I militanti talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan

Tratto da https://www.instagram.com/sincerelynooria/ . Traduzione mia.

I militanti talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan


Che cosa è successo?

Domenica i combattenti talebani hanno preso il controllo della capitale afghana ed il presidente Ashraf Ghani è fuggito all’estero, lasciando il governo al collasso.

Ieri sera, la strada principale per l’aeroporto di Kabul era piena di afghani che, disperatamente, provavano a scappare.

Situazione corrente

La vittoria dei talebani è ora tutto tranne che completa. La velocità del collasso del governo centrale e dei suoi militari è stata sbalorditiva e spronerà infinite indagini a posteriori su cosa sia successo e su chi sia da incolpare. Ma la situazione prossima richiede attenzione per minimizzare un enorme disastro umanitario.

Giorni bui per L’Afghanistan

I talebani stanno andando di porta in porta, redigendo liste di donne e ragazze di età fra i 12 e i 45 anni che saranno poi forzate a sposare i combattenti islamici.

Alle donne è detto che non potranno uscire di casa se non accompagnate da un uomo, che non potranno più lavorare o studiare né indossare liberamente gli abiti che vorrebbero. Anche le scuole saranno chiuse.

Alza la tua voce per l’Afghanistan!

Afghanistan, Trump ordina di lanciare la ‘madre di tutte le bombe’

E’ la prima volta dell’ordigno più potente

Gli Usa hanno sganciato la bomba Moab (la ‘madre di tutte le bombe’) sull’Afghanistan orientale per colpire l’Isis. E’ la prima volta che la superbomba è usata in combattimento. La ‘Massive ordnance air blast’ pesa quasi 10 tonnellate e ha la forza di distruggere tutto nel raggio di centinaia di metri. “Un altro grande successo, sono orgoglioso dei nostri militari”, ha detto Trump. L’obiettivo, dice la Casa Bianca, sono “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis” e “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”.

Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno sganciato la bomba nella zona di Nangarhar. Si tratta di una cosiddetta bomba MOAB (la sigla significa ‘Massive ordnance air blast’, ma è stata ribattezzata mother of all bombs -madre di tutte le bombe).

ECCO GLI EFFETTI DI UNA MOAB – VIDEO DA YOUTUBE

Il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha confermato in apertura del briefing quotidiano che gli Stati Uniti hanno colpito l’Afghanistan sganciando una bomba mirata a colpire “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis”. Spicer ha quindi sottolineato che nell’azione “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”, rimandando poi al Pentagono per ulteriori dettagli.

“Un’altra missione di successo, sono molto orgoglioso dei nostri militari”. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto a domande dei giornalisti sulla ‘superbomb’ sganciata dagli Usa in Afghanistan, sottolineando che i militari hanno la sua “totale autorizzazione”, cioè carta bianca.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fonte:

L’Isis contro la piazza: 81 morti a Kabul

Afghanistan. Due kamikaze attaccano una protesta pacifica della minoranza hazara che chiedeva il ripristino di un progetto elettrico nella provincia di Bamyan. A pagare il crescente ruolo del “califfato” e la rivalità con i talebani è la società civile

L’attacco Isis a Kabul

Sono almeno 81 i morti e più di duecento i feriti nell’attentato che ieri ha colpito Kabul. Obiettivo dell’attacco era una manifestazione di protesta della comunità hazara contro un progetto energetico che esclude la provincia di Bamyan, nell’Afghanistan centrale, abitata prevalentemente dagli hazara, minoranza che in passato ha subito discriminazioni e ostracismo e che oggi continua a rivendicare diritti ed uguaglianza.

L’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico attraverso Amaq, agenzia di informazione del gruppo guidato da al-Baghdadi. Secondo il breve comunicato reso pubblico subito dopo la strage, avvenuta nelle prime ore del pomeriggio, «due combattenti dello Stato Islamico hanno fatto esplodere le loro cinture esplosive in una manifestazione di sciiti nell’area Deh Mazang di Kabul», una delle rotonde principali della città.

Se la matrice fosse confermata, si tratterebbe di un segnale estremamente preoccupante, del più grave attentato dell’Is in Afghanistan e di uno dei più letali dal 2001: lo Stato islamico cerca da quasi due anni di ottenere una presenza significativa nel paese, ma finora i risultati sono stati inferiori alle aspettative.

L’attacco a Kabul segnerebbe un cambio di passo: la capacità operativa di colpire nella capitale, puntando sulle divisioni confessionali e comunitarie che hanno già insanguinato l’Afghanistan. Gli hazara rappresentano infatti la componente sciita, minoritaria, della popolazione afghana, per lo più sunnita.

E lo Stato Islamico, sin dagli “esordi” in Iraq, ha sempre fatto del settarismo uno dei motori portanti del jihad. Soffiare sul fuoco delle divisioni è una strategia scontata per il progetto del “califfo” in Afghanistan: dopo la guerra intestina degli anni ’90, i sospetti tra comunità sono ancora forti e gli hazara continuano a sentirsi discriminati.

La stessa manifestazione di ieri nasce da qui: la valle di Bamyan è stata esclusa dal progetto Tutap che prende il nome dalle iniziali dei paesi coinvolti, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan e Afghanistan. Il progetto, gestito dall’Asian Development Bank e con una pletora di donatori, prevede l’integrazione della rete elettrica afghana in un sistema regionale, una doppia rete elettrica della capacità di 500kV che parta dal Turkmenistan e arrivi a Kabul.

Un progetto ambizioso, e molto costoso, che insieme al Casa-1000 (un’altra linea di trasmissione da 1.000kV che collega Tajikistan, Afghanistan e Pakistan) rientra nella prima fase dello East-Central-South Asia Regional Electricity Market, un progetto di sviluppo con cui si intende creare un sistema energetico comune nei paesi dell’Asia centrale, orientale e meridionale.

Attraverso questi progetti, l’Afghanistan – tra i 5 paesi con il più basso consumo energetico pro-capite – spera di liberarsi dall’eccessiva dipendenza energetica: nel 2014 – come ricordano gli studiosi dell’Afghanistan Analysts Network – più dell’80% del fabbisogno elettrico dipendeva dall’estero (Iran e Turkmenistan, ma soprattutto Uzbekistan e Tajikistan).

Il Tutap dovrebbe rendere autosufficiente il paese entro il 2030, ma ha provocato tensioni sin dal gennaio 2015, quando il secondo vice-presidente, Sarwar Danesh, tra i politici di riferimento degli hazara, ha scritto una lettera al presidente Ghani e al Ministero dell’Energia per contestare la decisione di far passare la rete elettrica non da Bamyan (come suggeriva uno studio del 2013 affidato all’azienda tedesca Fichtner), ma dal passo Salang.

Il governo, pur istituendo una nuova commissione di inchiesta, ha difeso la decisione perché più economica, mentre la comunità hazara ha visto nella scelta un’ulteriore discriminazione. Ne è nato un movimento di protesta, Jombesh-e Roshnayi, “Il movimento della luce”, composto da politici, esponenti della società civile, giornalisti, semplici cittadini, che mira a sollecitare le istituzioni afghane a riconoscere le rivendicazioni degli hazara.

Negli ultimi tempi, le proteste si sono moltiplicate, fino a quella di ieri. Una manifestazione pacifica e colorata – con molti giovani e donne, bambini in bicicletta vestiti con la bandiera afgana – trasformata in strage. I Talebani si sono affrettati a dissociarsi dalla carneficina, opera «dei nemici della nazione» che vogliono creare «una guerra civile». Lo Stato Islamico invece ha messo subito il cappello sul duplice attentato.

I due gruppi – antagonisti sul terreno, divisi da questioni strategiche e dottrinarie – sono sempre più ai ferri corti. A pagarne le conseguenze è la popolazione civile. Ma la strage è soprattutto un duro colpo alla fragile società civile: donne e uomini che rivendicano giustizia manifestando nelle strade. E che ora accendono candele in memoria dei loro «martiri».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/lisis-contro-la-piazza-81-morti-a-kabul/

AFGHANISTAN, INTRUSIONE DI UN TANK USA PER RIMUOVERE LE PROVE DELL’OSPEDALE MSF BOMBARDATO

Sabato 17 Ottobre 2015 15:52

20151017kunduz

L’ associazione di Medici senza Fontiere denuncia l’abuso delle forze militari statunitensi in Afghanistan per cui un tank ha forzato la zona dell’ospedale bombardato 13 giorni fa.

Sempre i portavoce di MSF hanno aggiunto che questa inaspettata intrusione ha danneggiato materiali, distrutto potenziali prove relative alle indagini per risalire alla natura del disastro, nonché messo naturalmente paura e stress ha chi sta operando tra le macerie dell’ospedale.

L’ ospedale di Kunduz è stato bombardato dalle forze USA il 3 Ottobre scorso uccidendo 10 pazienti e 12 persone appartenenti all’ organizzazione mondiale dei medici.

Un altro probabile episodio di efferata viltà si aggiunge oggi alla pagina di sangue scritta dal Pentagono, che non ha ancora ufficialmente risposto alle dichiarazioni dei portavoce di MSF.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/15676-afghanistan-intrusione-di-un-tank-usa-per-rimuovere-le-prove-dellospedale-msf-bombardato

 

 

ATTACCO A KURDUZ: SALITO A 12 IL NUMERO DEGLI OPERATORI MSF UCCISI. MORTI ANCHE 10 PAZIENTI, TRA CUI 3 BAMBINI.

4 Ottobre 2015

“Con il fondato sospetto che sia stato commesso un crimine di guerra, MSF chiede che venga avviata un’investigazione completa e trasparente sull’accaduto, condotta da un ente internazionale indipendente.” ha detto Christopher Stokes, direttore generale di Medici Senza Frontiere.“Basarsi soltanto sull’investigazione interna di una parte del conflitto sarebbe del tutto insufficiente.”

“Nemmeno una persona del nostro staff ha riferito di combattimenti nel compound dell’ospedale di MSF prima del bombardamento aereo di sabato mattina” continua Stokes. “L’ospedale era pieno di operatori MSF, pazienti e persone che li accudivano. Nell’attacco sono stati uccisi 12 operatori di MSF e 10 pazienti, tra cui 3 bambini.  Ribadiamo che l’edificio principale dell’ospedale, dove il personale si prendeva cura dei pazienti, è stato colpito in modo ripetuto e molto preciso durante ciascuno dei raid aerei, mentre il resto del compound è stato per la maggior parte risparmiato. Condanniamo questo attacco, che rappresenta una grave violazione del Diritto Internazionale Umanitario.”

In questo momento l’ospedale di MSF non è più in funzione. Non è possibile effettuare attività mediche all’interno della struttura, lo staff di MSF è stato evacuato o trasferito, i pazienti sono stati portati in altri centri medici .

Da quando sono esplosi i combattimenti, lunedì scorso, MSF ha aumentato la capacità del proprio ospedale fino a 150 letti e ha curato 394 persone lavorando giorno e notte per curare chiunque ne avesse bisogno, secondo i principi dell’imparzialità e dell’etica medica.

Per MSF è doloroso dover chiudere nel momento in cui i bisogni medici sono così acuti, ma è troppo presto per sapere se le attività possono riprendere in sicurezza e al momento MSF non ha ricevuto spiegazioni né garanzie. MSF è molto vicina alle persone di Kunduz e non appena si avranno risposte chiare sull’accaduto, vaglierà le possibili opzioni per riaprire le attività mediche a Kunduz. L’Afghanistan è uno dei maggiori paesi d’intervento per MSF, presente in altri 4 progetti che continuano le attività.

MSF ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1980. Oltre a Kunduz, MSF supporta il Ministero della Salute nell’ospedale Ahmad Shah Baba, nella zona orientale di Kabul, la maternità Dasht-e-Barchi nell’area occidentale di Kabul e al Boost Hospital a Lashkar Gah, provincia di Helmand. A Khost, in Afghanistan orientale, MSF gestisce un ospedale specializzato in maternità. MSF lavora in Afghanistan esclusivamente grazie a fondi privati e non accetta finanziamenti da nessun governo.

Gli aggiornamenti su Twitter di @MSF_ITALIA

 

 

Fonte:

http://www.medicisenzafrontiere.it/notizie/comunicato-stampa/attacco-al-nostro-ospedale-kunduz-confermati-12-operatori-msf-uccisi-e-10

KUNDUZ, AFGHANISTAN: BOMBARDATO OSPEDALE DI MSF. FINORA 9 OPERATORI UCCISI.

Kunduz: Tutte le parti in conflitto avevano coordinate del nostro ospedale

3 Ottobre 2015

 

Medici Senza Frontiere condanna nel modo più assoluto il terribile bombardamento che ha colpito l’ospedale dell’organizzazione a Kunduz, coinvolgendo staff e pazienti. MSF vuole chiarire che tutte le parti in conflitto, comprese Kabul e Washington, erano perfettamente informate della posizione esatta delle strutture MSF  – ospedale, foresteria, uffici e unità di stabilizzazione medica a Chardara (a nord-ovest di Kunduz). Come in tutti i contesti di guerra, MSF ha comunicato le coordinate GPS a tutte le parti del conflitto in diverse occasioni negli ultimi mesi, la più recente il 29 settembre.

Il bombardamento è continuato per più di 30 minuti da quando gli ufficiali militari americani e afghani, a Kabul e Washington, ne sono stati informati. MSF chiede urgentemente chiarezza per capire esattamente cosa sia successo e come sia potuto accadere un evento di questa gravità.

AGGIORNAMENTO SULLE VITTIME

È con grande tristezza che confermiamo la morte di 9 operatori MSF durante il bombardamento di questa notte all’ospedale di MSF a Kunduz. L’ultimo aggiornamento parla di 37 feriti, tra cui 19 membri dello staff MSF. Alcuni dei feriti più gravi sono in corso di trasferimento in un ospedale a Puli Khumri, che dista 2 ore di auto. Di molti pazienti e staff non si hanno ancora notizie. L’impatto di questo terribile bombardamento sta diventando più chiaro e i numeri continuano a crescere.

SU TWITTER GLI AGGIORNAMENTI IN TEMPO REALE DI @MSF_ITALIA

 

MACELLERIA MIGRANTE

Da che mondo è mondo gli esseri umani migrano per lavoro, per conoscere il mondo, per sfuggire alla fame, alle persecuzioni, alle guerre, ecc. Eppure c’è chi spera si fermino o addirittura vorrebbe fermarli a qualunque costo. C’è chi parla di “emergenza” per un fenomeno che esiste da sempre. C’è chi lo vede come una minaccia e parla addirittura di “invasione”. Nel frattempo i migranti, questi uomini, donne e bambini (a migrare spesso sono famiglie intere che cercano un futuro migliore), che terrorizzano tutti coloro che “Io non sono razzista ma dovremmo pensare prima a noi” ( come se l’umanità non fosse tutta figlia della stessa Madre Terra e si potesse distinguere un “noi” e un “loro” su criteri nazionalistici), vanno incontro a morti talmente atroci che non ce le sogneremmo mai. Muoino soffocati nelle stive di barconi perchè non hanno abbastanza denaro per comprare – in questo mondo dove tutto è in vendita – dai loro trafficanti senza scrupoli, oltre a un viaggio disperato, l’aria per provare a respirare ancora. Muoino soffocati mentre sono trasportati, peggio che se fossero bestiame, su un tir. E continuano a morire in massa annegati nel mare “nostro” perchè nella Fortezza Europa non c’è la possibilità per chi è disperato di giungere legalmente, senza rischiare la vita. Nel “cimitero” Mediterraneo non c’è spazio per i diritti umani ma solo per i confini. E così la carne umana diventa merce per chi non ha scrupoli, una merce deperibile. Solo così a molti scuote. Forse è questa la cosa più triste.

D. Q.

Qui una vignetta di Mauro Biani nella sua tremenda verità:

Fonte: https://www.facebook.com/ilmanifesto/photos/a.86900427984.101789.61480282984/10153778202512985/?type=1&theater

Qui un articolo di Redattore Sociale:

Migrazioni, è un bollettino di guerra: più di 300 vittime in quattro giorni

Sono 71 i migranti morti ritrovati in un tir in Austria, si pensa siano tutti siriani. Tra loro 4 bambini. Ma in mare si muore ancora. Portate a Palermo 52 vittime ritrovate in una stiva e sulle coste libiche una nuova tragedia: sarebbero 200 i corpi in mare

28 agosto 2015

ROMA – Un bollettino di guerra. È quello che sta diventando la cronaca dei flussi migratori in questi giorni in Europa. Mentre sui media di tutto il mondo si discute sui termini da utilizzare per descrivere il fenomeno (migranti o rifugiati), sul web si susseguono le notizie di nuove tragedie che non avvengono più lontano dagli occhi europei, ma che giorno per giorno si avvicinano al cuore di un continente comunemente definito come “vecchio” e chiuso come una “fortezza”. Dopo la notizia che ha sconvolto l’Austria (e non solo), dal Mediterraneo giungono nuove notizie di morte con più di cento migranti che avrebbero perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Un dato, quello delle vittime, che cresce di giorno in giorno, come testimoniano le quasi 2.500 morti catalogate dal nuovo sito dell’alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr).

Sul tir c’erano rifugiati siriani. Dall’Austria, intanto, arrivano maggiori dettagli sul ritrovamento di un tir al cui interno sono stati trovati i corpi senza vita di 71 migranti. Le autorità austriache hanno riferito che le vittime rinvenute all’interno della cella frigorifera del tir abbandonato sull’autostrada sono “probabilmente rifugiati siriani”, per via di alcuni documenti ritrovati. Tra le vittime 59 uomini, 8 donne e anche 4 bambini. Migranti morti per soffocamento, conferma la polizia austriaca, che rende noto anche di aver arrestato tre persone coinvolte nella vicenda. “Questa tragedia sottolinea la spietatezza degli scafisti, che hanno ampliato la loro attività dal Mediterraneo alle autostrade d’Europa – spiega l’Unhcr -. Ciò dimostra che non hanno alcun riguardo per la vita umana, ma ricercano solo il profitto. E mostra anche la disperazione delle persone in cerca di protezione o di una nuova vita in Europa. Speriamo che questo nuovo incidente porterà a una forte cooperazione tra le forze di polizia europee, le agenzie di intelligence e le organizzazioni internazionali per reprimere il traffico di esseri umani mettendo in atto misure per la protezione e la cura delle vittime”.

Mediterraneo, tragedia senza fine. Intanto, a largo della Libia, la situazione resta drammatica. Secondo quanto reso noto dalla Mezzaluna rossa, nelle ultime ore sarebbero naufragate due imbarcazioni piene di migranti al largo della costa libica, nei pressi di Zuwara: si parla di circa 450 persone. I soccorsi hanno portato in salvo circa 198 migranti, mentre, secondo il Guardian, non ce l’avrebbero fatta circa 200 persone. Notizie che giungono a breve distanza da un altro ritrovamento di corpi senza di vita di migranti. È di pochi giorni fa la notizia della scoperta di 52 migranti morti nella stiva di una imbarcazione da parte del pattugliatore della marina svedese Poseidon, impegnato nelle operazioni di Triton. Le salme sono state portate a Palermo, insieme ad altri 571 migranti salvati in mare. Solo il 15 agosto scorso, spiega l’Unhcr, una tragedia dal medesimo copione: in una stiva di un barcone sono stati trovati i corpi di 49 persone morti, probabilmente, per le inalazioni di fumi velenosi. E’ di mercoledì 26 agosto, infine, l’ennesima tradecia. Secondo quanto riportato dall’Unhcr, “un gommone con a bordo circa 145 rifugiati e migranti ha avuto dei problemi. Alcune persone sono cadute in mare e due uomini si sono tuffati in acqua per salvarle. Nel panico che ne è seguito le persone hanno cominciato a spintonare e a spingere, e tre donne sul gommone sono morte schiacciate. Di coloro che sono caduti in acqua, 18 mancano ancora all’appello e si teme che siano morti. I sopravvissuti sono stati salvati e portati a Lampedusa, compreso il figlio di due mesi di una delle donne rimaste uccise. La maggior parte dei sopravvissuti è in condizioni critiche e presenta segni di shock, ferite e contusioni”. Sale, così, a più di 300 il numero delle vittime negli ultimi quattro giorni, ma il bilancio delle tragedie dell’immigrazione, in mare e sulla terraferma, purtroppo sembra destinato a salire.Le proteste dei libici contro i trafficanti. Dopo la scoperta da parte della guardia costiera libica dei 200 corpi a largo della città libica di Zuwara, secondo quanto riporta il Guardian, tanti tra i residenti del posto sarebbero scesi in piazza per protestare contro il traffico di esseri umani. Una manifestazione che ricorda quella dell’estate 2014, dopo il ritrovamento di un corpo di un migrante morto in mare, raccontata da Redattore sociale con un reportage da quello che ancora oggi è considerato uno dei maggiori snodi del traffico di esseri umani verso l’Europa.

I numeri dei flussi gestibili solo con risposte coordinate. Per l’Unhcr, nonostante gli sforzi dell’operazione di Frontex “il Mediterraneo è ancora la rotta più mortale per rifugiati e migranti. Molte delle persone che raggiungono via mare l’Europa meridionale, in particolare la Grecia, provengono da paesi colpiti da violenze e conflitti, come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan; hanno tutti bisogno di protezione internazionale e sono spesso fisicamente esausti e psicologicamente traumatizzati”. Ai governi, l’Unhcr chiede di “fornire risposte comuni e agire con umanità e in confomità ai loro obblighi internazionali”. Nonostante i numeri dei flussi siano “schiaccianti” per alcuni paesi “sovraccarichi”, aggiunge l’Alto commissariato, si tratta di “numeri gestibili attraverso risposte congiunte e coordinate a livello europeo. Tutti i paesi europei e l’Unione Europea devono agire insieme per rispondere alla crescente emergenza e dimostrare responsabilità e solidarietà”. (ga)

© Copyright Redattore Sociale

Fonte:

http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/489413/Migrazioni-e-un-bollettino-di-guerra-piu-di-300-vittime-in-quattro-giorni

Nelle celle “umanitarie” di Herat, donne picchiate e torturate

a. carceri

Donne detenute per aver ”disonorato” la famiglia, altre per aver osato sfidare il marito padrone, denunce da parte dell’Onu per le torture sistematiche all’interno della sezione maschile. Tutto questo avviene in un carcere afghano, ritenuto il fiore all’occhiello dalle autorità militari italiane che lo hanno finanziato per scopi ”umanitari”. La struttura penitenziaria in questione si trova ad Herat, la seconda città più grande dell’Afghanistan. Il carcere è diviso in due: c’è la parte maschile composta da 3310 detenuti, e quella femminile, da 160.

La maggior parte delle donne detenute stanno scontando una pena che da noi non sarebbe considerata neppure un peccato veniale. L’aver amato un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia, l’essere rimasta incinta fuori dal matrimonio o l’aver mancato di rispetto a un padre padrone sono considerati reati da punire e quindi c’è l’arresto e le donne possono scontare anni di galera.

C’è la storia di Saaeqa che ha 27 anni e quattro bambini. La sua colpa? Essere scappata di casa perché il marito (sposato a 13 anni) era un violento. «Mi picchiava – aveva racconta Saaeqa – non poteva fare a meno dell’oppio». Lei si sente colpevole e si era detta disposta a ritornare dal marito, ma alla condizione di non essere picchiata. Ma sa che ciò non accadrà e che sarà ”costretta” ad andare a vivere dalla madre, e questo verrà considerato un grande disonore. Si dovrà vergognare per tutta la vita.

Poi c’è la storia di Naeeba, 25 anni. È stata accusata di aver ucciso il marito. Lei si dichiara innocente. A 12 anni era stata costretta a sposarsi con l’uomo di 51 perché era incinta di lui. Poi un giorno fu ritrovato bruciato e venne accusata di omicidio. Secondo lei sono stati i figli perché non sopportavano più che la picchiasse. Ma non finisce qua.

Sempre nello stesso carcere finanziato dal governo italiano – specificamente nella sezione maschile dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente – avvengono delle torture sistematiche. A denunciarlo è stata l’Onu attraverso un dossier del 2011 corredato da prove definite ”schiaccianti”. Un dossier che dovrebbe far riflettere sui compromessi – come quelli sulle donne detenute – accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare ’la civiltà alle popolazioni afghane.

L’inchiesta dell’Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale non hanno nulla da denunciare, mentre dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c’è anche un ragazzo di sedici anni.

La delegazione dell’Unama – l’organismo Onu che vigila sulla rinascita dell’Afghanistan – scrive che ci sono «prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni». Le testimonianze raccolte dall’Onu sono agghiaccianti e sembrano simili alla detenzione del carcere di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi.

E così il dossier racconta che ad Herat, durante la notte, un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un’altra stanza nell’edificio dell’intelligence afghana. Lì comincia l’interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: «Se non ci dai le informazioni ti picchiamo». Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo.

Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. «Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: ”Parlaci del capo dell’attacco. Io continuavo a rispondergli che non c’entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell’attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: ”Se non ci dici la verità, ti picchiamo”. Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non so cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti».

I militari italiani potrebbero risultano complici indiretti? Non si parla solo della ricostruzione del carcere, ma anche del fatto che formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani della polizia nazionale Anp . Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. Il penitenziario di Herat – la capitale del distretto a guida italiana – è stato sempre comunque affidato ad una sorta di supervisione delle nostre truppe.

L’inaugurazione del carcere di Herat è avvenuta nel marzo del 2010 e sono due i progetti curati dal Provincial Reconstruction Team italiano del Regional Command West su base Brigata “Sassari”. Il primo progetto, del valore di circa 54 mila euro, ha riguardato la costruzione del nuovo centro polifunzionale (dotato di cucina, servizi igienici ed impianto di climatizzazione) utilizzato sia come “training room” per lo sviluppo di corsi studio e di recupero professionali, sia come “visiting room” per favorire momenti d’incontro tra i detenuti ed i loro familiari.

Il secondo, invece, è consistito nella realizzazione del nuovo sistema di videosorveglianza del carcere, progetto del valore di circa 37mila euro messi a disposizione dal Ministero della Difesa, che comprende una sala di controllo interna dotata di monitor ed un sistema di registrazione delle immagini che, attraverso diciannove telecamere esterne, ha consetito di migliorare le misure di sicurezza ed assicurare la sorveglianza dell’area perimetrale interna ed esterna della struttura.

Non sono mancate le passerelle dei nostri politici per osannare in pompa magna il nostro ”fiore all’occhiello. Aveva fatto visita alla struttura l’allora eurodeputato Pino Arlacchi , ricevendo congratulazioni dal governatore della città di Herat. Ma non è mancata nemmeno la visita di Michele Vietti, il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo aver incontrato i militari italiani in servizio presso il Comando della International Security and Assistance Force di Kabul e presso il Regional Command – West di Herat, il Comando subordinato responsabile per la regione occidentale attualmente guidato dalla Brigata alpina ‘Taurinense’, aveva fatto visita ovviamente ad Herat, dove ad accoglierlo all’aeroporto è stato il generale Dario Ranieri, comandante del Regional Command West, il quale lo ha aggiornato circa l’attuale situazione nella regione occidentale, con particolare riferimento al settore della giustizia e ai progressi registrati nel processo di transizione. Nella seconda giornata di visita, l’Onorevole Vietti aveva innanzitutto incontrato il Governatore della Provincia di Herat per poi visitare il carcere femminile.

Il vice presidente del Csm aveva espresso soddisfazione per il nostro operato e ricevuto ringraziamenti dalle autorità afghane per il nostro sostegno alla loro giustizia. Un sostegno per assicurare la detenzione delle donne per reati non contemplati dalle democrazie che hanno ottenuto l’emancipazione femminile, arresti e deportazioni coatte, torture inenarrabili. Sono state queste le nostre missioni umanitarie?

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2015/02/07/nelle-celle-umanitarie-di-herat-donne-picchiate-e-torturate/

 

 

Afghanistan: Il bilancio di tredici anni di guerra

Ieri si è conclusa ufficialmente la missione della Nato in Afghanistan.

C’è chi trae un bilancio positivo di questi 13 anni di “missione di pace”. Il nostro bilancio purtroppo è diverso: in questi anni abbiamo ammesso nei nostri tre ospedali in Afghanistan più di 14 mila feriti da proiettile, più di 7 mila feriti da esplosione e più di 4 mila feriti da mina.

Noi, e i nostri 26 mila feriti, continueremo sempre a pensare che la guerra non è lo strumento adatto per fare la pace.

In una delle corsie del nostro Centro chirurgico per vittime di guerra a Lashkar-gah
In una delle corsie del nostro Centro chirurgico per vittime di guerra a Lashkar-gah