SIRIA: NESSUN HASHTAG PER CHI SPARISCE

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)

(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-il-massacro-che-non-avra-un-hashtag.html

BARILI-BOMBA E OPPRESSIONE. DA COSA SCAPPANO I SIRIANI

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(di Amr Salahi, per Middle East Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). La scorsa settimana foto e video di rifugiati siriani disperati che giungono in Europa – o muoiono nel tentativo di farlo – sono stati tra le notizie di apertura dei media di tutto il mondo, ma ben poca enfasi è stata data alle cause della crisi e le voci dei rifugiati sono rimaste ampiamente inascoltate. La copertura mediatica è stata incline a ritrarre la crisi come una catastrofe naturale o a esagerare il ruolo che Daesh, altrimenti detta Stato islamico (Is), avrebbe svolto nel crearla.

Il conflitto in Siria viene ritratto sempre di più come un conflitto tra il regime del presidente Bashar al Asad e Daesh, con il primo dipinto come il minore tra i due mali. Le organizzazioni della società civile che ancora lavorano sul terreno – allo scoperto nelle zone controllate dalle forze dell’opposizione moderata, di nascosto in quelle controllate dal regime di Asad e da Daesh – sono ampiamente ignorate dai media e le voci dei rifugiati non sono ascoltate.

Uqba Fayyad, giornalista siriano della città di Qusair, nella provincia di Homs, dice che è stato costretto a fuggire dalla sua città-natale nel marzo 2013, appena prima che venisse invasa dalle forze del regime siriano e dai loro alleati di Hezbollah. Racconta che nel mese precedente alla caduta nelle mani del regime, centinaia di persone in questa città di 5.000 abitanti sono state uccise dagli attacchi aerei e via terra da parte del regime. Attacchi che includevano “barili-bomba, bombe a grappolo e napalm” e – racconta –  “poco prima che prendessero d’assalto la città, hanno usato bombe a vuoto in grado di risucchiare l’ossigeno di qualunque edificio, riducendolo in polvere nel giro di secondi”. Non ha avuto altra scelta che quella di fuggire.

“Per tre giorni – continua – abbiamo viaggiato attraverso i boschi senza cibo né acqua, portando sulle spalle i feriti, mentre le loro piaghe si infettavano. Siamo riusciti a raggiungere le città [controllate dall’opposizione] nella zona del Qalamun”. Tuttavia, non sono stati accolti con benevolenza: gli abitanti avevano visto la brutalità dell’assalto a Qusair e temevano che se avessero accolto gli sfollati, un destino simile sarebbe toccato anche a loro. Sono scoppiati scontri e Uqba e gli altri sono fuggiti ancora una volta, verso Arsal in Libano, dove sono stati soggetti a regole molto dure da parte delle autorità locali, incluso un coprifuoco dalle ore 18.00 in poi. Alla fine è riuscito a contattare il consolato svedese in Libano e ha ottenuto asilo in Svezia.

I siriani non scappano, però, solo dai bombardamenti del regime nelle zone controllate dall’opposizione. A volte, quando una zona viene catturata dalle forze di opposizione, alcuni abitanti fuggono in aree ancora sotto il controllo del regime. Di solito temono ciò che il regime potrebbe fare alle aree controllate dai ribelli, tra cui bombardamenti simili a quelli descritti da Uqba oppure – in zone circondate da territorio controllato dal regime – assedi prolungati che conducono alla morte per fame degli abitanti.

Muhammad Manla è un attivista siriano dell’opposizione rifugiato in Germania da quasi tre anni. È fuggito dal quartiere Salah ad Din di Aleppo quando è stato sottratto ai ribelli da parte delle forze del regime siriano nel luglio 2012, ed è arrivato nella parte occidentale di Aleppo, rimasta nella mani del regime. Salah ad Din è diventato poi uno dei luoghi più pericolosi del mondo quando il regime siriano l’ha colpito coi barili-bomba, insieme ad altri quartieri di Aleppo sotto il controllo dei ribelli.

Eppure, anziché trovare la sicurezza nel territorio del regime, ogni volta che Muhammad usciva, veniva fermato ai checkpoint e minacciato da soldati del regime e da agenti che lo accusavano di essere legato ai ribelli, solo perché sulla sua carta d’identità c’era scritto che era di un quartiere controllato dall’opposizione. Due mesi dopo è fuggito ancora una volta, in Egitto, e da lì in Germania.

A questi checkpoint e negli uffici governativi, la gente viene spesso rapita o arrestata in modo arbitrario. Un altro rifugiato della provincia nord di Aleppo controllata dall’opposizione – che preferisce restare anonimo – ha detto che suo padre, un uomo di 70 anni, è stato arrestato quando è andato a ritirare la pensione in un ufficio governativo nella parte occidentale di Aleppo. Accusato di essere un membro di Jabhat al Nusra, è stato tenuto in una cella di 2 metri per 1 metro e mezzo con altri sei prigionieri e picchiato. È stato rilasciato solo perché un amico di famiglia aveva contatti nei servizi di sicurezza.

Il fratello di Muhammad, studente all’università di Aleppo, lo ha raggiunto in Germania di recente dopo aver lasciato la Siria. Una legge approvata da poco ha reso obbligatorio per tutti gli studenti che si stanno laureando di unirsi all’esercito. La possibilità di coscrizione nelle file dell’esercito del regime siriano è un fattore importante che spinge i giovani uomini a lasciare il Paese. Si trovano a tutti gli effetti davanti alla scelta di combattere e forse morire per un regime cui molti di loro si oppongono, oppure intraprendere un pericoloso viaggio all’estero.

Muhammad è chiaro su quella che ritiene essere la soluzione al conflitto: “Una no-fly zone rafforzerebbe di nuovo la rivoluzione. Scuole e università potrebbero venire aperte in zone controllate dall’opposizione, cosa che impedirebbe ai giovani di venire influenzati dall’ideologia dittatoriale del regime e da quella estremista di Daesh. Permetterebbe anche ai ribelli di organizzarsi per combattere Daesh e il regime”.

Mentre le proposte di una no-fly zone suscitano polemiche negli Stati Uniti e in Europa, con molti politici che temono il coinvolgimento in una guerra in Medio Oriente, tra i siriani l’idea è accettata a un livello molto più ampio. La richiesta è stata ufficialmente avallata da Planet Syria, un gruppo di coordinamento composto da oltre 100 organizzazioni della società civile siriana, e dai Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione civile che lavora soprattutto nel salvataggio dei sopravvissuti agli attacchi coi barili-bomba del regime.

Il governo siriano ha il monopolio totale della forza aerea nel conflitto siriano. Gli attacchi aerei hanno causato oltre il 40% delle morti tra i civili verificate dal Centro per la documentazione delle violazioni (Vdc), organizzazione siriana che monitora il numero di civili morti e gli abusi dei diritti umani. L’arma aerea più comunemente usata è il barile-bomba. I barili-bomba sono mortali, indiscriminati e incessanti. Ne sono stati sganciati oltre 11 mila dall’inizio del 2015 e attivisti siriani mettono l’accento sul fatto che da allora il regime ha ucciso 7 volte più civili di quanti ne abbia uccisi Daesh. Pur trattandosi di un’arma molto semplice – barili di greggio senza guida riempiti di esplosivo e scarti metallici – sono comunque mortali, indiscriminati e incessanti.

Mentre gli analisti occidentali continuano a dare la propria interpretazione delle cause della crisi dei rifugiati siriani, con alcuni di loro che addossano la colpa all’estremismo di Daesh e altri che lanciano moniti sui pericoli di un intervento, un’immagine del tutto diversa della crisi emerge dalle storie dei rifugiati e dai dati raccolti da organizzazioni siriane che lavorano sul terreno. I responsabili delle politiche occidentali farebbero bene ad ascoltare ciò che i siriani raccontano su quanto sta accadendo nel loro Paese e sul perché lo stanno lasciando. (Middle East Monitor, 13 settembre 2015)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/barili-bomba-e-oppressione-le-radici-della-crisi-dei-rifugiati-siriani.html

ERO SAID. ERO PICCOLO. ERO A YARMOUK

Said (di Claudia Avolio)

“Mi dispiace campo mio, ho macchiato i vestiti della festa”
“Non fa niente, luce dei miei occhi, il tuo cuore è pulito. Sii Said / Sii felice”.
“Felice Eid, piccolo Said”

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Di tanti nomi, date, cause infami di decesso, a restarti dentro con più insistenza sono i dettagli. Arriva a volte un particolare che ti lascia una nuova, piccola ferita, e si aggiunge a quella più grande – inesorabile – dello scoprire che qualcuno è morto, o è stato ucciso. Mi è successo quando mi sono resa conto, per esempio, che Said era molto più piccolo di quanto non mi fosse sembrato nella prima foto. “Era piccolo”, l’ho ripetuto nella mia testa più di ogni altra cosa.

La prima frase che ho letto su di lui, anche quella mi ha ferito. Diceva “shahid qabla al iftar” (martire prima dell’interruzione del digiuno). A soffermarcisi un attimo, è una immagine terribile, dolorosa. Penso agli adulti intorno a lui, giunti a soccorrerlo, a chi tra loro non toccava cibo e acqua da tante ore e ha visto concludersi quella giornata di sacrificio così.  E poi il particolare che mancasse solo qualche giorno alla festa per la fine del Ramadan, l’Eid, che tutti i bambini aspettano anche quando – o soprattutto allora – si trovano come Said in un’area sotto assedio.

Quanto l’avrà aspettata questo bambino, dopo tutto quello che la vita gli aveva già portato via? È stato talmente automatico, per me, volergliela restituire quell’occasione di festa, nell’unico modo a mia disposizione. Disegnarlo, adagiandolo su una delle altalene colorate tipiche di quel periodo. Fargli un ultimo regalo. Non avevo mai disegnato un bambino avvolto nel suo sudario, che il suo sangue ha macchiato. Ora so cosa si prova – fa male – e so anche quanto fosse necessario farlo. Ma quello che non saprò mai è cosa si prova ad essere lui.

Il piccolo Said Samir Adra è rimasto ucciso per via delle ferite riportate quando un colpo di mortaio è caduto sul campo palestinese di Yarmouk, a Damasco, nel corso di un bombardamento. Non ho potuto appurare da quale delle parti coinvolte (regime e milizie lealiste che assediano il campo dall’esterno; Jabhat al Nusra, Stato islamico, i combattenti palestinesi, Ahrar ash Sham all’interno) sia stato sparato: “Quel giorno la situazione era molto caotica, non abbiamo capito con certezza da dove sia arrivato quel colpo di mortaio, ma potrei dire che al 70% è arrivato da fuori il campo”, questo è quanto mi ha descritto un testimone.

Era il 13 luglio scorso. Non ho saputo dell’esistenza di Said se non quando gli è stata strappata. Quella che ho cercato di tirare fuori somiglia per me alla sua voce. Quella che avrei voluto ascoltare. Quella che dice più di quel che dice. E che io non dimenticherò più.

Ero Said. Ero piccolo. Ero a Yarmouk.

Poco prima dell’iftar.

Poco prima dell’Eid.

Tutti digiunavano. Qualcosa è caduto e mi ha colpito.

Mi hanno avvolto. Mi hanno messo nella terra.

Ho lasciato il campo, quello che sta sopra.

Ho raggiunto il campo, quello che sta sotto.

Ora sono sotto. Nella terra del campo.

È finito l’iftar.

È finito l’Id.

Non digiunano più. Qualcosa continua a cadere e a colpire.

I bambini hanno giocato sulle altalene.

Io non ho giocato.

I bambini hanno ricevuto regali.

Io ho ricevuto la terra.

La terra ha ricevuto me.

Ho ricevuto un telo verde e bianco.

L’ho macchiato dove sono stato colpito.

Sono ancora Said come lo ero.

Sono ancora piccolo come lo ero.

Sono ancora a Yarmouk come lo ero.

Solo una cosa è andata via col Ramadan.

È andata via insieme all’iftar.

È andata via insieme all’Id.

Era con me a Yarmouk.

Era piccola.

Era ciò che tutti chiamavano Said.

La mia vita.

Ero io.

“Si chiamava Said [felice, in arabo], ma non aveva proprio nulla a che fare con la felicità. Di questo bambino mi hanno raccontato tempo fa che sua madre l’ha lasciato ed è uscita dal campo. Mentre suo padre ha perso una gamba ed è diventato difficile per lui riuscire ad accudirlo. Lo ha preso con sé una donna che si è incaricata di educarlo, se ne è presa cura, di lui che aveva anche un difetto congenito alle mani.

Dal canto nostro, noi siamo riusciti a trovare qualcuno che lo adottasse e gli mandasse dei soldi per dei nuovi vestiti in occasione dell’Eid, ma ieri è caduto un colpo di mortaio e Said è morto. E così alla fine Said lo è diventato, “felice”… Dio, dagli un po’ di riposo. Dio, non gravarci di qualcosa di cui non sappiamo sostenere il peso”. (testimonianza di S., attivista del campo palestinese di Yarmouk in Siria)

L’immagine in copertina è di un khan nel mercato di Damasco ed è presa dal sito Internet https://nbkassas.wordpress.com.

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/ero-said-ero-piccolo-ero-yarmouk.html

BANIYAS, NELLA FABBRICA DEI BARILI-BOMBA

barile-bomba inesploso

(di Faruq Tayyibi, per Tamaddun. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio). Il barile-bomba − l’arma unica nel suo genere che le forze del regime hanno introdotto nell’arena del conflitto che imperversa nel Paese da oltre quattro anni − è un massiccio serbatoio metallico riempito di esplosivo e fertilizzanti organici e zeppo di oggetti in metallo taglienti. Può pesare dai 250 ai 500 kg e viene sganciato in modo indiscriminato dagli elicotteri del regime che volano ad alta quota per evitare di essere colpiti dalla contraerea dell’opposizione. Il barile atterra con tutta la forza della sua caduta libera sulle città e i paesi rivoltosi, mietendo vittime e feriti tra i civili.

Nazih (pseudonimo), ingegnere civile di Baniyas, guarda infervorato sullo schermo del suo computer un video su YouTube in cui un elicottero sopra Daraya sgancia un grosso oggetto nero che cade rapidamente per sparire per un secondo o due dietro un complesso di edifici. Questo prima dell’orrenda esplosione di fumo, polvere e schegge, tra le grida e i “Dio è grande” di chi sta filmando. Tutto ciò getta un’ombra tragica sulla scena e dà un’idea del disastro che si è abbattuto su quella strada.

Eppure Nazih conosce un altro lato della vicenda che si è svolta a 300 km da casa sua e sembra sapere più della punta visibile dell’iceberg: Nazih conosce la storia della fabbrica che ha prodotto e produce quei terribili strumenti di morte.

Nel suo rapporto sull’argomento pubblicato alla fine del 2013, Amnesty International ha considerato l’uso dei barili-bomba “un crimine di guerra” e “una punizione collettiva” ingiustificabile. Secondo lo stesso rapporto, solo ad Aleppo i barili hanno raso al suolo un quarto dei rioni della città, cambiandone per sempre la fisionomia.

Da Aleppo e Daraya verso un altro luogo che possiede un legame con questa storia, torniamo alla città di Nazih, Baniyas, piccola città costiera oggi tranquilla dopo aver fronteggiato gli eventi seguiti alle manifestazioni del 2011 e il terribile massacro cui sono stati sottoposti i civili per mano degli shabbiha nel 2013.

Gli inizi della raffineria di Baniyas

In questa città divisa come il Paese da fratture confessionali e politiche si trova la “fabbrica dei barili” − come la chiama Nazih − e a quanto pare è un segreto che tutti conoscono. Qui non c’è nulla di segreto né di pericoloso che Nazih abbia scoperto. Lui che non ha neanche 40 anni e che da 10 lavora nella raffineria petrolifera costruita da una ditta rumena a Baniyas all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. Da quando la produzione di petrolio in Siria si è contratta del 90% dopo che lo Stato islamico ha preso il controllo dei pozzi di petrolio, quest’azienda non ha più molto lavoro da svolgere.

Nazih racconta stupito: “Usano l’officina adibita alla manutenzione e alla saldatura dei condotti per fabbricare questi barili”. Nonostante sia trascorso un mese da quando ha scoperto per caso la cosa, sembra evidentemente ancora sotto shock.

“Uno dei miei compiti − continua − prevede che io visiti la sede di un’officina di manutenzione e saldatura dei condotti. Nell’ampio cortile sul retro dell’edificio ho visto le strutture vuote dei barili in fase di costruzione: non c’è stato bisogno di spiegazioni ulteriori. Era tutto chiaro”.

Nazih racconta poi di essersi rivolto al suo collega ingegnere a capo dell’officina, un uomo sulla cinquantina che Nazih trovava simpatico e con cui amava bere il tè di tanto in tanto. Con semplicità gli ha chiesto informazioni sulla questione, e il capo dell’officina con semplicità ancora maggiore gli ha risposto: “Qui fabbrichiamo i barili che colpiranno i bastardi e li bruceranno”. Non è stato facile per Nazih ignorare la nota confessionale che pervadeva le parole pronunciate dal capo dell’officina, che è alawita, la stessa comunità cui appartiene il presidente.

Armi a basso costo e di produzione locale

Dice ancora Nazih: “Ho provato a spiegargli che i barili sono un’arma che non fa distinzioni e cieca, ma non mi ha dato ascolto… Forse era seccato”. In un tono venato d’orgoglio, il capo dell’officina ha poi spiegato nel dettaglio il modo in cui si fabbricano i barili, con sorpresa di Nazih. Ha parlato di grandi viti e bulloni e di triangoli metallici affilati, avanzi delle operazioni di taglio e saldatura degli oleodotti, tutti pressati nel centro del barile riempito di esplosivo.

All’improvviso, dopo aver guardato noncurante intorno a sé gli ammassi di rottami scartati che sarebbero diventati parte di un barile, Nazih ha chiesto:

“Quando costa fabbricarne uno?”

“Meno di 20 mila lire siriane (75 dollari)”, gli ha risposto il capo dell’officina.

Dunque alla fine il regime si serve di un’alternativa a basso costo che non richiede ingenti somme di denaro né abilità tecnologica, di cui il mondo ha visto però l’orribile potenziale di devastazione che si è abbattuto su Aleppo, sui sobborghi di Idlib e su tutte le zone che si sono ribellate e che ha ucciso migliaia di persone e distrutto le abitazioni, stando al resoconto delle reti per i diritti umani in Siria.

“È terribile che 75 dollari siano in grado di strappare la vita delle persone e causare una distruzione che non distingue tra civili e gente armata, ed è ancora più terribile celebrare la cosa e dipingerla come un successo militare”, commenta Nazih.

Una portavoce dell’ufficio stampa di Latakia dell’Unione dei Comitati locali della rivoluzione siriana dice: “Probabilmente la fabbrica di Baniyas non è l’unica, c’è la fabbrica di ferro di proprietà di Ayman Jaber che si trova tra Jabla e Baniyas e non è distante dalla prima”.

Ayman Jaber è un imprenditore di Latakia che gode di stretti rapporti con la famiglia degli Asad e con il suo regime. Con l’inizio del fermento in Siria il suo nome è salito alla ribalta nella zona, perché rappresentava e continua a rappresentare un mix micidiale costituito dall’alleanza di uomini d’affari corrotti con il sistema di sicurezza. Nutre poi le sue attività e la propria reputazione reclutando giovani alawiti poveri nelle milizie degli shabbiha in cambio di ricompense in denaro.

Testimoni oculari dell’ufficio stampa di Latakia sostengono che dei camion trasportano i barili dalle fabbriche al vicino aeroporto di Jabla e da lì agli aeroporti di Hama, Aleppo, Abu az Zuhur (Idlib) e altrove.

Alcuni dei fedelissimi del regime affermano che si è incominciato a utilizzare i barili non all’inizio degli eventi in Siria, ma solo quando la comunità siriana delle regioni interne si è trasformata in un’incubatrice di terrorismo e che perciò la cosa deve essere affrontata con ogni mezzo possibile.

Questo argomento non sembra convincente per Human Rights Watch né per le Nazioni Unite o il Commissariato per i diritti umani. Pare non convincere neppure Nazih mentre siede a contemplare il Mediterraneo dal balcone della sua tranquilla casa a Baniyas, lontano dalla guerra feroce che continua senza sosta nel Paese. Vede un elicottero decollato dal vicino aeroporto di Jabla e non può fare a meno di pensare che ci siano un paio di barili caricati al suo interno prodotti dalla fabbrica della morte vicino a casa sua.

Nazih segue la graduale ascesa dell’elicottero nel cielo. Il velivolo va a est e si dirige nell’interno del Paese, verso una nuova campagna di morte e guerra che sembra non avere una fine all’orizzonte. (Tamaddun, 19 maggio 2015)

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-qui-sulla-costa-fabbrichiamo-barili-bomba.html

SIRIA, SUI BARILI-BOMBA

Aleppo. Devastazione

Poche ore dopo l’infelice battuta del presidente siriano Bashar al Asad sui barili-bomba (“non ne abbiamo mai usati, nemmeno pentole-bomba…”) rilasciata alla BBC, Ken Roth di Human Rights Watch (HRW) spiega gli effetti devastanti di queste armi indiscriminate usate contro aree civili. In passato Asad stesso ha riconosciuto la legittimità delle denunce di HRW.

(L. Setrakian, K. Montgomery, per Syria Deeply. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Voi avete tenuto traccia dell’uso dei barili-bomba, ed in precedenza anche dell’uso dei missili su aree abitate da civili. Qual è la situazione attuale?

I barili-bomba stanno continuando e di fatto sono la principale ragione per cui i civili stanno morendo oggi in Siria. Tutti sono concentrati su Daesh. Daesh è terribile, i civili stanno soffrendo sotto Daesh, ma se facciamo un passo indietro e diciamo: Qual è lo strumento principale che viene usato per massacrare i civili? È il barile-bomba.

A monte, c’è il fatto che i governi non vogliono affrontare l’argomento, perché sono talmente concentrati su Daesh e non vogliono fare nulla che possa minare l’abilità del governo di Asad di tenere a bada e in teoria di contrattaccare Daesh. La gente non sembra rendersi conto che il barile-bomba non è un’arma militare. È così imprecisa che la forza aerea siriana non osa sganciarne vicino alla linea del fronte per paura di colpire le proprie truppe.

I barili-bomba, per chi non lo sa, sono in genere costituiti da un barile di petrolio o una grossa tanica riempiti di esplosivi e frammenti metallici che fungono da schegge. Vengono sganciati da un elicottero che vola ad un’altezza elevata per evitare il fuoco delle contraeree.

Da quell’altezza, non si può mirare con precisione, si può solo sganciarli su un quartiere, ed è proprio  sui quartieri che i barili-bomba vengono sganciati per il bisogno di tenersi lontani dalla linea del fronte. Se ci chiediamo cosa stia consentendo alle forze pro-regime di resistere, si tratta ora dei barili-bomba.

Qual è l’entità e la portata del problema?

Se parliamo coi siriani, le cose di cui hanno più paura sono i barili-bomba. Si sentono storie di gente che fa spostare le proprie famiglie più vicino alla linea del fronte (e ciò significa sfidare cecchini ed artiglieria) perché lì si sentono più al sicuro, dove i barili-bomba non saranno sganciati.

I barili-bomba stanno colpendo ospedali, scuole e numerose istituzioni civiche nelle aree di Aleppo controllate dall’opposizione ed in altre zone. Se potessimo fermare i barili-bomba, difficilmente si potrebbe pensare a qualsiasi altra cosa per fare la differenza nel fermare il massacro di civili e la distruzione di istituzioni civiche in aree di civili.

Che vantaggio trae il regime dall’usare queste particolari forme di armi in tale, particolare conflitto?

Questo risale agli inizi. Asad sin dall’inizio ha scelto di non combattere questa guerra sotto la Convenzione di Ginevra, che in sostanza impone che si possa sparare soltanto ai combattenti dell’altro schieramento e che si debba fare tutto il possibile per rendere minimi i danni subìti dai civili. Asad ha gettato queste regole dalla finestra. Sta combattendo una strategia bellica fatta di crimini di guerra che prendono di mira in larga parte la popolazione civile. I barili-bomba, usati già da un anno buono o forse più, sono solo la più recente, più crudele e più vasta manifestazione di questa strategia.

Che speranze avete di esercitare pressioni per indurre il regime a cambiare il suo comportamento rispetto all’uso  dei barili-bomba?

Quello che ho capito nelle discussioni coi governi occidentali, funzionari russi ed iraniani, è che per varie ragioni non vogliono limitare le armi militari disponibili per il governo siriano. I grandi governi occidentali sono concentrati in questa fase sulla lotta a Daesh, mentre Russia ed Iran si focalizzano sul rendere Asad più forte. Nessuno di loro ha un interesse immediato nel fermare i barili-bomba. Ho dovuto spiegare la mancanza di rilevanza militare di quest’arma. Quando sentono questo, allora sono disposti a fare un passo indietro. Ho ricevuto alcuni riscontri positivi sia da Mosca che da Tehran su questo punto.

Rispetto ai governi occidentali, hanno paura della questione dei barili-bomba per un altro motivo: non vogliono sobbarcarsi della più ampia questione dell’uso da parte del governo siriano di armi convenzionali per attaccare i civili. Essendosi avvicinati alla soglia del coinvolgimento militare tramite la questione delle armi chimiche, ed essendosi concentrati su altri temi con Russia ed Iran, l’Occidente semplicemente non ha voluto fare cenno a questo. Nessuno nega che l’Ucraina sia la priorità di Mosca e che potenziali armi nucleari sia quella di Tehran, ma dovrebbe esserci campo per farsi carico anche della questione dei barili-bomba. Soprattutto dal momento che la Russia e l’Iran non avrebbero alcun interesse nel protrarsi degli attacchi coi barili-bomba: non sono necessari alla sopravvivenza del regime di Asad.

Sono cautamente ottimista sul fatto che se riusciamo a mettere in risalto la devastazione causata dai barili-bomba e la mancanza di utilità militare, possiamo fare una differenza. Un fattore rispetto all’Occidente è che finora sta seguendo solo una strategia militare contro Daesh. In certa misura stanno cercando di fermare il flusso di armi e uomini verso Daesh, ma non stanno davvero tenendo in considerazione il fascino ideologico di Daesh – parte di esso è religioso e sottende l’idea di un califfato, ma larga parte del suo fascino risiede nel fatto che Daesh può rappresentare in sé l’unica forza che stia cercando in modo effettivo di fermare il massacro dei civili da parte del regime. L’Occidente non dovrebbe dare a Daesh questo pretesto. Ci devono essere modi per occuparsi dei barili-bomba, strumento primario di Asad per uccidere i civili. È la cosa giusta da fare in termini umanitari, ma è anche importante per aiutare ad erodere il fascino ideologico di Daesh.

Le Nazioni Unite hanno fatto appello per porre fine all’uso di barili-bomba. Cosa ci vorrebbe per creare una responsabilizzazione reale e forzare un cambiamento?

Il Consiglio di Sicurezza dellONU ha parlato dei barili-bomba in termini generici. Non ha compiuto alcuno sforzo per sostenere quel linguaggio ampio con una pressione concreta esercitata su Damasco perché si fermi. Abbiamo bisogno di andare oltre una condanna ritualistica e la difesa delle Convenzioni di Ginevra, e focalizzarci sulla pressione da esercitare su Damasco perché la smetta. Abbiamo visto che quando si applica una cospicua pressione, loro si fermano. È ora di applicare quella pressione per fermare i barili-bomba. (10 febbraio, 2015).

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-sui-barili-bomba.html

UN ANNO DAL RAPIMENTO DI PADRE PAOLO DALL’OGLIO, MESSAGGIO DELLA FAMIGLIA (VIDEO)

Di Claudia Avolio il 29 luglio 2014

 

Un anno dal rapimento di Padre Paolo Dall’Oglio, messaggio della famiglia (video)
(29/07/2014). A un anno dal rapimento in Siria di Padre Paolo Dall’Oglio, la famiglia ha diffuso un comunicato stampa. “Chiediamo ai responsabili della scomparsa di un uomo buono, di un uomo di fede, di un uomo di pace, di avere la dignità di farci sapere della sua sorte”: questo uno dei passaggi del messaggio, il cui testo è stato tradotto in inglese, arabo e francese.

Ecco il video:

 

 

Fonte:

http://arabpress.eu/anno-dal-rapimento-padre-paolo-dalloglio-messaggio-famiglia-video/

QUEI 12 TRA PALESTINESI E SIRIANI UCCISI DAI BOMBARDAMENTI A YARMOUK

La morte per fame o per i bombardamenti è la sola scelta concessa dall’assedio

Quei 12 palestinesi uccisi dai bombardamenti a Yarmouk

errata corrige titolo: Dopo un consulto con l’Associazione palestinese per i diritti umani in Siria (PAHR/Syria) a cui la traduttrice ha richiesto il dato del bilancio delle vittime (8 palestinesi, 2 siriani, 2 persone di cui non si sa se fossero siriane o palestinesi) è stato necessario modificare la parte iniziale del titolo (si precisa che il titolo originale in inglese è corretto poiché non entra nel merito della nazionalità) da “Quei 12 palestinesi uccisi” a “Quei 12 tra palestinesi e siriani uccisi”. Mahmoud Shadeh, Hasan al-Sersawy, Mahmoud Modardes, ‘Azzeddin Darwish erano palestinesi. Hesham Makshati, Mosa al-A’asod erano siriani.

Di Talal Alyan e Nidal Bitari. Beyond Compromise (24/03/2014). Traduzione di Claudia Avolio.

Quando Yarmouk ha iniziato a sfaldarsi, c’è stato un esodo verso un altro campo chiamato Khan al-Sheeh nella Damasco rurale. Molti sono rimasti lì finché il regime ha iniziato a colpire il campo con barili bomba. Gli sfollati sono stati costretti a vagare ancora una volta. Spostandosi in altre zone, come il sobborgo di Qudsiya, hanno trovato affitti alle stelle che non potevano affrontare. Molti hanno perciò dovuto dare fondo ai risparmi di una vita per non finire senza un tetto. Sabato, un gruppo di palestinesi, esauriti gli ultimi risparmi e ritrovandosi per la strada, ha circondato una piazza. Una donna anziana, nata in Palestina, ha chiesto tra la folla: “Rimandatemi al campo, non voglio pane, cibo o altro. Voglio solo morire con dignità”. Spero solo che qualcuno sia riuscito a dirle che la dignità è un lusso non più permesso a Yarmouk, o per gran parte della Siria.

Venerdì: 197 razioni di cibo distribuite nel campo di Yarmouk. Appena 197 per più di 18 mila palestinesi che stanno morendo di fame intrappolati nel campo. Durante la distribuzione, il campo viene bombardato. Due palestinesi muoiono per il bombardamento, mentre cercavano di scampare un’altra morte – quella per fame – che aleggia sul campo.

Sabato: Mentre si avvicinano al check-point per la distribuzione degli aiuti, le donne di Yarmouk si sentono dire d’un tratto dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina/Comando Generale (FPLP/CG) di lasciare lì gli uomini e tornare a casa. Alla sola presenza degli uomini, il FPLP/CG inizia ad attaccarli brutalmente senza alcuna provocazione ricevuta. Un segmento del fronte cerca di rivendicare un edificio in via Yarmouk ed espone una bandiera del regime. Ne nasce uno scontro con Aknaf Beit al-Maqdes, alleato dell’opposizione. Uno dei combattenti, Imad Dwah, è ucciso nella colluttazione. Come vendetta per la sua morte, i bombardamenti riprendono. Due persone sono uccise, sette ferite. Quattro palestinesi sono già morti ed il weekend non si è ancora concluso.

Domenica: Gli aiuti ricominciano. Mentre la gente aspetta, riprendono anche i bombardamenti. Otto persone sono uccise, tra cui Mahmoud Shadeh, Hesham Makshati, Hasan al-Sersawy, Najah al-Ka’aoud, Mahmoud Modardes e Mosa al-A’asod. Altre trenta persone sono ferite. L’inesistenza di strutture mediche e risorse fa ritenere che molti dei feriti si aggiungeranno presto alla lista del massacro. C’è una crudeltà in questo assedio che non sarà mai enfatizzata abbastanza. Ai residenti di Yarmouk viene concessa una sola scelta: trovare la morte negli spasimi della fame, o aspettare che discenda su di loro dall’alto.

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Fonte:

http://arabpress.eu/quei-dodici-palestinesi-uccisi-dalle-bombe-yarmouk/