sicurezza, n.d.t.) ci sono ancora mezzi speciali della polizia e i bracci di isolamento ospitano ancora compagni. Syriza permette che i migranti vengano marchiati con dei numeri prima di essere sbattuti dentro ai “campi di concentramento”, che gli spazi occupati vengono sgombrati, che i compagni in sciopero della fame vengono torturati e che i familiari dei compagni delle CCF siano tenuti in ostaggio. Syriza inaugura Salamina come primo luogo di confino dell’era democratica e firma accordi commerciali con gli assassini dei palestinesi; Syriza metetrà in atto tutte le politiche neoliberiste contro cui lottava quand’era all’opposizione.

In poche parole, Syriza mantiene tutti gli impegni geopolitici, economici e militari di uno stato che appartiene alla periferia del capitalismo mentre, contemporaneamente, per gettare fumo negli occhi dei suoi elettori di sinistra mantiene attivo un gruppo variegato di personaggi pittoreschi che contribuiscono a mantenere in piedi una retorica di sinistra e che, quando arriva il momento della trasformazione politica, vengono esclusi dai giochi.

Osservando le cose dalla nostra prospettiva, il fatto che siamo anarchici significa che, anche se quello di Syriza fosse stato davvero un governo con una politica radicale di sinistra, ci saremmo trovati lo stesso dall’altra parte della barricata, senza alcuna intenzione di firmare armistizi con gli apprendisti stregoni dell’inganno e dello sfruttamento organizzato. Tra l’altro, in contraddizione con la cancrena neocomunista che sta infettando le cerchie anarchiche, noi abbiamo tagliato già da molto tempo il cordone ombelicale che lega l’anarchia alla sinistra.

Bisogna però essere precisi nelle nostre caratterizzazioni per essere in grado di elaborare la realtà che abbiamo davanti: quello di Syriza è un governo socialdemocratico che utilizza una falsa retorica di sinistra radicale e che usa il suo profilo politico di sinistra per costruire controllo politico e per influenzare i movimenti e le formazioni sovversive che potrebbero andargli contro. E non dimentichiamo che storicamente la rappresentanza politica del capitalismo dal volto socialista ha messo in atto le politiche economiche e repressive più dure, sfruttando il sonno pacifico e complice del “governo dei molti”. La cosa più fastidiosa nelle nostre cerchie è che ci sono diversi imbecilli che fanno gli anarchici che hanno la smania di invitare i membri di Syriza nei loro “centri sociali” e di discorrere insieme a loro di profonde questioni ideologiche, promuovendo un’immagine “ripulita” di Syriza, mentre, nel momento in cui stiamo parlando, è il partito che gestisce lo stato. Un concetto tristemente simile a quello di chi vuole raddrizzare i fascisti di Alba Dorata, come se il problema coi fascisti o con i gestori della macchia statale fosse quello di discutere in cosa siamo in disaccordo, e non di colpirli dovunque li becchiamo. Tutto questo sarebbe una bella conversazione filologica per quelli che credono nella democrazia e nei suoi ideali, dormendo sulle nuvolette rosa e sognando una società post-capitalista. Peccato che gli anarchici siano in guerra con la democrazia e i suoi rappresentanti. Di conseguenza, al punto in cui siamo arrivati, tutti coloro che si impegnano a risciacquare Syriza non hanno alcuna scusa.

Tra l’altro, non è passato molto tempo da quando Stavros Thodorakis ha dato credito ad alcuni di loro in una puntata del suo programma, per le credenziali di legalità che hanno dato allo stato già da molto tempo. Per tutto questo miscuglio di governi di opposizione, cripto-syrizei, falsi ideologi dell’anarchismo e compagnia cantante la soluzione è semplice: un albero robusto e una corda resistente. Noi restiamo al fianco di coloro che restano amici delle insurrezioni anarchiche e continuano a lanciare molotov agli sbirri a Exarchia, che scendono in corteo per vandalizzare le recite dell’egemonia, che armano i loro cervelli con piani sovversivi e le loro mani col fuoco per bruciare i paramenti del nuovo ordine esistente. Con tutti quelli che organizzano la loro azione all’interno delle reti informali dell’azione anarchica. Lì dove le intenzioni sovversive si uniscono orizzontalmente e atipicamente in un fronte caotico che passa per primo all’attacco, colpendo le persone e le strutture che amministrano e difendono il mondo malato che ci circonda.

Qual è secondo te il posto della violenza nel movimento anarchico?

Ci troviamo un’altra volta negli ultimi anni a una svolta critica del processo storico moderno. Il capitalismo greco in bancarotta continua a destabilizzare l’UE e l’economia globale. La realtà è che questa situazione continuerà a prescindere dai dirigenti politici. I confini della Grecia e dell’Italia, primi paesi che ricevono i flussi migratori provenienti da zone di guerra, sono intrisi del sangue dei migranti. Gli antagonismi tra le potenze si acuiscono e gli scontri di interesse geopolitico innescano focolai di disordini in molte parti del mondo. Per gli anarchici l’instabilità e l’acuirsi della violenza sistematica in tutto lo spettro delle relazioni sociali e di sfruttamento è una spinta a organizzarsi efficacemente per diventare un potente fattore di destabilizzazione, per un contrattacco anarchico contro il mondo del potere, gli economisti, i politici, gli sbirri, i fascisti, i giornalisti, gli scienziati, i funzionari statali, i direttori e i membri delle multinazionali, i funzionari giudiziari, i direttori delle prigioni-bordello, i banchieri e i loro collaboratori, i ruffiani e i servitori del potere. Contro tutte queste canaglie, il cuore della macchina capitalista che batte al ritmo della maggioranza della società, la quale per indifferenza e paura, o per connivenza, contribuisce a proteggere il cuore della bestia, l’anarchia risponde con la lingua della violenza, del fuoco, delle esplosioni, della lotta armata. Su questa base fondiamo le nostre strategie, decidendo di insorgere e gettarci nella lotta per la liberazione totale, in un’insurrezione che, oggi come oggi, si giocherà il tutto per tutto, libererà i rapporti umani all’interno delle comunità rivoluzionarie, organizzerà l’offensiva. Diventerà il veicolo per viaggiare sui sentieri della libertà non segnati sulla mappa, dando la possibilità di vivere senza ricevere o dare ordini, senza sottomettersi, senza strisciare, ma in una maniera autentica, che creerà una nuova realtà invertita all’interno delle metropoli capitaliste, un’epoca della paura per i potenti e i loro servi, l’alba della nostra epoca, ora e per sempre, fino alla fine. Di conseguenza la violenza rivoluzionaria nel movimento anarchico è l’Alfa e l’Omega, è la forza trainante per il salto di qualità di un nemico interno che provocherà incubi al potere e ai padroni.

Credi che per un detenuto politico il carcere possa costituire un terreno di scontro?

Prima di tutto dobbiamo abbattere questo mito, cioè l’ideale collettivo secondo cui il detenuto sia un soggetto rivoluzionario in potenza. I migranti, i detenuti, i lavoratori, gli studenti medi e universitari sono sottogruppi sociali che dipendono e a loro volta alimentano il funzionamento del mondo capitalista. Secondo me l’uomo libero compare lì dove vengono distrutte le identità sociali e vengono cancellate tutte le proprietà, al punto che la decisione individuale per la liberazione crea una nuova identità unica e separata. Il ribelle iconoclasta che attacca con tutti i mezzi i nemici della libertà. Per un anarchico che ha deciso di partecipare attivamente all’insurrezione anarchica, il carcere o addirittura la morte sono conseguenze possibili delle sue scelte, fatte nel mondo reale e non nella realtà digitale in cui i parolai e le fantasticherie sono consueti. Il carcere è una stazione temporanea per chi è stato colpito dalla repressione. È il luogo dove ognuno viene messo davvero alla prova, il punto determinante delle grandi decisioni e dei grandi cambiamenti interiori. È una struttura sociale marcia in cui regnano la sottomissione e la ruffianeria, è il regno oscuro del potere, un luogo di degradazione, in cui la libertà non solo viene imprigionata, ma per molti viene umiliata e trascinata tra eroina, disciplina e sporchi corridoi dove gli esseri umani imparano a odiarsi. Esistono migliaia di analisi sul carcere e sui detenuti, io dirò ciò che ha detto anche il guerrigliero di Action Direct Jean Marc Rouillan, cioè che i più adatti a parlare del carcere sono quelli che hanno passato una piccola parte della loro vita lì dentro.

Perché la verità è che più tempo passi qui dentro, più diventa complesso descrivere il funzionamento e la struttura di questa società davvero misera. In sintesi, carcere significa morte lenta, cannibalismo sociale, sopraffazione del più debole, abbandono, distruzione psicosomatica, eroina, psicofarmaci, esseri umani-spazzatura stipati in discariche statali, disciplina, gerarchia, fanatismo religioso, raggruppamenti etnici e divisioni razziste, nazionalismo di ogni tipo, confino, attesa, autodistruzione, vicolo cieco, soppressione delle emozioni, coercizione, immobilità totale, fissità. Non è esagerato dire che la società dei detenuti è il figlio bastardo della società capitalista, un meccanismo ben oliato di morte in cui si nasconde tutta la bruttezza del mondo contemporaneo. Questo non significa che in carcere non ci siano minoranze di persone che hanno la dignità come bussola e con cui puoi costruire rapporti amichevoli o politici. Tornando alla parte principale della domanda, credo che in questa prova non devi mai dimenticare il cammino verso il tuo obiettivo e la dedizione alla causa comune. Mai pentiti, mai a testa bassa, per sempre pericolosi per la cultura della schiavitù e della sottomissione. Per questo anche la lotta anarchica in carcere può trovare sbocchi e aprire strade per diventare pericolosa per il nemico. Con testi e analisi, con piccoli e grandi rifiuti quotidiani, con gli scioperi della fame, con la lima tra le mani, il filo dell’insurrezione anarchica continua a essere tessuto se nei nostri cuori continua a bruciare la fiamma della sovversione. In questo senso, il carcere è un terreno di scontro per promuovere la lotta sovversiva e l’anarchia.

Fonte: hitandrun.gr

Traduzione di AteneCalling.org

Frasi di Don Andrea Gallo

 

Don_Gallo

Don Andrea Gallo è stato un presbitero e partigiano italiano, di fede cattolica e ideali comunisti, anarco-cristiani e pacifisti, prete di strada fondatore e animatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova.

“Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri”.

“Il peccato più grave è l’indifferenza”.

“I cristiani, se non sono accoglienti, non dicano che sono cristiani”.

 

 

Fonte:

http://frontierenews.it/aforismi-frasi/don-andrea-gallo/

 

 

Parla Lello Valitutti, l’anarchico in carrozzina: Vi dico cos’è ‘”violenza”

lello La denuncia di Lello Valituttti

Fatto oggetto di un’infame campagna mediatica dopo il primo maggio milanese, abbiamo sentito Lello Valitutti riguardo alle minacce mafiose a lui rivolte da alcuni sgherri in borghese. Una denuncia, una precisazione e un paio di considerazioni.

http://www.radiocane.info/lello/

 

*

 

Parla Lello Valitutti, l’anarchico in carrozzina: Vi dico cos’è ”violenza”

04/05/2015

E’ stato un’icona della protesta no-Expo nel giorno dell’inaugurazione, tuta nera, casco e sedia a rotelle, parla Lello Valitutti: ‘Black bloc? Io mi definisco anarchico’.

 

 

Fonte:

http://www.la7.it/piazzapulita/video/parla-lello-valitutti-l%E2%80%99anarchico-in-carrozzina-vi-dico-cos%C3%A8-violenza-04-05-2015-153888

Expo 2015 e le diverse forme di violenza

Voglio scrivere una mia personale riflessione su quello che è accaduto e sta accadendo in questi giorni per l’Expo 2015. A me fa schifo l’Expo, sono sempre stata contraria e mi fa schifo anche quello che è successo il primo maggio a Milano, non tanto perchè mi preoccupi la conta dei danni, ma perchè quelli che hanno spaccato e bruciato alla cazzo per l’ennesima volta, non c’entrano nulla con la politica. E’ solo gente che non ha niente di meglio da fare. E così rovinano tutto il lavoro dei movimenti No Expo che da tempo si davano da fare per cercare di far capire le ragioni del perchè non si può pensare di nutrire il pianeta con la merda delle multinazionali – come McDonald’s e Coca Cola, solo per fare qualche esempio – nè con lo sfruttamento gratis nascosto sotto il termine “volontariato” nè con l’inquinamento causato dalla Via d’Acqua  nè con le politiche di occupazione, permettendo la partecipazione di paesi come Israele. Io sono dell’idea che le proteste per essere efficaci e sensate dovrebbero essere fatte con intelligenza, non bruciando alla cazzo, ma facendo casino in altro modo, con modi che facessero sentire la propria voce, portando per strada veri lavoratori, con l’arte, con la musica, con gli slogan, con strumenti musicali, con strumenti qualsiasi, mostrando facce pulite contro l’ipocrisia dei potenti. E questo in qualche modo è stato fatto durante il corteo dai movimenti No Expo. Ma, sì sa, i media preferiscono dare spazio alle immagini di violenza e questo fa sì che episodi simili coprano la vera faccia dei movimenti. Io penso che se  poi proprio si volessero fare delle azioni dimostrative avrebbe più senso farle invece che contro vetrine e macchine a caso, contro le sedi delle istituzioni per esempio. Ma credo pure che queste siano cose che lascerebbero il tempo che trovano e che l’invito al boicotaggio e a seguire percorsi alternativi, su modelli di produzione sostenibili, resterebbe, nel lungo periodo, la forma migliore per un  progetto politico dal basso.
Detto questo,  mi preme ora evidenziare quelle che per me sono diverse forme di violenza. Credo non ci sia solo la violenza dei black block. C’è la violenza dei media che sbattono sulle pagine di tutti i giornali foto e un’intervista fatta chissà come di un vecchio compagno anarchico, Lello Valitutti, presente in questura durante l’omicidio di Pinelli. Un compagno che nonostante l’età e la disabilità da una grande testimonianza essendo presente alle più importanti mobilitazioni e che si è visto prima picchiato e minacciato di morte da parte della polizia – come lui stesso riferisce – e poi etichettato dai giornali come il black block in carrozzina. C’è la violenza di una legge fascista da codice Rocco, come quella del reato di devastazione e saccheggio per cui sono previste pene fino a 15 anni di carcere, che gli arrestati di questi giorni (ammesso siano colpevoli) adesso rischieranno. Si ripete così lo stesso copione degli arresti per il g8 2001.
C’è, inoltre, una violenza ancora più taciuta: quella della morte di un giovane ragazzo di soli 21 anni di origine albanese, Klodian Elezi. Klodian lavorava al cantiere della Teem, la tangenziale est esterna milanese, una delle tre opere infrastrutturali di Expo. A poche settimane dall’apertura dell’Esposizione Universale, Klodian è morto cadendo da più di dieci metri d’altezza mentre smontava un ponteggio. Secondo diverse testimonianze, l’azienda per cui lavorava, la Iron Master, non avrebbe fornito né imbracatura né casco di sicurezza.
Per un evento mondiale, che pretende di nutrire il pianeta attraverso lo sfruttamento di giovani al servizio di multinazionali, un ragazzo è morto per mancanza di sicurezza sul lavoro. Ma nessuno ha tempo per pensarci. C’è una città da ripulire e un grande evento da portare avanti, anche se i padiglioni sono fatiscenti e cadono a pezzi, come le illusioni che nascondono.

D. Q.

 

elezi-klodian

(Fonte immagine: http://www.giuliocavalli.net/2015/05/01/buon-primo-maggio-klodian-morto-po-dexpo/


 

 

 




Ciao, Marco!

(Marco è il compagno in piedi a sinistra. Pubblico questa foto perchè riguarda il giorno in cui ci siamo conosciuti. Foto: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=572015309505526&set=a.143044635735931.15997.100000911853153&type=1&theater)

Quando muore un compagno si ha un grande dispiacere. Ma quando muore un compagno che sentivi come un fratello, anche se per l’età poteva essere più un padre, è un colpo al cuore. Apprendo oggi della scomparsa improvvisa, alcuni giorni fa, del compagno anarchico Marco Pacifici. Marco non era solo uno degli autori de La Strage di Stato, testo classico sulla strage di Piazza Fontana, era molto più di questo. Era un uomo generoso, che amava molto i compagni, soprattutto i giovani, che chiamava tutti suoi figli, lui che figli biologici non aveva potuto averne. Ma di quelle torture subite a cui a volte accennava non è mai stato detto. Ora questo non ha importanza. Il compagno Marco è volato via e un po’ mi sento in colpa perché da tempo non gli scrivevo più ne l’ho più chiamato come all’inizio quando lo cercavo come un maestro di resistenza. Mi rincuora di avere avuto la fortuna di incontrarlo una volta, un paio di anni fa, alla presentazione di un libro che è un pezzo di storia e di memoria: un pomeriggio memorabile insieme a altri compagni giovani e meno giovani, generazioni unite dalla memoria e dalla resistenza. Resistenza, già, perché per una curiosa coincidenza tu eri nato il 25 aprile e ci scherzavi sul fatto che fossi nato proprio nel giorno della Liberazione. Hai sempre lottato contro le ingiustizie dello Stato da quando eri un ragazzino, contro il carcere che ha rubato alcuni anni della tua gioventù e negli ultimi tempi contro le ingiunzioni di pagamenti non dovuti. Ci mancherai tanto.
Ciao, monello! Non ti dimenticherò mai!

 

D. Q.

Il “malore attivo” dell’anarchico Pinelli – Videotestimonianza di Valitutti

IL “MALORE ATTIVO” DELL’ANARCHICO PINELLI:QUANDO LA VERITA’ VOLO’ FUORI DALLA FINESTRA
UNA PAGINA NERA DELLA STORIA GIUDIZIARIA ITALIANA
saverio ferrari  –  Redazione Osservatorio Democratico  –  14/12/2004

Complessa e scandalosa fu la vicenda giudiziaria riguardo la morte di Giuseppe Pinelli. Nel maggio 1970 su proposta del Pubblico Ministero Giovanni Caizzi il Giudice Istruttore Antonio Amati archiviò sbrigativamente come “morte accidentale” la precipitazione dell’anarchico dal quarto piano della questura. Si scoprì in seguito che pur di giungere a questo esito non si erano nemmeno svolti gli accertamenti di rito riguardo il punto e l’ora della caduta del corpo e che il collegio peritale non aveva pensato di recarsi sul posto dell’evento. Nel frattempo, il 15 aprile, Luigi Calabresi aveva querelato per ”diffamazione continuata e aggravata” Pio Baldelli, direttore responsabile del quotidiano Lotta Continua che aveva promosso una sistematica campagna di denuncia, con articoli e vignette, attribuendo al commissario responsabilità precise circa la morte dell’anarchico.

Il Procuratore Generale di Milano Enrico De Peppo, per sgomberare il terreno ed evitare problemi, prima di assegnare la causa ad un magistrato, ritardando i tempi, fece in modo che l’archiviazione di Caizzi giungesse a compimento. Si aprì così solo nell’ottobre del 1970 il processo per diffamazione che, per altro, portò nell’aprile del 1971 alla richiesta di riesumazione del cadavere di Pinelli per ulteriori accertamenti. Attraverso nuove perizie medico-legali si intendeva verificare se fosse ancora possibile rinvenire sulla salma tracce di un colpo di karatè sferrato durante gli interrogatori che con ogni probabilità aveva leso il bulbo spinale. Forse la vera causa di quel malore che avrebbe provocato la defenestrazione. L’avvocato di Calabresi, Michele Lerner, ricusò a questo punto il giudice Biotti per aver anticipato in un colloquio privato le proprie convinzioni sulla colpevolezza di Calabresi. Il 7 giugno 1971 la Corte d’appello rimosse il giudice dall’incarico ed il processo si arenò definitivamente. Solo il 4 ottobre del 1971 si riaprì il caso, quando su denuncia della vedova Licia Rognini, il Giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio emise sei avvisi per omicidio volontario contro il commissario Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Piero Mucilli ed il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano. L’istruttoria si concluse il 27 ottobre del 1975 con il proscioglimento di tutti gli indagati.

Una sentenza passata alla storia. Pinelli, sostenne D’Ambrosio, non si era suicidato ma nemmeno era stato assassinato. “Verosimilmente”, a causa di un “malore attivo” e dall’“improvvisa alterazione del centro di equilibrio” fu violentemente spinto fuori dalla finestra. Giuseppe Pinelli alto 1,67, sentendosi male, invece di accasciarsi sul pavimento come ogni altro essere mortale, con un balzò inconsulto e involontario si ritrovò invece a scavalcare una finestra di 97 centimetri, spalancando al contempo, quasi in volo, le imposte socchiuse della finestra. Una tesi senza precedenti nella storia del diritto e rimasta ancor oggi unica nel suo genere. Gli stessi periti d’ufficio esclusero la possibilità dell’evento in palese contrasto con le più elementari leggi della fisica e della medicina legale. Per altro, su Pinelli non furono rinvenute ferite sulle mani e sulle braccia a dimostrazione che il corpo fosse già inanimato al momento della caduta, così dicasi per l’assenza di perdita di sangue dal naso e dalla bocca. Non bastò.

Il Giudice nonostante le smentite alla propria tesi, proveniente dagli stessi indagati, ciascuno dei quali si era lasciato andare a testimonianze tutte in contrasto fra loro, senza mai in alcun modo parlare del malore, la sostenne senza fornire alcuna prova o riscontro concreto. In questo frangente anche il caso clamoroso del brigadiere Vito Panessa che addirittura affermò che nel tentativo di afferrare l’anarchico gli rimase una scarpa in mano, quando Pinelli venne rinvenuto nel cortile della questura con ambedue le scarpe ai piedi. Si aggiunse come beffa finale il provvedimento di amnistia per Antonino Allegra, capo dell’Ufficio politico, circa i reati di abuso di potere e arresto illegale di Giuseppe Pinelli, ancor oggi vittima senza giustizia, l’ultima della strage di Piazza Fontana. Una pagina nera, certo non la sola, nella storia giudiziaria italiana.

SAVERIO FERRARI
Milano, 2 dicembre 2004

 

Fonte:

http://www.osservatoriodemocratico.org/page.asp?ID=2747&Class_ID=1001

 

*

 

Videotestimonianza di Pasquale Valitutti sul caso Pinelli:

 

In ricordo di Saverio Saltarelli. 12 dicembre 1970.

Di Paola Staccioli:

 

Originario di Pescasseroli, Saverio Saltarelli era iscritto al terzo anno di giurisprudenza a Milano quando la sua vita fu fermata, a ventitré anni, da un candelotto lacrimogeno che lo colpì in pieno petto. Il 12 dicembre 1970 ricorreva il primo anniversario della strage di piazza Fontana, drammatico esordio di quel sanguinoso disegno, poi definito “strategia della tensione”, volto a bloccare la trasformazione sociale e politica del paese. Era inoltre in corso a Burgos un processo nel quale il regime franchista si apprestava a condannare a morte alcuni militanti di Eta, organizzazione armata basca di liberazione nazionale. Le forti mobilitazioni popolari interne e internazionali fermarono le esecuzioni.

 

Delle quattro manifestazioni in programma per quel pomeriggio a Milano, il questore Ferruccio Allitto Bonanno autorizzò solo quella promossa dall’Anpi e da altre forze della sinistra istituzionale contro il processo di Burgos, vietando il corteo dei circoli anarchici per ricordare l’uccisione di Pinelli e denunciare l’estraneità di Valpreda e compagni nella “strage di Stato”, così come il presidio del Movimento studentesco in piazza Fontana, indetto per impedire un’adunata, anch’essa vietata, annunciata da gruppi neofascisti. Al termine del comizio gli anarchici danno vita a un corteo che viene caricato alle spalle dalla polizia agli ordini del vicequestore Vittoria e sospinto verso l’Università Statale presidiata dal Movimento studentesco. Nel frattempo alcuni squadristi lanciano molotov contro la sede dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi fascisti si muovono in direzione dell’Ateneo. Proseguono le cariche. Gli studenti difendono la loro postazione mentre la polizia cerca di rompere i cordoni di protezione. Durante gli scontri, un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo uccide Saverio Saltarelli, militante di Rivoluzione comunista, mentre il pubblicista Giuseppe Carpi riporta ferite da armi da fuoco.

 

Le prime versioni ufficiali parlarono di “malore” e poi di “collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, si ammise che il cuore di Saltarelli fu spaccato da un “artificio lacrimogeno”. Nonostante l’«ostruzionismo continuo e il sottile bizantinismo fondato su manipolazioni procedurali» da parte di organi giudiziari e di polizia, come si legge nell’ordinanza istruttoria, grazie all’impegno del movimento, insieme ad avvocati e giornalisti democratici, l’inchiesta si chiuse con l’emissione di sei avvisi di reato. Nel 1976 il capitano di ps Alberto Antonetto, comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la non menzione. Il capitano dei carabinieri Antonio Chirivì (divenuto poi comandante dei Vigili Urbani di Milano dal 1997 al 2006) e un sottufficiale furono indiziati di reato per il ferimento del pubblicista.

 

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/promemoria-in-ricordo-di-saverio-saltarelli-12-dicembre-1970/10151902189628264

 

 

Vittoria per Nikos Romanos

10850229_615330735255983_4217086811320444688_n (1)

Dopo 31 giorni di sciopero della fame, il 21enne Nikos Romanòs ha vinto la sua lotta per la vita e la dignità. Con alcune modifiche dell’ultimo momento è stata approvata la riforma di legge in Parlamento che dà la luce verde ai permessi studio per i detenuti con l’uso del “braccialetto elettronico”.

Secondo le dichiarazioni del direttore dell’ospedale Gennimatas, in seguito all’approvazione unanime della riforma sui permessi studio per i detenuti, Nikos Romanos ha interrotto lo sciopero della fame dopo 31 giorni.

L’ondata di solidarietà ha costretto il ministro della Giustizia ad introdurre dei cambiamenti dell’ultimo momento nella riforma di legge. È stato preceduto da un intervento da parte del Presidente della Repubblica Karolos Papoulias, che ha chiesto di trovare una soluzione per Nikos Romanòs in una sua comunicazione con Antonis Samaras.

Sinteticamente, la riforma prevede la concessione dei permessi educativi sotto monitoraggio elettronico, il cosiddetto “braccialetto”, dopo il completamento dei primi due mesi di corsi a distanza, senza la condizione del previo pronunciamento del Consiglio dei Giudici. L’unica possibilità di sospensione è il diniego con motivazione del Consiglio dei Giudici, da trasmettere comunque successivamente. Come ha sostenuto Charalambos Athanassiou [ministro della Giustizia, n.d.t] la riforma di legge è l’insieme delle opinioni espresse da tutti i partiti del parlamento.

Somministrazione della flebo

Com’è stato già reso noto, Nikos Romanòs ha cominciato a mangiare biscotti secchi e i medici gli hanno somministrato la flebo. Intanto gli esami clinici e di laboratorio proseguono per comprendere le possibili conseguenze dello sciopero della fame sull’organismo di Nikos Romanòs e per valutare il periodo di ricovero necessario affinché il ragazzo si riprenda.

Ricordiamo che, in seguito al mancato esito delle trattative che si stavano svolgendo da martedì in parlamento sul contenuto della riforma di legge sugli studi a distanza dei detenuti, Nikos Romanòs aveva iniziato dalla mattina di mercoledì anche lo sciopero della sete.

Ondata di solidarietà

La vittoria, con l’accoglimento da parte del parlamento della sua rivendicazione di seguire i corsi della facoltà a cui è stato ammesso, è arrivata nel pomeriggio, mentre si stava ancora svolgendo in piazza Syntagma un presidio di solidarietà con il detenuto in sciopero della fame.

Nei giorni precedenti ci sono state nelle principali città del paese e all’estero mobilitazioni a oltranza, con manifestazioni di massa, occupazioni di palazzi, comunicati di sostegno e altre azioni.

Altri articoli:
Il comunicato di Nikos Romanòs

Fonte: thepressproject

Traduzione di AteneCalling.org

 

 

 

Tratto da

http://atenecalling.org/vittoria-per-nikos-romanos/

Alexis vive. Cortei in tutta la Grecia. Cariche, feriti e fermi. – Nikos Romanos: studiare o morire

10850320_613508112104912_7332299908516319504_n

Riceviamo e pubblichiamo da un compagno che si trova ad Atene

Manifestazioni in diverse città della Grecia per l’anniversario dell’omicidio di Alexis Grigoropuolos e per sostenere la lotta di Nikos Romanos in sciopero della fame in carcere. Migliaia in piazza ad Atene e Salonicco, cariche violente della polizia, arresti e feriti, mentre scrivo da Atene la polizia continua ad attaccare spazi sociali e stazioni della metro con lacrimogeni e idranti.

In questi giorni segnati da un clima di tensione crescente dovuto allo sciopero della fame (che sta arrivando alle estreme conseguenze, ha annunciato oggi di interrompere anche l’assunzione di acqua oltre che di cibo) del giovane detenuto anarchico Nikos Romanos le mobilitazioni per ricordare l’omicidio del quindicenne Alexis Grigoropulos, ucciso sei anni fa dalla Polizia ad Exarchia, hanno assunto una nuova e straordinaria importanza a. Il suo omicidio scatenò in Grecia una vera e propria ondata insurrezionale, all’inizio della crisi.  Manifestazioni e occupazioni si susseguono da giorni in tutta la Grecia, con sedi di sindacati, municipi e sedi istituzionali occupate da studenti e movimenti sociali in lotta. Oggi duri scontri ad Atene, Salonicco e Volos, ma le mobilitazioni  si sono svolte in diverse altre città compresa Creta.


Oggi ad Atene era attesa una grande manifestazione: oltre 10.000 persone hanno sfilato la mattina e il pomeriggio, per richiedere il permesso di studio per Nikos Romanos e per ricordare Alexis. La coda del corteo è stata caricata dagli idranti e a colpi di granate stordenti e lacrimogeni. Diversi fermi effettuati soprattutto da squadre di agenti infiltrati incappucciati, le ultime news parlano di oltre 120 arrestati solo ad Atene, mentre continuano i raid della polizia nelle vie limitrofe al corteo ed in particolare ad Exarchia e Omonia, dove sono stati lanciati lacrimogeni in metropolitana mentre le persone cercavano riparo, contemporaneamente alle cariche con idranti e lacrimogeni in diversi quartieri della città. 

Poco fa le squadre Delta (squadre di poliziotti in moto) hanno tranciato in due lo spezzone che si dirigeva verso Exarchia, ma la resistenza, con molotov e barricate, continua in via Stournari e in altreparti delquartiere, soprattutto intorno al Politecnico, dove la polizia carica ancora con gli idranti.

Decine di Delta appostati nei vicoli sono pronti a entrare a Exarchia e nella zona vicino al Politecnico, assieme a loro ci sono due camion Toma (con i cannoni ad acqua). Il rischio più grande riguarda le decine di agenti perfettamente camuffati che si isolano coi gruppi in ritirata e arrestano i compagni. Pochi minuti fa hanno circondato la nuova occupazione realizzata per Romanos e stanno per entrare. Attacchi con lacrimogeni alla sede GSEE, gli scontri continuano ad Exarchia e nei quartieri limitrofi. In piazza Exarchia sono state lanciate molotov dai balconi e la polizia ha risposto lanciando lacrimogeni nelle case.

Giornata di lotta anche a Salonicco, dove fin da stamattina in migliaia sono scesi in piazza: anche qui la polizia ha spezzato il corteo, attaccando il blocco antiautoritario e sparando lacrimogeni, i compagni hanno resistito e alla fine hanno scelto di occupare la sede dei sindacati per una grande assemblea. Pochi minuti fa la polizia ha fatto irruzione, con lacrimogeni e cariche, proprio nella sede dei sindacati occupata dai movimenti. Di seguito il video dell’attacco dei MAT. 

Fonte:

http://atenecalling.org/alexis-vive-cortei-in-tutta-la-grecia-cariche-feriti-e-arresti/

Per saperne di più sull’omicidio di Alexis e sulla vicenda di Nikos, leggere i seguenti link:

http://atenecalling.org/perche/

http://atenecalling.org/nikos-romanos-studiare-o-morire/