Bombe «italiane» allo Yemen, il giallo divieti

Nello Scavo
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Sono molti i punti da chiarire nell’indagine della procura di Brescia sulle esportazioni di armi assemblate in Italia e dirette verso la coalizione saudita impegnata nella guerra dello Yemen. Nel fascicolo aperto dal procuratore Fabio Salamone, oltre alle denunce di Rete Disarmo e all’inchiesta di Avvenire, sono entrati almeno un paio di documenti ufficiali da Berlino, riguardanti la tedesca ‘Rwm’, la cui branca italiana da diversi anni consegna bombe all’Arabia Saudita e ad altre forze armate del Golfo. L’incartamento del Bundestag, il Parlamento tedesco, conferma l’esistenza di contratti con Riad e altri Paesi della coalizione impantanata nel conflitto contro i ribelli Houthi. Dell’alleanza militare fanno parte anche Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan. La vendita di armi, secondo il capo d’accusa per il momento rivolto ad ignoti, non sarebbe lecita perché in violazione delle norme italiane che vietano l’export verso Paesi in guerra, soprattutto se le operazioni militari vengono condotte senza alcuna copertura internazionale.
L’INCHIESTA: bombe italiane da Cagliari allo Yemen

La Rwm tace, ma da quanto trapela il gruppo, con stabilimento in Sardegna e sede legale nel Bresciano, si trincera dietro le autorizzazioni ottenute dai governi italiani a partire dal 2012. Sebbene sostenuti dagli Usa, non vi è infatti alcuna risoluzione Onu che autorizza l’intervento e ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha avvertito: «Ci deve essere l’obbligo di rispondere della condotta scioccante di questa intera guerra», alludendo ai responsabili dei crimini commessi ai danni dei civili. Da Roma, però, non arrivano parole chiare sulla fornitura di almeno 5mila ordigni alle forze aeree saudite. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni con un tweet ha ribadito che l’Italia «condanna il bombardamento contro un funerale a Sanaa. Inaccettabile escalation attacchi ai civili. Negoziati per fermare la guerra». Ma la titolare della Difesa, Roberta Pinotti, che di recente si è recata a Riad attirando le critiche di alcuni parlamentari e di ong come Amnesty a sua volte minacciate di Querela, domenica ha chiamato in causa la Farnesina: «Il ministero della Difesa non si occupa dell’export di armi, è una questione che dipende dal ministero degli Esteri».

Anche questo dovrebbe essere accertato dagli inquirenti. «Il ministero della difesa è comunque coinvolto – ribadisce il coordinatore nazionale della Rete Italiana Disarmo, Francesco Vignarca – perché grazie agli accordi militari che l’Italia può stipulare con vari Paesi, la procedura di autorizzazione può essere in qualche modo bypassata, come aveva denunciato, da parlamentare, anche l’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella». Dagli atti dell’inchiesta si deduce che la Germania già dal gennaio 2015 avrebbe bloccato la vendita di armi ai sauditi. Ma poiché le bombe della Rwm sono prodotte in Italia, sarebbe stato più facile superare le scelte di Berlino, consentendo di rifornire i bombardieri almeno fino alla scorsa estate. Come provano le immagini di alcune bombe inesplose, del tutto identiche a quelle ‘Made in Italy’.

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Fonte:
http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Bombe-Yemen-il-giallo-divieti—3.aspx

Yemen, ospedale Msf colpito in bombardamento: 11 morti e 20 feriti

Situato vicino a Saada, città-roccaforte dei ribelli sciiti Houthi

 E’ salito a 11 morti e 20 feriti il bilancio del raid aereo che ha colpito un ospedale di Medici senza frontiere (Msf) nello Yemen settentrionale. Lo ha comunicato la stessa organizzazione umanitaria, precisando che l’ospedale è situato vicino a Saada, città-roccaforte dei ribelli sciiti Houthi dove pochi giorni fa i bombardamenti della coalizione a guida saudita avevano colpito una scuola affollata di bambini.

 

 

Fonte:

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2016/08/15/yemen-ospedale-msf-colpito-in-bombardamento-vittime_35b8ddd4-cb41-4dad-9c28-db9684de4407.html

 

Yemen: Msf,attacco ospedale inaccettabile

Quarto contro una struttura Msf in Yemen in meno di 12 mesi

(ANSA) – ROMA, 16 AGO – L’organizzazione Medici senza frontiere (Msf) ha definito “inaccettabile” l’attacco contro l’ospedale di Abs che ha causato ieri la morte di almeno 11 persone, incluso un membro del personale di Msf. Si tratta del quarto attacco contro una struttura Msf in Yemen in meno di 12 mesi.
“Nonostante la recente risoluzione dell’Onu che chiede di porre fine agli attacchi contro le strutture mediche e nonostante le dichiarazioni di alto livello perché sia rispettato il Diritto Internazionale Umanitario, non sembra venga fatto nulla perché le parti coinvolte nel conflitto in Yemen rispettino il personale medico e i pazienti – ha sottolineato in una nota la responsabile dell’unità di emergenza in Yemen, Teresa Sancristóval -. Senza azioni, questi gesti pubblici restano privi di significato per le vittime di oggi”. L’ospedale di Abs, supportato da Msf dal luglio 2015, è stato parzialmente distrutto e tutti i pazienti e il personale sopravvissuti sono stati evacuati.

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Fonte:

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2016/08/16/yemenmsfattacco-ospedale-inaccettabile_a67577f7-1e44-4eec-930e-a4ba4c3238cc.html

Bambini uccisi in Yemen, l’Onu s’inchina alla coalizione a guida saudita

CS91 – 7 giugno 2016

Bambini yemeniti
Bambini yemeniti – 6 luglio 2015 © Amnesty International

Amnesty International ha messo in forte discussione la credibilità delle Nazioni Unite dopo che queste hanno vergognosamente ceduto alle pressioni per rimuovere i partecipanti alla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita dall’elenco degli stati e dei gruppi armati che violano i diritti dei bambini nel corso dei conflitti.

La notte tra il 6 e il 7 giugno un portavoce del segretario generale Ban Ki-moon ha annunciato che c’era stata una modifica all’elenco pubblicato il 2 giugno nel rapporto annuale del Rappresentante speciale sui bambini e i conflitti armati. La modifica è stata la conseguenza diretta delle pressioni esercitate dall’Arabia Saudita, contrariata dalle conclusioni cui era giunta l’Onu, ovvero che le operazioni militari della coalizione guidata da Riad avevano causato morte e sofferenza di bambini durante il conflitto armato dello Yemen.

“Che l’Onu s’inchini alle pressioni fino al punto di alterare un rapporto già pubblicato sui bambini nei conflitti armati è un fatto senza precedenti così come è irresponsabile che le pressioni siano state esercitate proprio da uno degli stati elencati nel rapporto” – ha commentato Richard Bennett, rappresentante di Amnesty International presso le Nazioni Unite.

“Cedere alle pressioni in questo modo compromette tutta l’azione delle Nazioni Unite per proteggere i bambini nei conflitti. Il segretario generale non deve arretrare né sminuire l’importanza del lavoro del suo Rappresentante speciale. Altrimenti, rischia di danneggiare la credibilità dell’Onu nel suo complesso” – ha aggiunto Bennett.

“Questo è un esempio lampante del motivo per cui le Nazioni Unite devono stare sempre dalla parte dei diritti umani e dei loro principi: altrimenti finiscono per diventare parte del problema e non la sua soluzione” – ha continuato Bennett.

Secondo fonti dell’Onu, l’eliminazione dall’elenco è temporanea in attesa che le stesse Nazioni Unite e l’Arabia Saudita rivedano congiuntamente le conclusioni del rapporto. Nel frattempo però i diplomatici sauditi all’Onu non hanno perso tempo a esaltare quella che hanno definito una “irreversibile” vittoria morale.

Mai in passato le Nazioni Unite avevano rimosso uno stato da un elenco già pubblico. L’anno scorso erano state criticate perché nel rapporto del Rappresentante speciale non era stato inserito Israele, nonostante le numerose e credibili denunce riguardo a centinaia di bambini uccisi e migliaia di feriti nel conflitto armato del 2014 a Gaza.

“Qui siamo di fronte a un passo ulteriore. Il Segretario generale ha istituito un pericoloso precedente che metterà ancora più a rischio le vite dei bambini nei paesi in conflitto” – ha accusato Bennett.

Secondo il rapporto delle Nazioni Unite del 2 giugno, nel 2015 la coalizione a guida saudita è stata responsabile del 60 per cento delle 510 morti e dei 667 ferimenti di bambini nel conflitto dello Yemen. Il Segretario generale aveva a tale proposito dichiarato:

“Le gravi violazioni ai danni dei bambini sono drammaticamente aumentate con l’escalation del conflitto”.

Amnesty International ha ripetutamente documentato le violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, anche ai danni dei bambini, da parte degli stati membri della coalizione a guida saudita impegnata nel conflitto dello Yemen, responsabile di attacchi aerei contro le scuole e dell’uso delle bombe a grappolo – armi vietate a livello internazionale – che hanno ucciso tre bambini e ne hanno feriti nove.

I bambini costituiscono un terzo – 127 su un totale di 361 – dei civili uccisi in 32 attacchi illegali, documentati da Amnesty International, portati a termine dalla coalizione a guida saudita dall’inizio delle operazioni militari nello Yemen.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 7 giugno 2016

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/bambini-uccisi-in-yemen-onu-si-inchina-alla-coalizione-a-guida-saudita

 

Cosa ha detto Erdogan dopo l’attentato di Istanbul?

Tra notizie false, attacco ai nemici di sempre (i curdi) ed una nuova crociata contro gli accademici che hanno chiesto la fine delle operazioni militare nel Sud-Est del paese. E nessuna parola sul ruolo dell’ISIS.

Ancora bombe in Turchia. Ancora orrore.

Ancora corpi dilaniati e sangue sulle strade.

Questa volta l’attenzione si sposta dal Sud-Est del paese (Kurdistan Turco) – da mesi sotto un’offensiva dell’esercito che pare non avere fine e che ha provocato ad oggi oltre 400 morti – a quello che può essere considerato come il cuore pulsante della Turchia.

Istanbul, città di mezzo tra Europa ed Asia visitata ogni giorno da decine di migliaia di turisti, questa mattina è stata scossa da una forte esplosione. Intorno alle 10:15 ora locale, un attacco suicida ha colpito la zona di Sultanahmet, due passi dalla Moschea Blu e dalla basilica di Santa Sofia. Come ormai da prassi, dopo neanche mezz’ora dall’esplosione e con ancora le vittime per terra, il governo turco ha immediatamente emesso un divieto a tutti i media di trattare della vicenda.

La zona è stata recintata, giornalisti, fotografi ed operatori video costretti ad allontanarsi dall’area. Mentre i media di mezzo mondo rilanciavano le agenzie di stampa e le prime dichiarazioni relativamente al numero delle vittime e dei feriti, nei talk show della televisione turca si faceva finta di niente, come sulla TV di Stato dove proprio in quei minuti si parlava di tutt’altro, ovvero della costruzione di un nuovo segmento stradale (!). “Un divieto che è arrivato più velocemente delle ambulanze sulla scena dell’attentato. Questo è un disastro” ha dichiarato il leader del partito CHP Kemal Kılıçdaroğlu. Dopo neanche due ore dallo scoppio della bomba, l’impasse è stata rotta proprio dal presidente Turco Recep Tayyip Erdoğan con una conferenza stampa in cui dopo le prime frasi di rito, e con ancora tanti dubbi su numero e nazionalità di vittime e feriti, dava la notizia che tutti aspettavano: l’attentatore di Istanbul è un 28enne di origine siriane.

Caso chiuso. Una velocità stupefacente.

Molto più veloce rispetto alle altri stragi che hanno investito il paese negli ultimi 6 mesi: le due bombe durante il comizio elettorale dell’HDP il 5 Giugno a Diyarbakir, l’esplosione all’Amara Center di Suruc che ha fatto 33 morti, il massacro alla marcia per la pace di Ankara il 10 Ottobre. Ma tant’è.

Quello che lascia davvero sconvolti è che dopo aver dato questa notizia, il presidente Erdogan sposti subito l’attenzione verso i nemici storici (i curdi), accanendosi poi contro contro quegli intellettuali ed accademici che hanno sottoscritto nei giorni scorsi un appello internazionale chiedendo l’immediata fine delle operazioni militari nel sud-est del paese.

“Prendete posizione – ha dichiarato Erdogan – Se non siete dalla parte del governo turco, siete dalla parte dei terroristi”. “Questi intellettuali chiamano persone provenienti da altri paesi a seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori”. Erdogan parla dei 1.128 accademici provenienti da decine di università in Turchia, oltre a studiosi provenienti da molti altri paesi, che hanno hanno firmato la dichiarazione. Immediatamente lo YÖK (Consiglio generale per l’educazione) ha dichiarato che “saranno prese le misure giuridiche adeguate contro chi supporta i terroristi”. Nel 1984, il leader della giunta militare Kenan Evren, instauratosi con il colpo di Stato del 1980, definì 383 intellettuali che chiedevano democrazia “traditori”. Dopo 32 anni, oggi Erdoğan ha fatto la stessa cosa.

Erdogan ha poi rincarato la dose affermando che “La Turchia rimane il primo obiettivo dei terroristi perché li combatte con grande determinazione. Non facciamo differenza tra le varie sigle [terroristiche]. Per noi Daesh, PKK e PYD sono la stessa cosa”. Così le organizzazioni della sinistra curda in Turchia e in Siria, dove combattono una lotta all’ultimo sangue contro lo Stato Islamico, sono messe sullo stesso piano proprio con i nemici con cui si scontrano sul terreno. Erdogan ha poi chiuso il suo discorso invitando gli altri Stati ad “intensificare la lotta contro tutti i tipi di terrorismo” suggerendo infine agli ambasciatori turchi di “prendere tutte le misure necessarie per impedire l’aumento della simpatia internazionale nei confronti dei terroristi curdi”.

Poi nelle prime ore del pomeriggio il colpo di scena. L’attentatore di Istanbul si chiama Nabil Fadli, 28 anni, e non è siriano, bensì cittadino dell’Arabia Saudita, militante dello Stato Islamico.

Perché allora Erdogan si è così affannato nel dichiarare che l’attentatore di Istanbul aveva origine siriane?

È evidente che dopo il nulla di fatto da parte della NATO rispetto alla creazione di una buffer-zone del nord della Siria, e dopo le vittorie dei curdi siriani (e dei loro alleati) al califfo di Ankara non vada proprio giù quanto sta accadendo oltre confine. Tanto più dopo che con la liberazione di Tishreen Dam YPG/YPJ ed alleati hanno “infranto” il divieto turco di oltrepassare l’Eufrate, iniziando di fatto l’operazione di liberazione dell’ultimo “pezzo” di confine turco-siriano ancora sotto il controllo di ISIS, lì dove passano ancora mezzi, rifornimenti, armi e uomini che vanno a rinforzare le milizie del califfato, e soprattutto lì dove passano quotidianamente centinaia di autobotti con il petrolio di Daesh.

È ancora presto per designare nuovi scenari, ma certamente se ne aprono di diversi dopo la giornata di oggi. Gli attentati fin’ora attributi ad ISIS hanno colpito esclusivamente i curdi e le organizzazioni politiche della sinistra turca loro alleate. Il fatto che un militante di ISIS scelga come proprio obiettivo Istanbul rivolgendo la propria attenzione “ai turisti”, apre certamente un nuovo capitolo nella storia di “amore” e “odio” tra il governo turco e Daesh.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-ha-detto-erdogan-dopo-lattentato-di-istanbul

UN ALTRO OSPEDALE SUPPORTATO DA MSF E’ STATO BOMBARDATO IN YEMEN

10 Gennaio 2016

Un altro ospedale supportato da MSF è stato colpito nel nord dello Yemen causando almeno quattro morti e dieci feriti e il crollo di diversi edifici della struttura medica.Tre feriti sono dell’equipe di MSF di cui due in condizioni critiche.

Secondo lo staff di MSF sul campo, alle 9:20 di questa mattina è stato colpito l’ospedale di Shiara nel distretto di Razeh dove MSF sta lavorando da novembre 2015.

MSF non può confermare l’origine dell’attacco ma sono stati visti degli aeroplani volare sulla struttura proprio in quel momento. Almeno un missile è caduto vicino all’ospedale.

Il numero dei feriti potrebbe aumentare dato che potrebbero esserci ancora persone intrappolate tra le macerie. Tutto lo staff e i pazienti sono stati evacuati e i pazienti trasferiti all’ospedale Al Goumoury a Saada, supportato da MSF.
”

Tutte le parti in conflitto, incluso la coalizione guidata dall’Arabia Saudita (SLC) sono regolarmente informate delle coordinate GPS delle strutture mediche dove MSF lavora e siamo in dialogo costante affinché comprendano l’entità delle conseguenze umanitarie del conflitto e la necessità di rispettare la fornitura di servizi medici” afferma Raquel Ayora, direttore delle operazioni di MSF. E’ impossibile che qualcuno con la capacità di sferrare un attacco aereo o lanciare un missile non sapesse che l’ospedale di Shiara fosse una struttura medica funzionante sostenuta da MSF e che forniva un servizio sanitario fondamentale”.

“Ribadiamo a tutte le parti in conflitto che i pazienti e le strutture mediche devono essere rispettate e che il bombardamento di ospedali rappresenta una violazione del diritto umanitario internazionale” dice Ayora.
Il conflitto è particolarmente acceso nel distretto di Razeh. La popolazione dell’area è stata pesantemente colpita dai continui bombardamenti e dal peso di dieci mesi di guerra.L’ospedale di Shiara era già stato bombardato prima che MSF iniziasse a supportarlo e i servizi erano ridotti alle emergenze, la maternità e attività salvavita. Questo è il terzo pesante incidente a una struttura medica di MSF negli ultimi tre mesi.

Il 27 ottobre l’ospedale di Haydan è stato distrutto da un bombardamento aereo ad opera della coalizione guidata dall’Arabia Saudita (SLC) e il 3 dicembre il centro di salute a Taiz è stato colpito sempre dalle forze della coalizione ferendo 9 persone.Le equipe di MSF faticano ogni giorno ad assicurare il rispetto delle strutture mediche da parte dei gruppi armati.

“Condanniamo pesantemente questo incidente che conferma un preoccupante disegno di attacchi a strutture mediche essenziali e esprimiamo il nostro più forte sdegno dato che lasciano una popolazione già fragile senza assistenza medica per settimane” afferma Ayora” Ancora una volta sono i civili a subire l’impatto maggiore di questa guerra”.

MSF chiede l’immediata cessazione degli attacchi a strutture mediche e chiede a tutte le parti coinvolte nel conflitto di impegnarsi per creare le condizioni per la fornitura di assistenza umanitaria in condizioni di sicurezza. MSF richiede, inoltre, che i responsabili di questo attacco investighino sulle circostanze dell’incidente.

Le nostre attività nel Paese

In Yemen, MSF sta lavorando nei governatorati di Aden, Al- Dhale, Taiz, Saada, Amran, Hajjah, Ibb e Sana’a. Sin dall’inizio di questa crisi nel marzo 2015 le equipe di MSF hanno curato più di 20.000 feriti di guerra. MSF ha inviato più di 790 tonnellate di materiale medico finora. MSF sta gestendo 11 ospedali e centri sanitari e supporta regolarmente 18 centri sanitari. Con un sistema sanitario che funziona a fatica, MSF sta fornendo anche servizi sanitari non di emergenza.

 

 

Fonte:

http://www.medicisenzafrontiere.it/notizie/comunicato-stampa/un-altro-ospedale-supportato-da-msf-%C3%A8-stato-bombardato%C2%A0-yemen

 

ARABIA SAUDITA: ATTIVISTA RISCHIA DI ESSERE MESSO A MORTE PER DECAPITAZIONE E CROCIFISSIONE

Arabia Saudita: attivista rischia di essere messo a morte

La Corte penale speciale e la Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza capitale nei confronti di Ali Mohammed Baqir al-Nimr, giovane attivista sciita condannato a morte per reati presumibilmente commessi all’età di 17 anni.
È accusato di “partecipazione a manifestazioni antigovernative”, attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. La condanna sarebbe stata emessa sulla base di una confessione estorta con torture e  maltrattamenti.
Ali al-Nimr è nipote di un eminente religioso sciita – Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, anch’egli condannato a morte.
Ali al-Nimr ha esaurito ogni possibilità di appello e può essere messo a morte appena il re ratifica la condanna.
Chiedi con Amnesty l’annullamento della sentenza, indagini sulle torture e che l’Arabia Saudita rispetti i diritti umani.

 

Amnesty International Italia

FIRMA L’APPELLO

Approfondimento

IL CASO
Il 14 febbraio 2012, Ali Mohammed Baqir al-Nimr, 17 anni, viene arrestato e condotto presso la Direzione generale delle indagini (Gdi) del carcere di Dammam. Non può vedere il suo avvocato e, secondo quanto riferisce, viene torturato da ufficiali della Gdi affinché firmi una “confessione”.
Resta detenuto nel centro di riabilitazione giovanile Dar al-Mulahaza per un anno e, a 18 anni, riportato nella Gdi di Damman.
Il 27 maggio 2014, il tribunale penale speciale di Gedda lo condanna a morte per reati che comprendono la “partecipazione a manifestazioni antigovernative”, attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. Il tribunale si sarebbe basato sulla “confessione” estorta con la tortura e maltrattamenti e su cui si è rifiutato di indagare.
Ad agosto 2015 il caso viene inviato al ministro dell’Interno per dare attuazione alla sentenza.
A settembre la famiglia diffonde la notizia appresa: i giudici di appello presso la Corte penale speciale (Scc) e della Corte suprema confermano la sentenza.
Ali al-Nimr è un attivista scita e nipote dell’eminente religioso sciita Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, di al-Awamiyya in Qatif, nella zona orientale dell’Arabia Saudita, condannato a morte dal tribunale penale speciale il 15 ottobre 2014.

 

LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA
L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza  e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.
Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.
Fonte:
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Arabia Saudita: 21enne condannato a decapitazione e crocifissione

Arabia Saudita: 21enne condannato a decapitazione e crocifissione

(Agenzie). Un giovane saudita di 21 anni, Ali al-Nirm, è stato condannato a essere decapitato e poi crocifisso in pubblico. La condanna, emessa in maggio da un tribunale di Gedda, è stata confermata dalla Corte Suprema.

Il ragazzo, nipote di Nimr al-Nimr, è stato condannato per aver partecipato a una manifestazione contro il governo nel 2012, nonché per possesso di armi.

 

 

Fonte:

http://arabpress.eu/arabia-saudita-21enne-condannato-a-decapitazione-e-crocifissione/68728/

BAHRAIN: Il CONFLITTO TRA INTERESSI E DIRITTI UMANI

Dal 2011 sono stati circa 90 i morti negli scontri e centinaia gli arrestati, molti partiti sono stati messi fuori legge e leader politici sono stati condannati per incitazione della violenza e sovversione

Bahrein

di Francesca La Bella

Roma, 18 settembre 2015, Nena News – Con una dichiarazione congiunta presso la Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite, 32 Paesi mondiali hanno espresso la loro preoccupazione per lo stato della tutela dei diritti umani in Bahrein. Secondo il portavoce del gruppo, l’ambasciatore svizzero Alexandre Fasel, nonostante alcune piccole migliorie introdotte di recente come la nomina di un difensore civico o la creazione di una commissione per i diritti dei detenuti, nel piccolo Paese del Golfo esisterebbe un grave deficit di tutela per quanto riguarda i diritti fondamentali: violazioni sistematiche della libertà di opinione e di associazione; mancata garanzia di giusto processo; condizioni di detenzione inadeguate; detenzione di minori per reati di opinione o di piazza; segnalazione di casi di tortura e di trattamenti degradanti non penalmente perseguiti.

A questi dati si aggiungano quelli forniti in questi anni da agenzie internazionali e organizzazioni interne al Paese. I report sullo stato dei diritti in Bahrein parlano di arresti arbitrari, di discriminazioni della popolazione sciita, di violenze e torture dentro e fuori dalle carceri. Dal 2011 circa 90 sono stati i morti accertati negli scontri e centinaia gli arrestati, molti partiti sono stati messi fuori legge e leader politici di rilievo sono stati condannati per incitazione della violenza e sovvertimento dell’ordine. Da molto tempo, associazioni e forze di opposizione interne denunciano questa situazione e la presa di posizione internazionale potrebbe dar loro nuova forza a fronte di un panorama d’area poco propizio.

A questo proposito, infatti, è necessario sottolineare come le dinamiche interne al Bahrein siano strettamente collegate a quelle dei vicini d’area, Arabia Saudita in primis. In questo senso, è significativo che, mentre a livello internazionale si discute sullo stato dei diritti bahreiniti, il re del Bahrein Hamad bin Isa Al-Khalifa venga accolto in Arabia Saudita dal re Salman bin Abdel Aziz e che durante la visita venga ribadita la vicinanza e la cooperazione tra i due Paesi. Fin dalle prime manifestazioni contro il Governo nel 2011, l’appoggio saudita alla corona bahreinita è stato uno dei fattori che maggiormente ha garantito solidità del potere centrale a fronte della crescita di movimenti di opposizione e della partecipazione popolare alle proteste.

I sauditi non sono, però, gli unici partner della corona del Bahrein. E’ notizia di pochi giorni fa di una nuova commessa per l’italiana Finmeccanica-Selex Es di oltre 50 milioni di euro per ammodernamento di sei unità navali della Royal Bahrein Naval Force. Questo non sarebbe, però, il primo contratto tra l’azienda italiana e il governo di Manama. In passato, Selex Es avrebbe, infatti, fornito sistemi radar di sorveglianza per l’aviazione civile e per la Bahrein Air Force. Alla luce di questo, spicca ancor di più la mancata adesione italiana alla denuncia dello stato dei diritti Bahreiniti. A tal proposito Human Rights Watch, esprimendo plauso per la dichiarazione e aderendo all’appello per l’invio in Bahrein del commissario speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, avrebbe sottolineato con delusione come Paesi come la Spagna e l’Italia abbiano scelto di dare priorità alla politica anziché ai diritti.

Nonostante si tratti di un piccolo Paese, gli interessi in campo trascendono, dunque, dalle dinamiche interne andando ad investire questioni più ampie. In tal senso è utile ricordare che anche in Bahrein trova espressione la più ampia contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran. La pervasività del problema è tale che domenica scorsa la portavoce del ministero degli Esteri iraniano Marzieh Afkham ha affermato che il governo del Bahrein alzerebbe il livello di tensione nel Paese accusando l’Iran di sostenere e armare le opposizioni. A fronte di questo contesto, la possibile soluzione delle questioni interne e la liberazione dei molti prigionieri politici ospitati nelle prigioni del Regno sembra ancora molto lontana. Nena News

 

Fonte:

http://nena-news.it/bahrein-il-conflitto-tra-interessi-e-diritti-umani/

Rivoluzione egiziana: economia politica di un altro anniversario di sangue. 25 i manifestanti uccisi

26 / 1 / 2015

 

Il quarto anniversario della rivoluzione egiziana ha confermato la situazione di brutale e sfrenata repressione del dissenso da parte del regime controrivoluzionario del generale Sisi. Secondo le stime disponibili, sono oltre 15.000 i prigionieri politici e più di 2.000 i manifestanti uccisi da quando i militari hanno deposto il presidente islamista Morsi nel luglio 2013. Inizialmente la repressione si era concentrata sulle forze islamiste, ma si è molto presto abbattuta anche sulla gioventù rivoluzionaria, con campagne di arresti e molteplici uccisioni.

La polizia aveva segnalato che non avrebbe tollerato alcuna manifestazione di dissenso già nei due giorni precedenti l’anniversario, assassinando due giovani donne ad Alessandria e al Cairo. La prima vittima è stata Sondos Reda Abu Bakr, ragazza di diciassette anni che stava partecipando a una manifestazione dei Fratelli Musulmani ad Alessandria il 23 gennaio. Secondo i testimoni, gli agenti hanno colpito la studentessa al petto con pallottole sparate da distanza ravvicinata. La seconda vittima è stata Shaima Al-Sabbagh, militante dell’Alleanza Popolare Socialista, freddata da una pallottola alla testa mentre si accingeva a deporre dei fiori in memoria dei martiri della rivoluzione a Piazza Tahrir, nel corso di una manifestazione pacifica e di dimensioni assai esigue.

Nonostante il sistematico terrorismo di stato, manifestazioni di dissenso hanno avuto luogo nelle più svariate località del paese nel giorno dell’anniversario. La commemorazione ufficiale e di regime era stata rinviata a causa del lutto per la (a noi assai gradita) morte del re saudita Abdullah e piazza Tahrir era stata chiusa al pubblico. Il bilancio della giornata è stato di 25 morti confermati dal Ministero della Salute, almeno un centinaio di feriti e più di cinquecento arresti. La maggior parte delle uccisioni sono avvenute durante proteste ad Alessandria e nei quartieri popolari del Cairo, sembrerebbe di matrice islamista. Tre jihadisti sono morti a Beheira mentre tentavano di piazzare una bomba. I gruppi rivoluzionari di sinistra e liberali hanno organizzato proteste nel centro del Cairo, anch’esse represse brutalmente.

Se lo stato egiziano può permettersi simili livelli di repressione, che per il momento stanno avendo tra i loro effetti quello di radicalizzare l’opinione pubblica della destra islamista ingrossando le file degli jihadisti, non è certo un caso. Il regime di Sisi è stato fin dagli inizi finanziato generosamente dagli stati più reazionari della regione mediorientiale: l’Arabia Saudita in testa (da sempre nemica dei Fratelli Musulmani quanto della democrazia), seguita da Emirati e Kuwait. Alle decine di miliardi fornite dalle monarchie del Golfo si aggiungono ovviamente gli “aiuti” militari degli Stati Uniti, che sono ripresi dopo un periodo di esitazione, non appena le violazioni su larga scala dei diritti civili hanno smesso di arrivare in prima pagina. Le condizionalità di questi finanziamenti si sono rivelate nella ripresa della neoliberalizzazione interna e nella “moderazione” della posizione egiziana sull’apartheid palestinese in politica estera.

Recentemente il flusso di aiuti dalle monarchie del Golfo si è ridotto, cosa che potrebbe costringere Sisi ad accelerare le politiche di austerità e privatizzazione. Alcuni osservatori ipotizzano che ciò sia dovuto al crollo dei pezzi del petrolio, ma a dire il vero questo non è un problema reale, data l’abbondanza di riserve di dollari detenute dall’Arabia Saudita. L’avarizia dei signori del petrolio potrebbe piuttosto evidenziare una volontà di tenere l’Egitto, ormai paese satellite, legato a un guinzaglio assai corto. Tuttavia, come ha evidenziato Juan Cole, i tentativi da parte delle economie emergenti di diminuire la propria dipendenza dai combustibili fossili potrebbe comportare un abbassamento strutturale dei prezzi nell’oro nero in un futuro non troppo remoto. Per quanto la complessità della politica mediorientale non sia affatto riducibile alle rendite petrolifere, è probabile che una crisi delle economie rentier causerà potenti traumi negli attuali rapporti di forza. In tal caso tornerà il tempo della resa dei conti, e non solo in Egitto.

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/rivoluzione-egiziana-economia-politica-di-un-altro-anniversario-di-sangue/18597

 

1° ANNIVERSARIO DELL’ATTACCO CHIMICO SU AL GHOUTA – MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE

10574265_513421402124505_497035575808450689_nUn appello a mobilitarsi il 21 agosto e creare una rete di solidarietà e supporto alla rivoluzione siriana.

Dichiarazione in solidarietà con la rivoluzione siriana

Mentre i siriani commemorano il primo anniversario degli attacchi chimici su Al-Ghouta, noi sottoscritti siamo solidali con i milioni di siriani che lottano per la dignità e la libertà fin dal marzo 2011. Rivolgiamo un appello ai popolo del mondo perchè agiscano in sostegno della rivoluzione ed i suoi scopi, pretendendo la fine immediata della violenza e del regime illegittimo di Assad.

Per il primo anniversario dell’attacco con armi chimiche, il 21 agosto, invitiamo i sostenitori della Rivoluzione siriana e delle sollevazioni per la libertà, la dignità e la giustizia sociale in tutta la regione e nel mondo, di organizzare eventi per denunciare le atrocità, la disinformazione, le menzogne ed i silenzi vergognosi e per mostrare la propia solidarietà, sia a livello politico che concreto, con la lotta dei cittadini siriani.

I rivoluzionari siriani hanno continuato a lottare per la libertà nonostante gli innumerevoli ostacoli che gli si sono parati innanzi. Per uccidere la rivoluzione, il regime siriano ha perseguito quattro strategie:
1) militarizzazione delle rivolte attraverso una campagna di repressione violenta delle proteste pacifiche che erano durate sei mesi;
2) l’islamizzazione dell’insurrezione, concentrandosi contro i gruppi secolari e lasciando mano libera ai jihadisti;
3) settarizzazione del conflitto attraverso l’assunzione di un numero crescente di combattenti sciiti da altri paesi, abbinata alla presa di mira di città e villaggi a maggioranza sunnita;
4) internazionalizzazione del conflitto, invitando l’Iran, la Cina e la Russia a svolgere un ruolo centrale. Allo stesso tempo, paesi come gli Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar hanno dato il loro sostegno a gruppi reazionari per sconfiggere la rivoluzione.

Anche il caso dei “Douma4” [https://www.facebook.com/douma4?fref=ts] dimostra come i rivoluzionari stiano lottando su due fronti: quattro coraggiosi attivisti che lavorano per il Centro di Documentazioni dei Violazioni sono stati rapiti nel dicembre 2013 da uomini armati, mascherati e sconosciuti. Il motivo principale dietro il rapimento è che questi militanti rappresentano il popolo siriano auto-cosciente e attivo, consapevole della sua forza quando agisce unitariamente, ma soprattutto dimostrano che il popolo rifiuta qualsiasi forma di sottomissione all’autoritarismo. Il sequestro di questi quattro militanti ricorda che il popolo siriano della rivoluzione per la libertà e la dignità non è solo contrario alla dittatura di Assad, ma anche e sempre schierato contro i gruppi reazionari ed opportunisti che sono contrari agli obiettivi della rivoluzione: la democrazia, la giustizia sociale, la fine di settarismo.

Il primo anniversario degli attacchi chimici è l’occasione per riaffermare l’importanza del processo rivoluzionario non solo in Siria ma anche in tutto il mondo arabo. La lotta dei siriani contro la dittatura, contro il jihadismo globale e contro l’imperialismo occidentale non deve essere visto come locale e nemmeno come regionale. È parte di un momento d’insurrezione in cui il mondo è diventato il campo di battaglia. Il nuovo sviluppo in Iraq, fra l’altro, la guerra a Gaza hanno mostrato che il destino della rivoluzione è interconnesso con la situazione in tutta la regione. La lotta dei siriani per la dignità, la libertà e l’autodeterminazione non può quindi essere separata dalla storica ribellione palestinese contro il sionismo, dalle lotte delle donne egiziane contro i militari e le molestie sessuali, dalla coraggiosa insurrezione in Bahrein contro il totalitarismo, dalla lotta curda per l’autodeterminazione, da quella del’ EZLN e delle altre popolazioni indigene nelle loro resistenza contro il razzismo ed il neoliberismo o le grandi ribellioni dei lavoratori contro le misure di austerity che portano solo povertà ai cittadini.

La rivoluzione siriana si trova ad un crocevia. Il mancato arresto dell’ondata contro-rivoluzionaria in Siria avrebbe enormi ripercussioni sulla società siriana per un lungo periodo di tempo e le sue implicazioni nella regione saranno enormi. Il successo della rivoluzione in Siria invece scatenerebbe le aspirazioni rivoluzionarie nel mondo arabo ed oltre, tra popoli che sono stati oppressi per troppo tempo.

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Syrian Revolution Support Baseshttps://www.facebook.com/Syrian.Revolution.Support.Bases?fref=ts
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Per favore, firmate la petizione ed aiutateci a diffonderla in tutto il mondo:

https://www.change.org/petitions/social-movements-activists-global-civil-society-a-global-day-of-action-and-solidarity-with-the-syrian-revolution

[Per sottoscrivere questa dichiarazione inviate una mail con nome, cognome, paese ed eventuale organizzazione/ruolo all’indirizzo srsbases@gmail.com]

Evento a Milano sabato 23:  https://www.facebook.com/events/534190049950791/

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Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/08/17/1-anniversario-dellattacco-chimico-su-al-ghouta-mobilitazione-internazionale/

 

Qui l’evento su Facebook:

https://www.facebook.com/events/844951738857890/?ref_dashboard_filter=upcoming

 

 

Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/08/17/1-anniversario-dellattacco-chimico-su-al-ghouta-mobilitazione-internazionale/