Cosa ha detto Erdogan dopo l’attentato di Istanbul?

Tra notizie false, attacco ai nemici di sempre (i curdi) ed una nuova crociata contro gli accademici che hanno chiesto la fine delle operazioni militare nel Sud-Est del paese. E nessuna parola sul ruolo dell’ISIS.

Ancora bombe in Turchia. Ancora orrore.

Ancora corpi dilaniati e sangue sulle strade.

Questa volta l’attenzione si sposta dal Sud-Est del paese (Kurdistan Turco) – da mesi sotto un’offensiva dell’esercito che pare non avere fine e che ha provocato ad oggi oltre 400 morti – a quello che può essere considerato come il cuore pulsante della Turchia.

Istanbul, città di mezzo tra Europa ed Asia visitata ogni giorno da decine di migliaia di turisti, questa mattina è stata scossa da una forte esplosione. Intorno alle 10:15 ora locale, un attacco suicida ha colpito la zona di Sultanahmet, due passi dalla Moschea Blu e dalla basilica di Santa Sofia. Come ormai da prassi, dopo neanche mezz’ora dall’esplosione e con ancora le vittime per terra, il governo turco ha immediatamente emesso un divieto a tutti i media di trattare della vicenda.

La zona è stata recintata, giornalisti, fotografi ed operatori video costretti ad allontanarsi dall’area. Mentre i media di mezzo mondo rilanciavano le agenzie di stampa e le prime dichiarazioni relativamente al numero delle vittime e dei feriti, nei talk show della televisione turca si faceva finta di niente, come sulla TV di Stato dove proprio in quei minuti si parlava di tutt’altro, ovvero della costruzione di un nuovo segmento stradale (!). “Un divieto che è arrivato più velocemente delle ambulanze sulla scena dell’attentato. Questo è un disastro” ha dichiarato il leader del partito CHP Kemal Kılıçdaroğlu. Dopo neanche due ore dallo scoppio della bomba, l’impasse è stata rotta proprio dal presidente Turco Recep Tayyip Erdoğan con una conferenza stampa in cui dopo le prime frasi di rito, e con ancora tanti dubbi su numero e nazionalità di vittime e feriti, dava la notizia che tutti aspettavano: l’attentatore di Istanbul è un 28enne di origine siriane.

Caso chiuso. Una velocità stupefacente.

Molto più veloce rispetto alle altri stragi che hanno investito il paese negli ultimi 6 mesi: le due bombe durante il comizio elettorale dell’HDP il 5 Giugno a Diyarbakir, l’esplosione all’Amara Center di Suruc che ha fatto 33 morti, il massacro alla marcia per la pace di Ankara il 10 Ottobre. Ma tant’è.

Quello che lascia davvero sconvolti è che dopo aver dato questa notizia, il presidente Erdogan sposti subito l’attenzione verso i nemici storici (i curdi), accanendosi poi contro contro quegli intellettuali ed accademici che hanno sottoscritto nei giorni scorsi un appello internazionale chiedendo l’immediata fine delle operazioni militari nel sud-est del paese.

“Prendete posizione – ha dichiarato Erdogan – Se non siete dalla parte del governo turco, siete dalla parte dei terroristi”. “Questi intellettuali chiamano persone provenienti da altri paesi a seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori”. Erdogan parla dei 1.128 accademici provenienti da decine di università in Turchia, oltre a studiosi provenienti da molti altri paesi, che hanno hanno firmato la dichiarazione. Immediatamente lo YÖK (Consiglio generale per l’educazione) ha dichiarato che “saranno prese le misure giuridiche adeguate contro chi supporta i terroristi”. Nel 1984, il leader della giunta militare Kenan Evren, instauratosi con il colpo di Stato del 1980, definì 383 intellettuali che chiedevano democrazia “traditori”. Dopo 32 anni, oggi Erdoğan ha fatto la stessa cosa.

Erdogan ha poi rincarato la dose affermando che “La Turchia rimane il primo obiettivo dei terroristi perché li combatte con grande determinazione. Non facciamo differenza tra le varie sigle [terroristiche]. Per noi Daesh, PKK e PYD sono la stessa cosa”. Così le organizzazioni della sinistra curda in Turchia e in Siria, dove combattono una lotta all’ultimo sangue contro lo Stato Islamico, sono messe sullo stesso piano proprio con i nemici con cui si scontrano sul terreno. Erdogan ha poi chiuso il suo discorso invitando gli altri Stati ad “intensificare la lotta contro tutti i tipi di terrorismo” suggerendo infine agli ambasciatori turchi di “prendere tutte le misure necessarie per impedire l’aumento della simpatia internazionale nei confronti dei terroristi curdi”.

Poi nelle prime ore del pomeriggio il colpo di scena. L’attentatore di Istanbul si chiama Nabil Fadli, 28 anni, e non è siriano, bensì cittadino dell’Arabia Saudita, militante dello Stato Islamico.

Perché allora Erdogan si è così affannato nel dichiarare che l’attentatore di Istanbul aveva origine siriane?

È evidente che dopo il nulla di fatto da parte della NATO rispetto alla creazione di una buffer-zone del nord della Siria, e dopo le vittorie dei curdi siriani (e dei loro alleati) al califfo di Ankara non vada proprio giù quanto sta accadendo oltre confine. Tanto più dopo che con la liberazione di Tishreen Dam YPG/YPJ ed alleati hanno “infranto” il divieto turco di oltrepassare l’Eufrate, iniziando di fatto l’operazione di liberazione dell’ultimo “pezzo” di confine turco-siriano ancora sotto il controllo di ISIS, lì dove passano ancora mezzi, rifornimenti, armi e uomini che vanno a rinforzare le milizie del califfato, e soprattutto lì dove passano quotidianamente centinaia di autobotti con il petrolio di Daesh.

È ancora presto per designare nuovi scenari, ma certamente se ne aprono di diversi dopo la giornata di oggi. Gli attentati fin’ora attributi ad ISIS hanno colpito esclusivamente i curdi e le organizzazioni politiche della sinistra turca loro alleate. Il fatto che un militante di ISIS scelga come proprio obiettivo Istanbul rivolgendo la propria attenzione “ai turisti”, apre certamente un nuovo capitolo nella storia di “amore” e “odio” tra il governo turco e Daesh.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-ha-detto-erdogan-dopo-lattentato-di-istanbul

TOLTO L’ASSEDIO A CIZRE, SI CONTANO I MORTI E I DANNI

Giovedì 17 Settembre 2015 21:01

altNel 1992 durante le cele­bra­zioni del New­roz (il capo­danno kurdo) la città di Cizre fu asse­diata dall’esercito turco per dodici giorni. A ven­ti­tre anni di distanza la sto­ria si ripete.

di Luigi D’Alife – da Il Manifesto

A par­tire dalle ele­zioni poli­ti­che del 7 giu­gno scorso e con l’attentato di Suruç, costato la vita a 33 gio­vani socia­li­sti che por­ta­vano aiuti a Kobane, la Tur­chia sem­bra essere ripiom­bata indie­tro di vent’anni: da un lato, l’ex primo mini­stro — ora pre­si­dente della Repub­blica — Erdo­gan, da tre­dici anni al potere, dall’altro il popolo kurdo, soste­nuto dalla sini­stra del Par­tito demo­cra­tico dei Popoli (Hdp).

La popo­la­zione di Cizre, ha dichia­rato 15 giorni fa l’autogoverno o come la defi­ni­sce il co-presidente del muni­ci­pio «l’autonomia demo­cra­tica». «Dopo pochi giorni, circa cento mezzi blin­dati dell’esercito sono entrati in città — ci spiega Fay­sal Sariy­il­diz — e un copri­fuoco con­ti­nuo è stato impo­sto a tutta la popo­la­zione. Cor­rente elet­trica, acqua e ser­vizi di comu­ni­ca­zione sono stati inter­rotti. Un incubo».

Gli ospe­dali di Cizre sono stati iso­lati dai mili­tari tur­chi, i soc­corsi in strada impe­diti con l’uso delle armi, così come la sepol­tura delle vit­time. A Cizre, città a mag­gio­ranza musul­mana, per otto giorni gli imam non hanno can­tato. Il bilan­cio è di cento feriti e 21 morti, tutti civili, tra i quali un bimbo di 35 giorni. Quin­dici tra le vit­time sono state col­pite diret­ta­mente alla testa dai cec­chini. Ora che il copri­fuoco è inter­rotto la gente si riprende le strade in cor­teo ricor­dando i civili uccisi. In testa ci sono le madri delle vit­time, ovun­que si sen­tono cori, grida, slo­gan, ovun­que si vedono bar­ri­cate e trin­cee. Cor­tei che si ingros­sano men­tre attra­ver­sano vie strette, ancora pro­tette da massi e sac­chi di sab­bia, dai teli per impe­dire ai cec­chini di ucci­dere, men­tre supe­rano le sara­ci­ne­sche esplose e i muri distrutti.

A Cizre è stata guerra ed è il quar­tiere di Sur a mostrare le ferite più evi­denti. «Siamo stati costretti a restare chiusi in casa per dieci giorni — ci spiega una donna davanti alla porta di casa cri­vel­lata di pro­iet­tili — era­vamo in 22 nello stesso appar­ta­mento, bam­bini ed anziani, senza cibo e sotto il fuoco costante dei cec­chini». Suo marito indica i palazzi da dove arri­va­vano gli spari ed affac­cian­dosi alla fine­stra mostra un forno distrutto da un carro armato. Un gruppo di bam­bini si rin­corre per strada, gio­cando davanti ad uno dei mezzi blin­dati che ancora cir­con­dano il quartiere.

«Siamo ter­ro­riz­zati — urla un signore sulla cin­quan­tina davanti al can­cello di ferro divelto della sua casa — il copri­fuoco non c’è più, ma non siamo liberi di uscire». La dele­ga­zione della Caro­vana per Kobane, pre­sente in Kur­di­stan in que­sti giorni, è diven­tata il mega­fono per la gente di Cizre. Cizre è come Kobane: stesse scritte sui muri, stesse mace­rie per le strade, stessa deter­mi­na­zione del popolo kurdo a resistere.

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/15447-tolto-l%E2%80%99assedio-a-cizre-si-contano-i-morti-e-i-danni