L’inferno dei Rohingya

La foto che ricorda al mondo l’inferno dei Rohingya

Myanmar. Il bimbo riverso senza vita sulla sabbia scappava dal Myanmar dopo l’ennesimo eccidio

Rohingya su una barca diretta in Bangladesh

Un video nel quale le forze di sicurezza birmane prendono a calci un poveraccio che si nasconde la testa tra le mani e la fotografia di un bimbo riverso sulla sabbia a faccia in giù e senza più vita fanno il giro del mondo e risollevano la questione di una minoranza bistrattata e selvaggiamente perseguitata.

06inchiesta bambino morto Rohingya

UN POPOLO IN FUGA Il piccolo Mohammed e il povero contadino preso a calci, divenuti virali sui social media finora attenti alla tragedia di Aleppo, sono due rohingya. Appartengono a un popolo in fuga che, dagli inizi di ottobre, scappa dall’ennesima persecuzione ai suoi danni. Questa volta a scatenarla è stato l’eccidio di alcuni poliziotti birmani attribuito a un gruppo islamista radicale alla frontiera.
Altre volte, e a più riprese, questa comunità musulmana di un milione di persone che abitano nello Stato occidentale birmano del Rakhine, è stata oggetto di violenze che l’hanno costretta alla fuga. Si stima che la metà dei Rohingya viva ormai fuori dal Myanmar mentre un quinto di chi è rimasto vive nei campi profughi nel Rakhine. Oltre trentamila sono invece la colonna infame dell’ultima fuga che, tra ottobre e dicembre, ha raggiunto le coste del Bangladesh. Un esodo che non si è fermato.INUTILI PRESSIONI Finora, le pressioni sul governo birmano sono state praticamente inutili. Né ha ancora sortito effetti la lettera che una dozzina di Nobel per la pace e altrettanti personaggi pubblici hanno scritto all’Onu perché si faccia qualcosa.
L’unica cosa certa è che Naypyidaw manderà a Dacca un suo inviato per «discutere» della questione. Poco quando le accuse sono di stupro, esecuzioni sommarie, violenze, incendio di villaggi.

Mercoledi scorso, una commissione d’inchiesta del governo birmano ha negato tutte le accuse che, da Human Rights Watch ad Amnesty International , sulla base di testimonianze raccolte tra i fuggiaschi, sono state descritte in questi mesi: un quadro a tinte forti che il documento del governo ora cerca di nascondere sotto una mano di vernice bianca. Un tentativo che appare ridicolo nel momento in cui ai giornalisti stranieri e a quelli non accompagnati è vietato – così come alle organizzazioni umanitarie – entrare nelle frontiere sigillate del Rakhine per vedere cosa succede davvero.

Il governo della Malaysia ha accusato il Myanmar di genocidio e anche la rappresentante a Dacca dell’Unhcr ha usato il termine «pulizia etnica». Ma per ora non è bastato.

LA MALEDIZIONE Ma chi sono i Rohingya? La loro origine è controversa e si presta a interpretazioni declinate politicamente. E naturalmente, quando c’è un pasticcio etnico recente, c’è di mezzo una frontiera e, tanto per cambiare, le geometrie variabili – in fratto di confini – dei diplomatici di Sua maestà.

Quando nel 1826 finisce la prima guerra anglo-birmana, viene firmato il Trattato di Yandabo con cui i birmani sono costretti a cedere le coste dello Stato dell’Arakan tra Chittagong, nell’attuale Bangladesh, e Capo Negrais (oggi nuovamente birmano). Passano sotto il controllo della Corona o meglio della East India Company, che allora amministrava le terre del subcontinente indiano. L’Arakan è l’attuale Stato di Rakhine (che i Rohingya, che in parte lo abitano, chiamano Rohang).

Ha forse origine da quelle spartizioni sulla testa di contadini e pescatori la maledizione rohingya.

Contrariamente alla maggior parte dei birmani, i rohingya non parlano una lingua del gruppo sino-tibetano ma un idioma indoeuropeo del ramo delle lingue indoarie, come il bengalese (o bengali). Sono infine musulmani come la maggioranza dei bengalesi o meglio di quei bengalesi che abitano il Bangladesh (l’ex Pakistan orientale staccatosi dal Pakistan nel 1971).

ANTICHI IMMIGRATI In un Paese a maggioranza buddista questa minoranza è dunque molto isolata e le sue caratteristiche hanno fatto attribuire ai suoi appartenenti lo status di antichi immigrati dal Bangladesh durante l’occupazione britannica, motivo per cui Naypyidaw non riconosce loro né la cittadinanza né una rappresentanza politica garantita ad altre minoranze (Karen, Kachin eccetera).

Per il Bangladesh, con motivi più fondati, i rohingya sono invece semplicemente dei birmani musulmani che parlano una lingua vicina al bengali ma che restano immigrati indesiderati.

Schiacciati tra le due nazioni e con una terra d’origine che non riconosce loro uno straccio di documento, i membri di questa comunità hanno ormai una spiccata vocazione alla fuga. Colonie di rohingya vivono in Bangladesh ma anche in Malaysia o in Indonesia, dove hanno cercato e trovato rifugio in questi anni di persecuzioni. Persecuzioni cicliche ogni 5-10 anni. Il primo grande flusso è del 1978 e altri ne sono seguiti a intervalli sino a quello biblico di questi mesi.

FACCENDA DELICATA Politicamente la faccenda è molto delicata. Il governo bangladese li accoglie e minaccia di rispedirli a casa ma non può fare a meno di considerarsi il loro grande protettore e di fatto non li sta espellendo. Nondimeno in Bangladesh, i rohingya non possono integrarsi né avere la cittadinanza e dunque, pur se accolti, hanno davanti una vita da sfollati con la quale si barcamenano in decine di campi profughi e lavorando saltuariamente nelle varie attività stagionali.

Anche per le organizzazioni umanitarie la situazione è difficile e delicata anche perché il Myanmar non è più la feroce dittatura di un tempo e il governo di Aung San Suu Kyi vive un momento di difficilissima transizione. Infine le organizzazioni umanitarie impegnate nel sostenere l’urto dell’immigrazione rohingya sono molto caute nel denunciare le violazioni oltre confine nel tentativo di poter ottenere il permesso dalle autorità birmane per poter lavorare dentro lo Stato di Rakhine, ora sigillato. È lì il buco nero di cui non sappiamo e di cui abbiamo solo informazioni frammentate e non sempre verificabili.

IMMAGINI Ma l’informazione passa, come accaduto col video del pestaggio e l’immagine del piccolo Mohammed. In Bangladesh gli attivisti rohingya ci hanno mostrato decine di immagini di corpi straziati e villaggi bruciati. Immagini che girano comunemente sui social network legati al movimento rohingya.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/linferno-dei-rohingya-e-la-foto-che-ricorda-al-mondo-il-dramma-di-un-popolo-in-fuga/

 

Leggi anche qui:

http://ilmanifesto.info/il-silenzio-di-aung-san-suu-kiy-macchia-indelebile-sul-suo-vestito-zafferano/

E qui:

http://ilmanifesto.info/rohingya-e-land-grabbing-gli-interessi-economici-oltre-alla-persecuzione-religiosa/

 

Ricostruzione (ufficiale) e contesto in cui è maturato l’attacco terroristico di Dhaka

Dal blog di Bob Fabiani:

3 luglio 2016

Ora che le autorità locali del Bangladesh hanno spiegato come si sono svolti i fatti possiamo ricostruire l’attentato, le sue modalità passo dopo passo. Tuttavia, è importante capire bene il contesto in cui questo attentato terroristico, firmato, Daesh è maturato.
Per avere un quadro più preciso della situazione #AltraInformazione ha cercato – attraverso una breve inchiesta – di approfondire alcune situazioni che stanno caratterizzando la vita sociale del paese asiatico quelle in cui, maturano “certi brodi di coltura” che poi, possono favorire non solo e non soltanto il proselitismo ma, il reclutamento di Daesh qui in Bangladesh e, in genere tutta l’Asia. Sbaglierebbero coloro i quali, sull’onda emotiva della strage (per carità si deve avere pietà di quanti hanno trovato la morte ma, questa pietà, in realtà, la meritano tutti i caduti per mano dei terroristi … che siano in Bangladesh, Iraq, Siria e senza dimenticare l’Africa n.d.t), a “fare di tutto un erba un fascio” – per usare un modo di dire classico – perché, il terrorismo in Asia è molto diverso da quello di altre zone del mondo. Insomma, non si deve tentare un’analisi uniforme, quasi che ce ne fosse una “standard” che, si possa declinare e tirare fuori, a ogni tragedia e strage. I posti, i paesi, le storie non sono tutte uguali e, se, in qualche modo, si vuole davvero vincere questa drammatica sfida globale (nel senso che ormai, non passa giorno in cui il mondo non sia investito dal dramma di un’attacco terroristico che solo apparentemente ha la stessa matrice, nel marchio di fabbrica di Daesh) allora sarà bene riflettere attentamente e cambiare rotta il più in fretta possibile se, per esempio, non si vuole ancor di più alimentare il dramma delle migrazioni di milioni di migranti. 

– La ricostruzione dell’attacco jihadista a Dhaka

Procediamo dunque ricostruendo passo dopo passo ciò che è avvenuto a Dhaka, capitale del Bangladesh. 
Venti persone sono state uccise durante un attacco terroristico subito rivendicato da Daesh (IS) nella capitale del Bangladesh, Dhaka. 
Le vittime sono nove cittadini italiani, sette giapponesi, e tre bengladesi oltre, a una cittadina di nazionalità indiana. 
Appena l’allarme è avvertito dalle forze speciali queste, si organizzano per mettere a segno un blitz in cui riescono a liberare tredici persone. Il blitz va a segno dopo molte ore : e gli ostaggi sono rimasti in mano dei jihadisti per undici ore.

. La dinamica dell’attentato

Attorno alle 20 di venerdì 1 luglio (quattro ore meno in Italia) un commando di 7 uomini armati ha preso d’assalto l’Holey Artisan Bakery,  una panetteria che è anche un ristorante nel quartiere diplomatico della città.
Gli assalitori hanno fatto esplodere ordigni urlando “Allahu Akbar”, hanno confermato ambienti ai massimi livelli delle forze dell’ordine bengladesi che, poi sono state confermate anche in ambito governativo. Subito è seguita una sparatoria con la polizia e, qui, hanno perso la vita anche due agenti.
Il commando jihadista è riuscito a trincerarsi nel ristorante, con circa 30 ostaggi tra clienti e dipendenti. I terroristi hanno separato i cittadini bangladesi dagli stranieri e hanno portato questi ultimi al piano superiore del locale.
Alle 7,40, ora locale (le 3,40 in Italia) le forze speciali bangladesi hanno fatto irruzione nel ristorante con i carri armati e le armi pesanti. Durante la conferenza stampa le autorità militari hanno spiegato ai giornalisti locali e a quelli internazionali che, questa azione si è resa necessaria per aprirsi la strada e stanare i jihadisti all’interno del locale. La manovra è costata la vita a 6 assalitori mentre, uno è rimasto ferito e subito messo in stato di arresto.

. Le vittime

Le autorità locali insieme a quelle militari hanno poi reso noto ciò che hanno trovato una volta entrati all’interno del ristorante, al termine dell’irruzione. Qui, hanno confermato la liberazione di 13 ostaggi come effetto diretto del blitz mentre, spiegano i responsabili delle forze speciali, 20 persone erano già morti e, alcuni di questi, erano stati giustiziati a colpi di machete. Lo ha confermato l’ufficiale dell’esercito bangladese Naim Asraf Chowdhury : “le vittime sono state assalite brutalmente con armi affilate”.

– Le testimonianze dei superstiti

Secondo alcune testimonianze raccolte dal quotidiano locale Daily Star sono stati risparmiati coloro i quali sapevano recitare un versetto del Corano. Gli assalitori sono stati descritti dai testimoni come giovani tra i 20 e i 27 anni.

– La rivendicazione dei jihadisti

Circa 4 ore dopo l’assalto i jihadisti di Daesh hanno rivendicato l’attentato attraverso la loro agenzia-stampa Amaq. In seguito hanno pubblicato varie foto dall’interno del locale nelle quali si vedono corpi che giacciono in pozze di sangue.

– Il contesto della strage : Bangladesh, un paese tra ingiustizia sociale e violenza. 

Partiamo dalla fine (intesa come attualità di questi ultimi 365 giorni).
Nell’ultimo anno in Bangladesh i miliziani di Daesh hanno moltiplicato attacchi e omicidi che hanno colpito stranieri, rappresentanti delle minoranze religiose, blogger e intellettuali oltre che insegnati laici quindi, la prima cosa sulla quali riflettere è la seguente : la strage di venerdì 1 luglio non è un fatto isolato anzi, come vedremo, era facilmente intuibile.
Certo quello che balza subito agli occhi è che questo attentato segna un salto di qualità in quella che deve essere considerata una vera e propria “guerra interna” al famigerato mondo jihadista che vede contrapposti due schieramenti : da una parte Deash e, dall’altra Al Qaeda, molto attiva nel continente asiatico. La guerra ha come obiettivo finale la “leadership jihadista” e, l’offensiva – senza quartiere – messo in azione da Daesh mira a relegare in un angolo, assolutamente di retrovia, Al Qaeda. 
Tuttavia, tutto questo non basta a capire cosa sta accadendo in Bangladesh. C’è molto altro.
Il Bangladesh è uno di quei paesi in cui – anche se le autorità lo negano con forza praticamente ogni giorno – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Ecco perché, purtroppo, quel che è accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non costituisce una sorpresa.
Se da un lato, in altre parti del mondo il “radicalismo jihadista” può avere successo per colpa delle guerre occidentali qui, nel Bangladesh, non è questa la ragione. Qui, il “radicalismo” fa proseliti per via della violenza sociale. 
Il governo del paese non fa nulla per estirpare questa violenza anzi, l’alimenta ad arte.
In che modo?
Da molto tempo, nel Bangladesh la violenza sociale si rinnova attraverso un sistematico sfruttamento manifatturiero delle multinazionali che, al pari delle reiterate lotte politiche interne creano un drammatico terreno di disperazione. E’ qui, che le formazioni criminali riescono a fare proseliti, con un successo sempre maggiore.
Il governo in questo contesto invece di favorire le attività dei sindacati e le organizzazioni che lottano per i diritti civili nega l’esistenza del problema e, anzi, sistematicamente usa il pugno duro per colpire in questa direzione come e più di un regime autoritario e dittatoriale. 
Così si alimenta e si presta il fianco all’espandersi della povertà che insieme alla devastazione sociale condanna milioni di persone non solo e non soltanto alla miseria ma contribuendo, a spingerli tra le braccia di Daesh oppure di Al Qaeda a loro volta, come abbiamo visto impegnati a giocarsi una grande fetta del cosiddetto “mercato jihadista”. 
Il Bangladesh è il paese dove regna l’ingiustizia dove i salari sono minimi e sostanzialmente, il paese asiatico, è un posto dove non vengono rispettati i diritti civili e dove, i diritti dei lavoratori non esistono (e il governo non se ne cura). Del resto è qui che è accaduta la più grande tragedia sul luogo di lavoro che, per numeri e drammi è stata molto più grande dell’orrenda starge del 1 luglio anche se, quest’ultima, sul mondo avrà un impatto diverso con le vittime occidentali di mezzo. Ma al di là di queste considerazioni, laddove si tenta di individuare il contesto della strage di Dhaka allora, non è possibile non menzionare l’amara storia del Rana Plaza sempre a Dhaka. 

L’orrenda strage sul lavoro del Rana Plaza

Bangladesh, Dhaka, Rana Plaza è il 24 aprile del 2013 quando un edificio commerciale di otto piani – edificio figlio evidentemente di abusi speculativi locali – crolla pesantemente su stesso e si sbriciola rapidamente. Siamo a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio della tragedia è gravissimo e i soccorsi termineranno solo un mese dopo : era il 13 maggio 2013. 
Il bilancio è il seguente : mille vittime e oltre duemila feriti, alcuni dei quali rimarranno menomati a vita e quindi per sempre inabili al lavoro. 
E’ considerato – a ragione – il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile di cui il Bangladesh è famoso nel mondo tanto che, qui, fanno a gara, tutte (nessuna esclusa!) le multinazionali del settore arrivati qui, per seguire uno dei “mantra felici” del “capitalismo d’assalto” ossia, delocalizzare per abbattere i costi facendolo possibilmente in paesi dove, i sindacati sono deboli o inesistenti e, dove i lavoratori non devono troppo alzare la voce in tema di diritti : e il Bangladesh questi requisiti li ha tutti e, come si vede benissimo dall’ultimo anno sono anche i diretti responsabili della pentola che sta per scoppiare se non lo ha già fatto.
La drammatica tragedia del Rana Plaza ha avuto il merito di scoperchiare il tema della sicurezza (assolutamente inesistente) insieme a quello dei diritti e, sopratutto (e scandalosamente) dei risarcimenti che non arrivano.
Sono tutti coinvolti : marchi europei, americani e italiani. 
Al Rana Plaza avevano i loro laboratori piccole fabbrichette locali che lavoravano con e per conto di grandi marchio internazionali : erano loro a fare il lavoro sporco e gli altri si appropriavano dei guadagni. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione questa storia si sarebbe dimenticata in fretta.
Al lettore virtuale di queste pagine, non deve sembrare che io sia uscito fuori-tema perché, in realtà questa drammatica storia tragica è molto più legata (e quindi da mettere in relazione) alla strage accaduta due giorni fa. Se si riannodano i fili degli eventi allora si capisce perfettamente di quale porta sia l’ingiustizia che si abbatte sui i cittadini di questo paese asiatico e, da ultimo si possono anche comprendere meglio tutti gli assassini mirati che sono stati commessi contro blogger, attivisti, intellettuali e, da ultimo anche contro insegnanti laici. 
E’ attraverso questa drammatica violenza sociale il terreno fertile dal quale si può preparare il brodo di coltura che serve a Daesh e ai jihadisti di Al Qaeda, un terreno perfetto per sviluppare l’odio contro tutto e tutti.
(Fonte.:thedailystar;internazionale;ilmanifesto)
Bob Fabiani
Link
-www.thedailystar.net/city/those-who-cited-quran-verse-were-spared;
-www.internazionale.it/notizie;
-www.ilmanifesto.info 

Fonte:
http://bobfabiani.blogspot.it/2016/07/ricostruzione-ufficiale-e-contesto-in.html