SIRIA: NESSUN HASHTAG PER CHI SPARISCE

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)

(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-il-massacro-che-non-avra-un-hashtag.html