Sono almeno 81 i morti e più di duecento i feriti nell’attentato che ieri ha colpito Kabul. Obiettivo dell’attacco era una manifestazione di protesta della comunità hazara contro un progetto energetico che esclude la provincia di Bamyan, nell’Afghanistan centrale, abitata prevalentemente dagli hazara, minoranza che in passato ha subito discriminazioni e ostracismo e che oggi continua a rivendicare diritti ed uguaglianza.
L’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico attraverso Amaq, agenzia di informazione del gruppo guidato da al-Baghdadi. Secondo il breve comunicato reso pubblico subito dopo la strage, avvenuta nelle prime ore del pomeriggio, «due combattenti dello Stato Islamico hanno fatto esplodere le loro cinture esplosive in una manifestazione di sciiti nell’area Deh Mazang di Kabul», una delle rotonde principali della città.
Se la matrice fosse confermata, si tratterebbe di un segnale estremamente preoccupante, del più grave attentato dell’Is in Afghanistan e di uno dei più letali dal 2001: lo Stato islamico cerca da quasi due anni di ottenere una presenza significativa nel paese, ma finora i risultati sono stati inferiori alle aspettative.
L’attacco a Kabul segnerebbe un cambio di passo: la capacità operativa di colpire nella capitale, puntando sulle divisioni confessionali e comunitarie che hanno già insanguinato l’Afghanistan. Gli hazara rappresentano infatti la componente sciita, minoritaria, della popolazione afghana, per lo più sunnita.
E lo Stato Islamico, sin dagli “esordi” in Iraq, ha sempre fatto del settarismo uno dei motori portanti del jihad. Soffiare sul fuoco delle divisioni è una strategia scontata per il progetto del “califfo” in Afghanistan: dopo la guerra intestina degli anni ’90, i sospetti tra comunità sono ancora forti e gli hazara continuano a sentirsi discriminati.
La stessa manifestazione di ieri nasce da qui: la valle di Bamyan è stata esclusa dal progetto Tutap che prende il nome dalle iniziali dei paesi coinvolti, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan e Afghanistan. Il progetto, gestito dall’Asian Development Bank e con una pletora di donatori, prevede l’integrazione della rete elettrica afghana in un sistema regionale, una doppia rete elettrica della capacità di 500kV che parta dal Turkmenistan e arrivi a Kabul.
Un progetto ambizioso, e molto costoso, che insieme al Casa-1000 (un’altra linea di trasmissione da 1.000kV che collega Tajikistan, Afghanistan e Pakistan) rientra nella prima fase dello East-Central-South Asia Regional Electricity Market, un progetto di sviluppo con cui si intende creare un sistema energetico comune nei paesi dell’Asia centrale, orientale e meridionale.
Attraverso questi progetti, l’Afghanistan – tra i 5 paesi con il più basso consumo energetico pro-capite – spera di liberarsi dall’eccessiva dipendenza energetica: nel 2014 – come ricordano gli studiosi dell’Afghanistan Analysts Network – più dell’80% del fabbisogno elettrico dipendeva dall’estero (Iran e Turkmenistan, ma soprattutto Uzbekistan e Tajikistan).
Il Tutap dovrebbe rendere autosufficiente il paese entro il 2030, ma ha provocato tensioni sin dal gennaio 2015, quando il secondo vice-presidente, Sarwar Danesh, tra i politici di riferimento degli hazara, ha scritto una lettera al presidente Ghani e al Ministero dell’Energia per contestare la decisione di far passare la rete elettrica non da Bamyan (come suggeriva uno studio del 2013 affidato all’azienda tedesca Fichtner), ma dal passo Salang.
Il governo, pur istituendo una nuova commissione di inchiesta, ha difeso la decisione perché più economica, mentre la comunità hazara ha visto nella scelta un’ulteriore discriminazione. Ne è nato un movimento di protesta, Jombesh-e Roshnayi, “Il movimento della luce”, composto da politici, esponenti della società civile, giornalisti, semplici cittadini, che mira a sollecitare le istituzioni afghane a riconoscere le rivendicazioni degli hazara.
Negli ultimi tempi, le proteste si sono moltiplicate, fino a quella di ieri. Una manifestazione pacifica e colorata – con molti giovani e donne, bambini in bicicletta vestiti con la bandiera afgana – trasformata in strage. I Talebani si sono affrettati a dissociarsi dalla carneficina, opera «dei nemici della nazione» che vogliono creare «una guerra civile». Lo Stato Islamico invece ha messo subito il cappello sul duplice attentato.
I due gruppi – antagonisti sul terreno, divisi da questioni strategiche e dottrinarie – sono sempre più ai ferri corti. A pagarne le conseguenze è la popolazione civile. Ma la strage è soprattutto un duro colpo alla fragile società civile: donne e uomini che rivendicano giustizia manifestando nelle strade. E che ora accendono candele in memoria dei loro «martiri».