Brasile, mano dura contro le occupazioni

Rio de Janeiro. Allarme Isis e repressione dei movimenti

Manifestazione a Rio

Mano dura contro le occupazioni. In Brasile, il governo ad interim di Michel Temer usa l’«allarme terrorismo» per reprimere i movimenti sociali. Almeno 50 agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato con violenza i manifestanti, accampati in un edificio del Ministero della Cultura a Rio de Janeiro dal 16 maggio. Nelle cariche è stato colpito anche l’ex senatore del Partito dei lavoratori Eduardo Suplicy.

Il 12 maggio, il Senato ha votato l’impeachment contro Dilma Rousseff, con 55 voti favorevoli e 22 contrari. La presidente è stata sospesa dall’incarico per 180 giorni e, da allora, i movimenti sociali l’accompagnano al grido di «Fora Temer». Secondo il presidente del Senato, Renan Calheiros, il voto finale dopo il processo dovrebbe tenersi «nella settimana del 20», probabilmente dopo la chiusura dei Giochi olimpici (che si svolgono dal 5 al 21).

Temer – che ha nominato un gabinetto di soli uomini bianchi, anziani e ricchi – sta passando la scure sui diritti: ha abolito ministeri sociali, ha licenziato, ha tagliato i programmi rivolti ai settori popolari. Un’ondata di proteste, scoppiata in oltre 18 città del paese, lo ha però obbligato a ripristinare il Ministero della Cultura. Intanto, sono apparsi chiari i contorni e gli intenti del golpe istituzionale: proteggere i suoi principali artefici dall’inchiesta per tangenti Lava Jato, la «mani pulite» brasiliana che Rousseff voleva agevolare. Gran parte dei parlamentari e dei senatori che hanno votato l’impeachment sono coinvolti nel grande scandalo per corruzione dell’impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Per questo, diversi ministri di Temer hanno dovuto dimettersi.

Per contro, il Pubblico ministero federale ha ritenuto infondata la denuncia penale sporta nei confronti della presidente, e ha archiviato il fascicolo relativo alla cosiddetta «pedalata fiscale», un’operazioni di credito mascherata. Cade quindi il «crimine di responsabilità» che ha mosso l’impeachment: la presidente non ha truccato i conti dello Stato. Il 20 luglio, anche la sentenza del Tribunale internazionale sulla democrazia in Brasile, composto da giuristi, intellettuali, premi Nobel e anche dal Tribunale dei popoli, ha stabilito che l’impeachment costituisce un colpo di stato e deve essere considerato nullo.

Il Tribunale è stato convocato a Rio de Janeiro dalle organizzazioni Via Campesina, Fronte Brasile Popolare e Fronte di giuristi per la Democrazia. La sentenza verrà inviata al Supremo Tribunal Federal per chiedergli di «impedire la rottura dell’ordine democratico» e annullare il procedimento contro la presidente. E, negli Stati uniti, anche un gruppo di 40 deputati del Partito democratico si è diretto a John Kerry per esprimere «profonda preoccupazione per la minaccia alle istituzioni democratiche» che rappresenta l’impeachment, e ha chiesto al segretario di Stato Usa di non appoggiare il governo Temer.

Il leader del movimento brasiliano dei Sem Terra, Joao Pedro Stedile, ha dal canto suo annunciato che intensificherà le occupazioni, qualora Temer voglia vendere le terre alle multinazionali, come ha scritto la stampa in questi giorni. Stedile ha denunciato il pacchetto di riforme neoliberiste deciso da Temer e ha dichiarato che il Fronte Brasile Popolare, di cui fanno parte diversi movimenti sociali come l’Mst sta valutando la possibilità di uno sciopero generale prima della votazione finale sull’impeachment.

E mentre si moltiplicano gli allarmi sulla possibilità di cellule dell’Isis provenienti dalla città di Corrientes, in Argentina, Dilma Rousseff ha detto in un’intervista alla Jornada che l’attuale crisi del Brasile è «la peggiore dalla fine della dittatura militare», e che sui Giochi olimpici «spira un’aria contaminata».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/brasile-mano-dura-contro-le-occupazioni/

Ottava giornata di scioperi in Francia

Dal blog di Bob Fabiani:

May

26

Ottava giornata di scioperi in Francia.

Oggi, 26 maggio, i lavoratori delle 19 centrali nucleari del paese hanno deciso di aderire allo sciopero per un giorno. La mobilitazione contro la #LoiTravail ha già coinvolto altri settori, tra cui l’aviazione civile, le ferrovie e i porti. Sei delle otto raffinerie sono chiuse e le autorità francesi sono state costrette a imporre il razionamento dei carburanti e ad attingere alle riserve strategiche. Il premier Manuel Valls – più arrogante che mai – ha ribadito ieri, 25 maggio, che il suo governo non è disposto a negoziare sulla riforma (sbagliata secondo i francesi).
(Fonte.:bbc)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/world-europe/french-labour-dispute-nuclear-power-plant-workers-to-joint-strike

Fonte:

Rivoluzione egiziana: economia politica di un altro anniversario di sangue. 25 i manifestanti uccisi

26 / 1 / 2015

 

Il quarto anniversario della rivoluzione egiziana ha confermato la situazione di brutale e sfrenata repressione del dissenso da parte del regime controrivoluzionario del generale Sisi. Secondo le stime disponibili, sono oltre 15.000 i prigionieri politici e più di 2.000 i manifestanti uccisi da quando i militari hanno deposto il presidente islamista Morsi nel luglio 2013. Inizialmente la repressione si era concentrata sulle forze islamiste, ma si è molto presto abbattuta anche sulla gioventù rivoluzionaria, con campagne di arresti e molteplici uccisioni.

La polizia aveva segnalato che non avrebbe tollerato alcuna manifestazione di dissenso già nei due giorni precedenti l’anniversario, assassinando due giovani donne ad Alessandria e al Cairo. La prima vittima è stata Sondos Reda Abu Bakr, ragazza di diciassette anni che stava partecipando a una manifestazione dei Fratelli Musulmani ad Alessandria il 23 gennaio. Secondo i testimoni, gli agenti hanno colpito la studentessa al petto con pallottole sparate da distanza ravvicinata. La seconda vittima è stata Shaima Al-Sabbagh, militante dell’Alleanza Popolare Socialista, freddata da una pallottola alla testa mentre si accingeva a deporre dei fiori in memoria dei martiri della rivoluzione a Piazza Tahrir, nel corso di una manifestazione pacifica e di dimensioni assai esigue.

Nonostante il sistematico terrorismo di stato, manifestazioni di dissenso hanno avuto luogo nelle più svariate località del paese nel giorno dell’anniversario. La commemorazione ufficiale e di regime era stata rinviata a causa del lutto per la (a noi assai gradita) morte del re saudita Abdullah e piazza Tahrir era stata chiusa al pubblico. Il bilancio della giornata è stato di 25 morti confermati dal Ministero della Salute, almeno un centinaio di feriti e più di cinquecento arresti. La maggior parte delle uccisioni sono avvenute durante proteste ad Alessandria e nei quartieri popolari del Cairo, sembrerebbe di matrice islamista. Tre jihadisti sono morti a Beheira mentre tentavano di piazzare una bomba. I gruppi rivoluzionari di sinistra e liberali hanno organizzato proteste nel centro del Cairo, anch’esse represse brutalmente.

Se lo stato egiziano può permettersi simili livelli di repressione, che per il momento stanno avendo tra i loro effetti quello di radicalizzare l’opinione pubblica della destra islamista ingrossando le file degli jihadisti, non è certo un caso. Il regime di Sisi è stato fin dagli inizi finanziato generosamente dagli stati più reazionari della regione mediorientiale: l’Arabia Saudita in testa (da sempre nemica dei Fratelli Musulmani quanto della democrazia), seguita da Emirati e Kuwait. Alle decine di miliardi fornite dalle monarchie del Golfo si aggiungono ovviamente gli “aiuti” militari degli Stati Uniti, che sono ripresi dopo un periodo di esitazione, non appena le violazioni su larga scala dei diritti civili hanno smesso di arrivare in prima pagina. Le condizionalità di questi finanziamenti si sono rivelate nella ripresa della neoliberalizzazione interna e nella “moderazione” della posizione egiziana sull’apartheid palestinese in politica estera.

Recentemente il flusso di aiuti dalle monarchie del Golfo si è ridotto, cosa che potrebbe costringere Sisi ad accelerare le politiche di austerità e privatizzazione. Alcuni osservatori ipotizzano che ciò sia dovuto al crollo dei pezzi del petrolio, ma a dire il vero questo non è un problema reale, data l’abbondanza di riserve di dollari detenute dall’Arabia Saudita. L’avarizia dei signori del petrolio potrebbe piuttosto evidenziare una volontà di tenere l’Egitto, ormai paese satellite, legato a un guinzaglio assai corto. Tuttavia, come ha evidenziato Juan Cole, i tentativi da parte delle economie emergenti di diminuire la propria dipendenza dai combustibili fossili potrebbe comportare un abbassamento strutturale dei prezzi nell’oro nero in un futuro non troppo remoto. Per quanto la complessità della politica mediorientale non sia affatto riducibile alle rendite petrolifere, è probabile che una crisi delle economie rentier causerà potenti traumi negli attuali rapporti di forza. In tal caso tornerà il tempo della resa dei conti, e non solo in Egitto.

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/rivoluzione-egiziana-economia-politica-di-un-altro-anniversario-di-sangue/18597

 

“Mare nero”: la corsa al petrolio continua. Con l’aiuto dello Sblocca Italia

petrolio impiantodi Pasquale Cotroneo – Northen Petroleum Ltd, Shell Eni Norten Enel Longanesi Developments, Nautical petroleum, Global Med. Cosa sono? Solo alcune delle compagnie che nello Ionio Calabrese, soprattutto nel crotonese, si affiancano ad Eni alla ricerca di petrolio, greggio e metano.

Una ricerca affannosa (ma non troppo) che oltre un anno fa trattavamo da queste colonne, e che oggi sembra essere spinta da nuovo vigore.

E ad aiutarle (anche) stavolta ci ha ben pensato il Governo nazionale.

Con l’articolo 37 del Decreto “Sblocca Italia”, voluto dal Governo Renzi, si dispone infatti che gasdotti, rigassificatori e stoccaggi rivestono “carattere di interesse strategico e costituiscono una priorità a carattere nazionale e sono di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti e di conseguenza avranno diritto a una serie di semplificazioni”. Mentre il 38 spiana letteralmente la strada all’estrazione degli idrocarburi, facendo ritorno alla competenza esclusiva dello Stato delle materie “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia”, e togliendo agli enti locali la possibilità di veto su ricerca di petrolio e trivellazione.

Il Premier e l’esecutivo hanno giustificato la misura in quanto questa permetterebbe di aumentare la nostra capacità estrattiva, la nostra indipendenza energetica e garantirebbe lo sblocco di investimenti utili alla nostra economia.

Ma chi ci guadagna realmente?

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca!”

Così che la mossa del Governo Renzi, affiancata al Decreto Sviluppo che nel giugno 2012 (Governo Monti), come affermavamo tempo fa, aveva fatto ripartire tutti i procedimenti per la prospezione, ricerca ed estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel 2010 dopo l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, appare solo come l’ultimo ed ennesimo regalo alle lobbies che in Italia hanno interessi sulle estrazioni di metano e petrolio.

Tutto o quasi nel disinteresse generale, con il Movimento “No Triv”, gli ambientalisti e le associazioni sparse sul territorio (per ultima la notta di ieri dell’Associazione Isola Ambiente Apnea di Crotone) a battersi quasi sempre da soli.

Un “no” il loro ben giustificato dall’imbruttimento e annientamento che la petrolizzazione provocherebbe sul paesaggio; dall’installazione di strutture invasive (per pesca e pescatori) e dalla produzione di nuovi rifiuti pericolosi per il loro impatto sull’ambiente; dalla scarsa quantità e qualità di riserve di metano e petrolio; inquinamento dell’acqua e dell’aria con problemi per l’intero ecosistema.

Non meno importante la questione della sismicità di quel territorio, il nostro che non “gioverebbe certamente della presenza di nuovi pozzi di estrazione metanifera”.

Ad essere rinnovabili, pertanto, prima delle energie da utilizzare, dovrebbero essere le idee (e gli interessi) di chi Governa.

 

10 Novembre 1995: muore il poeta Ken Saro Wiwa

Lunedì 10 Novembre 2014 08:42

altKenule ”Ken” Beeson Saro Wiwa, scrittore, poeta e attivista nigeriano, nacque il 10 ottobre 1941 a Bori, una cittadina nel delta del fiume Niger.

Membro dell’etnia degli Ogoni, fin dagli anni ottanta Saro Wiwa ne diventò il portavoce, conducendo una feroce e determinata campagna contro le multinazionali (Shell in primo luogo) responsabili di continue perdite di petrolio e conseguenti danni alle colture e all’ecosistema della zona.

Wiwa fu inoltre molto critico nei confronti del governo nigeriano che vedeva riluttante ad avvalorare delle regolamentazioni ambientali per le compagnie petrolifere operanti nell’aerea del delta del fiume.

Presidente del movimento per la sopravvivenza della popolazione Ogoni (MOSOP), Saro Wiwa continuò la sua battaglia per i diritti culturali, ambientali e per dare maggiore autonomia all’etnia della sua famiglia e dei suoi concittadini: nel gennaio 1993, a seguito della sua scarcerazione ottenuta dopo l’arresto e la detenzione avvenuti senza che si fosse svolto alcun processo, il MOSOP organizzò infatti una grandissima manifestazione a cui parteciparono 300.000 Ogoni – più di metà degli abitanti di Ogoniland – attirando l’attenzione di tutto il mondo sull’impegno di questa popolazione.

Lo stesso anno il governo occupò e militarizzò l’intera regione.

Il 21 maggio 1994, quattro oppositori del MOSOP furono brutalmente assassinati; a Saro Wiwa fu negato l’accesso alla città di Ogoniland e venne arrestato e accusato di incitamento alla violenza: egli smentì le accuse che lo vedevano complice dell’omicidio, ma ciò nonostante venne imprigionato per più di un anno prima di essere dichiarato colpevole e condannato a morte da un tribunale speciale.

Il 10 novembre 1995, Ken Saro Wiwa venne impiccato insieme ad altri 8 attivisti del MOSOP.

Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Centre for Constitutional Rights di New York avviò una causa contro la Shell per dimostrare il coinvolgimento della multinazionale petrolifera nell’esecuzione di Saro-Wiwa.

Il processo ebbe poi inizio nel maggio 2009 e la Shell subito patteggiò accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari. La Shell però precisò che aveva accettato di pagare il risarcimento non perché colpevole del fatto ma per aiutare il “processo di riconciliazione”.

 

Non è il tetto che perde

Non sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.

Non è il rumore metallico della chiave

Mentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioni

Insufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giorno

Che sprofonda nel vuoto della notte

Non è

Non è

Non è.

Sono le bugie che ti hanno martellato

Le orecchie per un’intera generazione

È il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida

Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.

Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiusta

La decrepitezza morale

L’inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazione

La vigliaccheria travestita da obbedienza

In agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditi

Non osiamo eliminare la nostra urina

È questo

È questo

È questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero

In una cupa prigione.

 

La vera prigione” – Ken Saro Wiwa

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3153-10-novembre-1995-muore-il-poeta-ken-saro-wiwa

#Not_in_our_name: le guerre e il terrorismo stanno uccidendo il dialogo


Prendo il seguente appello di Asmae Dachan dal suo blog http://diariodisiria.wordpress.com:

Di Asmae Dachan:


1397298_611763265539907_779226832_oDi fronte al clima di odio, terrore, paura che stiamo vivendo in questi giorni diventa imperativo fermarsi e ristabilire alcuni concetti fondamentali, per evitare di farsi trascinare dal vortice del caos mediatico e politico.

Le notizie che giungono dalla Siria e dall’Iraq, sulle persecuzioni delle minoranze cristiane e yazidi, da parte di Isis stanno scuotendo l’opinione pubblica mondiale. Non è accettabile, né moralmente, né civilmente, né religiosamente, che una persona o un gruppo di persone vengano minacciate e subiscano violenza per la loro appartenenza etnica e/o religiosa e ogni atto che sia contrario al principio universale dell’uguaglianza tra esseri umani è da condannare senza riserva alcuna.

Il rispetto della sacralità della vita umana è alla base di ogni società civile e deve essere il presupposto su cui fondare ogni ragionamento e ogni azione.

Oggi il dialogo, la fratellanza, la solidarietà, l’umana vicinanza vengono fortemente minacciati. Si rischia di veder bruciati, insieme a case, luoghi di culto, monumenti e libri, anche secoli di convivenza, rispetto e confronto. La Siria e l’Iraq sono infatti la culla delle religioni monoteiste e della civiltà e sono da sempre un esempio di tolleranza, fratellanza e apertura all’altro, con tutte le difficoltà che si sono presentate nel tempo. Ed è proprio da questo punto che bisogna partire: i drammatici accadimenti di questi giorni non devono farci dimenticare che la convivenza serena e fraterna tra cristiani e musulmani in questi due paesi dura da secoli, da quando, cioè, sono nate e si sono sviluppate queste due grandi civiltà. È un errore storico attribuire il merito della pacifica e costruttiva convivenza ai regimi che governano questi due paesi. Tutt’altro: le loro politiche hanno comportato l’inasprimento dei rapporti tra le diverse comunità che compongono le rispettive società civili, creando un clima di tensione che è l’avamposto del settarismo.

La situazione in Iraq e Siria negli ultimi anni è diventata quantomeno drammatica: la guerra scatenata contro l’Iraq nel 2003 e di fatto mai finita (quella che è stata venduta al mondo come guerra per esportare la democrazia) e la repressione del regime di Damasco contro quello che dovrebbe essere il suo stesso popolo, iniziata nel 2011 dopo quarant’anni di dominio della dinastia degli Assad , hanno provocato centinaia di migliaia di morti. Son due situazioni diverse, ma le conseguenze sulla popolazione e sugli equilibri sociali sono tristemente simili. Di fatto la guerra, i bombardamenti, gli stupri, i sequestri, la tortura, le violenze sono l’humus in cui nascono e crescono i germogli malefici del terrorismo. Sono in molti ad approfittare della situazione di generale caos per condurre guerre parallele e fare i propri interessi e gli interessi dei loro mandanti. Il caso di Daesh/Isis, il famigerato Stato islamico di Siria e Levante, ne è una prova. Orde di barbari mercenari si sono infiltrati nei due paesi, armati e formati da potenze straniere e di fatto sostenuti e lasciati liberi dai governi dei due paesi e approfittando della situazione di totale anarchia, sono diventati una potenza. Da più di un anno i siriani gridano che Isis non è contro Assad, ma contrasta, stupra e uccide i suoi oppositori e soprattutto bestemmia e calunnia l’islam dicendo che opera in nome della fede. Nessuno ha dato ascolto ai siriani, anzi, parte della politica e della stampa ha continuato a etichettare Isis come ribelli anti-Assad, cosa del tutto falsa perché In Siria Isis si muove e opera solo dove le truppe governative si sono ritirate e apre il fuoco, perseguita e massacra i civili e gli oppositori al regime.

Oggi Isis è una potenza militare che spaventa e di fronte all’escalation della sua violenza, che ha portato in Iraq all’avvicinamento a zone dove sorgono giacimenti petroliferi, sembra che il mondo si stia svegliando. Nessuno ha mosso un dito per i civili siriani (+ dell’80 per cento musulmani), uccisi da questi barbari, arrivando persino a negare il massacro, ma oggi che si grida alla persecuzione delle minoranze, in Siria come in Iraq, scatta l’allarme. Passerebbe quindi il messaggio che se a morire è la maggioranza musulmana poco importa, ma guai a toccare gli altri. Così facendo si fa solo il gioco di Isis che vuole creare tensione e fomentare l’odio settario. In questo quadro i regimi cantano vittoria, spacciandosi come tutori delle minoranze e la già inaccettabile morte di innocenti viene persino strumentalizzata.

È necessario, quindi, fermarsi e fare chiarezza:

1- In Siria la principale causa di morte sono i bombardamenti aerei operati dal regime siriano, che colpiscono in maniera scellerata e indiscriminata tutta la popolazione, distruggendo e uccidendo a prescindere dalla fede e dall’etnia; ad oggi si contano oltre 200 mila vittime in 41 mesi, di cui oltre 18 mila sono bambini sotto i 16 anni. In Siria muoiono musulmani, cristiani, laici, atei, curdi e armeni da oltre 3 anni. E’ un genocidio che colpisce l’intera popolazione.

2- In Iraq persino l’Onu ha smesso di contare i morti, ma ormai più fonti affermano che sarebbero circa un milione; i cristiani sono tra il 5 e l’8% della popolazione, hanno subito e subiscono le sofferenze e le atrocità che subiscono tutte le altre componenti sociali. Con l’avanzata di Isis la loro situazione è persino peggiorata e sono iniziate le minacce, le persecuzioni casa per casa con tanto di marchiatura in stile nazista. Alle persecuzioni contro gli yazidi si sta dando una valenza religiosa, ma in realtà Isis è interessata ad occupare le loro terre per mettere mani sui giacimenti petroliferi.

3- Isis non rappresenta il sentimento, i valori, i principi dell’islam, tutt’altro: Isis va definito per quello che è, ovvero un gruppo (anche se si definisce Stato) di terroristi mercenari il cui operato è contrario alla fede islamica. Isis sta uccidendo i musulmani in Siria e in Iraq e sta uccidendo con loro le altre componenti etniche e religiose. Isis strumentalizza, mortifica e bestemmia il nome di Dio. L’unica divinità a cui risponde Isis è il denaro. Isis non rappresenta i siriani, non rappresenta gli iracheni, non rappresenta l’islam.

4-Isis è formata da mercenari stranieri che non hanno nulla a che spartire con la causa del popolo siriano che si è opposto a quasi mezzo secolo di tirannia, né con la causa del popolo iracheno che ormai lotta per la sua sopravvivenza dopo anni di genocidio. Isis è una creatura dei servizi segreti internazionali che trova sostegno in diverse monarchie e stati stati finalizzata a “creare scompiglio”, a condurre guerre per procura. Per approfondire di leggano questi articoli: http://www.sirialibano.com/tag/isis, http://www.pagina99.it/news/mondo/6681/Che-succede-in-Iraq.html, http://popoffquotidiano.it/2014/08/11/hillary-clinton-lisil-e-roba-nostra-ma-ci-e-sfuggito-di-mano/, http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=107832&typeb=0.

5 – La strategia della falsa informazione sta mietendo tante vittime: foto spacciate per quello che non sono (seguirà un mio articolo sulla bufala della decapitazione dei bambini cristiani) stanno provocando reazioni anche dall’alto, tra i potenti del mondo. Basterebbe un minimo di attenzione e professionalità per verificare l’origine e la matrice di una foto e di una notizia, ma quella mediatica è una guerra che i regimi e i terroristi combattono senza esclusione di colpi e la stampa disattenta e persino complice ne diventa un amplificatore.

Per chi ha fede, per chi crede, per chiunque abbia una coscienza e un minimo di onestà intellettuale sembra persino scontato dover ribadire che non esiste una guerra in nome di Dio, che nulla e nessuno può giustificare la persecuzione, la minaccia, l’offesa e l’uccisione di un innocente. Non cadiamo nel tranello dell’odio settario, non smettiamo di dialogare, non lasciamo che i seminatori di conflitto prevalgano sui costruttori di ponti. Ci vuole tanta determinazione e tanto coraggio, soprattutto ora, ma è proprio di fronte a queste difficoltà che il mondo dei credenti delle diverse religioni e la società civile tutta, laica, atea, debbono stringersi le mani e far sentire che la vera forza è il dialogo e l’impegno per la pace. Non si tratta di buonismo, anzi: è molto più impegnativo ribadire le ragioni del dialogo e tendere verso l’altro che ergere muri e chiudersi nell’inferno dell’odio.

Volendo immaginare un manifesto dei siriani, degli iracheni, dei musulmani che in questo momento vengono associati erroneamente e ingiustamente al terrorismo bisogna ripetere all’infinito: “no, non in nostro nome”. I cristiani sono nostri fratelli, gli esseri umani di ogni religione ed etnia sono nostri fratelli.

Come autrice di questo blog, come siriana, come musulmana lo ripeto anche io e propongo la campagna: “Not_in_our_name”, per dire no alle persecuzioni, alle false notizie, ai seminatori di odio.

 

 

Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/08/12/not_in_our_name-le-guerre-e-il-terrorismo-stanno-uccidendo-il-dialogo/