Femministe in piazza per la piccola Yuliana

Colombia. Proteste contro i femminicidi

Il logo delle donne contro i femminicidi

Femministe di nuovo in piazza, in Colombia, contro la violenza sulle donne. Centinaia di persone si sono raccolte nel parco di Lourdes, a Bogotà, intorno alla foto della piccola Yuliana Samboni, una bambina di 7 anni violentata, torturata e uccisa probabilmente da un uomo di 38 anni, che è stato arrestato. L’avvocata Monica Roa ha accusato la società colombiana di essere «il brodo di coltura per i violentatori che uccidono. Quello di Yuliana – ha ricordato – non è un caso isolato, 21 bambine tra i 10 e i 14 anni vengono violentate ogni giorno».

Il presunto assassino ha rapito la bambina dal quartiere povero in cui viveva per portarla nel lussuoso appartamento di proprietà della famiglia, nel Chapinero. La famiglia della piccola aveva lasciato il dipartimento del Cauca – dove i contadini sono spesso espulsi dalla violenza delle bande paramilitari -, in cerca di migliori condizioni nella capitale.
Il 6 novembre era stata violentata, torturata e impalata in Colombia, una donna di 44 anni, Dora Lilia Galvez, che morì dopo 22 giorni di agonia. Nel 2016, sono state uccise 125 donne. Secondo l’uffficio dell’Onu-Mujer, nel paese ogni giorno e mezzo una donna viene ammazzata dal compagno o dall’ex. Anche dal Cile, ieri le femministe hanno denunciato un femminicidio con stupro e torture a una giovane che sarebbe stata impalata e a cui avrebbero tagliato i seni.

In questi giorni, le donne che hanno partecipato all’incontro continentale dei Movimenti dell’Alba hanno ricordato le cifre dei femminicidi commessi in Colombia, e la violenza di cui sono state vittime le donne durante il conflitto armato ad opera di polizia e paramilitari; e hanno ribadito la necessità di arrivare a un processo di pace con giustizia sociale. Ma, mentre è iniziata la smobilitazione della guerriglia dopo la firma degli accordi, ratificata dal Parlamento, la Camera tarda ad avviare il percorso di amnistia per gli ex guerriglieri, che ne consentirebbe il rientro nella vita politica.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/femministe-in-piazza-per-la-piccola-yuliana/

Messico, una gigantesca fossa comune

Desaparecidos. Scoperti 4.600 resti ossei. Forse vittime dei Los Zetas

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Una scoperta dantesca. In Messico, una zona desertica di Coahuila potrebbe nascondere una gigantesca fossa clandestina. Su una superficie di 56.000 metri quadrati, sono stati individuati 4.600 frammenti ossei e altri oggetti. Secondo gli inquirenti, potrebbe essere un luogo di discarica del potente cartello dei Los Zetas.

Alla zona si è arrivati grazie al lavoro del gruppo Vida, che si dedica alla ricerca dei desaparecidos ricostruendo le testimonianze della popolazione locale. La drammatica realtà delle fosse comuni clandestine è emersa durante la ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala dopo essere stati attaccati da polizia e narcotrafficanti tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Il mondo si è accorto allora di quanto torture e violazioni dei diritti umani siano prassi comune, nelle caserme e nei commissariati, e quanto poco valga la vita di chi sopravvive a stento nelle campagne, stretto tra il ricatto della miseria e quello delle cosche, ben innervate a un sistema politico violento e diseguale. I movimenti popolari continuano a cercare i 43. Forti dell’appoggio di una voluminosa controinchiesta alternativa che ha evidenziato menzogne e depistaggi, hanno ottenuto dal governo la riapertura dell’inchiesta. E intanto, grazie all’attività di organizzazioni come Vida, si è dato un nome a molte vittime della tratta o delle cosche, dai confini con gli Stati uniti al resto del paese.

Alla fine del 2015, il numero degli scomparsi ammontava a 27.887. Questa nuova, macabra, scoperta potrebbe elevare di molto le cifre. Secondo i periti, i 4.600 resti appartengono a persone scomparse a partire dal 2004, uccise tra il 2007 e il 2012 dagli Zeta. Secondo le testimonianze, in quegli anni, si sono visti uomini armati arrivare nella zona a bordo di furgoni, scaricare corpi e bruciarli. Gli abitanti raccontano anche che altri corpi venivano «dissolti» in grandi recipienti e che le urla dei condannati si udivano per tutto il circondario. I famigliari delle vittime hanno denunciato l’inadempienza delle autorità di Coahuila che hanno minimizzato l’accaduto. Molti componenti degli Zetas provengono dalle forze speciali dell’esercito.

 

Fonti:

http://ilmanifesto.info/messico-una-gigantesca-fossa-comune/

Honduras, ucciso un altro leader contadino

Honduras. Nel 2015 185 ambientalisti ammazzati

Honduras, manifestazione ambientalista

Ancora piombo, in Honduras, contro i movimenti popolari. Questa volta, a cadere sotto i colpi dei sicari è stato il presidente del Movimiento Unificado Campesino del Aguán (Muca), José Angel Flores. Lo hanno ucciso nella comunità La Confianza, nel dipartimento di Colon. Uomini incappucciati gli hanno sparato nel suo ufficio, ammazzando anche un’altra persona, Silmer Dionisio George. Il dirigente contadino aveva ricevuto numerose minacce e intimidazioni, anche dalla polizia, che a marzo lo aveva prelevato senza motivo insieme alla famiglia nonostante fosse malato. Era sotto la protezione della Comision Interamericana de Derechos Humanos (Cidh), ma questo non ha fermato gli assassini.

Un copione purtroppo già visto. E’ andata così anche nel caso delle ambientaliste Berta Caceres e Lesbia Yaneth, uccise rispettivamente il 3 marzo e il 6 luglio. Entrambe appartenevano all’organizzazione indigena Copinh e si battevano contro lo strapotere delle multinazionali, che rubano e devastano i territori dei nativi. Omicidi di stato, denunciano le organizzazioni popolari, maturati all’ombra di grandi interessi. Organizzazioni indigene e contadine, legittime proprietarie delle terre in base alla riforma agraria del 1992, si scontrano con le imprese dell’agroindustria e con i paramilitari che le difendono.

Secondo Global Witness, dal 2010 a oggi si sono registrati oltre 3.064 casi di persecuzione contro difensori dei diritti umani. Solo nel 2015 sono stati ammazzati 185 ambientalisti. Le violenze sono aumentate dopo il golpe contro l’allora presidente Manuel Zelaya, nel 2009, che avrebbe voluto portare il paese nell’Alba di Cuba e Venezuela.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/ucciso-un-altro-leader-contadino/

Ventimiglia, caricati i migranti alla frontiera. Comunicato del presidio No Borders

 

Fonte:

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1009470369171143&id=782827925168723

Alta tensione al confine tra Ventimiglia e Mentone. La polizia ha sgomberato con violenza circa 200 migranti che – come l’anno scorso – avevano nuovamente occupato la pineta dei Balzi Rossi, a 50 metri dalla frontiera. Tutto ha avuto inizio nella notte del 4 agosto, quando un gruppo di oltre 300 persone è riuscito ad allontanarsi dal centro della Croce rossa a Ventimiglia, passando dalla ferrovia. Cercavano di raggiungere la Francia. Il giorno dopo, il gruppo si è accampato al confine, raggiunto da un imponente schieramento di polizia.

Gli attivisti che l’anno scorso avevano accompagnato i migranti nel campeggio No Border alla frontiera, hanno cercato di portare loro cibo e acqua, ma sono stati respinti dalla polizia e portati in caserma a Ventimiglia. Due persone hanno ricevuto il “foglio di via”, che impedisce loro di accedere a 16 comuni della provincia di Imperia, altre due sono state trattenute nella stazione francese della Police de Frontières (Paf) e gli è stato notificato il divieto di tornare in Italia per cinque anni.

Durante una giornata di trattative, i migranti hanno ribadito le loro richieste e l’indisponibilità a rientrare in quello che considerano un carcere in cui si verificano “quotidiani soprusi”: l’accampamento di container installato alla periferia di Ventimiglia e gestito dalla Croce rossa. Hanno chiesto la libertà di un loro compagno, arrestato giorni prima.
E poi, la carica. Un gruppo di migranti riesce a fuggire oltreconfine, ma parte la caccia della polizia francese.
In totale, 17 attivisti europei sono stati fermati dalla polizia italiana e francese, 7 solidali sono stati portati in questura a Imperia. Un immigrato, rimasto gravemente ferito, è stato ricoverato all’ospedale traumatologico. La polizia ha anche fatto irruzione nei locali del Freespot, uno spazio di solidarietà ai migranti aperto dai No Border a Camporosso.

Sono tornati nei container 118 migranti, altri 25 sono nelle mani della Paf, altri sono stati mandati nei centri di identificazione nel sud Italia, dove saranno identificati ed espulsi. Gli attivisti denunciano che diversi autobus delle Lignes d’Azur hanno “deportato” i migranti impedendogli di scendere, su indicazione della polizia e che solo 60 di loro sono stati riammessi in Italia. Per oggi è stato indetto un presidio a Ventimiglia.

Intanto, continuano le polemiche e le prese di posizione. La senatrice del Pd, Donatella Albano, dice che “non è tollerabile che si blocchino strade o si ripetano insediamenti abusivi”, ma chiede che “i diritti vengano rispettati”. Il sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano avverte che: «il centro di accoglienza del Parco Merci dev’essere l’unico punto di riferimento. Chi crea disagi a Ventimiglia non ci può stare. La manifestazione è pretestuosa e non porta a alcun risultato. È ormai evidente che attività di questo genere vengono studiate ad hoc per creare disagio e disturbo».
Ed è salito a 400 il numero dei migranti che oramai da un mese sono accampati nei giardini della stazione ferroviaria di Como. Sono in maggior parte etiopi ed eritrei che hanno inutilmente tentato di raggiungere la Germania in treno e che sono stati respinti a Chiasso dalle autorità svizzere.

Geraldina Colotti da il manifesto

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Comunicato del presidio No Borders Ventimiglia – 6 agosto 2016.

Dopo un volantinaggio in spiaggia abbiamo deciso di andare verso il centro della Croce Rossa, dove i migranti erano stati forzati a rientrare in seguito alla protesta dei balzi rossi di ieri.

Stavamo tranquillamente raggiungendo il luogo lungo i binari dismessi del Parco Roja quando d’improvviso una camionetta di polizia antisommossa si è schierata di fronte a noi per bloccarci.

Non c’è stato nessuno “scontro”, i celerini, scudi e manganelli alla mano, hanno sparato diversi gas lacrimogeni per allontanarci. Di fronte alla nostra ritirata, siamo stati inseguiti e attaccati dalle camionette in corsa a tutta velocità.

I poliziotti sono riusciti a fermare alcuni compagni a suon di manganellate.

Le persone fermate sono 11.

Abbiamo poi appreso dalla stampa che un agente è rimasto vittima di un infarto durante questa operazione.

Sappiamo che c’è già chi sarà pronto a strumentalizzare questo episodio, ma la responsabilità di quanto accaduto è tutta della questura e delle istituzioni, della loro assurda gestione dei migranti in transito a Ventimiglia.

Questa giornata ne è l’ennesima prova.

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/ventimiglia-caricati-migranti-alla-frontiera-comunicato-del-presidio-no-borders/

Brasile, mano dura contro le occupazioni

Rio de Janeiro. Allarme Isis e repressione dei movimenti

Manifestazione a Rio

Mano dura contro le occupazioni. In Brasile, il governo ad interim di Michel Temer usa l’«allarme terrorismo» per reprimere i movimenti sociali. Almeno 50 agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato con violenza i manifestanti, accampati in un edificio del Ministero della Cultura a Rio de Janeiro dal 16 maggio. Nelle cariche è stato colpito anche l’ex senatore del Partito dei lavoratori Eduardo Suplicy.

Il 12 maggio, il Senato ha votato l’impeachment contro Dilma Rousseff, con 55 voti favorevoli e 22 contrari. La presidente è stata sospesa dall’incarico per 180 giorni e, da allora, i movimenti sociali l’accompagnano al grido di «Fora Temer». Secondo il presidente del Senato, Renan Calheiros, il voto finale dopo il processo dovrebbe tenersi «nella settimana del 20», probabilmente dopo la chiusura dei Giochi olimpici (che si svolgono dal 5 al 21).

Temer – che ha nominato un gabinetto di soli uomini bianchi, anziani e ricchi – sta passando la scure sui diritti: ha abolito ministeri sociali, ha licenziato, ha tagliato i programmi rivolti ai settori popolari. Un’ondata di proteste, scoppiata in oltre 18 città del paese, lo ha però obbligato a ripristinare il Ministero della Cultura. Intanto, sono apparsi chiari i contorni e gli intenti del golpe istituzionale: proteggere i suoi principali artefici dall’inchiesta per tangenti Lava Jato, la «mani pulite» brasiliana che Rousseff voleva agevolare. Gran parte dei parlamentari e dei senatori che hanno votato l’impeachment sono coinvolti nel grande scandalo per corruzione dell’impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Per questo, diversi ministri di Temer hanno dovuto dimettersi.

Per contro, il Pubblico ministero federale ha ritenuto infondata la denuncia penale sporta nei confronti della presidente, e ha archiviato il fascicolo relativo alla cosiddetta «pedalata fiscale», un’operazioni di credito mascherata. Cade quindi il «crimine di responsabilità» che ha mosso l’impeachment: la presidente non ha truccato i conti dello Stato. Il 20 luglio, anche la sentenza del Tribunale internazionale sulla democrazia in Brasile, composto da giuristi, intellettuali, premi Nobel e anche dal Tribunale dei popoli, ha stabilito che l’impeachment costituisce un colpo di stato e deve essere considerato nullo.

Il Tribunale è stato convocato a Rio de Janeiro dalle organizzazioni Via Campesina, Fronte Brasile Popolare e Fronte di giuristi per la Democrazia. La sentenza verrà inviata al Supremo Tribunal Federal per chiedergli di «impedire la rottura dell’ordine democratico» e annullare il procedimento contro la presidente. E, negli Stati uniti, anche un gruppo di 40 deputati del Partito democratico si è diretto a John Kerry per esprimere «profonda preoccupazione per la minaccia alle istituzioni democratiche» che rappresenta l’impeachment, e ha chiesto al segretario di Stato Usa di non appoggiare il governo Temer.

Il leader del movimento brasiliano dei Sem Terra, Joao Pedro Stedile, ha dal canto suo annunciato che intensificherà le occupazioni, qualora Temer voglia vendere le terre alle multinazionali, come ha scritto la stampa in questi giorni. Stedile ha denunciato il pacchetto di riforme neoliberiste deciso da Temer e ha dichiarato che il Fronte Brasile Popolare, di cui fanno parte diversi movimenti sociali come l’Mst sta valutando la possibilità di uno sciopero generale prima della votazione finale sull’impeachment.

E mentre si moltiplicano gli allarmi sulla possibilità di cellule dell’Isis provenienti dalla città di Corrientes, in Argentina, Dilma Rousseff ha detto in un’intervista alla Jornada che l’attuale crisi del Brasile è «la peggiore dalla fine della dittatura militare», e che sui Giochi olimpici «spira un’aria contaminata».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/brasile-mano-dura-contro-le-occupazioni/

MESSICO: UN ANNO SENZA I 43

Messico. Una settimana di mobilitazione per gli studenti scomparsi

Messico, manifestazione per i 43 scomparsi

Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.

Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.

Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico. Allora, i reparti spe­ciali dell’esercito e della poli­zia ucci­sero oltre 300 gio­vani, a pochi giorni dalle Olim­piadi di Città del Mes­sico. L’anno scorso, gli stu­denti ave­vano «preso in pre­stito» alcuni auto­bus, com’è loro con­sue­tu­dine durante le mobi­li­ta­zioni. Dopo un primo scon­tro con un gruppo di uomini armati accom­pa­gnati da agenti della poli­zia locale, gli stu­denti hanno cer­cato di rac­con­tare l’episodio ai gior­na­li­sti, ma i loro auto­bus sono stati presi di mira da altri indi­vi­dui armati di fucili mitra­glia­tori. In quel fran­gente è stato attac­cato anche un pull­man di cal­cia­tori che tor­nava da una par­tita. Chi non è riu­scito a fug­gire — all’inizio si è par­lato di 58 scom­parsi — è stato inghiot­tito nel buco nero del Messico.

Secondo la ver­sione uffi­ciale, la poli­zia ha con­se­gnato gli stu­denti ai nar­co­traf­fi­canti, che li hanno uccisi e bru­ciati in una disca­rica del cir­con­da­rio, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichia­ra­zioni dei pen­titi, ma subito con­te­stata dalle con­tro­in­chie­ste gior­na­li­sti­che e dalle peri­zie indi­pen­denti. Di recente, il Gruppo Inter­di­sci­pli­nare di Esperti Indi­pen­denti (Giei), isti­tuito dalla Com­mis­sione Inte­ra­me­ri­cana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati ame­ri­cani (Osa) -, ha pre­sen­tato un rap­porto di 500 pagine che con­futa i risul­tati uffi­ciali. Per lo stato, quella con­se­gnata ai media e alle fami­glie, è la verità «sto­rica». Così l’aveva defi­nita l’ex Pro­cu­ra­tore gene­rale Murillo Karam. La sua rispo­sta alle domande del pub­blico — «adesso mi sono stu­fato» — è diven­tata lo slo­gan capo­volto dei mani­fe­stanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stan­cato» delle false verità di stato.

Il Giei ha invece evi­den­ziato l’impossibilità di bru­ciare un così gran numero di corpi in quella disca­rica. Ha chia­mato in causa le com­pli­cità dell’esercito e della poli­zia fede­rale, ed ha anche avan­zato l’ipotesi che gli stu­denti quel giorno pos­sano aver messo le mani su un grosso carico di droga tra­spor­tata su uno dei pull­man. Finora, sono stati iden­ti­fi­cati i resti cal­ci­fi­cati di due stu­denti. Ma gli esperti indi­pen­denti avan­zano dubbi: intanto, i fram­menti di un dito e di un dente non cer­ti­fi­cano la morte; e poi, nes­suno ha visto il sacco nero con­te­nente i resti nella disca­rica di Cocula; e ancora: se gli stu­denti sono stati ince­ne­riti, dove può esi­stere un forno cre­ma­to­rio così grande? Nelle caserme mili­tari — rispon­dono i fami­gliari — dove si tor­tura e si uccide. Una pra­tica pro­vata in tutti quei paesi — come la Colom­bia e il Mes­sico — dove i para­mi­li­tari fanno scom­pa­rire le loro vit­time con la com­pli­cità dell’esercito.

In Mes­sico e in altre parti del mondo, è ini­ziata una set­ti­mana di mobi­li­ta­zioni. I fami­gliari degli scom­parsi hanno ini­ziato uno scio­pero della fame. Anche quelli dei gio­vani cal­cia­tori, il cui pull­man è stato attac­cato un anno fa, chie­dono giu­sti­zia e un incon­tro urgente con il pre­si­dente Nieto. Chie­dono anche che gli esperti Giei pos­sano inda­gare per altri sei mesi. Nieto ha pro­messo una com­mis­sione d’inchiesta indi­pen­dente a cui nes­suno crede: anche per­ché, al Senato, l’arco dei par­titi non ha tro­vato un accordo per for­marla. Cin­que madri degli scom­parsi hanno intanto rag­giunto gli Stati uniti, dove con­tano di incon­trare il papa e di espor­gli le ragioni dello scio­pero della fame. Hanno già par­te­ci­pato a una veglia per i diritti dei migranti e con­tano di recarsi al Con­gresso a Washing­ton per chie­dere a Obama che ritiri il soste­gno a Nieto e alle sue poli­ti­che narco-militari. Il 27, andranno poi a Fila­del­fia, dove si recherà Ber­go­glio per pre­sen­ziare all’Incontro mon­diale delle fami­glie. Spe­rano dica qual­cosa con­tro le spa­ri­zioni forzate.

Anche in Ita­lia sono annun­ciati dibat­titi e ini­zia­tive. E’ già attiva una cam­pa­gna per ricor­dare il gior­na­li­sta Ruben Espi­nosa, ucciso di recente. Si sono espresse asso­cia­zioni come Amne­sty inter­na­tio­nal, che ha dedi­cato ampio spa­zio al Mes­sico degli scom­parsi nel suo ultimo rap­porto. Sabato a Roma (Cen­tro sociale La Strada) si pro­iet­terà un video a par­tire dal libro-inchiesta di Fede­rico Mastro­gio­vanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il gior­na­li­sta — che vive in Mes­sico — ha par­te­ci­pato a una con­fe­renza stampa indetta da Sel, che chie­derà al governo Renzi san­zioni con­tro Peña Nieto.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/un-anno-senza-i-43/

Cile, l’altro 11 settembre

Da il manifesto:

 

—  Geraldina Colotti, 10.9.2014

Golpe pinochettista. 41 anni dal colpo di stato che spazzò via il socialismo allendista

 

 

Domani, l’America latina ricorda «l’altro 11 set­tem­bre»: il golpe in Cile con­tro il governo di Sal­va­dor Allende. Quel giorno di 41 anni fa, il gene­rale Augu­sto Pino­chet, soste­nuto dai padrini Usa, spazzò via il trien­nio allen­di­sta e una pos­si­bile tra­sfor­ma­zione poli­tica e sociale, incom­pa­ti­bile con gli inte­ressi di Washington.

L’opinione degli Usa sull’elezione di Allende risulta da una con­ver­sa­zione, dese­cre­tata, tra l’allora Segre­ta­rio di stato, Henry Kis­sin­ger, e il diret­tore della Cia, Richard Helms: «Non per­met­te­remo che il Cile fini­sca nel canale di scolo», dice Kis­sin­ger. «Sono con lei», risponde Helms. È il 12 set­tem­bre del 1970. Tre giorni dopo, il pre­si­dente nor­da­me­ri­cano, Richard Nixon (quello dello scan­dalo Water­gate) ordina alla Cia di «far pian­gere l’economia» cilena: gui­dando il sabo­tag­gio dei grandi gruppi indu­striali, nazio­nali e inter­na­zio­nali, appog­giando il blocco dei tra­sporti, favo­rendo la fuga degli inve­sti­tori e facendo man­care il cre­dito estero.

Fiumi di dol­lari (169 milioni tra il 1946 e il ’72) con­ti­nua­rono però ad abbe­ve­rare le Forze armate cilene, adde­strate nelle scuole nor­da­me­ri­cane. Nel ’72, gli aiuti mili­tari erano rima­sti l’unica forma di assi­stenza for­nita da Washing­ton, che si oppose anche alla pos­si­bi­lità che il Cile rine­go­ziasse il debito estero. Un piano lungo tre anni. Il golpe aprì la strada a una dit­ta­tura feroce e lon­geva, durata uffi­cial­mente fino al 1990, ma che ha lasciato nel paese un’eredità mefi­tica, dif­fi­cile da cancellare.

I ten­ta­tivi della destra di omag­giare l’ex dit­ta­tore Augu­sto Pino­chet e i suoi sche­rani non sono mai venuti meno, e la società cilena è ancora attra­ver­sata dalle cica­trici pro­fonde di quel periodo. La dif­fi­coltà con cui il governo di Michelle Bache­let – tor­nata alla pre­si­denza a dicem­bre dell’anno scorso con la coa­li­zione Nueva Mayo­ria – sta met­tendo mano a quell’eredità pesante, sono lì a dimostrarlo.

Molti poli­tici in carica durante la dit­ta­tura sono d’altronde ancora in scena: rap­pre­sen­tanti sto­rici del par­tito di estrema destra Union Demo­crata Inde­pen­diente (Udi) come Ser­gio Fer­nan­dez, ex mini­stro degli Interni di Pino­chet; Andrés Chad­wick, mini­stro degli Interni dell’ex presidente-miliardario, Seba­stian Piñera che, da gio­vane, fu tra coloro che giu­ra­rono di «sal­vare la patria» durante il cosid­detto atto di Cha­ca­ril­las del 1977: un con­sesso di mez­za­notte simile a quello messo in scena dai nazi­sti. E molti altri ancora.

L’organizzazione Ciu­da­da­nos por la Memo­ria ha pre­sen­tato alla Camera un pro­getto per abo­lire tutti i sim­boli che esal­tano il golpe pino­chet­ti­sta. Si spera in un pro­nun­cia­mento in prima istanza da parte della com­mis­sione per i Diriti umani del Par­la­mento, pre­lu­dio alla discus­sione in aula. Nell’organizzazione vi sono anche mili­tari demo­cra­tici, che riget­tano la per­si­stente atti­tu­dine di un impor­tante set­tore delle Forze armate, tut­tora con­vinto che i gol­pi­sti «sal­va­rono la patria dal peri­colo comu­ni­sta». Un’idea che viene da lon­tano. A soste­nerla, allora, un campo di inte­ressi che ha coa­gu­lato i ceti bor­ghesi e pos­si­denti, strati sociali inter­medi, tec­no­crati e intel­let­tuali, con­vinti che il socia­li­smo bloc­casse la cre­scita e lo sviluppo.

Un’idea dura da vin­cere, nono­stante appaia evi­dente chi abbia pagato i costi delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste dila­gate nel segno dei Chi­cago Boys di Mil­ton Fried­man. Costi sociali gigan­te­schi e una repres­sione feroce, che, secondo i dati uffi­ciali, si è lasciata die­tro 3.200 morti e oltre 38.000 dete­nuti e tor­tu­rati. Furono quelli gli anni in cui venne for­mata la Dina, la poli­zia segreta diret­ta­mente con­trol­lata da Pino­chet. Gli anni dell’operazione Con­dor, il piano cri­mi­nale per eli­mi­nare gli oppo­si­tori ovun­que si tro­vas­sero: deciso dai ver­tici delle dit­ta­ture di Cile, Argen­tina, Bra­sile, Boli­via, Para­guay e Uru­guay, con il sup­porto di Fbi e Cia, e con un prin­ci­pale snodo nella zona del canale di Panama. Il capi­tolo cileno sta tutto den­tro la par­tita del grande Nove­cento: la lotta senza quar­tiere tra le forze della rea­zione e quelle del socialismo.

Una par­tita che con­ti­nua ancora, sep­pur in forme diverse e che si riflette nel bilan­cio, tutt’altro che ricon­ci­liato, sugli anni della dit­ta­tura. Per il blocco sociale che la sostenne e per i suoi eredi odierni, fu un fon­da­men­tale momento di svi­luppo che moder­nizzò il paese. Una rivo­lu­zione nella strut­tura pro­dut­tiva che pro­iettò il “laboratorio-Cile” nelle alte sfere del mer­cato capi­ta­li­stico glo­bale. Non a caso, quando Pino­chet lasciò la pre­si­denza dopo aver perso il ple­bi­scito del 1988, aveva ancora il gra­di­mento del 43% dei cileni. Un pro­getto di lunga git­tata, che ha distrutto il set­tore sta­tale pri­va­tiz­zando le imprese nazio­nali, con­traendo la spesa pub­blica e distrug­gendo i ser­vizi sociali, e lasciando campo libero alle mul­ti­na­zio­nali. La dit­ta­tura non era desti­nata a una paren­tesi, ma a det­tare i para­me­tri di una “demo­cra­zia” sotto tutela. Un’impalcatura che ingab­bia ancora il paese nono­stante gli anni della con­cer­ta­ción. I movi­menti e le orga­niz­za­zioni popo­lari lo hanno ricor­dato scen­dendo in piazza durante la pre­si­denza Piñera.

Ma anche il sacri­fi­cio di Sal­va­dor Allende, che scelse il sui­ci­dio durante il colpo di stato, è ben vivo nella memo­ria del paese e del con­ti­nente. E il costo pagato da quella breve sta­gione serve da monito alle nuove espe­rienze di governo in Ame­rica latina: quelle che hanno preso il potere in modo demo­cra­tico, e che scom­met­tono sul Socia­li­smo del XXI secolo. Il Vene­zuela, innan­zi­tutto. Le ana­lo­gie tra i piani desta­bi­liz­zanti messi in atto con­tro Cara­cas e quelli con­tro Allende, tor­nano nei discorsi e nelle analisi.

Ad ago­sto, gli eredi di Pino­chet che sie­dono in par­la­mento die­tro i ban­chi dell’Udi hanno innal­zato car­telli per chie­dere: «Libertà per Leo­poldo Lopez», il lea­der vene­zue­lano di Volun­tad Popu­lar dai tra­scorsi gol­pi­sti, in car­cere per aver diretto oltre due mesi di deva­sta­zioni e vio­lenze con­tro il governo Maduro dal feb­braio scorso.

Il vento di una nuova soli­da­rietà, che per­vade gran parte dell’America latina, ha por­tato in piazza i movi­menti sociali anche per soste­nere il diritto a uno sbocco al mare per la Boli­via di Evo Mora­les (una sto­rica que­stione aperta, insieme a quella che riguarda il Perù). E il Lati­noa­me­rica socia­li­sta ha soste­nuto la lotta dei nativi Mapu­che che, in Cile, lot­tano per rien­trare in pos­sesso dei loro ter­ri­tori ance­strali. Una que­stione che, dopo le deci­sioni del Par­la­mento e le aper­ture di Bache­let, sem­bra avviarsi sui binari adeguati.

Dome­nica scorsa, migliaia di cit­ta­dini hanno mani­fe­stato per i diritti umani e per ricor­dare le vit­time della dit­ta­tura. Vi sono stati scon­tri con i cara­bi­ne­ros. I mani­fe­stanti – fami­liari delle vit­time, arti­sti, asso­cia­zioni, par­la­men­tari, poli­tici e la Gio­ventù socia­li­sta del Cile (Js) — hanno denun­ciato l’impunità ancora impe­rante. Hanno lan­ciato la cam­pa­gna “Ver­dad y Justi­cia ahora”. Alcuni magi­strati – soste­nuti dalla pre­si­dente Bache­let, che ha perso il padre e ha subito car­cere e tor­ture durante il regime di Pino­chet — accom­pa­gnano le ricer­che dei fami­liari delle vittime.

Tre ex uffi­ciali dell’esercito sono stati accu­sati per il seque­stro e l’omicidio del can­tau­tore Vic­tor Jara, ucciso cin­que giorni dopo il golpe in uno sta­dio di San­tiago che oggi porta il suo nome. Il Ser­vi­zio medico legale cileno (Sml) ha comu­ni­cato di aver sco­perto resti umani in una tenuta vicina alla caserma mili­tare di Tejas Ver­de­sal, dove ven­nero impri­gio­nate oltre 100 per­sone subito dopo il colpo di stato.

E con­ti­nuano le agi­ta­zioni dei set­tori popo­lari che pre­mono per un cam­bia­mento di sostanza. Il 4 set­tem­bre, i lavo­ra­tori hanno sfi­lato per strade della capi­tale. I rap­pre­sen­tanti della Cen­tral Uni­ta­ria de Tra­ba­ja­do­res (Cut) hanno chie­sto a Bache­let che venga discusso al Con­gresso il pro­getto di riforma del lavoro: «Occorre supe­rare il modello eco­no­mico basato sull’accumulazione di capi­tali che non con­si­dera lo svi­luppo del popolo che lavora», ha detto Bar­bara Figue­roa, pre­si­dente della Cut. Il 4 set­tem­bre è una data sim­bolo per il movi­mento sin­da­cale, per­ché ricorda l’elezione di Allende a pre­si­dente del Cile.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/cile-laltro-11-settembre/