1 gennaio 1969 La Bussola

Domenica 01 Gennaio 2017 11:47

1 gennaio 1969 La Bussola

Il capodanno del 1969 fu un capodanno molto particolare. Diverso dalla solita celebrazione sterile e buonista, vuota dei riti di sfarzo e consumismo e ricca dell’immaginario delle lotte. Per una sera il capodanno dei borghesi e quello dei proletari attraversò lo stesso luogo, ma con dinamiche, esigenze e bisogni completamente diverse, anzi in reale contrapposizione. L’anno passato era stato ricco di eventi e novità sulla scena politica nazionale, un proliferare di nuovi scenari e di conflitti che iniziavano ad articolarsi secondo le proprie forme, e nel migliore degli auguri l’anno a seguire sarebbe stato altrettanto prospero. Prospero di nuovi antagonismi e lotte sociali. Ma per raccontare la notte tra il 31 dicembre del ’68 e il 1 gennaio del ’69 bisogna prima guardare ad un altro evento che l’aveva preceduto: la contestazione alla Scala di Milano. La dichiarazione sostanziale di una differenza che tagliava in due il paese, da un lato i ricchi con il loro sfarzo, le loro celebrazioni, il loro buongusto, il loro perbenismo e la rappresentazione dorata di un mondo corrotto e sudicio, e dall’altro gli studenti e i lavoratori alla conquista dei diritti manchevoli. La contestazione alla Scala era una dichiarazione di esistenza, anzi molto di più, una dichiarazione di guerra. E da quell’evento l’immaginario della contestazione alle celebrazioni dei borghesi si espanse e prese varie altre forme. Tra queste quella che si diede il capodanno del ’69. La Versilia, terra in delle vacanze della middle-class era disseminata di locali chic dove impresari, politicanti e subrette andavano a passare il capodanno. Tra questi uno dei più rinomati era “La Bussola”, tutt’ora esistente. I di Potere Operaio e del Movimento Studentesco pisano avevano deciso di andare a fare visita ai padroni organizzando una grande manifestazione in quella data davanti al locale. Nonostante nell’intenzione dei manifestanti ci fosse solo il lancio di ortaggi ai riveriti business-men dentro al locale e alle loro consorti, la tensione si alzò e avvennero una serie di scontri particolarmente violenti tra i manifestanti e le forze dell’ordine, accorse a difendere, guarda caso, il decoro dei clienti della Bussola. Il bilancio fu di 55 fermi e un ferito grave Soriano Ceccanti rimasto paralizzato a causa di una pallottola. Infatti in questa occasione le forze dell’ordine usarono spregiudicatamente le armi da fuoco contro i manifestanti. Questa data fu un vero e proprio spartiacque e l’alba di una nuova coscienza. Il dato politico che sembra superficialmente ideologico e che attraversa gli avvenimenti della Scala di Milano e della Bussola è in realtà molto più profondo. Va ad indicare la scollatura tra due mondi che difficilmente avrebbero potuto continuare a convivere e descrive una necessità reale, quella di un’eguaglianza non ipocrita e perbenista, ma reale e sociale. La stupidità consumistica da un lato, che si fa veicolo di una socialità falsa e raccapricciante, basata sul valore d’uso di un rapporto umano, e la lotta proletaria dall’altro, madre di una socialità reale e quotidiana. La voglia di rivalsa che attraversa l’Europa, che vuole entrare nei luoghi più privati del potere e dissacrarli, demitizzarli, riappropriarsene e farli vivere nuovamente in una maniera diversa. E i fuochi di artificio per una volta li sparammo noi.

Quella notte davanti alla Bussola,
nel freddo di San Silvestro.
Quella notte di Capodanno
non la scorderemo mai.
Arrivavano i signori,
sulle macchine lucenti
e guardavan con disprezzo
gli operai e gli studenti.
Le signore con l’abito lungo,
con le spalle impellicciate,
i potenti col fiocchino,
con le facce inamidate.
Eran gli stessi signori
che ci sfruttano tutto l’anno,
quelli che ci fan crepare
nelle fabbriche qui attorno.
Son venuti per brindare,
dopo un anno di sfruttamento,
a brindare per l’anno nuovo,
che gli vada ancora meglio.
Non resistono i compagni,
che li han riconosciuti,
ed arrivan pomodori
ed arrivano gli sputi.
Per difendere gli sfruttatori,
una tromba ha squillato,
mentre già i carabinieri
hanno corso ed han picchiato;
come son belli i carabinieri,
mentre picchiano con le manette
i compagni studenti medi
dai quattordici ai diciassette!
E non la smettono di picchiare
finché Garoppo non alza il dito:
sono l’immagine più fedele
del nostro ordine costituito.
Già vediamo i carabinieri
che si stanno organizzando
per iniziare la caccia all’uomo
con pantere ed autoblindo.
Non possiamo andare via,
né lasciare i dispersi,
siamo ormai tagliati fuori
per raggiunger gli automezzi.
Decidiamo di resistere
e si fan le barricate:
sono per meglio difenderci
dalle successive ondate.
Dalla prima barricata
alla zona dei carabinieri
sono circa quaranta metri
tutti sgombri e tutti neri.
Quando cominciano ad avanzare
uno di loro spara in aria.
i compagni tirano sassi
per cercare di fermarli.
Loro si fermano un momento
e poi continuano ad avanzare;
non è più uno soltanto,
sono in molti ora a sparare.
Dalla prima barricata
si vedon bene le pistole,
dalla seconda tutti pensano
che sian solo castagnole.
Ci riuniamo tutti assieme
alla seconda barricata,
i ‘carruba’ tornano indietro,
vista la brutta parata.
Ancora un’ora di avanti e indietro,
noi con i sassi loro sparando;
tutti crediamo che sparino a salve,
anche da dentro un’autoblindo.
Ad un tratto vedo cadere
un compagno alla mia destra
il ginocchio con un buco
ed il sangue sui calzoni.
Mi volto e grido: ” Sparan davvero!
e corro indietro di qualche passo:
due compagni portano a spalle
il ferito nella gamba.
Correndo forte sulla strada,
con alle spalle i carabinieri,
vedo il Ceccanti, colpito a morte,
trasportato sul marciapiedi.
Malgrado gli sforzi di aiutarlo,
è difficile trovar soccorso
mentre i gendarmi ti corron dietro
e non ti danno un po’ di riposo.
Trovata un’auto utilitaria
e portato via il Ceccanti,
più non ci resta altro da fare
che scappare tutti quanti.
Forse alla Bussola, per quella notte,
i signori si sono offesi,
lor che offendono e uccidono
per tutti gli altri dodici mesi.
Sarebbe meglio offenderli spesso
e non dare loro respiro
tutte le volte che lor signori
capitan sotto il nostro tiro.
A questo punto sembra opportuno
fare qualche considerazione
sulle diverse e brutte facce
che ci mostra oggi il padrone:
ha i soldi per comprarci,
la miseria per sfruttare,
i suoi armati per ucciderci,
la TV per imbrogliare.
Non ci resta che ribellarci
e non accettare il giuoco
di questa loro libertà,
che per noi vale ben poco.
L’orda d’oro Nanni Balestrini Primo Moroni

Quella notte davanti alla bussola

 

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/148-1-gennaio-1969-la-bussola

16 settembre 1976 la “Noche de los lapices” in Argentina

Il 16 settembre del 1976 a La Plata, Argentina, un’operazione della polizia militare portava al sequestro di sei studenti tra i 14 e 17 anni, poi desaparecidos.

I sei giovanissimi liceali, militanti dell’organizzazione peronista Unione degli Studenti Secondari, furono sequestrati dallo Stato e internati in differenti campi di tortura in quanto “sovversivi”, ovvero “colpevoli” di lottare per i diritti degli studenti, nello specifico in quanto promotori di una mobilitazione per il riconoscimento del trasporto gratuito per gli studenti, un decreto approvato un anno prima e poi revocato dal governo militare (lotta che è proseguita fino allo scorso anno, quando è stata finalmente e nuovamente approvata la legge, oggi definanziata dal governo Macri con l’obiettivo di annullarla de facto).

Oltre ai sei desaparecidos, Claudio De Acha, María Clara Ciocchini, María Claudia Falcone, Francisco López Muntaner, Daniel Racero e Horacio Ungaro, in quei giorni furono arrestati altri quattro giovanissimi studenti, anch’essi tra i 14 e i 17 anni, tra cui Pablo Diaz, militante della Gioventù Guevarista, uno dei quattro sopravvissuti del gruppo. Grazie alle sue testimonianze questa storia di desapariciòn e torture di Stato è stata successivamente ricostruita, tanto da essere poi pubblicata nel libro “La noche de los lapices”, da cui fu tratto un omonimo film (in italiano il titolo è stato tradotto “La notte delle matite spezzate”).

Uno dei responsabili dell’operazione e dei centri di tortura dove i ragazzi furono detenuti prima della desapariciòn, Miguel Osvaldo Etchecolatz, condannato a sei ergastoli per crimini di lesa umanità (sia per questi fatti che per le responsabilità in moteplici altri casi di tortura e sparizioni, nell’ambito dello sterminio di una generazione politica combattiva), è salito agli onori delle cronache suscitando proteste in tutto il paese lo scorso luglio per la richiesta, accordata ma non resa effettiva, di scontare il resto della pena ai domiciliari per motivi di salute. Va ricordato inoltre che il testimone chiave del processo che ha condannato il genocida Ethchecolatz è Julio Lopez, sequestrato e sopravvissuto durante la dittatura, nuovamente desaparecido per la seconda volta dieci anni fa, mentre era in corso il processo, in tempi di democrazia. Una mostra d’arte, intitolata “Dieci anni con Julio Lopez: dove sei finito?”, che ha visto la partecipazione di decine di artisti argentini ed internazionali, lo ricorda proprio in questi giorni a Buenos Aires, nell’indifferrenza del governo e dei tribunali, mentre il 18 settembre è stata lanciata una manifestazione per chiedere verità e giustizia che attraverserà il centro della capitale argentina per concludersi a Plaza de Mayo. Il nome di Julio Lopez, così come dei sei desaparecidos della “Notte delle matite spezzate”, appaiono insistentemente in queste settimane su stencil, murales e scritte nelle scuole e sui muri della città.

A 40 anni dai fatti, mentre in tante città argentine si scende in piazza per ricordare i sei ragazzi rivendicando con forza la memoria e la lotta dei giovanissimi studenti torturati e desaparecidos dalla dittatura civico-militare, l’attualità delle loro battaglie continua ad essere lampante. Che l’educazione come pratica di liberazione ed emancipazione costituisca un problema per chi vuole imporre il pensiero unico, ieri come oggi, è evidente dalle recenti dichiarazioni del ministro dell’educazione Bullrich, esponente del governo Macri.

Inaugurando un liceo in Patagonia, Bullrich proprio ieri ha dichiarato: “Inauguriamo con Macri una nuova Campagna del Deserto, questa volta non con le spade ma con l’educazione”. Il riferimento è chiaro: si parla dello sterminio degli indigeni della Patagonia, avvenuto con la cosiddetta “Campagna del deserto” nel 1870 guidata dal generale Roca, recentemente “riabilitato” dal quotidiano conservatore La Nacion e dal governo Macri, che ha rivendicato pubblicamente la figura di un militare passato alla storia come genocida. Il “deserto” a cui si riferisce il nome della campagna militare era la Patagonia: peccato che il cono sud del paese non fosse assolutamente un “deserto”, nè un territorio disponibile ad essere conquistato dalla “civiltà” dello Stato Nazione in formazione, ma una terra abitata da migliaia di persone disposte a lottare per difendere la propria libertà, la propria terra e la propria cultura, infine sterminate dai militari mandati da Buenos Aires in nome della civilizzazione e dello Stato nazione.

Rivendicare quella infame campagna per pubblicizzare il nuovo corso delle politiche del governo conservatore argentino in materia di educazione la dice lunga tanto sulla cultura politica dei ministri del governo in carica quanto sull’attualità delle lotte degli studenti desaparecidos 40 anni fa, così come dell’importanza delle lotte di quelli che oggi in migliaia ne rivendicano proprio in queste ore il ricordo nelle piazze di decine di città, testimoniando ancora una volta l’importanza della memoria come strumento di lotta. L’accostamento della “Conquista del deserto” alla politica educativa è un fatto aberrante, come se gli studenti, le scuole e università fossero un “deserto” da conquistare. Una logica che presuppone una pedagogia violenta ed autoritaria, disconoscendo volutamente il fatto che gli studenti e i docenti siano soggetti attivi e dotati di senso critico, che le scuole e le università siano spazi in cui sviluppare conoscenze, condividere sapere critico, praticare la libertà di apprendimento ed insegnamento e crescere collettivamente: oggi come ieri, il sapere e l’educazione sono un campo di battaglia.

Dato che sappiamo da che parte stare, oggi ricordiamo con forza quei giovanissimi studenti massacrati dallo Stato: coscienti che la memoria debba continuare ad essere uno strumento partigiano di lotta collettiva, noi non dimentichiamo e siamo al fianco degli studenti che lottano oggi, il miglior modo per ricordare gli studenti desaparecidos di ieri.

 

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/16-settembre-1976-la-noche-de-los-lapices-in-argentina

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Notizia scritta il 21/06/16 alle 13:44. Ultimo aggiornamento: 22/06/16 alle: 09:06

MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.

Clb1voSWMAAwcrYSale il bilancio dei maestri uccisi dagli spari della polizia domenica 19 giugno 2016 a Asuncion de Nochixtlan, stato di Oaxaca, Messico. Il bilancio ufficiale delle vittime dell’operazione repressiva per rimuovere le barricate di maestri, studenti e movimenti sociali in lotta è salito a nove maestri, e un giornalista: 10 morti, quindi, che diventano almeno 12 secondo altre fonti, come TeleSur.  Ci sono poi 32 desaparecidos, 28 arrestati e decine di feriti. La protesta non riguarda solo  Oaxaca, teatro, nel 2006, anche della straordinaria esperienza della APPO, l’assemblea popolare dei popoli di Oaxaca, rimasta in piazza con 80mila maestri in lotta sgomberati con violenza nel giugno di dieci anni fa: arresti si segnalano anche nel Chipilango, Michocan e a Città del Messico.

Lavoratrici e lavoratori dell’educazione, assieme alla centrale sindacale CNTE, sono in lotta ormai dallo scorso 15 maggio contro la riforma dell’istruzione voluta dal presidente Enrique Pena Nieto, che prevede – tra molte altre cose, tutte in senso ultraprivatistico – un test governativo unico per gli insegnanti, in base al quale verranno assunti o non assunti, pagati o non pagati, inseriti in organico a pieno orario o per pochi giorni. Per i maestri, gli studenti e i movimenti sociali, non è una riforma educativa, ma una controriforma del lavoro, schiacciata sul servilismo al potere, sul liberismo e sulla ricattabilità perenne. A rischio sarebbe almeno il 60% del corpo docente, senza alcun riferimento a educazione e formazione.

Clicca qui per l’approfondimento sulle motivazioni della lotta di lavoratori/trici dell’educazione in Messico: una protesta che non nasce oggi.

Dopo la mattanza di due giorni fa a Nochixtlan, ora è stato annunciato un incontro domani tra il sindacato e Osorio Chong, il segretario di stato di Pena Nieto. Intanto a Oaxaca le realtà sociali in lotta, con la solidarietà di una larga ClXcJxHVYAA5iqGparte dei movimenti messicani, tra cui il chiapaneco EZLN, hanno diffuso un’ “allerta umanitaria” per le violenze della polizia, sorpresa da numerosi video e immagini a sparare sulla folla, anche con agenti in borghese. Una scena che ricorda da vicino altri massacri, come quella di , del 26 settembre 2014, con l’uccisione e la sparizione, targata polizia, narcos e politici, di 43 studenti normalisti della scuola rurale di .

Un nuovo massacro, quindi, quello di Nochixtlan, che vede per protagonista ancora una volta Enrique Pena Nieto, del PRI, oggi presidente dello Stato ma governatore ai tempi dei massacri di San Salvador Atenco, nello stato di Città del Messico, nel 2006, anche lì con morti, feriti e desaparecidos nelle proteste contro la decisione di ampliare un aeroporto.

Abbiamo raggiunto Federico Mastrogiovanni, giornalista indipendente che vive a Città del Messico, per aggiornamenti. Ascolta o scarica l’intervista [Download

Clicca qui per il nostro articolo su quanto accaduto a Nochixtlan di lunedì 20 giugno 2016.

APPELLO SOLIDALE – Da Mexiconosurge:

‪#‎MexicoNosUrge‬ AL FIANCO DEI MAESTRI E DELLE MAESTRE DELLA CNTE IN MESSICO

“Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo.”
Art. 1 trattato di libero commercio tra il Messico e l’UnioneEuropea

Un anno dopo siamo ancora qui a dire #MexicoNosUrge

Dopo gli omicidi del foto giornalista Rubén Espinosa, dell’attivista Nadia Vera, della studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di altre due donne che si trovavano con loro, Mile Virginia Martin e Alejandra Negrete, avvenuti a Città del Messico venerdì 31 luglio 2015, l’appello ‪#‎MéxicoNosUrge‬ volle rompere il silenzio. Perché non si può rimanere in silenzio di fronte alle violenza nei confronti di chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese, il Messico, che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale. Rimanere in silenzio sarebbe una forma di complicità.

Un anno dopo, nel giugno del 2016, torniamo a urlare che #MéxicoNosUrge, dopo che domenica 19 giugno nello Stato di Oaxaca abbiamo assistito al massacro di 10 cittadini. La Polizia Federale è tornata a reprimere la lotta degna dei maestri e delle maestre del sindacato CNTE che lottano contro la riforma educativa. Pistole, fucili di precesione e cecchini hanno operato assieme alla polizia in assetto anti-sommossa, per sgomberare uno dei tanti blocchi stradali che dal 15 maggio batte il tempo della resistenza contro la svendita e la distruzione della scuola pubblica messicana. A maggio avevamo celebrato il decimo anniversario dalla nascita dell’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, figlia dello sgombero violento di un presidio di maestre e maestri della CNTE nella capitale dello stato di Oaxaca. Negli ultimi mesi sono a decine gli arresti “politici” che colpiscono aderenti della CNTE e simpatizzanti. Già a dicembre 2015, in Chiapas, due maestri sono stati uccisi dalla Polizia durante gli scontri.

Nel maggio del 2016 sono stati ricordati,anche, i dieci anni dal massacro di San Salvador Atenco. Una Commissione Civile di Osservazione dei Diritti Umani -i cui componenti erano cittadini europei- nel giugno del 2006 ha presentato al Parlamento Europeo un rapporto sui fatti e sulle gravi violazioni dei diritti umani in relazione allo sgombero forzato di una comunità per costruire il nuovo aeroporto di Città del Messico in una zona ejidal (cioè di proprietà collettiva) dello Stato del Messico.

La mattanza di Nochixtlan inauguara una nuova fase nello schema repressivo messicano: la polizia spara sulla folla uccidendo e la stessa polizia si rivendica di aver usato armi da fuoco. Non era mai successo prima.

Negli ultimi dieci anni, infatti, la situazione si è fatta se possibile ancora più grave, con decine di migliaia di sparizioni forzate, violenza sistematica contro chi vuole difendere e promuovere i diritti umani, contro attivisti dei movimenti sociali e contro i giornalisti e fotografi che documentano la condizione di violenza strutturale scelta come forma di“politica attiva” dai governi di Felipe Calderón, prima, e di Enrique Peña Nieto (che nel 2006 era governatore dello Stato del Messico durante i fatti di Atenco), ora.

Tra gli attivisti e giornalisti minacciati e perseguitati ci sono anche cittadini italiani ed europei; tra le vittime ci sono anche cittadini italiani ed europei (come il finlandese Jyri Antero Jaakkola,assassinato dai paramilitari nello stato del Oaxaca nel 2010).

In questo panorama di violenza diffusa e repressione contro i civili ricordiamo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa,avvenuta la notte del 26 settembre del 2014 nella città di Iguala, stato del Guerrero, in cui sono coinvolti la polizia municipale di Iguala ed elementi dell’esercito messicano.

Il 30 giugno 2014 l’esercito messicano, con un ordine scritto dall’Alto Comando Militare, fucilava 22 ragazzi in un’esecuzione extragiudiziale, una delle tante esecuzioni extragiudiziali portate a termine dall’esercito che ha l’ordine di “abbattere” civili considerati delinquenti senza alcun diritto ad avere un processo.
L’ONU ha recentemente spiegato come in Messico la tortura sia un metodo utilizzato in maniera sistematica negli interrogatori da tutte le forze di sicurezza.

Tutto questo accade nel silenzio della cosiddetta “comunità internazionale” e l’Unione Europea di fatto si disinteressa dei crimini dello stato messicano, continuando a mantenere relazioni commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani.

Tra il 2007 e il 2016 in Messico ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila persone. Organizzazioni dei diritti umani dicono che se oggi venisse fatto un conto di morti e desaparecidos i numeri andrebbero verso il raddopio.

A fronte di tutto questo l’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione internazionali è impressionante e complice.

Per tutto questo, #MexicoNosUrge e non possiamo rimanere in silenzio.

Chiediamo che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico,in particolare per le costanti aggressioni ai giornalisti e difensori dei diritti umani.

Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea che si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini.

Italia, giugno 2016

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Fonte:

Le elezioni di Nea Dimokratia e l’omicidio Temboneras

 fantasma-teboneras

Non c’è stato nessun omicidio. Per poter   parlare di omicidio ci devono essere determinate premesse. Si è trattato semplicemente di un decesso.

Nikòlaos Tàgaris, prefetto dell’Acaia, deposizione alla commissione parlamentare d’inchiesta (16/7/1991)

Αφίσα για εκδηλώσεις στη μνήμη του Νίκου Τεμπονέρα

La notte tra il 9 e il 10 gennaio di 25 anni fa il professor Nikos Teboneras veniva brutalmente assassinato da alcuni individui appartenenti alla sezione di Patrasso dell’organizzazione giovanile del partito Nea Dimokratìa (ONNED). Gli insegnanti hanno programmato un raduno commemorativo sul luogo dell’omicidio. Un quarto di secolo dopo, i fatti del 1991 restano ancora attuali.

Le elezioni per la presidenza di Nea Dimokratìa [svoltesi il 10/1/2016, hanno portato alla vittoria Kyrìakos Mitsotakis, figlio di Konstantinos Mitsotakis, primo ministro tra il 1990 e il 1993, n.d.t.] conferiscono a questa ricorrenza un’incredibile attualità: il fascismo può benissimo funzionare come la “lunga mano” delle politiche economiche filoliberiste. L’omicidio di Patrasso, infatti, non nasce dal nulla. È stata la conseguenza naturale di una politica studiata dai vertici del partito per sgomberare le occupazioni studentesche di quel periodo, attraverso la mobilitazione del meccanismo partitico di Nea Dimokratìa. L’operazione godeva del caloroso sostegno dei media di destra e della silenziosa copertura dei servizi di sicurezza.

A confermare la connivenza dello Stato con i responsabili del delitto sono soprattutto i tentativi ripetuti del governo e di Nea Dimokratìa non solo di coprire le proprie responsabilità, ma anche di assicurare agli autori materiali del delitto un trattamento di riguardo nel procedimento penale successivo all’omicidio.

Le occupazioni studentesche

Tutto è iniziato con due decreti del governo Mitsotakis per i Ginnasi (393/1990) e i Licei (392/1990), caratterizzati da una logica disciplinare autoritaria e ispirata ai valori del cristianesimo e del nazionalismo. I decreti prevedevano, tra le altre cose:

– ripristino delle preghiere quotidiane;

– ripristino del catechismo e dell’alzabandiera ;

– «revisione» delle comunità studentesche;

– nessuna tolleranza per le assenze ingiustificate;

– imposizione di un point system per controllare e sanzionare il comportamento degli studenti.

L’iniziale disposizione sulle «divise uguali per tutti gli studenti» venne ritirata di fronte allo sdegno pubblico, per essere poi riproposta come disposizione sull’obbligo di mantenere «un aspetto semplice e dignitoso». I particolari sarebbero stati definiti in base alle proposte del consiglio dei genitori, con decisione finale del consiglio dei docenti; la disposizione prevedeva sanzioni nei confronti di qualsiasi studente avesse un abbigliamento giudicato «in evidente disarmonia con l’ambiente scolastico».

La risposta degli studenti fu una tempesta di occupazioni che iniziarono il 22 novembre a Iraklio; le occupazioni dilagarono rapidamente in tutta la Grecia: 1.180 scuole occupate il 10/12, 20.000 manifestanti per le strade del centro di Atene il 13/12.

Le istanze degli occupanti erano naturalmente incentrate sul ritiro dei decreti contestati, ma gli studenti avanzarono anche proposte positive sulla didattica – ad esempio, riadottare nelle classi il libro «Storia del genere umano» di Lefteris Stavrianòs, che riportava la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, appena ritirato dalle classi del I Liceo perché bollato come «anticristiano».

Nella rivolta studentesca confluirono le mobilitazioni degli studenti medi e di quelli universitari, che nello stesso periodo avevano occupato le loro facoltà contro il piano di legge Kontoghiannòpoulos, e che il 18/12 realizzarono un raduno studentesco a cui parteciparono 35.000 giovani.

Sorpresi dagli sviluppi, il governo si rifugiò nei riflessi conservatori della sinistra ufficiale («le scuole devono essere riaperte», dichiara il 12/12 Grigoris Farakos, dopo un incontro con Mitsotakis), sembrò cedere su alcuni punti e attese l’arrivo del natale, ritenendo che le vacanze avrebbero placato gli animi.

Ma queste aspettative si rivelarono fasulle. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione e della Religione, più di 700 scuole rimasero occupate durante le feste (tra queste, il 51% delle scuole di Atene, il 53% delle scuole del Pireo, l’80% di quelle dell’Attica occidentale, il 46% di quelle di Salonicco, il 63% di quelle dell’Argolide e il 68% delle scuole di Corfù), mentre in molti altri istituti erano state programmate assemblee per il 7 gennaio.

Deciso a stroncare il movimento, il ministero dichiarò che le lezioni si sarebbero svolte anche con un solo studente presente, ordinò ai presidi di prendere le assenze sul marciapiede (con unico criterio la dichiarazione di ciascuno studente pro o contro l’occupazione) e ricordò che bastavano 50 assenze ingiustificate per perdere l’anno («Ελεύθερος Τύπος», 4/1/1991). Questo ricatto però non funzionò, perché dopo la fine delle vacanze le occupazioni aumentarono. La propaganda governativa iniziò a diffondere bugie, senza ottenere risultati significativi, mentre il Procuratore capo di Atene chiariva ai genitori che per avviare procedimenti per turbamento dell’ordine pubblico i presidi delle scuole dovevano dichiarare per iscritto che i ragazzi, nonostante la volontà di entrare in classe, erano impossibilitati a seguire le lezioni (ΕΤ2, 7/1/1991).

…e sgomberi

Αθήνα 18/12/1990. Η αντοχή των μαθητικών καταλήψεων εξόργισε την κυβέρνηση Μητσοτάκη

Atene18/12/1990. La resistenza delle occupazioni studentesche fece infuriare il governo Mitsotakis | foto di Tassos Kostòpoulos

Al governo non rimase altro da fare che ricorrere alla violenza. Gruppi di «cittadini indignati» di N.D. e della sua organizzazione giovanile si incaricarono di sgomberare a mazzate le occupazioni.

Il 7 gennaio gli episodi furono limitati ed ebbero più che altro il carattere di un «automatismo sociale», i cui protagonisti furono soprattutto genitori ostili alle occupazioni. Del tutto diverse furono le violenze del giorno seguente, quando fu evidente il fallimento delle pressioni esercitate all’interno della legalità.

Alle 2 di notte, una quarantina di giovani armati di spranghe fecero irruzione con lacrimogeni e petardi nel 4° Liceo di Salonicco, rompendo la porta e mandando all’ospedale una studentessa e un genitore che si trovava lì; il capo delle spedizioni, secondo le denunce, era il presidente della locale MAKI [Movimento Studentesco Indipendente, gruppo studentesco affine all’ONNED, n.d.t.] («Ριζοσπάστης», 11/1). Un’altra ventina di persone provò a sgombrare il Liceo Tyrolòis, a Truba, ma vennero respinti da studenti e genitori («Τα Νέα», 10/1).

A Kypseli ci fu un’irruzione nel 33° Liceo, mentre a Votanikòs il 63° Liceo fu attaccato con lanci di molotov («Ελευθεροτυπία», 9/1). Una manifestazione di elettori di Nea Dimokratìa a Corfù, una vera «esplosione popolare», secondo il comunicato stampa della prefettura, si concluse con assalti alle occupazioni delle scuole dell’isola. Ad Amaliada, un gruppo di giovani di N.D. occupò il comune e pestò il sindaco (del PASOK). A Lamìa e a Makrakomi, infine, come riportato dal giornale filogovernativo «Ελεύθερο Τύπο» (9/1), i genitori che volevano mettere fine alle occupazioni distrussero porte e vetri di tre scuole, provocando danni per decine di migliaia di dracme. Uno studente del 6° Liceo di Lamia rimase leggermente ferito. Gli assalti erano stati preparati da famosi giornalisti, a partire già dal periodo degli scioperi estivi.

«Una decina di canaglie sta seminando scompiglio e vuole soffocare la Nazione, proprio quando riesce a reggersi in piedi da sola», dichiarò Christos Pasalaris (Απογευματινή 6/7/1990).

«Lo stesso primo ministro», conclude l’articolo, in televisione deve insegnare al popolo «ad autodifendersi da quelle dieci sadiche canaglie che sabotano i sacri diritti dei liberi cittadini, tagliando la corrente, chiudendo le scuole, impedendo la libera circolazione per le strade, mettendo in pericolo la salute pubblica». Anche Dimitris Rizos (9/1/1991), editore del giornale «Ελεύθερος Τύπος», invitò i lettori all’ “autodifesa”: «prima o poi i cittadini di questo Paese dovranno reagire contro i politicanti di mestiere. Avanti dunque, seguiamo la strada segnata dai cittadini di Amaliada». Quando il giornale arrivò nelle edicole, Nikos Teboneras era già morto.

L’omicidio

Χαρακτηριστικό πανό των διαδηλώσεων του πρώτου διημέρου μετά τη δολοφονία (Αθήνα, 9-10/1/1991)

Lo striscione che apriva le manifestazioni i giorni immediatamente seguenti l’omicidio (Atene, 9-10/1/1991) | Tassos Kostòpoulos

A Patrasso gli episodi iniziarono la sera dell’8 gennaio, con la spedizione infruttuosa contro l’occupazione del liceo multidisciplinare da parte di circa 25 giovani di N.D. capeggiati da Ghiannis Kalambokas, presidente dell’ONNED di Patrasso, consigliere comunale e impiegato alla Banca di Creta.

Dopo aver schiaffeggiato un professore, entrarono nel complesso scolastico e sgombrarono gli occupanti, ferendo alla mano con un taglierino il presidente del consiglio degli studenti. La notizia venne trasmessa dalla radio locale e circa duecento cittadini si radunarono al di fuori del complesso scolastico per proteggere gli studenti.

I giovani di N.D. li accolsero insultandoli: «sentimmo qualche slogan sul nazionalsocialismo», dichiarerà più tardi il professor Dionisis Evstathiou, «ma nessuno si aspettava il peggio» (Atti dell’inchiesta, 20/6/1991, pag. 16). Dopo il tentativo fallito del sindaco Andreas Karàvolas di convincere i giovani di N.D. ad andarsene e il lancio di oggetti contro di lui, un gruppo di professori disarmati e di cittadini entrò nel cortile, certi che il numero sarebbe bastato a far ritirare il gruppo di aggressori armati. Questi ultimi li picchiarono con le loro spranghe, spaccando la testa di Temboneras e ferendo gravemente altre tre persone. Quando arrivò all’ospedale, il professore, membro del Fronte Antimperialista dei Lavoratori (EAM), era clinicamente morto.

Il gruppo di aggressori era già noto a Patrasso per altri episodi violenti (assalti a sedi politiche ecc.) verificatisi durante le elezioni del biennio precedente (elezioni politiche il 18/6/1989, il 5/11/1989 e l’8/4/1990, comunali il 14/10/1990) e tollerati dalle autorità. Nel periodo delle occupazioni avevano svolto almeno due assemblee per decidere come affrontare gli occupanti.

Durante la prima assemblea (22/12/1990), a cui parteciparono anche il sottosegretario all’Istruzione Vassilis Bekiris e il parlamentare Nikos Nikolòpoulos, Kalambokas propose l’idea di un’azione di forza da parte dell’ONNED, e gli venne risposto che una cosa del genere avrebbe potuto essere presa in considerazione dopo le feste (atti dell’inchiesta, 3/7/1991, pag. 4-6). La seconda assemblea si svolse la sera dell’8 gennaio in prefettura. Secondo la deposizione giurata di quattro dei 60 presidi presenti, il prefetto Nikos Tagaris definì «legali» gli sgomberi, e fece un riferimento al complesso scolastico Vud (atti dell’inchiesta, 16/7/1991, pag. 85-6).

Simili progetti vennero proposti durante le assemblee in tutta la Grecia (ad es. il 4/1 a Salonicco, alla presenza del ministro degli Interni Sotiris Koùvelas). Secondo il reportage di Thodorìs Roussòpoulos («Ελευθεροτυπία», 13/1), ordini simili erano stati impartiti anche dal vicepresidente di N.D. Theòdoros Bechrakis, con un telex alle sedi provinciali del partito, e telefonicamente dalla commissione per le mobilitazioni dell’ONNED alle sezioni locali. La notizia dell’omicidio esplose come una bomba.

Διαδηλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

La sera del 9 gennaio il centro di Patrasso si trasformò in un teatro di scontri, che si protrassero per due giorni anche per le strade di Atene (10-11/1). Vi parteciparono migliaia di manifestanti, con un bilancio di centinaia di feriti e altri quattro morti, quando uno dei 4.000 lacrimogeni lanciati dai MAT provocò un incendio in una cartoleria.

In preda al panico, il governo ritirò i decreti e il piano di legge, Kontoghiannòpoulos si dimise e il suo successore Ghiorgos Soufliàs annunciò l’apertura di un dialogo nazionale sull’istruzione «ripartendo da zero».

 

La copertura della polizia

Διαδήλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Si tentò immediatamente di insabbiare quanto realmente accaduto, con la costruzione di una versione accomodante dei fatti. Nel primo pomeriggio del 9/1/1991 venne diffuso un comunicato particolareggiato della Direzione di Pubblica Sicurezza dell’Acaia, in cui la responsabilità principale per l’omicidio veniva attribuita alle vittime:

«Alle ore 21.00 dell’8 gennaio 1991, un gruppo di circa 30 persone ha fatto irruzione nel cortile delle scuole sopra citate dopo aver sfondato i cancelli e, senza fare uso di violenza, ha obbligato i circa 30 occupanti ad uscire nel cortile della scuola. I nuovi occupanti, che avevano come unico scopo il ripristino del normale svolgimento delle lezioni, sono rimasti padroni dello spazio. Gli studenti sgomberati hanno diffuso telefonicamente la notizia agli altri giovani occupanti. Dalle ore 22.20 circa alcuni cittadini hanno iniziato a radunarsi davanti la scuola, raggiungendo il numero di circa 250 individui, tra i quali anche il sindaco di Patrasso Karàvolas.

Il sindaco, dopo un incontro con i nuovi occupanti, non è riuscito a farli allontanare, ed ha comunicato la notizia alle persone radunate all’esterno della scuola, che hanno allora preso la decisione di fare irruzione in massa per sgomberare il luogo.

Durante gli scontri verificatisi circa alle 22.45 sono avvenuti reciproci lanci di diversi oggetti (pietre, pezzi di legno e di ferro, ecc.) che hanno portato al grave ferimento del professor Temboneras Nikòlaos, di anni 38, ora ricoverato nel reparto terapia intensiva de ll’ospedale universitario di Rio, e il leggero ferimento di:

  1. A) Tsoukalàs Christos, professore di Liceo, anni 34
  2. B) Ghiotis Konstantinos, anni 31, impiegato pubblico e
  3. C) Vassiliàs Nikolaos, anni 23, muratore

i quali, dopo i primi soccorsi, hanno fatto ritorno ai rispettivi domicili.

In base all’ inchiesta successiva condotta dal viceprocuratore Mytis, della Procura di Patrasso, sono presumibilmente coinvolti:

  1. A) Kalambokas Ioannis, anni 30, impiegato bancario
  2. B) Marangòs Alexios, anni 37, e
  3. C) Spinos (non identificato)

Il procuratore ha disposto l’arresto degli individui sopra menzionati, sebbene al momento il loro arresto non sia stato possibile, poiché assenti dai rispettivi domicili e sono tuttora ricercati».

Almeno tre punti del comunicato destano perplessità:

  1. la conoscenza delle generalità degli autori (ancora liberi) dello sgombero dell’occupazione;
  2. l’affermazione secondo cui le persone radunate fuori dalla scuola abbiano deciso di compiere un’«irruzione in massa» e
  3. il lancio «reciproco» di oggetti, mentre tutti i feriti appartengono a un solo schieramento – quello maggiormente numeroso.

La collaborazione del gruppo di Kalambokas con la polizia è un capitolo ancora oscuro. La cosa certa è che Kalambokas ha goduto di una certa immunità per le sue azioni violente, e che Marangòs visitava regolarmente la Direzione di Polizia, di fronte al cui edificio esercitava occasionalmente il mestiere di venditore ambulante.

Anche la denuncia del presidente della locale Unione dei Poliziotti, ex membro dei servizi di sicurezza, secondo cui Marangòs era un informatore stipendiato dei servizi («Τα Νέα», 12/1/1991, pag. 17) non è mai stata chiarita.

Per quanto riguarda l’assenza della polizia dal luogo dell’omicidio nonostante il centro operativo avesse un quadro molto chiaro della situazione, è disarmante la deposizione del prefetto agli Atti della commissione d’inchiesta (16/7/1991, pag. 129):

«La polizia aveva ricevuto dal Ministro competente l’ordine di astenersi da qualsiasi operazione negli edifici scolastici durante il periodo delle occupazioni. La sua presenza è stata discreta e a distanza. E questo perché altrimenti alcuni avrebbero provato a collegare la presenza della polizia alle azioni che miravano a sgomberare le occupazioni».

L’«inchiesta» parlamentare

Διαδήλωση μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Un secondo campo di confronto fu la commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla questione all’unanimità dal Parlamento (4/3/1991). Durante la discussione gli oratori di N.D. avevano duramente contestato la relativa istanza dell’opposizione, con argomenti che andavano dall’agnosticismo all’esplicita difesa degli oppositori alle occupazioni.

«Il professor Temboneras è rimasto vittima degli scontri. E durante uno scontro dubito che si possa capire chi stia picchiando chi», assicurò ad esempio l’onorevole Spilios Spiliotòpoulos, parlamentare dell’Acaia, mentre Apòstolos Andreoulakos sostenne che «la legalità» era stata «ripristinata» dal gruppo di Kalambokas, e che Temboneras  fu ucciso «da una folla inferocita di sostenitori degli occupanti» e, di conseguenza, le responsabilità penali andavano attribuite ai compagni della vittima. Alla fine venne istituita la commissione d’inchiesta, dopo l’intervento del primo ministro in persona.

Come si evince dagli atti ufficiali, durante i lavori della commissione il presidente Epaminondas Zafiròpoulos non fu per nulla imparziale: spesso dettava le risposte ai funzionari di sicurezza, o minacciava e provava a confondere i testimoni «nemici». Un simile atteggiamento fu tenuto anche da alcuni onorevoli parlamentari, come Petros Tatoulis.

Riportiamo la risposta stizzita di Zafiròpoulos che commentò le dichiarazioni contrastanti della polizia e del presidente dell’ELME [Federazione Ellenica degli Insegnanti dell’Istruzione Secondaria]: «adesso ci mettiamo a paragonare le asserzioni della signora Antoneli con quelle della polizia? La polizia è un ente statale e la signora Antoneli è una persona. Tutti gli Stati hanno una polizia» (16/7/1991, σ. 145).

E pensate che la commissione era stata formata proprio per fare chiarezza sulle responsabilità dei servizi di sicurezza! Dunque non desta alcuna sorpresa il fatto che la commissione non sia giunta a un verdetto unanime. I parlamentari dell’opposizione diffusero le loro conclusioni, in cui parlavano di «brutale assassinio politico», la cui responsabilità era «non solo degli autori materiali ma anche dei mandanti morail, tra i quali possono essere annoverati il prefetto Tagaris e i dirigenti di polizia Badas e Tsaousis» («Ποντίκι», 18/6/1992), mentre la maggioranza governativa archiviò il caso.

Gli atti di due delle 23 udienze (la 19° e la 20° ) non sono presenti nel fascicolo del Parlamento. Subito dopo la fine dei lavori il presidente della commissione diventò ufficialmente l’avvocato difensore di Kalambokas in tribunale (20/7/1992).

Dopo l’omicidio Temboneras

La battaglia legale

Il tribunale costituisce il terzo ed ultimo campo di confronto.

I ricercati si costituirono spontaneamente e vennero incarcerati preventivamente. Il filo degli eventi può essere riassunto in cinque “tappe”:

– nel maggio 1991 viene scarcerato Marangòs, nonostante il presidente del consiglio degli studenti, testimone oculare, lo vide uscire dalla scuola con un piede di porco insanguinato (atti dell’inchiesta, 16/10/91, pag. 13-4);

– nel marzo del 1992 un verdetto sancì la sostituzione di sindaco e prefetto, contro cui erano state presentate denunce per complicità morale da alcuni gruppi di avvocati di Patrasso. Con il medesimo verdetto Kalambokas venne rinviato a giudizio per omicidio, Marangòs e Spinos per lesioni personali e altri 10 membri dell’ONNED per concorso e complicità. La stessa accusa venne però rivolta anche a 6 appartenenti allo schieramento degli occupanti, tra cui anche 4 testimoni oculari dell’omicidio!

il processo di primo grado iniziò a Volos il 22/6/1992 e si concluse il 9/3/1993 con la condanna di Kalambokas all’ergastolo per omicidio volontario senza attenuanti, di Marangòs e Spinos a tre mesi di carcere e con l’assoluzione degli altri imputati. Sul nucleo duro di N.D. la decisione fu un vero shock: «siamo forse governati dal PASOK? , si chiedeva il giorno successivo Dimitris Rizos sul giornale «Ελεύθερο Τύπο». «Perché in un processo così politicizzato la Società non ha fatto nulla affinché a emettere il verdetto fossero giudici che non si fanno influenzare da falsi testimoni? Che non si piegano alla marmaglia? Neanche questo è in grado di garantire il potere, ormai vacillante?»;

– il «potere vacillante» infine decise di rimediare alle questioni in sospeso prima delle elezioni del 1994;

Il 16/6/1993 venne stabilita un’udienza (per il 7/12/1993) e, successivamente, il personale del tribunale di Larissa venne trasferito in massa, perché la composizione del nuovo corpo fosse stabilita non per sorteggio, ma dal nuovo presidente, noto per la sua partecipazione a sentenze favorevoli per il governo («Τα Νέα», 15/11/1993).

Ma il governo Mitsotakis cadde il 9/9/1993, il nuovo governo Papandreou annullò i trasferimenti e Kalambokas fu di nuovo condannato (19/5/1994) a 17 anni – con l’attenuante di non avere precedenti penali.

La novità fondamentale del processo di secondo grado furono le accuse tra ex camerati. Kalambokas rivelò che il vero assassino di Temboneras era Marangòs, dichiarazione confermata anche da Spinos e da Achilleas Prionàs (uno degli accusati).

Marangòs il 22/2 dichiarò che probabilmente l’assassino era Prionàs, denunciò Spinos e ottenne la sua condanna per calunnie. D’altronde non correva alcun rischio, visto che era stato irrevocabilmente assolto dal verdetto.

– nel 1996 l’Aeropago stabilì che il tribunale doveva riesaminare il caso prendendo in considerazione l’attenuante della «tensione della situazione».

Il caso venne di nuovo sottoposto a processo (1-15/10/1996), il tribunale fu costretto dall’Aeropago a una revisione della pena, che venne ridotta a…16 anni e mezzo (22/1/1998). Poco più tardi Kalambokas venne scarcerato, avendo scontato i 2/5 della pena. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.

Kalambokas è diventato dirigente di una filiale della Banca Nazionale a Volos. Vassilis Kontoghiannòpoulos è stato eletto nel 2000 parlamentare del PASOK e nel 2003 è stato Sottosegretario alla Sanità durante il governo Simitis. Nikos Nikolòpoulos, che aveva giustificato le violenze della squadraccia di Kalambokas parlando di «costumi locali» (atti dell’inchiesta, 15/5/1991, pag.82), ha appoggiato il governo di Alexis Tsipras – il più famoso degli occupanti del 1991 – come parlamentare di AN.EL. Qualcuno vuole forse mettere in dubbio il successo della pacificazione nazionale?

Patria – Religione – Polizia

Tra gli altri documenti di quel periodo, sul sito web dell’Istituto Konstantinos Mitsotakis sono stati caricati due telegrammi di alcuni cittadini che, all’indomani dell’omicidio Temboneras, invitavano il governo a non cedere al partitismo e all’anarchia.

Il primo è stato scritto da un ex prefetto, autore del più dettagliato testo pubblicato sino ad oggi sul «terrore rosso» nel Peloponneso durante l’occupazione, mentre il secondo è di una coppia di genitori nazionalisti. Entrambi i telegrammi sono molto eloquenti per comprendere il miscuglio di autoritarismo, nazionalismo e religione di cui era intrisa in quel periodo l’ideologia della “liberale” N.D.:

«Kyparissia, 11/1

Al Presidente del Consiglio

Al ministro dell’Istruzione

Al ministro della Giustizia

Al ministro dell’Ordine Pubblico, Atene.

Popolo greco attende protezione in tutti i modi di istruzione ellenica, società ellenica e democrazia ellenica dai piani di anarchici guidati da organi partitici antidemocratici e antieducativi. Kosmàs Antonòpoulos, ex prefetto».

«Spettabile Ministro, siamo genitori di studenti. Concedeteci il diritto di esprimere la nostra approvazione per tutte le misure, senza eccezione alcuna, che voi e altri saggi collaboratori avete ideato per il bene dell’amatissima patria e della vera educazione dei nostri giovani. Prendete tutte le misure in vostro potere per ricondurre alla ragione le masse paranoiche e disinformate che insorgono contro i vostri santissimi progetti per il rinnovamento spirtituale e sociale della nostra nazione, e soprattutto rimanete al vostro posto, lì dove il fato vi ha posto quando i tempi diventarono maturi.

Non è possibile che la gioventù di oggi, già da alcuni anni, si occupi solo di sigarette, coca, whiskey, caffetterie e discoteche, anziché sforzarsi di portare giovamento a se stessa e alla nostra società.

Petros e Maria Kalogheropoulou

Dyaleon 21 – Atene 11854»

Il nuovo Cristo e i vasi comunicanti

Ο Μιχάλης Αρβανίτης ομιλητής σε εκδήλωση της Χρυσής Αυγής

Michalis Arvanitis sul palco di Alba Dorata | Eurokinissi

L’unico libro sul caso Temboneras è stato scritto da un membro di…Alba Dorata: il parlamentare dell’Acaia Michalis Arvanitis, avvocato di Kalambokas per i primi diciotto mesi dopo l’omicidio e di Alekos Marangòs fino al giugno del 1991.

Con l’accattivante titolo «Chi uccise Nikos Temboneras», l’opera è stata pubblicata nel 2002 dalla casa editrice Pelasgòs di Ioannis Ghiannàkena (allora appartenente al Fronte Ellenico di Voridis e poi del LAOS), e costituisce un maldestro tentativo di discolpare il primo cliente dello scrittore, attribuendo le responsabilità dell’omicidio al secondo.

Il libro è stato presentato ufficialmente nel dodicesimo anniversario dell’omicidio (8/1/2003) da Makis Voridis e dai giornalisti Christos Pasalaris e Ghiannis Voùltepsis.

Quest’ultimo, responsabile dell’Ufficio Stampa di N.D. tra il 1984 e il 1993, adotta esplicitamente nelle sue memorie il punto di vista dell’«amico Arvanitis» come unica narrazione dei fatti degna di nota («Δέκα σκληρά χρόνια στη Νέα Δημοκρατία», Atene 2005, pag. 398-401).

Το βιβλίο του Μιχάλη Αρβανίτη για την δολοφονία Τεμπονέρα

Per quanti hanno seguito il caso attraverso i giornali, in particolare le accuse reciproche tra ex camerati durante il processo di secondo grado, il libro di Arvanitis non offre nulla di nuovo.

Con l’eccezione, forse, della rivelazione secondo cui l’autore fu sostituito – come avvocato di Kalambokas – da onorevoli parlamentari di N.D., perché lui aveva già assunto come collaboratore l’avvocato ateniese «nazionalista» K. P(levris?), che aveva «le capacità e le competenze per provvedere efficacemente alle necessità del caso».

Con quanto è venuto alla luce, il paragone di Kalambokas e Cristo (pag. 14) desta solo sorrisi ironici, così come l’insistenza dell’autore nel sostenere che la squadraccia dell’ONNED non voleva sgomberare la scuola, ma era uscita in strada per un semplice attacchinaggio ed era stata «intrappolata» lì dalla «folla infervorata» degli occupanti e dei loro sostenitori (pag. 37 – 47).

Va presa poco sul serio anche la tesi fondamentale secondo cui il caso non fu altro che una cospirazione per sabotare il potente Kalambokas, sabotaggio a cui partecipò l’intera «catena di individui» che «progettò, organizzò e realizzò non solo il delitto di quella sera, ma anche una serie di altri delitti contro la Giustizia, la Verità e la Dignità Umana, per scopi politici e allo stesso tempo per sfogare le loro malate passioni politiche» (pag. 39–40).

Tesi che, tra le altre cose, è in evidente contrasto con quanto sostiene oggi il partito di Michalis Arvanitis: provando a relativizzare i propri delitti, Alba Dorata in realtà ci ricorda sempre di più negli ultimi anni il vigliacco omicidio del professore di sinistra da parte delle «squadracce dell’ONNED».

Al contrario, l’opera nel suo complesso delinea “dal di dentro” la mentalità politica e ideologica che ha portato al delitto Temboneras e che aveva grande successo allora nello schieramento liberale, mentre ora è stata adottata da Alba Dorata.

L’avvocato di Kalambokas si straccia le vesti perché «gli ufficiali ellenici, ostaggi del passato dittatoriale che i partiti vogliono tenere vivo, non osano spaccare i denti ai politici dittatori», mentre «la compagnia di compagni trebbia le messi di qualsiasi campo si trovi davanti» (pag. 34).

Chiama la presidente dell’ELME la «compagna pesantona», il presidente del consiglio degli studenti ferito «piccola spia» (pag. 43), i testimoni dell’accusa «marmaglia» (pag. 58), ecc., e dichiara amaramente che «il magistrato non ha sicuramente dimostrato un coraggio da leone, quando sarebbe bastato un ruggito per sparpagliare quelle iene affamate, quella marmaglia di compagni» (pag. 110).

Mitsotakis viene definito «Pilato Cretese», poiché consegnò il nuovo Gesù alla «folla di Ebrei» (pag. 14), mentre i giudici vengono paragonati ai «sacerdoti ebrei, accecati dal fanatismo e dal dogmatismo» (pag. 13).

Nemmeno Temboneras si salva dagli strali dell’avvocato albadorato, che dice di lui: «un sedicente caporione, specializzato nella repressione violenta delle manifestazioni contro gli scioperi ».

Insomma, Kalambokas e la sua comitiva erano semplicemente andati a fare un attacchinaggio…

di Tassos Kostòpoulos (10/01/2016)

Fonte: efsyn.gr

Traduzione di AteneCalling.

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Senato 2010: studenti dell’Onda condannati

12 anni di carcere per il movimento che ha contestato la Riforma Gelmini

Sono state pronunciate oggi le sentenze di primo grado per i fatti del 24 Novembre 2010. Sedici le condanne contro gli studenti dell’Onda.

Quel giorno, in decine di città italiane, migliaia di studenti manifestavano per fermare la riforma Gelmini e per far cadere il governo Berlusconi. Il corteo di Roma, che arrivò fin sotto il palazzo del Senato, fu la scintilla da cui scoppiò un movimento enorme, che per giorni bloccò le strade del paese, trovando il sostegno di milioni di cittadini, di docenti universitari, del mondo sindacale e della politica.

Quel movimento culminò il 14 dicembre, quando migliaia di studenti sfiduciarono dal basso il Governo: dopo la notizia che la maggioranza di centro-destra, con a capo Berlusconi, aveva comprato i voti di diversi parlamentari per garantirsi la sopravvivenza, esplosero i tumulti in piazza del Popolo.

Oggi, a più di cinque anni di distanza, il Tribunale di Roma ha condannato 16 studenti a pene che vanno da due mesi a un anno e nove mesi, per un totale di quasi 12 anni di carcere. Tanti e diversi i reati contestati, tra cui pesano maggiormente quelli di resistenza aggravata e lesioni, che portano alle richieste di pena più alte. Diverso invece l’esito legato all’assurda accusa, fortemente voluta dal PM Tescaroli, di attentato contro gli organi costituzionali. Un reato comparso nei registri delle indagini una sola volta, più di cinquant’anni fa. Per quest’accusa fuori dal tempo sono stati assolti tutti gli imputati.

La sentenza di oggi ci indigna ma non ci stupisce, visto l’attacco complessivo riservato, ieri come oggi, ai movimenti studenteschi che hanno combattuto i provvedimenti che hanno distrutto l’università pubblica. Provvedimenti di cui adesso si vedono bene le conseguenze, con il crollo degli iscritti e della qualità dei corsi in tutte le università del “Bel Paese” e la disoccupazione giovanile che non cessa di crescere.

Di fronte a queste condanne, nessun passo indietro. Oggi come ieri abbiamo ragione noi. Non permetteremo di riscrivere nelle aule dei tribunali la storia di movimenti di massa che hanno lottato fino all’ultimo e con tutte le loro possibilità per un’università pubblica, gratuita e libera dai diktat dei mercati.

Chiediamo a tutte le studentesse e gli studenti che erano in piazza in quei mesi, agli esponenti del mondo della cultura e della politica che credono in un’università diversa da quella imposta dal neoliberalismo, a tutti quelli che pensando che l’Onda non si condanna, di prendere posizione e condannare la sentenza.

Ci rivediamo nelle strade.

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/senato-2010-studenti-condannati

16 gennaio 1990 Roma: movimento della Pantera

pantera 1990

Gli studenti occupano la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma; questa occupazione segna la nascita del movimento della Pantera.

Già da qualche mese erano occupati un laboratorio e un’aula della Sapienza e fino a dicembre era stata occupata la biblioteca per protestare contro i ridotti orari di apertura, dovuti ai tagli al personale dell’università.

La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

2 ottobre 1968: il massacro di Tlatelolco

Il massacro di Tlatelolco (circa 300 vittime) avvenne il 2 ottobre 1968 nella Piazza delle tre culture a Tlatelolco, Città del Messico, dieci giorni prima dell’inizio dei Giochi della XIX Olimpiade che si svolsero a Città del Messico dal 12 ottobre al 27 ottobre 1968.

Il presidente di allora Gustavo Diaz Ordaz, settimane prima del massacro ordinò all’esercito di occupare il Campus universitario. L’esercito indiscriminatamente picchiò molti studenti e per protesta il rettore Javier Barros Sierra si dimise il 23 settembre.

Le proteste degli studenti non diminuirono. Le manifestazioni crebbero a tal punto che il 2 ottobre dopo 9 settimane di sciopero studentesco, 15.000 studenti di varie università marciarono per le vie della città, protestando contro l’occupazione del campus. Al calare della notte 5.000 studenti e lavoratori, molti dei quali con la famiglia, si raccolsero nella Plaza de las tres Culturas di Tlatelolco.

Alla fine della giornata le forze militari e politiche con carri blindati e veicoli da combattimento circondarono la piazza e aprirono il fuoco, puntando sulle persone che protestavano o che semplicemente passavano di lì. In breve tempo una massa di corpi copriva tutta la superficie della piazza. Fra i feriti, anche la scrittrice fiorentina Oriana Fallaci, che si trovava in un grattacielo sovrastante la piazza per controllare al meglio le azioni fra manifestanti e forze dell’ordine. Ferita da un elicottero in volo, fu creduta morta e portata in obitorio, dove un prete si rese conto che era ancora viva. La giornalista riportò tre ferite d’arma da fuoco.

Il massacro continuò tutta la notte, i soldati si accamparono negli appartamenti vicini alla piazza. Testimoni riferirono che i corpi furono spostati con camion dell’immondizia. La spiegazione ufficiale fu che facinorosi armati iniziarono a sparare verso le forze dell’ordine che per difesa personale iniziarono a sparare. I media di tutto il mondo diffusero le immagini.

 

 

Fonte:

http://piemonte.indymedia.org/articolo/16152

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/

Valle Giulia

1 marzo 1968 – Roma

1968 valle giulia

A Valle Giulia, presso la facoltà di Architettura più di 4000 studenti si radunano determinati a liberare l’edificio dall’assedio poliziesco. Scoppiano violenti scontri. Gli studenti reggono a lungo l’urto delle cariche degli agenti: a fine giornata si contano 500 feriti tra i manifestanti e 150 tra le forze dell’ordine, i fermati sono più di 200, l’area circostante la facoltà ha un aspetto tale da far parlare di una vera e propria battaglia: diverse camionette ed auto incendiate, il suolo disseminato di sassi e lacrimogeni. Nelle ore successive la battaglia lo slogan che circola orgogliosamente fra gli studenti, non più disposti a subire a capo chino la violenza della polizia, è: “Non siam scappati più!“.

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/1-marzo-1968-roma/