Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire

Posted on by

images-1

La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna».
Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare».

Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia.

Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati.
Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”.

L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti.

Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.

Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere.

La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/15/asinara-cosi-gratteri-lo-vuole-riaprire/

1970/ Cinque giovani anarchici calabresi. Morti.

rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014

Quando nel 2001 usciva il libro di Fabio Cuzzola Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, la vicenda legata alla morte di cinque compagni calabresi viveva solo nel dolore dei familiari e nel ricordo dei compagni che avevano vissuto l’irripetibile stagione del ’68. Da quel momento in poi si è aperto un cammino che, attraverso le più svariate forme di comunicazione e arte, ha contribuito a fare conoscere anche fuori dal movimento anarchico questa vicenda, che oggi è patrimonio della storiografia ufficiale. Basti pensare che questa storia ha ispirato vari spettacoli teatrali, un documentario, canzoni, una puntata di Blu Notte di Lucarelli.
Un altro importante tassello si aggiunge oggi con la pubblicazione del volume Il sangue politico (Editori Internazionali Riuniti, 2013, pp. 253, € 16,00) di Nicoletta Orlandi Posti, impreziosito dalla prefazione di Erri De Luca.
Ha ragione lo scrittore napoletano quando afferma che questo è “un caso che li riassume tutti”, perché in questa vicenda s’incrociano drammaticamente la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, il golpe Borghese, la rivolta di Reggio Calabria dei “Boia chi molla” e la strage di Gioia Tauro, che con la recente sentenza, passata in giudicato, si configura come la prima strage della storia ad opera della ‘ndrangheta. In questo gorgo di odio, lotta e misteri trovarono la morte, in un attentato camuffato da incidente, Angelo Casile, Gianni Aricò, Annalise Borth, Franco Scordo e Luigi Lo Celso, poco più di cento anni in cinque, ma con alle spalle una militanza già ricca di viaggi, manifestazioni, arresti e processi.
Il libro poggia su due pilastri che fanno di questo lavoro un’opera agile e indispensabile per capire e ricostruire un momento nevralgico per la storia contemporanea. Orlandi Posti si è giovata dell’immensa mole di documenti di tutti i processi di piazza Fontana, oggi finalmente disponibile in formato digitale, e sulle narrazioni dei militanti del gruppo 22 marzo, che hanno consentito alla giornalista e scrittrice, orgogliosamente originaria della Garbatella, di dare completezza storiografica a un quadro di eventi complesso.
La storia dei giovani anarchici, al tempo militanti della Fagi (Federazione anarchica giovanile italiana), s’incrocia con la macro storia, nella quale finiscono per imbattersi in “cose che faranno tremare l’Italia”. Trame oscure, più grandi della loro gioventù e che ancora aleggiano nella ricostruzione dell’incidente in quella maledetta notte fra il 26 e 27 settembre del 1970 lungo l’autostrada nei pressi di Ferentino.
Due elementi raccolti successivamente alle indagini rivelano la trama criminale ordita contro quei giovani mentre si dirigevano a Roma per consegnare ai compagni della Fai il frutto delle loro ricerche. In loco interviene la polizia stradale, quella sera comandata da Crescenzio Mezzina, uomo dei servizi, quattro anni dopo condannato per il tentato colpo di stato Fumagalli. La sua mano sottrarrà i preziosi documenti.
Il secondo elemento è legato alla diffusione della notizia. La prima informativa dei servizi segreti sull’incidente, telegrafata alle tre del mattino del 27 settembre, arriva da Palermo, molto strano per un normale incidente stradale, avvenuto a mille chilometri di distanza.
Una riflessione a parte merita la sperimentazione del metodo di scrittura utilizzato; la scrittrice dosa in maniera sapiente un doppio registro linguistico e narrativo, alternando passi romanzati, utili per fare capire a chi non ha vissuto quegli anni il clima e l’ambiente politico-culturale, a capitoli di vera e propria inchiesta “vecchio stile”, con documenti, articoli, stralci di interrogatori, fonti orali.
Il sangue politico è diventato anche un monologo teatrale e un blog, dove l’autrice raccoglie materiali delle varie presentazioni a testimoniare che ancora quella storia ha molto da raccontare ai vivi e a “quelli che passeranno”.

Fabio Cuzzola
[email protected]

Fonte:

http://www.arivista.org/?nr=386&pag=75.htm#5

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti

Nicola Sacco (Torremaggiore, Foggia, 22 aprile 1891 – Charlestown, 23 agosto 1927) e Bartolomeo Vanzetti (Villafalletto, 11 giugno 1888– Charlestown, 23 agosto 1927) furono due anarchici italiani che vennero arrestati, processati e giustiziati negli Stati Uniti negli “anni ’20”, con l’accusa di omicidio di un contabile e di una guardia di una fabbrica di scarpe. Sulla loro colpevolezza vi furono molti dubbi già all’epoca del loro processo; non vennero nemmeno assolti dopo che un altro uomo ammise, nel 1925, la responsabilità di quei crimini.

Sacco, di origine pugliese, di professione faceva il ciabattino mentre Vanzetti – che gli amici chiamavano Tumlin, ed era originario di Villafalletto, Cuneo – gestiva una rivendita di pesci. Furono giustiziati sulla sedia elettrica a Dedham, Massachusetts, il 23 agosto 1927.

Brevi note biografiche

  • Nicola Sacco nasce a Torremaggiore (attualmente in provincia di Foggia) il 22 aprile 1891 in una numerosissima famiglia, padre, madre e 17 figli. Vissuto nella miseria, a quattordici anni lascia la scuola per iniziare a lavorare nei campi. Emigrato a 17 anni(12 aprile 1909) negli USA, lavora inizialmente come manovale e operaio di fonderia, prima di riuscire a farsi assumere in un calzaturificio come operaio specializzato. Sposatosi nel 1912 con Rosina Zambelli, figlia di un immigrato piemontese, ha due figli: Dante e Ines. Scoppiata la guerra mondiale si rifugia in Messico per sfuggire all’arruolamento obbligatorio, ma una volta ritornato negli USA inizia la militanza negli ambienti anarco-sindacalisti, organizzando e partecipando a molti scioperi che gli costano la schedatura come agitatore e anarchico.
  • Bartolomeo Vanzetti nasce a Villafalletto (attualmente in Piemonte) l’11 giugno 1888. All’età di 13 anni inizia a lavorare come apprendista in una pasticceria, in seguito, divenuto orfano, decide di emigrare verso gli USA: è il 9 giugno 1908.[1]. Svolge moltissimi lavori in diverse città: bracciante, lavapiatti, manovale, operaio, ecc. Quando è riuscito a racimolare un pò di soldi acquista un carretto da pescivendolo, mestiere con cui si guadagna da vivere a Plymouth. Anarchico convinto, è sicuramente più preparato culturalmente del suo amico Sacco. Conosciuto per la sua abilità oratoria, viene arrestato mentre stava raccogliendo materiale controinformativo sulla morte dell’anarchico Andrea Salsedo.

 L’immigrazione negli USA

Arrivarono negli USA – Sacco nel 1909 e Vanzetti nel 1908 – senza conoscersi tra loro. Sacco aveva quasi diciotto anni e Vanzetti venti. Quest’ultimo, al processo, descriverà così l’esperienza dell’immigrazione: «Al centro immigrazione, ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America».

Sacco (a destra) e Vanzetti ( a sinistra) in manette

E in seguito scrisse: «Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me».

Sacco, che in Italia era stato calzolaio di professione, trovò lavoro in una fabbrica di calzature a Milford, nel Massachusetts. Si sposò e andò ad abitare in una casa con giardino. Ebbe un figlio, Dante, e una figlia, Ines. Lavorava sei giorni la settimana, dieci ore al giorno. Nonostante ciò, partecipava attivamente alle manifestazioni operaie dell’epoca, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In tali occasioni teneva spesso dei discorsi. A causa di queste attività venne arrestato nel 1916.

Vanzetti fece molti lavori, prendeva tutto ciò che gli capitava. Lavorò in varie trattorie, in una cava, in un’acciaieria e in una fabbrica di cordami, la Plymouth Cordage Company. Leggeva molto: Marx, Charles Darwin, Victor Hugo, Gorkij, Lev Tolstoj, Emile Zola e Dante furono tra i suoi autori preferiti. Nel 1916 guidò uno sciopero contro la Plymouth e per questo motivo nessuno volle più dargli un lavoro. Si mise quindi in proprio, facendo il pescivendolo.

Fu in quell’anno che “Nick” e “Bart” si conobbero ed ebbero contatti stretti col gruppo anarchico italoamericano di Luigi Galleani (Mario Buda, Carlo Valdinoci, ecc.). Tutto il collettivo fuggì in Messico, a Monterrey, per evitare la chiamata alle armi, non per vigliaccheria ma perché per un anarchico non c’è niente di peggiore che morire per gli interessi di Stato e capitale.

 Arresto e reazioni anarchiche

Attentato di Wall Street (settembre 1920) attribuito a Mario Buda come reazione all’incriminazione di Sacco e Vanzetti

Nicola e Bartolomeo tornarono nel Massachussets dopo la guerra, ma non sapevano di essere inclusi in una lista di sovversivi compilata dal Ministero di Giustizia, nè di essere pedinate dagli agenti segreti USA. Nella stessa lista era incluso anche un amico di Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo. Questi, il 3 maggio 1920, venne assassinato dalla polizia in un modo che non può non ricordare la storia di Giuseppe Pinelli: venne buttato dal quattordicesimo piano di un edificio appartenente al Ministero di Giustizia. Sacco e Vanzetti organizzarono un comizio per far luce su questa vicenda, comizio che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton il 9 maggio. Purtroppo gli eventi seguenti impedirono la realizzazione della manifestazione.

Il 5 maggio 1920, probabilmente grazie ad una “soffiata”, Nick e Bart vennero arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni d’interrogatori ed i due vennero accusati dal procuratore Gunn Katzamnn anche di una rapina avvenuta a South Baintree, un sobborgo di Boston, circa un mese prima del loro arresto (15 aprile 1920), in cui erano stati assassinati due uomini, il cassiere della ditta – il calzaturificio «Slater and Morrill» – e una guardia giurata. Vanzetti fu accusato anche della rapina ai danni di un furgone che trasportava le paghe degli operai di un calzaturificio, compiuta il 24 dicembre 1919 a Bridgewater.

Alle accuse della magistratura contro i due, la comunità anarchica italo-americana risponde immediatamente con una serie di azioni dirette. In particolare, il 16 settembre un carretto carico di esplosivo defraga accanto alla sede della banca “Morgan & Stanley” e la Borsa valori. Muoiono 38 persone e altre duecento vengono ferite.

Le autorità statunitensi rispondono prontamente e l’inchiesta è affidata a William J. Flynn, direttore tra il 1919 e il 1921 del Bureau of Investigation, batte immediatamente la pista anarchica, rivolgendo le proprie attenzioni in particolare su Mario Buda, un anarchico romagnolo amico di Sacco e Vanzetti che però non sarà mai incriminato ufficialmente anche a causa della sua clamorosa fuga in Italia. [2]

Il processo e la condanna

I tre processi (nel primo processo Vanzetti fu condannato a 12 anni di carcere per la prima rapina; nel secondo – 14 luglio 1921 – i due vennero invece condannati a morte) che seguirono e le successive condanne a morte furono utilizzate in chiave politica, ovvero per dare un esempio a tutti i militanti della sinistra. Non c’era nessuna prova a loro carico, addirittura alcune testimonianze li scagionavano. Addirittura non si tenne conto della confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che ammise di aver preso parte alla rapina e di non aver mai visto Sacco e Vanzetti.

Alla base del verdetto di condanna – a parere di molti – vi furono da parte di polizia, procuratori distrettuali, giudice e giuria pregiudizi e una forte volontà di perseguire una “politica del terrore” suggerita dal ministro della giustizia Palmer e culminata nella vicenda delle deportazioni. Sotto questo aspetto, Sacco e Vanzetti venivano considerati due “agnelli sacrificali” utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo. Erano infatti immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese (migliore in Vanzetti, che terrà un famoso discorso, in occasione della lettura del verdetto di condanna a morte); erano inoltre note le loro idee politiche radicali. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole due anarchici bastardi.

Si trattava di un periodo della storia americana caratterizzato da una intensa paura degli anarchici (vedi Anarchist Exclusion Act) e soprattutto dei comunisti, la paura rossa del 19171920. Né Sacco né Vanzetti avevano avuto precedenti con la giustizia, né si consideravano comunisti, ma erano conosciuti dalle autorità locali come militanti radicali che erano stati coinvolti in scioperi, agitazioni politiche e propaganda contro la guerra.

Da un discorso di Vanzetti

Sacco e Vanzetti si ritenevano vittime del pregiudizio sociale e politico. Vanzetti, in particolare, ebbe a dire rivolgendosi per l’ultima volta al giudice Thayer:

«Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra; io non augurerei a nessuna di queste ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui io non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui io sono colpevole. Io sto soffrendo perché io sono un radicale, e davvero io sono un radicale; io ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano» […] (dal discorso di Vanzetti del 19 aprile 1927, a Dedham, Massachusetts)

Ed è proprio in questo senso che oggi molti anarchici sostengono che i loro compagni ingiustamente incarcerati o uccisi non sono affatto innocenti; sono invece perseguitati perché sono ciò che sono, e dal punto di vista del potere, sostengono, non vi è alcun errore di giudizio.

Lettera di Sacco al figlio Dante

Manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti (Londra, 1921)

«Mio carissimo figlio e compagno,
sin dal giorno che ti vidi per l’ultima volta ho sempre avuto idea di scriverti questa lettera: ma la durata del mio digiuno e il pensiero di non potermi esprimere come era mio desiderio, mi hanno fatto attendere fino ad oggi. Non avrei mai pensato che il nostro inseparabile amore potesse così tragicamente finire!
Ma questi sette anni di dolore mi dicono che ciò è stato reso possibile. Però questa nostra separazione forzata non ha cambiato di un atomo il nostro affetto che rimane più saldo e più vivo che mai. Anzi, se ciò è possibile, si è ingigantito ancor più. Molto abbiamo sofferto durante il nostro lungo calvario.
Noi protestiamo oggi, come protestammo ieri e protesteremo sempre per la nostra libertà. Se cessai il mio sciopero della fame, lo feci perchè in me non era rimasta ormai alcuna ombra di vita ed io scelsi quella forma di protesta per reclamare la vita e non la morte, il mio sacrificio era animato dal desiderio vivissimo che vi era in me, per ritornare a stringere tra le mie braccia la tua piccola cara sorellina Ines, tua madre, te e tutti i miei cari amici e compagni di vita, non di morte. Perciò, figlio, la vita di oggi torna calma e tranquilla a rianimare il mio povero corpo, se pure lo spirito rimane senza orizzonte e sempre sperduto tra tetre, nere visioni di morte. Ricordati anche di ciò figlio mio. Non dimenticarti giammai, Dante, ogni qualvolta nella vita sarai felice, di non essere egoista: dividi sempre le tue gioie con quelli più infelici, più poveri e più deboli di te e non essere mai sordo verso coloro che domandano soccorso. Aiuta i perseguitati e le vittime perchè essi saranno i tuoi migliori amici, essi sono i compagni che lottano e cadono, come tuo padre e Bartolomeo lottarono e oggi cadono per aver reclamati felicità e libertà per tutte le povere cenciose folle del lavoro. In questa lotta per la vita tu troverai gioia e soddisfazione e sarai amato dai tuoi simili. Continuamente pensavo a te, Dante mio, nei tristi giorni trascorsi nella cella di morte, il canto, le tenere voci dei bimbi che giungevano fino a me dal vicino giardino di giuoco ove vi era la vita e la gioia spensierata – a soli pochi passi di distanza dalle mura che serrano in una atroce agonia tre anime in pena! Tutto ciò mi faceva pensare a te e ad Ines insistentemente, e vi desideravo tanto, oh, tanto, figli miei! Ma poi pensai che fu meglio che tu non fossi venuto a vedermi in quei giorni, perché nella cella di morte ti saresti trovato al cospetto del quadro spaventoso di tre uomini in agonia, in attesa di essere uccisi, e tale tragica visione non so quale effetto avrebbe potuto produrre nella tua mente, e quale influenza avrebbe potuto avere nel futuro. D’altra parte, se tu non fossi un ragazzo troppo sensibile una tale visione avrebbe potuto esserti utile in un futuro domani, quando tu avresti potuto ricordarla per dire al mondo tutta la vergogna di questo secolo che è racchiusa in questa crudele forma di persecuzione e di morte infame. Si, Dante mio, essi potranno ben crocifiggere i nostri corpi come già fanno da sette anni: ma essi non potranno mai distruggere le nostre Idee che rimarranno ancora più belle per le future generazioni a venire. Dante, per una volta ancora ti esorto ad essere buono ed amare con tutto il tuo affetto tua madre in questi tristi giorni: ed io sono sicuro che con tutte le tue cure e tutto il tuo affetto ella si sentirà meno infelice. E non dimenticare di conservare un poco del tuo amore per me, figlio, perchè io ti amo tanto, tanto… I migliori miei fraterni saluti per tutti i buoni amici e compagni, baci affettuosi per la piccola Ines e per la mamma, e a te un abbraccio di cuore dal tuo padre e compagno.

Nicola Sacco»

La protesta e l’esecuzione

«Quando le sue ossa, signor Thayer, non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni, non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome – il nome di Nicola Sacco – sarà ancora vivo nel cuore della gente. Noi dobbiamo ringraziarvi. Senza di voi saremmo morti come due poveri sfruttati: un buon calzolaio, un bravo pescivendolo……E mai, in tutta la nostra vita, avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini.» (La Tragedia di Sacco e Vanzetti, Francis Russell.)

Commemorazione di Sacco e Vanzetti (Carrara, 1° maggio 2010)

All’inizio Sacco e Vanzetti furono difesi dalla comunità italiana (un ruolo importante lo ebbe anche il giornale anarchico «L’Adunata dei Refrattari» e il comitato in loro difesa, promosso negli USA da Aldino Felicani)), una delle più sfruttate e oppresse in quel periodo negli USA, poi soprattutto dai marxisti e dal movimento anarchico internazionale: «Le Libertaire», è il primo giornale francese a parlarne, a cui presto si aggiungerà Soccorso rosso internazionale e l’Internazionale comunista. Tutti insieme riuscirono a smuovere le coscienze di molti intellettuali, addirittura l’ateo anarchico francese Louis Lecoin non esitò a ichiedere al papa di intervenire. [3]

I comunisti americani fecero sentire la propria voce di protesta solo nel 1927 con l’intenzione di trarne un vantaggio politico[4]. In molti paesi del mondo sorsero comitati in difesa di Sacco e Vanzetti e ovunque ci furono manifestazioni. A molte ambasciate americane furono inviati pacchi bomba come segno estremo di protesta, ma fu tutto inutile. Secondo recenti “scoperte”, parrebbe che anche Mussolini si sia mosso in difesa dei due anarchici italiani. [5]

Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione (Charlestown, 23 agosto 1927). Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la guardia nazionale li attendevano dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.

Dopo la morte dei due anarchici, due catafalchi furono eretti nella camera ardente. Kenneth Whistler vi si recò e spiegò sui catafalchi un enorme striscione, sul quale era scritta una frase pronunciata dal giudice Thayer, rivolta a un amico, pochi giorni dopo aver pronunciato la sentenza: «Hai visto che cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici, l’altro giorno?».

 Intellettuali pro Nick e Bart

Molti scrittori e artisti in genere contribuirono a svelare il crimine che si stava compiendo ai danni dei due anarchici italiani: si può citare l’opera di Upton Sinclair intitolata Boston e U.S.A. di John Dos Passos; sul piano artistico si possono menzionare i quadri di Ben Shahn o le caricature di Robert Minor. Non meno importante fu la critica alle procedure processuali irregolari, denunciate da Henry L. Mencken (uomo non di sinistra, ma uno dei primi ad intervenire in sostegno a Sacco e Vanzetti) e Felix Frankfurter (professore di diritto ad Harvard)[4].

Molti altri famosi intellettuali, compresi Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, Bertrand Russell, John Dos Passos, Upton Sinclair, George Bernard Shaw e H. G. Wells, sostennero a favore di Nick e Bart una campagna per giungere ad un nuovo processo; l’iniziativa, tuttavia, non approdò ad alcun risultato. Il 23 agosto 1927, dopo sette anni di udienze, i due uomini vennero giustiziati sulla sedia elettrica e la loro esecuzione innescò rivolte popolari a Londra, Parigi e in diverse città della Germania.

Il 23 agosto 1977, esattamente 50 anni dopo, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, dicendo:

«Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.»

Note

  1. Altre brevi note biografiche
  2. Nella penisola Buda diventerà un informatore della polizia fascista dell’OVRA. Alcuni ritengono che abbia svolto il ruolo di provocatore anche prima degli anni ’30, quando ufficialmente fu assoldato dai fascisti come agente provocatore
  3. da “Latradizionelibertaria.over-blog.it”
  4. 4,0 4,1 Sacco e Vanzetti o le passioni militanti
  5. Mussolini segreto: aiutò Sacco e Vanzetti

Cinema e Musica

Tra le tante opere dedicate a Sacco e Vanzetti, si riportano qui le seguenti:

 

Here’s to you Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph!
Vi rendo omaggio Nicola e Bart
Per sempre riposate qui nei nostri cuori
Il momento estremo e finale è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo!
Fonte:
http://ita.anarchopedia.org/Sacco_e_Vanzetti

Così hanno ucciso Mastrogiovanni

Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un’iniziativa dei parenti della vittima e della onlus “A Buon Diritto” di Luigi Manconi

di Gianfrancesco Turano

Così hanno ucciso Mastrogiovanni
Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell’ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla.Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all’atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un “noto anarchico”, sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d’aria dell’agonia.Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d’accusa di un processo che si avvicina alla sentenza.Martedì 2 ottobre, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de “l’Espresso”, in collaborazione con l’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi e con l’accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all’ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da “Mi manda RaiTre” quando il processo era appena iniziato.

Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l’isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L’uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell’ordine e da una decina di addetti dell’Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione.

Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l’associazione degli studenti missini.

Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato.

Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l’illustrazione attimo per attimo dell’abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione».

Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato.

A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l’assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula.

Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un’altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente.

Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell’udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell’Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l’elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all’estero sono state ignorate dal personale dell’ospedale San Luca.

Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l’esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell’accusa, secondo l’impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l’omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell’autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un’addetta alle pulizie.

L’avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell’Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella”. Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura.

Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l’omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l’imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all’obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto.

Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

© Riproduzione riservata
Fonte:
Vedi anche qui:

Buenaventura Durruti

 L’infanzia

Buenaventura Durruti nasce il 14 luglio 1896 in una numerosa e modesta famiglia proletaria (ha sette fratelli e una sorella) di León, «una cittadella dell’antica Spagna clericale e monarchica». [1]

Buenaventura Durruti

Il padre di Buenaventura è un ferroviere iscritto al sindacato dell’UGT che era stato arrestato nel 1903 per aver partecipato ad uno sciopero sindacale. Il piccolo Buenaventura cresce in un ambiente fortemente conservatore, León infatti ha «pochissime le imprese industriali […] Una forte guarnigione, diversi reparti della Guardia Civil, numerosi conventi, una cattedrale, un palazzo episcopale, un seminario per la formazione degli insegnanti, una scuola di veterinaria, una forte piccola borghesia, che voleva tranquillità e ordine […] non tollerava alcun pensiero divergente, alcun temperamento che gli si contrapponesse.» [2]

A cinque anni comunque inizia a frequentare la scuola e la porta avanti sino all’età di 14 anni, quando viene assunto nel laboratorio di un certo Melchor Martìnez. Secondo la testimonianza della sorella continua comunque a frequentare la scuola serale ed è un appassionato lettore. Viene assunto poi nelle fonderie Miaja fino al 1916, quando trova lavoro presso la Compagnia ferroviaria della Spagna del nord.

Attivismo sindacale e anarchico

Nel 1917 si impegna attivamente nello sciopero generale proclamato dall’UGT (Union general de trabajadores), in cui, a seguito degli scontri con le forze di polizia spagnole, 70 persone vengono uccise, 500 ferite e oltre 2000 arrestate.

«Quando venne lo sciopero del 1917, avevamo dicianove anni giusti giusti […] Non volevamo permettere che lo sciopero finisse in una bolla di sapone. Avevamo anche qualche arma, niente di speciale, ma abbastanza da fare un poco di paura ai soldati […] Già avevamo occupato la stazione […] Già era scuro, vedevamo brillare le divise dei soldati, e poi incominciò: “Bang! Bing-bang, bing-bang!” Era come una piccola guerra. Subito ci venne sopra la Guardia Civil. E qua con quei revolver piccoli non c’era da fare più niente. Ci cercammo qualche pilone dell’alta tensione al centro di Lèon, che erano altissimi, e in posizione buona, davanti ci stavano gli alberi. Ci arrampicammo lassopra e ci nascondemmo bene bene, e tutti avevamo cappelli e tasche pieni di pietre, e le buttammo in testa ai poliziotti […] I poliziotti caricarono coi cavalli sulla gente. Ma a noi non ci presero […] mano mano venne fuori un clima rivoluzionario, che poi è stato portato in tutto il paese dalla CNT. Naturalmente, quello che già allora era il capo in tutte queste lotte, era Durruti.»[3] (Florentino Monroy)

Émilienne Morin, compagna di Durruti

In seguito a questi avvenimenti perde il posto di lavoro ed è quindi costretto a trasferirsi a Gijon, nella regione delle Asturie, centro di notevole influenza legata all’anarco-sindacalismo. Qui conosce Manuel Buencasa, segretario generale della CNT, che gli fa conoscere il pensiero anarchico in maniera più profonda e matura.

Quando giunge il momento, viene chiamato alla leva militare obbligatoria, ma Buenaventura, che già era ostile ad ogni qualsivoglia autorità, decide di disertare ed è dichiarato renitente. In seguito a questi avvenimenti, per non finire in prigione, si sposta in Francia dove prendee contatto con gli anarchici francesi, tra cui Sébastien Faure, Louis Lecoin e Émile Cottin.

Nel 1920 rientra a Barcellona e diviene un militante influente all’interno delle due organizzazioni anarchiche più importanti di Spagna: la Confederación Nacional del Trabajo (CNT) e la Federazione Anarchica Iberica (FAI). Rifiuta sempre e comuqnue ogni tipo di incarico “dirigenziale” all’interno della CNT.

«L’importante non é il posto di responsabile. L’importante è la vigilianza della base per obbligare quelli in alto a fare il loro dovere senza morire nella burocrazia».

Contemporaneamente aderisce anche al gruppo “Los Justicieros“, partecipando alla progettazione, mai portata a termine, di un attentato contro il Re Alfonso XIII. Nel 1922, a Barcellona, Los Justicieros assume il nome di “Los Solidarios” (“I Solidali”), di cui fanno parte anche Juan Garcia Oliver e Francisco Ascaso, che si rende protagonista di numerose azioni dirette volte ad attaccare il sistema capitalistico spagnolo. Le più “significative” saranno: una rapina al Banco di Spagna di Gijon e l’implicazione nell’uccisione del cardinale Romero, colpito per ritorsione in seguito all’assassinio dell’anarchico Salvador Segui, nonché perché uno dei principali finanziatori dei “pistoleros” (gruppo paramilitare al servizio del padronato).

Buenaventura Durruti, braccato dalla “giustizia” spagnola, è costretto ad emigrare in SudAmerica, insieme a Francisco Ascaso e ad altri compagni de Los Solidarios con cui fonda il gruppo “Los Errantes” (Gli Erranti), che ricalcano le stesse orme di “espropriazione popolare”. Ricercato, insieme ai suoi compagni, da molte polizie del mondo, ritorna clandestinamente in Francia, dove viene fermato il 25 giugno 1926. A Durruti, Francisco Ascaso e Gregorio Jover viene loro imputata la progettazione di un attentato contro il re di Spagna, Alfonso XII, in visita a Parigi.

Grazie alla mobilitazione e alla strenua difesa operata da Louis Lecoin, Henri Torres e Sébastien Faure, tutto il gruppo anarchico è liberato il 14 luglio 1927 con l’obbligo di lasciare immediatamente il territorio della Francia. Ritornerà in Spagna solamente nel 1931. Lo stesso giorno fa la conoscenza di Emilienne Morin alla Libreria Internazionale anarchica di Parigi e diviene il suo compagno. Così, la stessa Morin, racconterà il loro incontro:

«Ci eravamo conosciuti a Parigi. Dev’essere stato il 1927. Lui usciva proprio allora di prigione. In tutta la Francia c’era stata un’enorme campagna, il governo aveva ceduto, i tre moschettieri [4] – era un nomignolo che aveva trovato la stampa – erano stati rilasciati. Durruti uscì, la sera stessa fece visita a qualche amico, io ero presente, ci vedemmo, ci innammoramo a rotta di collo e le cose rimasero così. [5]»

Nello stesso anno, Durruti entra a far parte della corrente faista (la faista era la corrente della CNT che propugnava un accordo con la Federazione Anarchica Iberica) della CNT. Ha un rapporto conflittuale con la cosiddetta II Repubblica (in cui la destra ha il controllo del governo), partecipando a numerose sollevazioni popolari, come quella dell’Alto Llobregat (gennaio 1932), che di fatto gli aprono la strada per un nuovo esilio forzato presso il carcere delle Canarie, in cui vi rimane fino al 1935.

 Durruti e la rivoluzione spagnola

Durruti in “divisa” da combattimento

Durante gli anni della Rivoluzione spagnola (1936-39) si conquista la fiducia degli anarchici spagnoli e non, soprattutto per il coraggio e l’instancabile attivismo non finalizzato ad obiettivi personali.

Il 1° maggio 1936, durante il 3° congresso della CNT, a Saragozza, viene denunciata l’inettitudine del governo e il pericolo del “golpe militare”. Gli anarchici si organizzano di conseguenza per armare il popolo e quando, il 19 luglio (data d’inizio della Guerra Civile), la guarnigione militare di Barcellona si solleva contro i repubblicani viene sconfitta dal popolo in armi, cancellando di fatto il potere statale. Erano la CNT e la FAI ad essere “padroni assoluti” della situazione.

Durruti è tra i protagonisti principali di quell’esaltante periodo storico. Promuove la creazione del Comitato centrale di Milizie antifasciste della Catalogna, che praticamente deteneva il “potere” (su basi libertarie) governativo. Il 23 luglio del 1936 si mette a capo di 10000 anarchici, chiamati poi Colonna Durruti, ottenendo numerose vittorie sul fronte Aragonese e successivamente si sposta verso la capitale Madrid, pesantemente minacciata dai fascisti franchisti. Quando la Colonna Durruti, «marciando verso il fronte, attraversava un villaggio, per prima cosa i suoi consiglieri politici deponevano il giudice. I problemi locali venivano risolti in base alle seguenti tre domande: “Dov’è il tribunale? Dov’è il catasto coi registri? Dov’è la prigione?”. Poi incendiavano gli atti giudiziari e i registri catastali e liberavano i prigionieri» [6]. In seguito venivano fatti riunire tutti gli abitanti del villaggio e si spiegavano loro i principi del comunismo libertario.

Talvolta i miliziani anarchici si lasciavano andare a violenze non sempre giustificabili (contro preti, persone ricche, presunti fascisti o addirittura che vestivano in maniera non conforme agli “standard” operai), frutto dell’odio covato da tempo o causa di miliziani dell’ultim’ora che ancora non avevano formato una coscienza tale da distinguere le violenze necessarie da quelle che potevano addirittura essere un boomerang per le sorti della rivoluzione. Durruti cercava in ogni occasione di impedire che si eccedesse nelle violenze, tant’è che diverrà una sorta di segretario della Colonna tale Jesus Arnal Pena, ovvero un prete cattolico che alcuni miliziani intendevano fucilare proprio in quanto prete, anche se nulla aveva a che fare con i fascisti, e che Durruti invece non solo salverà ma porrà addirittura sotto la sua protezione:

«Non ho mai avuto la minima inclinazione per l’anarchia, e Durruti non ha mai avuto un segretario. Ero semplicemente scrivano della cancelleria della colonna. Ma devo ammettere che Durruti era un uomo retto, e quando certa gente lo diffama come assassino e delinquente, ebbene si tratta di calunniatori, e difenderò il mio amico contro simili menzogne […] Una volta trascinarono davanti a noi un uomo che, ai suoi tempi, aveva detenuto a Saragozza una carica piuttosto importante. Preferirei non dirne il nome. Doveva essere fucilato. Durruti fece chiamare i suoi custodi e domandò loro: “Come si è comportato quest’uomo nella sua proprietà? Come ha trattato i contadini?” La risposta fu: “Non troppo male”.- “Allora, che volete? Si deve farlo fuori solo perché, un tempo, è stato ricco? Questa è idiozia”. Mi consegnò l’uomo e disse: “Bada che faccia il maestro nella scuola popolare del villaggio, e che lavori molto” […] Durante l’assedio di Huesca Durruti, con un piccolo Breguet, fece un volo di ricognizione sulla città. Era giorno di festa, e la gente usciva appunto dalla chiesa. Il pilota dell’aereo, il tenente Erguido, detto il Diavolo Rosso, domandò se dovesse buttare qualche bomba a mano. Durruti rifiutò di bombardare la popolazione civile» (Testimonianza di Jesus Arnal Pena [7]).

 La morte

A Madrid, il 20 novembre 1936, Buenaventura Durruti viene colpito mortalmente da un’arma da fuoco che lo raggiunge all’altezza della settima\ottava costola toracica.

Funerali di Durruti

Altro momento dei funerali di Durruti

La versione ufficiale, avallata anche dalla CNT, attribuì immediatamente la responsabilità ad un cecchino fascista della Guardia Civil, tuttavia, visto il diametro del foro provocato dal proiettile, sorse il sospetto che il colpo fosse stato esploso da molto vicino. Ciò ha fatto sorgere sospetti inquietanti: per aluni anarchici sarebbero essere stati i comunisti ad essere se non gli esecutori materiali quantomeno i mandanti (bisogna evidenziare che i fascisti alimentarono sicuramente questa versione per incrementare le divisioni del fronte repubblicano), per altri (es. Jaume Miravitlless [8] e inizialmente anche Emilienne Morin, compagna di Buenaventura) potrebbero essere stati addirittura alri compagni anarchici, che negli ultimi tempi lo avevano accusato di essere diventato eccessivamente autoritario e dispotico (secondo alcune voci, non del tutto confermate e attendibili, in quel periodo si sarebbe avvicinato agli ambienti comunisti). L’ultima versione, portata avanti per esempio dal testimone oculare Ramon Garcia Lopez, farebbe riferimento ad un drammatico incidente. Durruti sarebbe morto a causa di un colpo partito incidentalmente dalla sua stessa arma. (Se questo fosse vero, la CNT avrebbe preferito evitare di raccontare la verità dei fatti, ovvero che si sarebbe trattato di un incidente causato dall’imprudenza di Durruti, perché ciò avrebbe potuto comportare la demoralizzazione dei combattenti.).

L’unico fatto appurato senza alcun dubbio, al di là delle versioni discordanti [9], è che egli si trovasse in automobile insieme al suo autista Julio Estancio, a José Manzana, Antonio Bonilla e Ramon Garcia Lopez. Una volta giunti in Piazza Moncloa (quartiere universitario), dove erano in atto degli scontri a fuoco con dei fascisti che occupavano la clinica universitaria, Durruti sarebbe sceso ed in quel momento sarebbe stato colpito a morte [10].

 Il funerale

Al suo funerale, il 22 novembre a Barcellona, partecipa circa un milione persone, tutte desiderose di tributare il proprio omaggio ad un uomo protagonista di un pezzo importantissimo della storia di Spagna. Così le esequie di Durruti furono poi raccontate da Hanns-Erich Kaminski:

«I miliziani con il fucile al braccio, circondarono il catafalco… poi alcuni uomini della colonna Durruti che erano venuti da Madrid con la bara la portarono alla “casa” (l’ex-sede della Camera di Industria e commercio di Barcellona, N.d.R) […] Il coperchio della bara fu tolto e Durruti apparve, sotto vetro, coricato sulla seta bianca con una sciarpa bianca avvolta intorno alla testa; aveva l’aria di un arabo […] Migliaia e migliaia di persone sfilarono davanti a Durruti per tutta la notte. Il giorno dopo, la mattina, ebbero luogo i funerali … era grandioso, sublime e bizzarro, poiché tutta quella folla non era diretta, non c’era né ordine né organizzazione; nulla funzionava, il caos era indescrivibile …alle dieci e mezza, coperto di una bandiera rossa e nera, lascia la “casa degli anarchici” sulle spalle dei miliziani della sua colonna […] No, non erano funerali regali, erano funerali popolari…funerali anarchici… Ai piedi della colonna di Cristoforo Colombo…furono pronunciate le orazioni funebri […] Era previsto che il corteo si sarebbe sciolto dopo i discorsi…fu impossibile seguire il programma […] Scendeva la notte…all’ultimo momento si decise di rimandare l’inumazione…soltanto il giorno dopo Durruti fu sotterrato.» [11]
Fonte:
http://ita.anarchopedia.org/Buenaventura_Durruti

I moti di Reggio Calabria

Di Fabio Cuzzola 
13 luglio 2008
Il tempo in provincia non ha peso. La storia, quella ufficiale, dei libri, delle celebrazioni, scorre altrove. L’orizzonte a Reggio sembra diventato un eterno presente, frutto di una vita ormai americanizzata nello stile e nei costumi; se non fosse per la “sacra pedata” ed il lungomare, la nostra città potrebbe essere uguale a quella di altre centinaia di piccole città di provincia, pronte a vedere la storia passargli davanti senza neanche accorgersene.
E stato così per il terremoto del 1908, che a pochi mesi dal suo centenario non ha ancora trovato un degno progetto memoria, e rischia di essere così per la storia della Rivolta, la cui vicinanza cronologica non deve ingannare sul rischio dell’oblio.
Mentre stavo svolgendo le mie ricerche, finalizzate alla pubblicazione di “Reggio 1970”, ho condotto insieme a Lillo Pontari, un collega del Liceo Campanella che mi ha trasmesso l’amore per l’insegnamento, un laboratorio storico per capire cosa era rimasto nei giovani di quelle giornate reggine.
I risultati sono stati sconfortanti. Pochi giovani accostavano il 14 luglio alla nostra città, meno ancora avevano ancora sentito parlare di capoluogo o barricate, e le notizie erano confuse e frammentarie.
Tuttavia la colpa di questa memoria cancellata non è attribuibile ai giovani.
La nostra storia, intendo la storia locale, non ha mai trovato spazio nei programmi scolastici, se non nell’ardimento di qualche docente coraggioso nel rompere le assurdità di programmi datati regio decreto.
Gli studiosi della nostra Terra, ad esclusione dei grandi Cingari e Placanica, hanno trattato gli avvenimenti storici da ottiche localistiche, restringendole ad una cronologia evenemenziale, senza inquadrarle in un rapporto causa-effetto.
Anche il “nostro 14 luglio” non può pertanto essere solo una bega Reggio-Catanzaro, ma deve essere riletto con un triplice sguardo che vi propongo.
Uno sguardo meridionalista, ovvero capire che quella di Reggio, come sosteneva Fortunato Seminara, fu “la somma di collera antica”, l’ultima occasione per risolvere una questione meridionale, che da quel momento in poi sparì dall’agenda politica nazionale.
Un secondo sguardo legato alla macrostoria. Reggio è stata un laboratorio per la destra eversiva nell’ambito della strategia della tensione, e questa non è un’invenzione romanzesca, ma testimonianza viva di migliaia di pagine di atti, processi, sentenze e deposizioni documentati dalla Commissione stragi e dalle operazioni Olimpia. Non fare i conti con questo approccio significa relegare la Rivolta ad esperienza da Via Pal e quindi consegnarla all’oblio richiudendola fra i confini dell’Annunziata e del Calopinace.
L’ultimo sguardo è quello delle vittime. Tutte! Da Labate fino a Malacaria, cittadino di Catanzaro ucciso durante una manifestazione contro la Rivolta nel febbraio del ’71, come giustamente sottolineato dalla giunta Scopelliti in un ordine del giorno votato nel 2005 a difendere la memoria della Rivolta.
Tutte le vittime, comprese i cinque anarchici, i morti della strage di Gioia Tauro, tutte vittime senza giustizia.
Ripenso alla famiglia di Angelo Campanella, onesto lavoratore, ucciso mentre si riposa sulla veranda di casa, da un colpo di moschetto esploso da un carabiniere. […]
A mio avviso, invece che litigare su nomi di vie o piazze, la giunta, il consiglio comunale dovrebbero sostenere questa lotta, dichiarandosi parte civile nel processo e patrocinare con i propri avvocati la causa di Angelo Campanella, perché la memoria non sia solo una corona posta in un angolo del rione Pescatori, ma storia viva di persone umili che in un caldo giorno di luglio decisero di fare la storia e non subirla.
Note:
 Fonte:

SULLE TRACCE DELLA MAPPA DI VERONELLI SULL’ISOLA di SANTO STEFANO (VENTOTENE)

Dal blog http://liberidallergastolo.wordpress.com/:

Immagine

Abbiategrasso, 16 gennaio 2014

Il 23 giugno del 2012 siamo andati per la prima volta al Cimitero degli Ergastolani dell’isola di Santo Stefano (Ventotene).
Ci siamo andati per immaginare e chiedere un orrizonte liberato dalle carceri.
Per opporci alla tortura che viene praticata nelle carceri italiane
attraverso l’ergastolo, le sezioni del 41 bis, il sovraffollamento in molte sezioni penali e giudiziarie, il permanere degli ospedali psichiatrici giudiziari e le case di lavoro (sottoposte alla “pericolosità sociale” che può essere reiterata a vita), la presenza ancora di bambini e bambine con le loro madri in sezioni carcerarie, le numerose morti…
Ci siamo andati con un pensiero ai fratelli e ai compagni a cui è stata negata  e limitata la libertà.

Ci siamo andati per portare dei fiori sulle tombe e per ridare il nome alle persone sepolte. Abbiamo fatto questo aiutati da uno scritto di Lugi Veronelli,  che qualche tempo dopo la chiusura del carcere fece un viaggio sull’isola addentrandosi fin nel cimitero alla ricerca della tomba di Gaetano Bresci, ricostruendo anche la mappa nominale di gran parte delle 47 tombe. Poco prima di morire scrisse ancora di S. Stefano, un testamento.
Luigi Veronelli da cui abbiamo imparato molto. Luigi Veronelli: enologo, gastronomo, anarchico e scrittore.
Luigi Veronelli, l’ideatore di Critical Wine, insieme ai compagni e animatori di molti centri sociali italiani. Critical Wine che abbiamo attraversato e costruito anche noi e di cui La Terra Trema  è la nostra personale evoluzione.
Siamo andati a S. Stefano perchè c’è la tomba di Gaetano Bresci e altre tombe di altri esseri umani morti perchè ostili al sistema, ribelli ai dispositivi del potere, ribelli individuali o collettivi. Sepolti lì, prima da vivi e poi da morti.

Banditi.

Siamo tornati l’anno successivo, nel 2013,  e quest’anno ci siamo ritornati , con i compagni  con cui condividiamo questo pellegrinaggio e un legame fraterno da tre anni. Siamo tornati su quell’isola,  in quel carcere che racconta la storia d’Italia e in quel cimitero per ricordare, portando dei fiori, l’appartenenza alla comunità umana delle persone che lì sono sepolte, e di tutti coloro che si spengono socialmente e muoiono fisicamente all’ergastolo.

Folletto 25603, La Terra Trema

 

Immagine

 

Un incontro inatteso
di Luigi Veronelli  (da Rivista Anarchica Online)

Cronaca dell’“incontro” tra il celebre anarchenologo e Gaetano Bresci.

Molti dei miei lettori – molti? Pressoché tutti – si meravigliano delle mie cavalcate (cavalcate fuori argomento). “Ex Vinis” è il titolo; solo di vini dovrei scrivere e per estensione, di cibi e di turismo. Considero d’obbligo giustificarmi. Scrivo di vini, di cibi e di turismo, alla continua «presenza» dell’uomo. Non rimpiango affatto di aver abbandonato – 1956, o giù di lì – l’intrapresa via della speculazione filosofica. Non ho rimpianto da che so che non ne sarei stato capace; che mi sarei fermato – così come, alla fin fine, è avvenuto – al primo intoppo. (…). Mi sono occupato, di contro, nel modo più completo e professionale di editoria. I primi volumi furono di filosofia e di lettere; poi…poi mi accorsi che non ero imprenditore – economico, dico – e che mi sarebbe convenuto applicarmi a quel che mi riusciva meglio: l’assaggio dei cibi e dei vini e il loro racconto. Cibi e vini che riguardano in modo diretto, in modo più diretto che ogni altro argomento, l’uomo e la vita.
Credo – da quegli anni cinquanta – che vi sia una chiave reale, per una sorte felice dell’uomo, per una sua vita migliore. Quella chiave bene si esprime in due parole: la libertà dell’altro. Questa, solo questa, è la ragione per cui non mi sembra di staccarmi da quel mio titolo, “Ex Vinis”, quando non scrivo, puntuale, di vini di cibi e di turismo.
Ciascuno degli elementi di quel viaggio è sempre un gioco, sempre rispettato. Sì, anche ora che mi decido, finalmente, a raccontarti – amico lettor mio, amica mia paritaria – di una vicenda in Santo Stefano, uno scoglio più che un isolotto, pressoché sconosciuto, proprio di fronte a Ventotene, isola grande.

Luigi Veronelli

L’antica Pandataria

Stassentire.
Ventotene – per quelli della mia generazione, che uscivano dall’orrifico fascismo (all’inizio della seconda guerra mondiale avevo 14 anni) – non era il luogo di varie attrattive che è oggi. Isola del mar Tirreno che appartiene (con l’isolotto di Santo Stefano) al gruppo più orientale dell’arcipelago delle isole Pontine.
Anticamente era chiamata Pandataria e vi furono deportati molti illustri esponenti dell’aristocrazia romana e, addirittura, delle famiglie imperiali come Giulia, Ottavia e Agrippina Maggiore.
Settembre 1964. Mario D’Ambra, allora l’indiscutibile, reale promoter della vitivinicultura campana (i suoi vini d’Ischia – Biancolella, Forrastera e Per’e Palummo, erano i soli ad aver campo nei ristoranti d’Italia tutta), aveva invitato me e i miei familiari, Maria Teresa, moglie, Benedetta, Chiara e Lucia, figlie, per una vacanza in quello scoglio a lui caro per la sconvolgente bellezza dei luoghi, la solitudine e la caccia alle beccacce e ai beccaccini. Fossi saggio, avrei tenuto un diario. D’estremo interesse per le tante «avventure». Sì, s’era soli. Allo sbarco, in una cala minima e rocciosa, aperta al mare mosso (si saltò, letterale, dal barcone che ci aveva prelevati in Ventotene, su uno scoglio, bagnato viscido, noi e le valigie), ci accolse un contadino e la sua mula.
Lungo un viottolo, quasi sempre a picco sull’onde, carica, stracarica la mula, giungemmo all’unica costruzione – aveva un non so che di spagnolesco – ove ci accolse Mario. Era stata, ci disse, la casa fuori del Penitenziario che si ergeva sul culmine dello scoglio, imponente e tetro. Già allora il sinistro luogo di pena era stato spogliato di tutto, proprio tutto, sino a scardinare gli infissi, gli impianti igienici, le tubature, i cancelli, le barre, quant’altro. Era ancor più sinistro di quel che doveva già essere negli anni in cui ospitava gli sciagurati, sventurati, derelitti.
Penitenziario, per i condannati a vita. L’ergastolo. Nessuna volontà di redimere. Solo persecuzione e pena. Sì, quel mancato diario. Dell’avventure – tante, gioiose – ne racconto una sola, tristissima.
Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle «gabbie» di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva stare eretto. Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto Gaetano Bresci, il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. E oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato.
Oggi. Era venuto d’America, sdegnato per le repressioni vili e sanguinarie, fine 1800 e convinto, allora, che uccidere un re, colpevole verso l’umanità, fosse un atto risolutivo.
Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano.
Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire senza eguali della bellezza, appena ti estranei, senti voci non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo.

Immagine

 

Condanna a morte

Gaetano visse da uomo libero.
Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo. Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa, era l’Anima), dieci mesi dopo, 22 maggio 1901.
Maria Teresa e le figlie, in quel periodo tra i più belli della nostra vita, una volta sola si accorsero del mio turbamento.
Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e un po’ decentrata, l’isola di Ventotene), una frase all’ingresso: «Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio», minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci.
Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Sorprese le bimbe e ammutolite.

Trascrissi, a uno a uno i nomi dei cartigli:

entrando a sinistra:
Montalbano G. 15.4.1906/11.7.1959
De Roma Francesco 15.2.1945
Donatangelo Pasquale 13.9.1954
Durante Felice 14.3.1944
Lai Salvatore 28.9.1931
Entrelli Rocco 16.8.1950
Mediati o Mediali Rocco 26.2.1952
Imbrindo Domenico 9.7.1950
Iacono Lucio 21.2.1940
Forte Michele 24.9.1945
De Rocca Salvatore 26.5.1949
Toscailli o Roscailli Benedetto 6.12.1943
distrutta
Giorgi Luigi 27.6.1914
distrutta

entrando da destra:
distrutta
Lota Kasem 16.2.1945
Dosko o Posko Nazir 9.6.1945
Ussello Giuseppe 15.5.1945
Galdi Giuseppe 16.5.1938
Nangini Guido 28.10.1946
Saracco Natale 29.5.1926
distrutta
Di Benedetto Vincenzo 19.11.1918
Sacchi Luigi 20.9.1917
Carota Antonio 25.4.1915
Reda o Beda Giuseppe 9.10.1915
Si scendono 3 gradini a destra
Pilia Benigno 19.2.1923/22.7.1962
Di Santo Rufino 11.6.1888/12.5.1957
Bresci Gaetano 22.5.1901
Messina Pietro 27.8.1908/26.4.1962
Lizio Rossano 17.1.1904
De Cuzei Giuseppe 12.6.1904
Pannuccio Antonio 25.9.1904
Monte Gaetano 3.5.1904
Biase Donadio 18.2.1904
Gemina (?) Domenico 30.10.1904

si scendono 3 gradini a sinistra:
distrutta
Baetta Filadelfo 30.3.1909 ?
Rodessi Giovanni 14.6.1909
Fissore Giuseppe 31.1.1909
Tupponi Sebastiano 30.3.1908
Lai Antioco 29.6.1908
Baches Raffaele 7.11.1906

Quante volte mi sono chiesto: sarebbe stato giusto confidare prima questa mia scoperta? Come sarà, oggi, quel desolato luogo? Avrei dovuto – avrei voluto – divenisse meta di un pellegrinaggio mio – mio, solo mio – annuale.
Fare di quel luogo la mia Mecca. Non ci sono mai tornato. Questo non ritorno pesa, sull’animo mio, come un macigno.

Luigi Veronelli

tratto dal “Bollettino n. 16”, dicembre 2000, del Centro Studi Libertari di Milano

 

Immagine

 

S. STEFANO (da Carta, Ottobre 2004)

L’isolotto di Santo Stefano è il “resto” di una antica eruzione sottomarina, una successione di basalti e di tufi. Il più orientale e piccolo dell’arcipelago pontino, ha forma ellittica con un diametro massimo di 750 metri da est ad ovest, minimo 500 da nord a sud; la circonferenza è di 2 chilometri, l’altezza di 68 metri.
Gli è stato dato il nome in onore di Santo Stefano, martire del 35 d.C.. Un suo discorso ripercorreva la storia di Israele, da Abramo a Gesù, e metteva in evidenza il disegno di Dio e l’infedeltà del popolo. Gran scandalo. Gli oppositori, furibondi, lo condussero fuori città e lo lapidarono. All’esecuzione era presente Saulo, il futuro Paolo apostolo, che: “approvava e stava a guardia dei mantelli dei lapidatori”.
Sì, alla bellezza e alla serenità sconvolgenti dei panorami, lugubre la storia. Già dagli imperatori romani, fu luogo di deportazione. Augusto vi relegò la figlia Giulia; Tiberio, Agrippina; Nerone, la moglie Ottavia, e qui la fece uccidere. Qualche secolo dopo, Ferdinando IV eresse l’Ergastolo (la E, maiuscola, è voluta: millanta i santi e i martiri che vi furono rinchiusi). Penitenziario eretto nel 1794-95 a tre piani, 99 celle e un cortile per l’aria dei carcerati.
L’isolotto era stato acquistato, anni sessanta, da un vignaiolo mitico, Mario D’Ambra (meditava d’impiantarvi vigne di forrastera e di perèpalummo). Un suo contadino abitava quello che era stato – fuori dalle mura del carcere – una avanguardia. Grande sala con un camino e vari vani per gli ospiti, cacciatori, soprattutto da che l’isolotto ha fama per il passaggio di beccacce e beccaccini (il contadino, un genio, aveva provvisto ad una minima conigliera; ad ogni sacrificio ubriacava le bestiole di alcol, così che non avessero il rigor mortis).
Fui il solo ospite con le mie quattro donne: Maria Teresa, moglie, Bedi, Chiara e Lucia, figlie.
Dedicavo le ore familiari al mare (luogo migliore: una buca basaltica, prediletta, anni annorum, da Agrippina); le ore notturne, solo mie, all’Ergastolo, per “ricerche” sul santo martire, Gaetano Bresci.
Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle “gabbie” di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva stare eretto.
Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. Ed oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato. Oggi.
Era venuto dagli States ove collaborava a “La questione sociale”, inferocito per le repressioni vili e sanguinarie di Bava Beccaris, fine Ottocento. Si era convinti, allora, che uccidere un re, colpevole verso l’umanità, fosse un atto risolutivo. Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano.
Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire senza uguali della bellezza, appena appena ti estranei, senti voci, non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo. Visse da uomo libero. Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo.
Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa; era l’Anima), dieci mesi dopo la reclusione, 22 maggio 1901.
Maria Teresa e le figlie – in quel periodo tra i più belli della nostra vita – una volta sola si accorsero del mio turbamento. Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e, un po’ decentrata, l’Isola di Ventotène). Una frase all’ingresso: “Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio”, minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci.
Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Ammutolite le bimbe.
L’Anima è il rispetto dell’altro. La giustizia di Dio una palla. Quella degli uomini dovrebbe perseguire i criminali tipo Bush e Bin Laden. Dovrebbe colpire tutti coloro che schiavizzano l’umanità per diventare, giorno via giorno, più ricchi.
Leggi il documento emesso dall’Arci, Comitato regionale toscano, sulle ignominie della famiglia Bacardi.  Abbi il minimo, civile coraggio di sbattere in faccia il loro rhum che ti fosse offerto.
Avete capito, giovani lettori: questo è un testamento. Entro in clinica oggi pomeriggio per una operazione da cui, di solito, non si esce. Per la prima volta ho la gioia di essere stato il vostro Maestro.
Luigi Veronelli

Immagine

 

Immagine

 

 

 

Fonte:

http://liberidallergastolo.wordpress.com/2014/06/16/sulle-tracce-della-mappa-di-veronelli-sullisola-di-santo-stefano-ventotene/

Franco Serantini

Franco Serantini (Cagliari, 16 Luglio 1951 – Pisa, 7 maggio 1972), é stato un anarchico pisano morto il 7 maggio 1972 dopo un violento pestaggio poliziesco avvenuto qualche giorno prima durante una manifestazione antifascista.
Biografia 
L’infanzia 
Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 Luglio del 1951. Abbandonato al brefotrofio di “Infanzia abbandonata” della sua città natale, deve forse il suo nome e cognome ad un qualche ufficiale di Stato civile o ad un qualche religioso che apprezzava uno scrittore romagnolo autore di romanzi pittoreschi ottocenteschi che all’epoca aveva una certa celebrità, Franco Serantini [1]. Nel brefetrofio vi resta sino al 16 maggio 1953, quando viene dato in affidamento a due coniugi siciliani: Giovanni Ciotta, figlio di braccianti e guardia di pubblica sicurezza che all’epoca lavorava nel capoluogo sardo, e Rosa Alaimo, figlia di un piccolo possidente terriero. I due sono genitori affettuosi col bambino, ma quando alla madre adottiva viene diagnosticato un tumore la famiglia fa rientro al paese natale, Campobello di Licata. Dopo la morte della madre, il piccolo Franco diviene motivo di tensione familiare; Giovanni Ciotta ottiene il trasferimento del bambino a Caltanisetta, vorrebbe che gli fosse concessa l’affiliazione del bambino e fa domanda all’Amministrazione provinciale di Cagliari, a cui Franco ufficialmente era affidato. La richiesta viene però rigettata a causa di un cavillo burocratico. Il bambino vorrebbe essere preso in affidamento anche dai nonni materni (Maria Bruscato e Giovanni Alaimo) ed allora, il 13 dicembre 1955, sentito anche il parere dei fratelli adottivi (Santo e Carmelina), l’Amministrazione affida ufficialmente Franco alla sua nuova famiglia. [2]
Quando Maria Bruscatto si ammala, tenendo conto anche del fatto che Giovanni Alaimo era ormai anziano e i loro figli erano emigrati al Nord o in America, viene chiesto di ricoverare Franco in un nuovo istituto, giacché nessuno della famiglia, pur essendo sinceramente affezionati, poteva più occuparsi di lui. L’Amministrazione provinciale, nell’aprile 1960, ordina che Franco Serantini venga affidato all’Istituto Buon Pastore di Cagliari. [3]
Nel capoluogo sardo frequenta le scuole medie con scarso profitto, viene bocciato in seconda media. È un ragazzo timido, chiuso e taciturno, desideroso di ricevere affetto, cosa che le suore evidentemente non riescono a dargli. A quindici anni il rapporto con le suore è insostenibile, i litigi sono continui e nei primi mesi del 1968 l’Istituto si rivolge al tribunale dei minorenni, esprimendo l’impossibilità ad ospitare ancora Franco Serantini nel loro istituto. Malgrado adducano motivazioni disciplinari, una delle ragioni dell’insofferenza delle suore potrebbe anche essere che a quell’età, all’epoca, le amministrazioni provinciali smettevano di pagare la retta. [4]
A Pisa: prima il marxismo e poi l’anarchismo
Franco ha diciassette anni, il Tribunale dei minori riconosce che il ragazzo «ha una assoluta carenza affettiva» e che dovrebbe essere aiutato «con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». L’incredibile contraddizione del Tribunale sta nel fatto che per curare questa carenza affettiva, la sentenza emessa dal giudice minorile stabilisce che Franco debba essere rinchiuso in un riformatorio [5](!!!!!).

Franco Serantini durante una manifestazione

Dopo essere stato psicoanalizzato per un mese intero a Firenze, Franco Serantini viene affidato all’istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa, in regime di semilibertà (è bene precisare che Franco Serantini era incensurato). Nella città toscana riprende gli studi, consegue la licenza media alla scuola statale Fibonacci e poi frequenta la scuola di contabilità aziendale. Con l’esplosione della contestazione, Franco si avvicina agli ambienti della sinistra, frequentando prima le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista e poi quella di Lotta continua (LC). Durante il periodo di questa militanza politica, insieme ad una ventina di ragazzi, Serantini è protagonista dell’esperienza del Mercato rosso, al CEP (quartiere popolare pisano). L’idea del gruppetto è quella di comprare merce ai mercati generali per poi rivenderla a prezzo di costo agli abitanti del quartiere. Il mercato, che si teneva nell’area del piazzale Giovanni XXIII, viene inteso dai giovani militanti di LC come un modo per aiutare la povera gente e, contemporaneamente, per entrare in contatto diretto con loro, invitandola poi a partecipare alle riunioni che Lotta continua teneva ogni domenica pomeriggio.
Il mercato però attira le ira di commercianti, di fascisti e della polizia, mentre il PCI pare più attento a non perdere l’appoggio dei commercianti che a sostenere il gruppo di giovani di cui faceva parte Serantini. Il 16 settembre 1971 la polizia irrompe al CEP, nel tentativo di sgomberare il mercatino abusivo carica violentemente i ragazzi e ne trattiene in stato di fermo alcuni. Finisce in questo modo l’avventura del mercato.
Dopo alcuni litigi con il gruppo dirigente pisano di LC, anche a causa della vicenda del mercato, l’intolleranza di Franco Serantini verso ogni forma di autoritarismo lo spinge su posizioni legate all’anarchismo. Nella seconda metà del 1970 comincia a frequentare la sede del Gruppo anarchico Giuseppe Pinelli, che ha la sede presso la Federazione Anarchica Pisana (aderente ai GIA) in via S. Martino n° 48, dove conosce anziani militanti come Cafiero Ciuti, il prof. Renzo Vanni e altri libertari, giovani e meno giovani, del luogo. Inizia anche a leggere libri anarchici di Kropotkin, Cafiero e Malatesta che gli presta il prof. Vanni. Franco è molto attivo, partecipa a diverse iniziative e quando Renzo Vanni trova il bando di Almirante (un documento controfirmato da Giorgio Almirante che il 17 maggio 1944 imponeva la condanna a morte per i renitenti alla leva), nel giugno 1971, è lui stesso ad annunciarlo a Luciano Della Mea, antifascista e militante storico della sinistra pisana del quale era divenuto amico tempo prima. Ed è sempre lui che si incarica di farne delle fotocopie.
La morte
Prima delle elezioni del 7 maggio 1972 si susseguono le iniziative dei vari partiti e movimenti politici. Sono giornate molto animate e “calde”. Franco e gli anarchici decidono di partecipare ad una contestazione, indetta a Pisa per il 5 maggio da Lotta Continua, contro un comizio fascista. Durante la protesta antifascista la polizia comincia a caricare pesantemente i militanti della sinistra extraparlamentare che contestavano il comizio, per consentire al fascista Giuseppe Niccolai di portare a termine il suo discorso, causando decine di feriti e procedendo a 20 arresti.

Umanità Nova annuncia la morte di Franco Serantini (n. 17 del 13 maggio 1972)

Franco, dopo essersi inspiegabilmente fermato di fronte ad una carica della polizia, viene raggiunto dai celerini del 2° e 3° plotone della Terza compagnia del I° raggruppamento celere di Roma, picchiato con una ferocia inaudita con i calci dei fucili, pugni e calci e quindi caricato su una camionetta in stato di arresto.
«Erano circa le 20. Io mi trovavo alla finestra di un appartamento[…] in lungArno Gambacorti […] Ho sentito le sirene delle camionette venire dalla parte del comune […] si son fermate sotto la casa mia dalla parte delle spallette dell’Arno […] sotto la mia finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto un cerchio sopra di lui […] si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i piedi, sia con i calci del fucile. Ad un tratto alcuni celerini […] sono intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano, dicendo frasi di questo tipo: Basta, lo ammazzate![…] poi uno che sembrava un graduato [6]è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su […] lo hanno poi trascinato verso le camionette…» (Testimonianza di Moreno Papini, Lungarno Gambacorti n°12) [7]
Nonostante le condizioni fisiche in cui è stato ridotto dal pestaggio (aveva evidenti ecchimosi in tutto il corpo), viene trattenuto nel carcere Don Bosco ed interrogato dal magistrato Giovanni Sellaroli, al quale rivendica la propria appartenenza al movimento anarchico:
«Ho partecipato alla manifestazione del 5 maggio, sono un anarchico e un antifascista militante, è forse un delitto?» (Ammazzato due volte di Laura Landi)
Completamente abbandonato al suo destino, ritorna nella sua cella nella completa indifferenza di tutt. Di lì a poche ore la morte lo raggiungerà: alle 9.45 del 7 maggio Franco Serantini muore. Il certificato medico del dottor Alberto Mammoli parla genericamente di «emorragia cerebrale». Nel tentativo di nascondere ogni prova dell’omicidio, il pomeriggio dello stesso giorno le autorità carcerarie cercano di ottenere dal comune l’autorizzazione al seppellimento del ragazzo. L’obiettivo è quello di occultare cadavere e prove connesse, ma il tentativo viene respinto da un funzionario dell’ufficio del Comune che riteneva illegale la procedura subdolamente portata avanti.
Intanto, Luciano Della Mea ed il professore Guido Bozzoni, sostenuti dagli avvocati Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, prendono l’iniziativa di costituirsi parte civile e danno vita ad un’intensa campagna di controinformazione. Nei giorni seguenti, in tuta Italia, si terranno numerose manifestazioni di protesta contro la violenza delle forze dell’ordine.
Il 9 maggio 1972 si svolgono i funerali dell’anarchico sardo. Migliaia di persone lo accompagnano in mezzo ad una marea di pugni chiusi e di bandiera nere con la rossa A cerchiata nel mezzo.
Indagini
Le indagini furono due: la prima contro gli arrestati (tra cui, oltre a Serantini, c’erano 4 studenti greci, di cui uno – Tsolinas Evangelos – fu brutalmente pestato nonostante fosse poliomelitico); la seconda contro ignoti per la morte dell’anarchico. La prima indagine si concluse con il proscioglimento di tutti gli imputati, Serantini fu prosciolto in quanto morto. Egli era stato accusato di oltraggio (avrebbe urlato alle forze di polizia: «Porci!» e «Fascisti»), resistenza e violenza contro le forze dell’ordine. Le brevi indagini non dimostrarono mai se Serantini avesse o meno partecipato agli scontri; sicuramente stava nel cuore degli scontri, ma non vi sono prove se egli abbia o meno effettivamente partecipato al lancio di molotov o sassi contro le forze dell’ordine (anche per gli altri imputati fu impossibile dimostrare la loro effettiva partecipazione agli scontri). Le indagini misero anche in luce che egli si era del tutto inspiegabilmente fermato di fronte alla carica della polizia e per questo fu raggiunto e pestato a morte dalla polizia.
La seconda indagine fu più complessa e si scontrò con i comportamenti omertosi delle forze di polizia e dei medici, degli infermieri e delle autorità del carcere Don Bosco. Ci fu inoltre un tentativo da parte del procuratore generale, Mario Calamari, di trasferire 3 magistrati di Magistratura democratica (l’associazione di sinistra dei magistrati dell’Associazione Nazionale Magistrati) per impedir loro di portare avanti alcune indagini, tra cui quella su Serantini, in cui venivano messe in luce gravi responsabilità ed illegalità delle forze dell’ordine e di uomini dello Stato.
Nel novembre 1972 il medico del carcere Alberto Mammoli ricevette comunque un avviso di procedimento per omicidio colposo, mentre il giudice istruttore Funaioli (uno dei magistrati che Calamari cercò di trasferire) si espresse in favore di un’azione penale contro Albini Amerigo e Lupo Vincenzo, capitano e maresciallo di PS del I° celere di Roma, e la guardia Colantoni Mario, per aver affermato il falso e taciuto «ciò che era a loro conoscenza […] per assicurare l’impunità agli agenti responsabili dell’omicidio di Franco Serantini».
Nella sentenza depositata nell’aprile 1975 il giudice Nicastro dichiarò «non doversi procedere in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori». Lupo e Mammoli vennero prosciolti. Albini e Colantoni, condannati per falsa testimonianza a 6 mesi e 10 giorni con la condizionale e la non iscrizione nel casellario giudiziale, furono assolti nel gennaio 1977. Nel marzo dello stesso anno il dottor Mammoli venne ferito alle gambe da militanti di Azione Rivoluzionaria.
Concludendo si può affermare che, nonostante formalmente non si siano trovati gli esecutori materiali dell’omicidio di Franco Serantini, a causa dei tanti “non ricordo” da parte degli uomini appartenenti ai vari apparati dello Stato (polizia, carceri e arte della magistratura), il procedimento ha dimostrato inequivocabilmente le responsabilità delle forze dell’ordine che si accanirono contro il giovane anarchico. Ha inoltre evidenziato la disumanità del magistrato (Sellaroli) che lo interrogò nonostante le varie ecchimosi che gli ricoprivano tutto il corpo (rilevati ufficialmente anche dall’autopsia) e la completa indifferenza di tutto il sistema carcerario di fronte all’agonia di Serantini, che fu ricoverato solo in punto di morte (un ricovero immediato gli avrebbe probabilmente salvato la vita). Ha scritto Corrado Stajano nel suo Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Franco Serantini:
«Lo Stato, stupito dalle reazioni dell’opinione pubblica democratica in difesa di un uomo senza valore, un rifiutato sociale privo di ogni forza di scambio politico, si è obiettivaamente confessato colpevole. Lo accusano i suoi comportamenti, i suoi continui e impudenti tentativi di mascherare e di insabbiare le responsabilità e di chiudere un caso che ha assunto un valore di simbolo del rapporto tra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà».

In ricordo di Serantini 
Il 13 maggio del 1972, durante una manifestazione, viene posta, senza alcuna autorizzazione, sul palazzo Touhar – sede del riformatorio che aveva “ospitato” Serantini in libertà vigilata, senza alcuna motivazione giuridica – una lapide sulla quale si poteva leggere:
«Un compagno di 20 anni \ morto tra le mani \ della giustizia borghese \ visse in questa \ che ora i proletari chiamano \ piazza \ Franco Serantini».

Monumento in ricordo di Franco Serantini

Nel 1974, per merito di Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, si costituisce a Pisa il “Comitato giustizia per Franco Serantini” che promuove la pubblicazione di Franco Serantini, un assassinio firmato (di Luciano Della Mea) e Giustizia per Franco Serantini (a cura dell’Amministrazione Provinciale di Pisa).
Queste sono solo alcune delle iniziative atte a promuovere la memoria di Franco Serantini: nel corso del tempo si susseguirono manifestazioni, articoli di giornali, circoli in suo ricordo (1982 nasce il “circolo Franco Serantini“), scuole a lui intitolate ecc.
Il monumento
Nel maggio del 1982, in piazza San Silvestro, a Pisa, fu collocato un monumento in sua memoria che riporta la seguente scritta: «Franco Serantini / 1951-72 / Anarchico ventenne / colpito a morte dalla polizia / mentre si opponeva / ad un comizio fascista».

Manifesto per l’inaugurazione della Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1979

La Biblioteca Franco Serantini
Nel 1979 nasce la biblioteca Franco Serantini per ricordare la figura dell’anarchico assassinato dalla polizia a Pisa.
La biblioteca è specializzata in storia del movimento anarchico dalle origini ai giorni nostri, del movimento operaio e sindacale, di quello antifascista e della Resistenza, dei movimenti studenteschi e di opposizione degli anni Sessanta e Settanta. [8]
Il libro
L’opera teatrale
Video
Audio
  • Wir, Franco Seratini (in tedesco) [11]
  • Ballata per Franco Serantini, di Ivan Della Mea, che ne compose due diverse versioni con diverse musica e parole ma dallo stesso titolo
Collegamenti esterni
Note
  1. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 2
  2. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 7
  3. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 9
  4. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 13, 14
  5. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 15
  6. Si tratta di Giuseppe Piromonte, commissario di Polizia. In seguito si dimetterà dal suo incarico e abbandonerà la polizia.
  7. Corrado Stajano, Il sovversivo, pag 86, 87
  8. Sito web: Biblioteca Franco Serantini
  9. Una morte legale
  10. S’era tutti sovversivi
  11. Wir, Franco SeratiniFonte:

    http://ita.anarchopedia.org/Franco_Serantini

 

*
A questo link un omaggio del musicista Daniele Sepe  a Serantini:

https://soundcloud.com/mistergo/la-ballata-di-franco-serantini

12 APRILE, “ZAINETTI”, SGOMBERI E UN VECCHIO ANARCHICO

Di

Marco Bascetta, 16.4.2014

Polizia. Si tratta solo di fare male e di fare paura. Una strategia della deterrenza che, nel corso degli ultimi anni, si è lasciata dietro un buon numero di vittime

Il «cre­tino», quello che scam­bia il corpo di una gio­vane ragazza per uno zai­netto impu­ne­mente cal­pe­sta­bile, il poli­ziotto in bor­ghese esi­bito ripe­tu­ta­mente da gior­nali e tele­vi­sioni come sim­bolo media­tico di ogni vio­lenza poli­zie­sca «fuori dalle regole», l’uomo messo all’indice dalla recita dello stato di diritto che «non guarda in fac­cia nes­suno» non dovrebbe sen­tirsi troppo solo. Pas­sano pochi giorni dalle cari­che di piazza Bar­be­rini ed ecco che i suoi col­le­ghi, nel corso dello sgom­bero vio­lento di una palaz­zina nel quar­tiere romano della Mon­ta­gnola, que­sta volta in divisa, si acca­ni­scono a colpi di man­ga­nello su chi giace inerme in terra. Con tutta evi­denza non può essere scam­biato per uno zaino o un sacco della spaz­za­tura. Sono corpi ben rico­no­sci­bili e del tutto inca­paci di difen­dersi quelli che ven­gono ripe­tu­ta­mente, deli­be­ra­ta­mente, col­piti a san­gue da un folto gruppo di poliziotti.

È uno sgom­bero di occu­panti, di senza casa, di sfrat­tati, non ci sono Palazzi del potere da difen­dere, zone rosse o piazze da tenere sotto con­trollo. Si tratta solo di fare male e di fare paura. Di una stra­te­gia della deter­renza dif­fi­cil­mente ricon­du­ci­bile al puro e sem­plice pia­cere poli­zie­sco di menar le mani. Il video che ritrae il pestag­gio è, se pos­si­bile, ancora più crudo di quelli girati durante le cari­che di sabato scorso. Non offre «immagini-simbolo» tenere o com­mo­venti su cui fare cat­tiva poe­sia. Solo la testi­mo­nianza di quell’ordinaria vio­lenza che quo­ti­dia­na­mente si eser­cita nelle caserme, nelle car­ceri, per le strade e che, nel corso degli ultimi anni, si è lasciata die­tro un buon numero di vittime.

La gra­tuita bru­ta­lità messa in campo alla Mon­ta­gnola non può che signi­fi­care due cose. O che ciò che dicono i ver­tici della poli­zia e il Mini­stero degli interni conta meno di niente, che gli agenti se ne infi­schiano alta­mente. O che, «con­tror­dine ragazzi! Nes­suno vi vieta di pestare a pia­ci­mento, anzi». A dire il vero c’è anche una terza pos­si­bi­lità: che tutta que­sta indi­gna­zione per i diritti (e i corpi) cal­pe­stati dei cit­ta­dini non sia altro che una mise­ra­bile messa in scena. E forse è pro­prio quest’ultima even­tua­lità la più pro­ba­bile. Gli «eccessi» di poli­zia in Fran­cia li chia­mano «sba­va­ture», qui da noi ci si con­sola con la trita sto­riella delle «mele marce». Ma tutti sanno che il pro­blema sta nel frut­teto e, ancor più, nel suo coltivatore.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.it/ordinaria-violenza/

 

Leggi anche qui:

http://www.fanpage.it/chi-e-il-disabile-che-fronteggiava-la-polizia-a-roma-lello-valitutti-ecco-la-sua-storia/

Mario Salvi

 
Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi
In occasione dell’esame, da parte della Cassazione, del caso dell’anarchico Giovanni Marini, la sinistra rivoluzionaria organizza un presidio davanti alla sede della corte, il Palazzaccio di piazza Cavour a Roma. Condannato in appello a 9 anni di reclusione, Marini era accusato di aver reagito a un assalto fascista, disarmando il giovane missino Carlo Falvella del proprio coltello e ferendolo a morte durante la colluttazione. Il fatto era avvenuto nel luglio 1972 a Salerno, in un clima di forte tensione creato nella città dalle numerose azioni squadriste: aggressioni a militanti della sinistra, devastazioni di sedi politiche e incursioni nelle redazioni di giornali. Marini, che nel 1975 vinse il Premio Viareggio per la poesia con il volume E noi folli e giusti, prima dell’arresto era impegnato in una controinchiesta su un anomalo incidente stradale che nel 1970 aveva provocato la morte di cinque anarchici calabresi, nei pressi di Roma, dove si stavano recando per consegnare alcuni loro documenti, mai ritrovati, sulle stragi che iniziavano a insanguinare l’Italia. Il “caso Marini” assurse in quegli anni a simbolo dell'”antifascismo militante”, producendo una mobilitazione molto sentita non solo nell’area anarchica e della sinistra rivoluzionaria, ma anche nel mondo della cultura.
Il 7 aprile 1976, dopo la conferma della condanna da parte della Cassazione, un gruppo di militanti dei Comitati Autonomi Operai decide di staccarsi dal presidio di piazza Cavour per effettuare un’azione contro il Ministero di Grazia e Giustizia. Vengono lanciate alcune bottiglie incendiarie, a puro scopo dimostrativo, verso il lato posteriore dell’edificio. L’agente di custodia Domenico Velluto, in servizio davanti al Ministero, si getta all’inseguimento dei giovani che fuggono. In via degli Specchi, ormai lontano dal luogo in cui erano state tirate le molotov, la guardia carceraria apre il fuoco uccidendo con un colpo alla nuca il giovane comunista Mario Salvi, 21 anni, militante del Comitato Proletario Zona Nord, struttura del quartiere di Primavalle legata all’Autonomia Operaia. Arrestato il 15 aprile su ordine del sostituto procuratore Gianfranco Viglietta con l’accusa di omicidio preterintenzionale, il secondino sarà scarcerato alla fine di agosto per motivi di salute e in virtù di un “sincero pentimento”. L’8 luglio 1977 la Corte d’Assise lo assolverà per aver fatto uso legittimo delle armi. La sera stessa della sentenza, verso le 22, un giovane irrompe nella trattoria Sora Assunta, nei pressi di Campo de’ Fiori, dove Velluto stava festeggiando, e spara contro di lui alcuni colpi di pistola. Il secondino ne esce indenne, ma i proiettili feriscono a morte un suo amico. Su questo episodio sono ancora in corso indagini giudiziarie da parte della magistratura.
Giovanni Marini, profondamente segnato dalla dura detenzione, è stato stroncato da un infarto nel dicembre 2001, a 59 anni.”
Fonte: