Brasile, mano dura contro le occupazioni

Rio de Janeiro. Allarme Isis e repressione dei movimenti

Manifestazione a Rio

Mano dura contro le occupazioni. In Brasile, il governo ad interim di Michel Temer usa l’«allarme terrorismo» per reprimere i movimenti sociali. Almeno 50 agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato con violenza i manifestanti, accampati in un edificio del Ministero della Cultura a Rio de Janeiro dal 16 maggio. Nelle cariche è stato colpito anche l’ex senatore del Partito dei lavoratori Eduardo Suplicy.

Il 12 maggio, il Senato ha votato l’impeachment contro Dilma Rousseff, con 55 voti favorevoli e 22 contrari. La presidente è stata sospesa dall’incarico per 180 giorni e, da allora, i movimenti sociali l’accompagnano al grido di «Fora Temer». Secondo il presidente del Senato, Renan Calheiros, il voto finale dopo il processo dovrebbe tenersi «nella settimana del 20», probabilmente dopo la chiusura dei Giochi olimpici (che si svolgono dal 5 al 21).

Temer – che ha nominato un gabinetto di soli uomini bianchi, anziani e ricchi – sta passando la scure sui diritti: ha abolito ministeri sociali, ha licenziato, ha tagliato i programmi rivolti ai settori popolari. Un’ondata di proteste, scoppiata in oltre 18 città del paese, lo ha però obbligato a ripristinare il Ministero della Cultura. Intanto, sono apparsi chiari i contorni e gli intenti del golpe istituzionale: proteggere i suoi principali artefici dall’inchiesta per tangenti Lava Jato, la «mani pulite» brasiliana che Rousseff voleva agevolare. Gran parte dei parlamentari e dei senatori che hanno votato l’impeachment sono coinvolti nel grande scandalo per corruzione dell’impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Per questo, diversi ministri di Temer hanno dovuto dimettersi.

Per contro, il Pubblico ministero federale ha ritenuto infondata la denuncia penale sporta nei confronti della presidente, e ha archiviato il fascicolo relativo alla cosiddetta «pedalata fiscale», un’operazioni di credito mascherata. Cade quindi il «crimine di responsabilità» che ha mosso l’impeachment: la presidente non ha truccato i conti dello Stato. Il 20 luglio, anche la sentenza del Tribunale internazionale sulla democrazia in Brasile, composto da giuristi, intellettuali, premi Nobel e anche dal Tribunale dei popoli, ha stabilito che l’impeachment costituisce un colpo di stato e deve essere considerato nullo.

Il Tribunale è stato convocato a Rio de Janeiro dalle organizzazioni Via Campesina, Fronte Brasile Popolare e Fronte di giuristi per la Democrazia. La sentenza verrà inviata al Supremo Tribunal Federal per chiedergli di «impedire la rottura dell’ordine democratico» e annullare il procedimento contro la presidente. E, negli Stati uniti, anche un gruppo di 40 deputati del Partito democratico si è diretto a John Kerry per esprimere «profonda preoccupazione per la minaccia alle istituzioni democratiche» che rappresenta l’impeachment, e ha chiesto al segretario di Stato Usa di non appoggiare il governo Temer.

Il leader del movimento brasiliano dei Sem Terra, Joao Pedro Stedile, ha dal canto suo annunciato che intensificherà le occupazioni, qualora Temer voglia vendere le terre alle multinazionali, come ha scritto la stampa in questi giorni. Stedile ha denunciato il pacchetto di riforme neoliberiste deciso da Temer e ha dichiarato che il Fronte Brasile Popolare, di cui fanno parte diversi movimenti sociali come l’Mst sta valutando la possibilità di uno sciopero generale prima della votazione finale sull’impeachment.

E mentre si moltiplicano gli allarmi sulla possibilità di cellule dell’Isis provenienti dalla città di Corrientes, in Argentina, Dilma Rousseff ha detto in un’intervista alla Jornada che l’attuale crisi del Brasile è «la peggiore dalla fine della dittatura militare», e che sui Giochi olimpici «spira un’aria contaminata».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/brasile-mano-dura-contro-le-occupazioni/

Cosa sappiamo finora dell’attacco in una chiesa in Normandia

Un poliziotto davanti al comune di Saint-Etienne-du -Rouvray vicino Rouen in Normandia, il 26 luglio del 2016. - Pascal Rossignol, Reuters/Contrasto
Un poliziotto davanti al comune di Saint-Etienne-du -Rouvray vicino Rouen in Normandia, il 26 luglio del 2016. (Pascal Rossignol, Reuters/Contrasto)
  • 26 Lug 2016 14.05

Una chiesa a Saint Etienne du Rouvray, vicino a Rouen, in Normandia, è stata attaccata da due persone armate di coltelli che hanno preso in ostaggio il parroco e diversi fedeli. Quasi un’ora dopo, la polizia ha ucciso i due aggressori, che nel frattempo avevano ucciso uno degli ostaggi e ne avevano ferito gravemente un altro. Ecco cosa sappiamo finora.

  • I due aggressori hanno fatto irruzione nella chiesa con dei coltelli. Secondo France 3, “hanno preso in ostaggio il parroco, due suore e diversi fedeli”.
  • I due assalitori sono stati uccisi dalle forze speciali di Rouen, mentre stavano uscendo dalla chiesa.
  • L’ostaggio ucciso è Jacques Hamel, 84 anni, il prete ausiliario della parrocchia.
  • Un altro ostaggio è gravemente ferito.
  • La sezione antiterrorismo della procura di Parigi ha aperto un’inchiesta sull’accaduto, anche se non sono ancora chiare le motivazioni dell’attentato.
  • Il presidente François Hollande e il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve si sono recati sul posto.
  • Il presidente Hollande ha detto che si tratta di un attacco terroristico e ha evocato “l’affiliazione al gruppo Stato islamico”.
  • Il gruppo Stato islamico ha rivendicato l’attacco attraverso il suo organo di propaganda, l’Amaq.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/notizie/2016/07/26/attacco-francia

SIRIA: LA VOCE DI MANBIJ

La voce di Manbij, prima della “liberazione”

Manbij, prima della guerra (Wikipedia)

(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Intrappolati “come uccelli in gabbia”, esposti ai bombardamenti della Coalizione filo-Usa, agli spari dei cecchini curdi e alle rappresaglie degli ultimi jihadisti dell’Isis rimasti in città: è il dramma che stanno vivendo i circa 150mila civili rimasti a Manbij, la città nella Siria settentrionale, tra Aleppo e Raqqa, alla cui periferia oggi sono entrate truppe arabo-curde con l’appoggio degli Usa.

“Non ci sono posti sicuri per proteggersi dai raid aerei. Ogni civile è considerato un terrorista dagli americani”, afferma, parlando al telefono con l’ANSA, Muhammad Khatib, ex consigliere comunale di Manbij, fuggito a nord di Aleppo ma ancora in contatto giornaliero con i familiari rimasti in città. I gruppi arabo-curdi “sono ancora lontani dal quartiere generale dell’Isis”, afferma Khatib.

Giovedì 21 luglio, le stesse forze vicine alla Coalizione avevano lanciato ai jihadisti un ultimatum di 48 ore, scaduto sabato 23 luglio alle 11 locali . La zona, tra l’Eufrate e il confine turco, è teatro da fine maggio di un’offensiva delle “Forze democratiche siriane”, guidate dall’ala siriana dei curdi del Pkk e sostenute dagli Stati Uniti.

L’assedio di Manbij, centro vitale tra Aleppo e Raqqa – “capitale” dell’Isis in Siria – è descritto da curdi e da Stati Uniti come parte della “guerra al terrorismo”. Ma non tutti la pensano così: “i curdi del Pkk, gli Stati Uniti e l’Isis sono tutti responsabili del dramma che stiamo vivendo”, afferma Mustafa H., avvocato di Manbij anch’esso costretto a fuggire prima dell’inizio dell’assedio.

L'assedio di Manbij (nel cerchio rosso) al 24 luglio 2015. In giallo le forze curdo-arabe filo-Usa; in grigio lo Stato islamico, in rosso le forze governative siriane (Schermata dal sito syria.liveuamap.com)

L’assedio di Manbij (nel cerchio rosso) al 24 luglio 2015. In giallo le forze curdo-arabe filo-Usa; in grigio lo Stato islamico, in rosso le forze governative siriane (Schermata dal sito syria.liveuamap.com)

L’avvocato conferma che in città rimangono circa 35mila minori, come aveva affermato nei giorni scorsi l’Unicef. “L’Isis si confonde tra i civili. Ci sono circa 400 miliziani in città, in mezzo a 150mila persone”. Le fonti affermano che molti jihadisti sono siriani, di Manbij, altri sono stranieri. “Ma moltissimi sono fuggiti a Raqqa”.

Per l’ex consigliere comunale Khatib, la situazione umanitaria è disperata: “E’ impossibile trovare acqua e farina. Chi può fa il pane in casa. Altri hanno scorte di cibo in scatola. E chi ha un pozzo vicino è ancora salvo”, afferma “Ma moltissimi non sanno come arrivare a fine giornata. Moriranno di fame e di sete”, sostiene Khatib.

Nei giorni scorsi, in bombardamenti della Coalizione filo-Usa a nord di Manbij, nel villaggio di Tukhar, un numero imprecisato di civili era stato ucciso. L’Unicef ha detto che nei raid sono morti più di 20 bambini. L’Isis aveva riferito di “160 morti”, la tv iraniana di “140”, l’agenzia siriana Sana di “120”. Attivisti di Manbij fuggiti a nord dicono di aver documentato “210 morti”. Anche ieri i bombardamenti della Coalizione sono stati intensi.

“Almeno 12 raid hanno colpito la città e sono stati colpiti tre ospedali: “l’Amal, il Qrishman e quello pubblico”, afferma Khatib. Manbij è tradizionalmente abitata da una popolazione araba, che non vede in modo favorevole la “liberazione” per mano curdo-americana e la conseguente annessione al nascente Kurdistan siriano.

La propaganda delle “Forze siriane democratiche” e dei loro alleati afferma che all’assedio di Manbij partecipano in prima linea “miliziani arabi” del “Consiglio militare di Manbij”. Per Khatib è “solo una manovra mediatica. Conosciamo questi miliziani. Sono di Manbij, ma sono gente poco affidabile. Si sono venduti al miglior offerente”.

Anche per questo, l’ex consigliere comunale non ha timore nell’ammettere che “ormai agli abitanti di Manbij non importa quale autorità li controlli. Siamo stanchi. Vogliamo solo vivere in pace, senza bombe e senza assedi”. (Ansa, 23 luglio 2016)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/short-news/la-voce-di-manbij-prima-della-liberazione.html

L’Isis contro la piazza: 81 morti a Kabul

Afghanistan. Due kamikaze attaccano una protesta pacifica della minoranza hazara che chiedeva il ripristino di un progetto elettrico nella provincia di Bamyan. A pagare il crescente ruolo del “califfato” e la rivalità con i talebani è la società civile

L’attacco Isis a Kabul

Sono almeno 81 i morti e più di duecento i feriti nell’attentato che ieri ha colpito Kabul. Obiettivo dell’attacco era una manifestazione di protesta della comunità hazara contro un progetto energetico che esclude la provincia di Bamyan, nell’Afghanistan centrale, abitata prevalentemente dagli hazara, minoranza che in passato ha subito discriminazioni e ostracismo e che oggi continua a rivendicare diritti ed uguaglianza.

L’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico attraverso Amaq, agenzia di informazione del gruppo guidato da al-Baghdadi. Secondo il breve comunicato reso pubblico subito dopo la strage, avvenuta nelle prime ore del pomeriggio, «due combattenti dello Stato Islamico hanno fatto esplodere le loro cinture esplosive in una manifestazione di sciiti nell’area Deh Mazang di Kabul», una delle rotonde principali della città.

Se la matrice fosse confermata, si tratterebbe di un segnale estremamente preoccupante, del più grave attentato dell’Is in Afghanistan e di uno dei più letali dal 2001: lo Stato islamico cerca da quasi due anni di ottenere una presenza significativa nel paese, ma finora i risultati sono stati inferiori alle aspettative.

L’attacco a Kabul segnerebbe un cambio di passo: la capacità operativa di colpire nella capitale, puntando sulle divisioni confessionali e comunitarie che hanno già insanguinato l’Afghanistan. Gli hazara rappresentano infatti la componente sciita, minoritaria, della popolazione afghana, per lo più sunnita.

E lo Stato Islamico, sin dagli “esordi” in Iraq, ha sempre fatto del settarismo uno dei motori portanti del jihad. Soffiare sul fuoco delle divisioni è una strategia scontata per il progetto del “califfo” in Afghanistan: dopo la guerra intestina degli anni ’90, i sospetti tra comunità sono ancora forti e gli hazara continuano a sentirsi discriminati.

La stessa manifestazione di ieri nasce da qui: la valle di Bamyan è stata esclusa dal progetto Tutap che prende il nome dalle iniziali dei paesi coinvolti, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan e Afghanistan. Il progetto, gestito dall’Asian Development Bank e con una pletora di donatori, prevede l’integrazione della rete elettrica afghana in un sistema regionale, una doppia rete elettrica della capacità di 500kV che parta dal Turkmenistan e arrivi a Kabul.

Un progetto ambizioso, e molto costoso, che insieme al Casa-1000 (un’altra linea di trasmissione da 1.000kV che collega Tajikistan, Afghanistan e Pakistan) rientra nella prima fase dello East-Central-South Asia Regional Electricity Market, un progetto di sviluppo con cui si intende creare un sistema energetico comune nei paesi dell’Asia centrale, orientale e meridionale.

Attraverso questi progetti, l’Afghanistan – tra i 5 paesi con il più basso consumo energetico pro-capite – spera di liberarsi dall’eccessiva dipendenza energetica: nel 2014 – come ricordano gli studiosi dell’Afghanistan Analysts Network – più dell’80% del fabbisogno elettrico dipendeva dall’estero (Iran e Turkmenistan, ma soprattutto Uzbekistan e Tajikistan).

Il Tutap dovrebbe rendere autosufficiente il paese entro il 2030, ma ha provocato tensioni sin dal gennaio 2015, quando il secondo vice-presidente, Sarwar Danesh, tra i politici di riferimento degli hazara, ha scritto una lettera al presidente Ghani e al Ministero dell’Energia per contestare la decisione di far passare la rete elettrica non da Bamyan (come suggeriva uno studio del 2013 affidato all’azienda tedesca Fichtner), ma dal passo Salang.

Il governo, pur istituendo una nuova commissione di inchiesta, ha difeso la decisione perché più economica, mentre la comunità hazara ha visto nella scelta un’ulteriore discriminazione. Ne è nato un movimento di protesta, Jombesh-e Roshnayi, “Il movimento della luce”, composto da politici, esponenti della società civile, giornalisti, semplici cittadini, che mira a sollecitare le istituzioni afghane a riconoscere le rivendicazioni degli hazara.

Negli ultimi tempi, le proteste si sono moltiplicate, fino a quella di ieri. Una manifestazione pacifica e colorata – con molti giovani e donne, bambini in bicicletta vestiti con la bandiera afgana – trasformata in strage. I Talebani si sono affrettati a dissociarsi dalla carneficina, opera «dei nemici della nazione» che vogliono creare «una guerra civile». Lo Stato Islamico invece ha messo subito il cappello sul duplice attentato.

I due gruppi – antagonisti sul terreno, divisi da questioni strategiche e dottrinarie – sono sempre più ai ferri corti. A pagarne le conseguenze è la popolazione civile. Ma la strage è soprattutto un duro colpo alla fragile società civile: donne e uomini che rivendicano giustizia manifestando nelle strade. E che ora accendono candele in memoria dei loro «martiri».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/lisis-contro-la-piazza-81-morti-a-kabul/

BAGHDAD, L’ENNESIMA STRAGE DEGLI INNOCENTI DIMENTICATI

downloadAlmeno 200 persone, tra cui 25 bambini, sono rimaste uccise ieri nella martoriata capitale irachena, Baghdad, a causa di una duplice esplosione in pieno centro. Si contano oltre 300 feriti tra i civili che in quelle ore affollavano la zona commerciale per fare acquisti in occasione di Eid al Futur, la festa per la fine del digiuno, paragonabile per importanza al Natale cristiano.

iraqattentatoL’ennesimo vile e brutale attentato contro civili inermi, prontamente rivendicato dai criminali dell’Isis. È il più sanguinoso atto di sangue dall’inizio dell’anno, in un Paese che da quasi trent’anni non conosce un solo giorno di pace. I bambini, le donne, i giovani e gli anziani iracheni sembrano non avere diritto di essere felici, nemmeno il giorno della vigilia. La mano criminale che si è allungata su Baghdad ha provocato una strage sanguinosa di proporzioni immani. Quelle vittime, quegli innocenti, non sono l’”effetto collaterale” di una guerra, la loro morte non deve apparire ai nostri occhi come un qualcosa di “normale” solo perché l’Iraq non è nuovo agli attentati. Tutti quegli esseri umani privati della loro vita, che si trovavano in quella zona per preparasi a un giorno che avrebbe dovuto essere di festa, meritano la stessa empatia e la stessa pietà che proviamo di fronte alle vittime di ogni azione disumana, di ogni atto terroristico.

L’Iraq ha pagato, dal 1991 a oggi, un tributo di sangue pesantissimo, con oltre 1 milione di morti, uccisi da una guerra infame con cui si “esportava la democrazia” e si puniva il dittatore Saddam per le sue malefatte e per le sue armi chimiche (mai trovate). Menzogne su menzogne che hanno portato alla distruzione di un Paese che è stato culla della civiltà mediorientale e mediterranea, che ha dato un contributo alle scienze, all’arte, alla letteratura impareggiabile e che oggi è ancora ostaggio della violenza che genera violenza, di ingiustizie che trascinano altre ingiustizie, di un orrore che sembra non avere mai fine.

attentato_baghdad.jpgL’Iraq è uno degli esempi più significativi delle conseguenze nefaste delle guerre, che distruggono interi Paesi, sterminano popoli inermi e creano l’humus ideale per il proliferare di organizzazioni e gruppi estremisti e terroristi. Non va dimenticato che criminali del calibro di Al Baghdady sono stati formati e istruiti al crimine proprio nelle carceri irachene.

Gli iracheni nati dagli anni ’90 in poi non hanno vissuto un solo giorno di vita vera; le loro esistenze sono state scandite da bombe, esecuzioni, stupri, fughe di massa, torture. In Iraq è stato ucciso il Diritto internazionale e in nome di evidenti interessi economici internazionali, il Paese continua ad essere nelle mire di diversi attori internazionali. A pagare il prezzo più alto, inutile dirlo, sono sempre i più indifesi, coloro che si illudono che anche chi vive a Baghdad abbia ancora diritto a un giorno di Eid, un un giorno di festa.

L’Iraq è una ferita che ha segnato la mia generazione, così come il Vietnam ha segnato la generazione che ci ha preceduto.  Questo nuovo, terrificante attentato, aggiunge dolore al dolore, pietà per le vittime, pena profonda per i milioni di profughi che ogni notte sognano di tornare in un Paese che sembra non esistere più.

 

Fonte:

https://diariodisiria.com/2016/07/04/baghdad-lennesima-strage-degli-innocenti-dimenticati/

 

TRE GIORNI DI LUTTO IN IRAQ PER L’ATTENTATO IN CUI SONO MORTE 165 PERSONE

Il punto in cui è esplosa l’autobomba piazzata dai jihadisti del gruppo Stato islamico nel quartiere Karrada di Baghdad, in Iraq, il 3 luglio 2016. - Khalid al Mousily, Reuters/Contrasto
Il punto in cui è esplosa l’autobomba piazzata dai jihadisti del gruppo Stato islamico nel quartiere Karrada di Baghdad, in Iraq, il 3 luglio 2016. (Khalid al Mousily, Reuters/Contrasto)
Fonte: http://www.internazionale.it/notizie/2016/07/03/iraq-baghdad-attentato-is

4 luglio 2016


Tre giorni di lutto in Iraq per l’attentato in cui sono morte 165 persone.
I feriti sono circa 225. Un’autobomba è esplosa nel quartiere di Karrada, a Baghdad, sabato sera dopo il tramonto. La zona commerciale era affollata di persone che erano scese in strada dopo l’interruzione del digiuno del Ramadan. Un’altra bomba è esplosa poche ore dopo in un’area a maggioranza sciita nel nord della capitale, uccidendo altre cinque persone. L’attentato è stato rivendicato dal gruppo Stato islamico.

Fonte:

http://www.internazionale.it/

Ricostruzione (ufficiale) e contesto in cui è maturato l’attacco terroristico di Dhaka

Dal blog di Bob Fabiani:

3 luglio 2016

Ora che le autorità locali del Bangladesh hanno spiegato come si sono svolti i fatti possiamo ricostruire l’attentato, le sue modalità passo dopo passo. Tuttavia, è importante capire bene il contesto in cui questo attentato terroristico, firmato, Daesh è maturato.
Per avere un quadro più preciso della situazione #AltraInformazione ha cercato – attraverso una breve inchiesta – di approfondire alcune situazioni che stanno caratterizzando la vita sociale del paese asiatico quelle in cui, maturano “certi brodi di coltura” che poi, possono favorire non solo e non soltanto il proselitismo ma, il reclutamento di Daesh qui in Bangladesh e, in genere tutta l’Asia. Sbaglierebbero coloro i quali, sull’onda emotiva della strage (per carità si deve avere pietà di quanti hanno trovato la morte ma, questa pietà, in realtà, la meritano tutti i caduti per mano dei terroristi … che siano in Bangladesh, Iraq, Siria e senza dimenticare l’Africa n.d.t), a “fare di tutto un erba un fascio” – per usare un modo di dire classico – perché, il terrorismo in Asia è molto diverso da quello di altre zone del mondo. Insomma, non si deve tentare un’analisi uniforme, quasi che ce ne fosse una “standard” che, si possa declinare e tirare fuori, a ogni tragedia e strage. I posti, i paesi, le storie non sono tutte uguali e, se, in qualche modo, si vuole davvero vincere questa drammatica sfida globale (nel senso che ormai, non passa giorno in cui il mondo non sia investito dal dramma di un’attacco terroristico che solo apparentemente ha la stessa matrice, nel marchio di fabbrica di Daesh) allora sarà bene riflettere attentamente e cambiare rotta il più in fretta possibile se, per esempio, non si vuole ancor di più alimentare il dramma delle migrazioni di milioni di migranti. 

– La ricostruzione dell’attacco jihadista a Dhaka

Procediamo dunque ricostruendo passo dopo passo ciò che è avvenuto a Dhaka, capitale del Bangladesh. 
Venti persone sono state uccise durante un attacco terroristico subito rivendicato da Daesh (IS) nella capitale del Bangladesh, Dhaka. 
Le vittime sono nove cittadini italiani, sette giapponesi, e tre bengladesi oltre, a una cittadina di nazionalità indiana. 
Appena l’allarme è avvertito dalle forze speciali queste, si organizzano per mettere a segno un blitz in cui riescono a liberare tredici persone. Il blitz va a segno dopo molte ore : e gli ostaggi sono rimasti in mano dei jihadisti per undici ore.

. La dinamica dell’attentato

Attorno alle 20 di venerdì 1 luglio (quattro ore meno in Italia) un commando di 7 uomini armati ha preso d’assalto l’Holey Artisan Bakery,  una panetteria che è anche un ristorante nel quartiere diplomatico della città.
Gli assalitori hanno fatto esplodere ordigni urlando “Allahu Akbar”, hanno confermato ambienti ai massimi livelli delle forze dell’ordine bengladesi che, poi sono state confermate anche in ambito governativo. Subito è seguita una sparatoria con la polizia e, qui, hanno perso la vita anche due agenti.
Il commando jihadista è riuscito a trincerarsi nel ristorante, con circa 30 ostaggi tra clienti e dipendenti. I terroristi hanno separato i cittadini bangladesi dagli stranieri e hanno portato questi ultimi al piano superiore del locale.
Alle 7,40, ora locale (le 3,40 in Italia) le forze speciali bangladesi hanno fatto irruzione nel ristorante con i carri armati e le armi pesanti. Durante la conferenza stampa le autorità militari hanno spiegato ai giornalisti locali e a quelli internazionali che, questa azione si è resa necessaria per aprirsi la strada e stanare i jihadisti all’interno del locale. La manovra è costata la vita a 6 assalitori mentre, uno è rimasto ferito e subito messo in stato di arresto.

. Le vittime

Le autorità locali insieme a quelle militari hanno poi reso noto ciò che hanno trovato una volta entrati all’interno del ristorante, al termine dell’irruzione. Qui, hanno confermato la liberazione di 13 ostaggi come effetto diretto del blitz mentre, spiegano i responsabili delle forze speciali, 20 persone erano già morti e, alcuni di questi, erano stati giustiziati a colpi di machete. Lo ha confermato l’ufficiale dell’esercito bangladese Naim Asraf Chowdhury : “le vittime sono state assalite brutalmente con armi affilate”.

– Le testimonianze dei superstiti

Secondo alcune testimonianze raccolte dal quotidiano locale Daily Star sono stati risparmiati coloro i quali sapevano recitare un versetto del Corano. Gli assalitori sono stati descritti dai testimoni come giovani tra i 20 e i 27 anni.

– La rivendicazione dei jihadisti

Circa 4 ore dopo l’assalto i jihadisti di Daesh hanno rivendicato l’attentato attraverso la loro agenzia-stampa Amaq. In seguito hanno pubblicato varie foto dall’interno del locale nelle quali si vedono corpi che giacciono in pozze di sangue.

– Il contesto della strage : Bangladesh, un paese tra ingiustizia sociale e violenza. 

Partiamo dalla fine (intesa come attualità di questi ultimi 365 giorni).
Nell’ultimo anno in Bangladesh i miliziani di Daesh hanno moltiplicato attacchi e omicidi che hanno colpito stranieri, rappresentanti delle minoranze religiose, blogger e intellettuali oltre che insegnati laici quindi, la prima cosa sulla quali riflettere è la seguente : la strage di venerdì 1 luglio non è un fatto isolato anzi, come vedremo, era facilmente intuibile.
Certo quello che balza subito agli occhi è che questo attentato segna un salto di qualità in quella che deve essere considerata una vera e propria “guerra interna” al famigerato mondo jihadista che vede contrapposti due schieramenti : da una parte Deash e, dall’altra Al Qaeda, molto attiva nel continente asiatico. La guerra ha come obiettivo finale la “leadership jihadista” e, l’offensiva – senza quartiere – messo in azione da Daesh mira a relegare in un angolo, assolutamente di retrovia, Al Qaeda. 
Tuttavia, tutto questo non basta a capire cosa sta accadendo in Bangladesh. C’è molto altro.
Il Bangladesh è uno di quei paesi in cui – anche se le autorità lo negano con forza praticamente ogni giorno – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Ecco perché, purtroppo, quel che è accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non costituisce una sorpresa.
Se da un lato, in altre parti del mondo il “radicalismo jihadista” può avere successo per colpa delle guerre occidentali qui, nel Bangladesh, non è questa la ragione. Qui, il “radicalismo” fa proseliti per via della violenza sociale. 
Il governo del paese non fa nulla per estirpare questa violenza anzi, l’alimenta ad arte.
In che modo?
Da molto tempo, nel Bangladesh la violenza sociale si rinnova attraverso un sistematico sfruttamento manifatturiero delle multinazionali che, al pari delle reiterate lotte politiche interne creano un drammatico terreno di disperazione. E’ qui, che le formazioni criminali riescono a fare proseliti, con un successo sempre maggiore.
Il governo in questo contesto invece di favorire le attività dei sindacati e le organizzazioni che lottano per i diritti civili nega l’esistenza del problema e, anzi, sistematicamente usa il pugno duro per colpire in questa direzione come e più di un regime autoritario e dittatoriale. 
Così si alimenta e si presta il fianco all’espandersi della povertà che insieme alla devastazione sociale condanna milioni di persone non solo e non soltanto alla miseria ma contribuendo, a spingerli tra le braccia di Daesh oppure di Al Qaeda a loro volta, come abbiamo visto impegnati a giocarsi una grande fetta del cosiddetto “mercato jihadista”. 
Il Bangladesh è il paese dove regna l’ingiustizia dove i salari sono minimi e sostanzialmente, il paese asiatico, è un posto dove non vengono rispettati i diritti civili e dove, i diritti dei lavoratori non esistono (e il governo non se ne cura). Del resto è qui che è accaduta la più grande tragedia sul luogo di lavoro che, per numeri e drammi è stata molto più grande dell’orrenda starge del 1 luglio anche se, quest’ultima, sul mondo avrà un impatto diverso con le vittime occidentali di mezzo. Ma al di là di queste considerazioni, laddove si tenta di individuare il contesto della strage di Dhaka allora, non è possibile non menzionare l’amara storia del Rana Plaza sempre a Dhaka. 

L’orrenda strage sul lavoro del Rana Plaza

Bangladesh, Dhaka, Rana Plaza è il 24 aprile del 2013 quando un edificio commerciale di otto piani – edificio figlio evidentemente di abusi speculativi locali – crolla pesantemente su stesso e si sbriciola rapidamente. Siamo a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio della tragedia è gravissimo e i soccorsi termineranno solo un mese dopo : era il 13 maggio 2013. 
Il bilancio è il seguente : mille vittime e oltre duemila feriti, alcuni dei quali rimarranno menomati a vita e quindi per sempre inabili al lavoro. 
E’ considerato – a ragione – il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile di cui il Bangladesh è famoso nel mondo tanto che, qui, fanno a gara, tutte (nessuna esclusa!) le multinazionali del settore arrivati qui, per seguire uno dei “mantra felici” del “capitalismo d’assalto” ossia, delocalizzare per abbattere i costi facendolo possibilmente in paesi dove, i sindacati sono deboli o inesistenti e, dove i lavoratori non devono troppo alzare la voce in tema di diritti : e il Bangladesh questi requisiti li ha tutti e, come si vede benissimo dall’ultimo anno sono anche i diretti responsabili della pentola che sta per scoppiare se non lo ha già fatto.
La drammatica tragedia del Rana Plaza ha avuto il merito di scoperchiare il tema della sicurezza (assolutamente inesistente) insieme a quello dei diritti e, sopratutto (e scandalosamente) dei risarcimenti che non arrivano.
Sono tutti coinvolti : marchi europei, americani e italiani. 
Al Rana Plaza avevano i loro laboratori piccole fabbrichette locali che lavoravano con e per conto di grandi marchio internazionali : erano loro a fare il lavoro sporco e gli altri si appropriavano dei guadagni. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione questa storia si sarebbe dimenticata in fretta.
Al lettore virtuale di queste pagine, non deve sembrare che io sia uscito fuori-tema perché, in realtà questa drammatica storia tragica è molto più legata (e quindi da mettere in relazione) alla strage accaduta due giorni fa. Se si riannodano i fili degli eventi allora si capisce perfettamente di quale porta sia l’ingiustizia che si abbatte sui i cittadini di questo paese asiatico e, da ultimo si possono anche comprendere meglio tutti gli assassini mirati che sono stati commessi contro blogger, attivisti, intellettuali e, da ultimo anche contro insegnanti laici. 
E’ attraverso questa drammatica violenza sociale il terreno fertile dal quale si può preparare il brodo di coltura che serve a Daesh e ai jihadisti di Al Qaeda, un terreno perfetto per sviluppare l’odio contro tutto e tutti.
(Fonte.:thedailystar;internazionale;ilmanifesto)
Bob Fabiani
Link
-www.thedailystar.net/city/those-who-cited-quran-verse-were-spared;
-www.internazionale.it/notizie;
-www.ilmanifesto.info 

Fonte:
http://bobfabiani.blogspot.it/2016/07/ricostruzione-ufficiale-e-contesto-in.html

SIRIA: AL-BUGHAYLIYA, NON CI SONO PROVE DI UN MASSACRO DA PARTE DELL’ISIS A DEIR EZZOR

ISIS controlla ancora Al-Bughayliya e non c’è nessuna prova che il gruppo abbia perpetrato un massacro contro i civili nella città


Data: 17/1/2016

Un certo numero di pagine di social media pro-regime hanno pubblicato ieri reports su  un massacro effettuato da ISIS contro i civili ad Al-Bughayliya nella campagna occidentale di Deir Ezzor. I reports hanno detto che almeno 250 civili erano rimaste vittime del massacro dopo che ISIS aveva sequestrato la città; tuttavia, il nostro corrispondente nella regione insieme ad altre fonti locali ha  negato qualsiasi reports di massacri contro i civili ad al Bughayliya.

Il numero di civili che sono caduti martiri in scontri in corso nella campagna occidentale di Deir Ezzor è di dodici, e per essere più precisi sono stati martirizzati da un attacco aereo mortale del regime sulla città di al Bughayliya ieri, ha aggiunto il corrispondente di DeirEzzor24 nella campagna occidentale di Deir Ezzor.

Quelli eseguiti da ISIS nella città di al Bughyaliya ieri erano solo le forze di  Assad insieme ai miliziani di Difesa Nazionale (NDF), dopo che il gruppo li aveva catturati nella città, e il loro numero non è superiore a 15 elementi. D’altra parte, molti civili sono fuggiti verso il villaggio di Ayash nella  Deir Ezzor rurale tra pesanti scontri nella città di al Bughayliya.

Secondo le ultime informazioni, ISIS controlla ancora la città di Al-Bughayliya, con il regime di detenzione Brigata 137 e il campo militare al Sai’qa, oltre ad al Furat Hotel.

Vale la pena di ricordare che ISIS ha portato  una serie di civili che vivono nella città di Al-Bughayliya in un altro posto che rimane sconosciuto per ora, però, a differenza di altri reports pubblicati da alcune agenzie di stampa, sono in numero di pochi.

 

 

Fonte:

http://en.deirezzor24.net/isis-still-controls-al-bughayliya-and-no-evidence-that-the-group-perpetrated-a-massacre-against-civilians-in-the-town/.

Cosa ha detto Erdogan dopo l’attentato di Istanbul?

Tra notizie false, attacco ai nemici di sempre (i curdi) ed una nuova crociata contro gli accademici che hanno chiesto la fine delle operazioni militare nel Sud-Est del paese. E nessuna parola sul ruolo dell’ISIS.

Ancora bombe in Turchia. Ancora orrore.

Ancora corpi dilaniati e sangue sulle strade.

Questa volta l’attenzione si sposta dal Sud-Est del paese (Kurdistan Turco) – da mesi sotto un’offensiva dell’esercito che pare non avere fine e che ha provocato ad oggi oltre 400 morti – a quello che può essere considerato come il cuore pulsante della Turchia.

Istanbul, città di mezzo tra Europa ed Asia visitata ogni giorno da decine di migliaia di turisti, questa mattina è stata scossa da una forte esplosione. Intorno alle 10:15 ora locale, un attacco suicida ha colpito la zona di Sultanahmet, due passi dalla Moschea Blu e dalla basilica di Santa Sofia. Come ormai da prassi, dopo neanche mezz’ora dall’esplosione e con ancora le vittime per terra, il governo turco ha immediatamente emesso un divieto a tutti i media di trattare della vicenda.

La zona è stata recintata, giornalisti, fotografi ed operatori video costretti ad allontanarsi dall’area. Mentre i media di mezzo mondo rilanciavano le agenzie di stampa e le prime dichiarazioni relativamente al numero delle vittime e dei feriti, nei talk show della televisione turca si faceva finta di niente, come sulla TV di Stato dove proprio in quei minuti si parlava di tutt’altro, ovvero della costruzione di un nuovo segmento stradale (!). “Un divieto che è arrivato più velocemente delle ambulanze sulla scena dell’attentato. Questo è un disastro” ha dichiarato il leader del partito CHP Kemal Kılıçdaroğlu. Dopo neanche due ore dallo scoppio della bomba, l’impasse è stata rotta proprio dal presidente Turco Recep Tayyip Erdoğan con una conferenza stampa in cui dopo le prime frasi di rito, e con ancora tanti dubbi su numero e nazionalità di vittime e feriti, dava la notizia che tutti aspettavano: l’attentatore di Istanbul è un 28enne di origine siriane.

Caso chiuso. Una velocità stupefacente.

Molto più veloce rispetto alle altri stragi che hanno investito il paese negli ultimi 6 mesi: le due bombe durante il comizio elettorale dell’HDP il 5 Giugno a Diyarbakir, l’esplosione all’Amara Center di Suruc che ha fatto 33 morti, il massacro alla marcia per la pace di Ankara il 10 Ottobre. Ma tant’è.

Quello che lascia davvero sconvolti è che dopo aver dato questa notizia, il presidente Erdogan sposti subito l’attenzione verso i nemici storici (i curdi), accanendosi poi contro contro quegli intellettuali ed accademici che hanno sottoscritto nei giorni scorsi un appello internazionale chiedendo l’immediata fine delle operazioni militari nel sud-est del paese.

“Prendete posizione – ha dichiarato Erdogan – Se non siete dalla parte del governo turco, siete dalla parte dei terroristi”. “Questi intellettuali chiamano persone provenienti da altri paesi a seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori”. Erdogan parla dei 1.128 accademici provenienti da decine di università in Turchia, oltre a studiosi provenienti da molti altri paesi, che hanno hanno firmato la dichiarazione. Immediatamente lo YÖK (Consiglio generale per l’educazione) ha dichiarato che “saranno prese le misure giuridiche adeguate contro chi supporta i terroristi”. Nel 1984, il leader della giunta militare Kenan Evren, instauratosi con il colpo di Stato del 1980, definì 383 intellettuali che chiedevano democrazia “traditori”. Dopo 32 anni, oggi Erdoğan ha fatto la stessa cosa.

Erdogan ha poi rincarato la dose affermando che “La Turchia rimane il primo obiettivo dei terroristi perché li combatte con grande determinazione. Non facciamo differenza tra le varie sigle [terroristiche]. Per noi Daesh, PKK e PYD sono la stessa cosa”. Così le organizzazioni della sinistra curda in Turchia e in Siria, dove combattono una lotta all’ultimo sangue contro lo Stato Islamico, sono messe sullo stesso piano proprio con i nemici con cui si scontrano sul terreno. Erdogan ha poi chiuso il suo discorso invitando gli altri Stati ad “intensificare la lotta contro tutti i tipi di terrorismo” suggerendo infine agli ambasciatori turchi di “prendere tutte le misure necessarie per impedire l’aumento della simpatia internazionale nei confronti dei terroristi curdi”.

Poi nelle prime ore del pomeriggio il colpo di scena. L’attentatore di Istanbul si chiama Nabil Fadli, 28 anni, e non è siriano, bensì cittadino dell’Arabia Saudita, militante dello Stato Islamico.

Perché allora Erdogan si è così affannato nel dichiarare che l’attentatore di Istanbul aveva origine siriane?

È evidente che dopo il nulla di fatto da parte della NATO rispetto alla creazione di una buffer-zone del nord della Siria, e dopo le vittorie dei curdi siriani (e dei loro alleati) al califfo di Ankara non vada proprio giù quanto sta accadendo oltre confine. Tanto più dopo che con la liberazione di Tishreen Dam YPG/YPJ ed alleati hanno “infranto” il divieto turco di oltrepassare l’Eufrate, iniziando di fatto l’operazione di liberazione dell’ultimo “pezzo” di confine turco-siriano ancora sotto il controllo di ISIS, lì dove passano ancora mezzi, rifornimenti, armi e uomini che vanno a rinforzare le milizie del califfato, e soprattutto lì dove passano quotidianamente centinaia di autobotti con il petrolio di Daesh.

È ancora presto per designare nuovi scenari, ma certamente se ne aprono di diversi dopo la giornata di oggi. Gli attentati fin’ora attributi ad ISIS hanno colpito esclusivamente i curdi e le organizzazioni politiche della sinistra turca loro alleate. Il fatto che un militante di ISIS scelga come proprio obiettivo Istanbul rivolgendo la propria attenzione “ai turisti”, apre certamente un nuovo capitolo nella storia di “amore” e “odio” tra il governo turco e Daesh.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-ha-detto-erdogan-dopo-lattentato-di-istanbul

Parigi, il terrore e i puntini che il mondo non vuole unire

Nella notte di venerdì 13 novembre Parigi è stata nuovamente colpita da tremendi attacchi terroristici rivendicati dall’Isis.

Qui la notizia su Internazionale:

Parigi, il 14 novembre 2015. (Xavier Laine, Getty Images)
  • 14 Nov 2015 20.36

Il punto sugli attentati di Parigi

Almeno 129persone sono morte venerdì 13 novembre a Parigi in una serie di attentati nel centro della città e vicino allo stade de France. I feriti sono 352, di cui 99 in condizioni molto gravi. Gli attacchi, secondo il procuratore di Parigi, sono stati compiuti da tre squadre di attentatori che hanno agito in maniera coordinata, tutti erano dotati di armi da guerra dello stesso tipo e di cinture esplosive. Sette attentatori sono morti negli attacchi.

Ecco la cronologia degli attentati:

  • 21.15 Un gruppo di uomini armati attacca due ristoranti: Le Carillon, in rue Alibert, e Le Petit Cambodge, in rue Bichat. Gli uomini, a bordo di un’automobile, aprono il fuoco contro i passanti e le persone sedute ai tavoli.
  • 21.23 Tre esplosioni vengono avvertite nel giro di pochi minuti vicino allo stade de France, dove è in corso la partita tra Francia e Germania. Le esplosioni causano quattro morti, tra cui i due attentatori che si sono fatti esplodere. I terroristi, secondo il procuratore di Parigi, hanno usato come esplosivo del perossido di acetone( Tatp).
  • 21.30 Quattro uomini armati entrano nella sala da concerto Bataclan, dove si tiene lo spettacolo del gruppo statunitense Eagles of Death Metal, e aprono il fuoco contro la folla. Muoiono almeno 89 persone. Diversi spettatori vengono presi in ostaggio.
  • 21.45 Gli assalitori del Bataclan, o altri assalitori, aprono il fuoco nei pressi del McDonald’s in rue Fabourg-du-Temple e in rue de la Fontaine-au-Roi, nei pressi della pizzeria Casa nostra, causando cinque morti e otto feriti gravi.
  • 21.55 All’incrocio tra rue Faidherbe e rue de Charonne un uomo spara contro la terrazza del caffè La Belle Equipe. Muoiono 19 persone e 14 restano gravemente ferite.
  • 21.55 Un kamikaze si fa esplodere di fronte al McDonald’s di Plaine Saint-Denis.
  • 00.25 Le forze speciali francesi fanno irruzione al Bataclan. Un terrorista viene ucciso, altri tre si fanno saltare in aria l’esplosivo che indossavano sulle cinture.

Dopo gli attentati il presidente francese François Hollande ha dichiarato lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale e ha annunciato il ripristino dei controlli alle frontiere. Sono state sospese le manifestazioni sportive. Chiusi i musei e il parco di divertimenti Disneyland.

Sabato 14 novembre il gruppo Stato islamicoha rivendicato gli attacchi , con un comunicato pubblicato online che definiva Parigi “capitale dell’abominio e della perversione”. In una conferenza stampa, anche Hollande aveva attribuito allo Stato islamico la responsabilità degli attentati, definendoli “un atto di guerra”.

Il 14 novembre la polizia belga ha organizzato un blitz nel quartiere di Molenbeek, a Bruxelles. Sono state arrestate almeno cinque persone.Il procuratore di Parigi ha confermato che gli arresti sono legati agli attentati della capitale francese. La procura belga ha aperto un’inchiesta per terrorismo.

Un passaporto siriano e uno egiziano sono stati trovati vicino ai corpi dei due attentatori allo stade de France, ma le autorità non hanno ancora confermato l’identità dei due aggressori. Uno dei veicoli usati dai terroristi era stato immatricolato in Belgio e apparteneva a un cittadino francese residente in Belgio.

Uno dei terroristi dell’attacco al Bataclan, ha scritto Libération, era un francese di circa trent’anni originario di Courcouronnes, nell’Essonne. Era già noto alle forze dell’ordine per i suoi legami con il jihadismo. L’altro era siriano.

Le autorità tedesche sono convinte che un uomo arrestato in Bavaria all’inizio del mese, mentre era a bordo di un’automobile carica di esplosivi, sia legato agli attacchi di Parigi.

Il premier britannico David Cameron ha dichiarato che tra le vittime potrebbero esserci cittadini del Regno Unito. Tra i morti finora accertati ci sono anche cittadini romeni, tunisini, belgi, svedesi e una statunitense. Secondo la Cnn ci sarebbe anche una cittadina statunitense tra le vittime.

Due italiani sono rimasti lievemente feriti. Una ragazza veneta di 28 anni risulta ancora dispersa.

 

Fonte: http://www.internazionale.it/notizie/2015/11/14/il-punto-sugli-attentati-di-parigi

 

Qui l’aggiornamento dell’Ansa con la notizia della morte della studentessa italiana dispersa:

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2015/11/13/tre-sparatorie-a-parigi-vittime_1a91057f-5905-49e3-8d4a-592668bf11cc.html

 

Non si è fatta aspettare l’ondata vergognosa di islamofobia da parte di alcuni quotidiani.

Prima Pagina Il Giornale

Prima Pagina Libero

Tutti al gridare al terrorismo islamico ( anche in modo offensivo: il caso più eclatante è, come abbiamo visto, quello della prima pagina di ieri del quotidiano di Belpietro, anche se gli altri non scherzano) forse perchè è più comodo pensare che sia tutto solo fanatismo religioso. Nessuno che allargi lo sguardo sul mondo per cercare di capire cosa sta succedendo. Io sono convinta che per capire veramente cosa è accaduto a Parigi bisogna comprendere  quello che sta accadendo in Medioriente. E’ un caso che questi attentati siano stati compiuti nella Francia che ha aperto un’inchiesta per  crimini di guerra contro Assad ( fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/francia-inchiesta-contro-assad_2135957-201502a.shtml )? E’ un caso che, nei giorni predenti, Putin abbia iniziato a bombardare la Siria, col pretesto della lotta all’Isis, uccidendo civili e colpendo anche un villaggio con bombe al fosforo bianco (qui il video dell’attacco russo col fosforo bianco: https://www.facebook.com/albertosavioli1972/posts/10207747605229222?pnref=story )? E’ un caso che questa strage sia avvenuta mentre in Palestina si parla di terza intifada e i soldati israeliani uccidono i palestinesi fingendo di esserne aggrediti (leggere, a esempio, le notizie del sito Infopal ) e mentre l’esercito turco bombarda il popolo curdo (leggi qui: http://www.retekurdistan.it/2015/11/assemblea-politica-basta-alle-politiche-di-oppressione-e-di-terrore-sul-popolo-curdo/ )? E’ un caso anche che gli ultimi attentati di Parigi siano accaduti all’indomani del più grave attentato da parte dell’Isis in Libano e esattamente un anno dopo la conquista da parte sempre dell’Isis di Ramadi e Mosul in Iraq? ( fonte: http://arabpress.eu/libano-in-lutto-per-le-vittime-del-duplice-attentato-suicida-a-beirut/70470/ ).
A fare le spese di tutto ciò sono sempre i popoli tutti e le persone di fede musulmana ancora una volta strumentalizzate. Eppure basterebbe unire i puntini per farsi almeno venire il dubbio che il sedicente Stato Islamico sia solo un pretesto – creato dai potenti del mondo e camuffato da organizzazione terroristica di matrice islamista (molti di questi terroristi si scopre ogni volta essere in realtà di origine occidentale) –  per distogliere la già scarsa attenzione dall’occupazione israeliana in Palestina, dalla dittatura di Assad in Siria, da quella di Putin in Russia, da quella di Erdogan in Turchia e contro i curdi e da tutto ciò che succede nel resto del Medioriente. E anche nel resto del mondo come accade con tutte le paure indotte dai potenti.

D. Q.