Così hanno ucciso Mastrogiovanni

Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un’iniziativa dei parenti della vittima e della onlus “A Buon Diritto” di Luigi Manconi

di Gianfrancesco Turano

Così hanno ucciso Mastrogiovanni
Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell’ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla.Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all’atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un “noto anarchico”, sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d’aria dell’agonia.Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d’accusa di un processo che si avvicina alla sentenza.Martedì 2 ottobre, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de “l’Espresso”, in collaborazione con l’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi e con l’accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all’ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da “Mi manda RaiTre” quando il processo era appena iniziato.

Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l’isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L’uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell’ordine e da una decina di addetti dell’Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione.

Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l’associazione degli studenti missini.

Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato.

Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l’illustrazione attimo per attimo dell’abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione».

Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato.

A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l’assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula.

Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un’altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente.

Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell’udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell’Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l’elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all’estero sono state ignorate dal personale dell’ospedale San Luca.

Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l’esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell’accusa, secondo l’impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l’omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell’autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un’addetta alle pulizie.

L’avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell’Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella”. Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura.

Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l’omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l’imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all’obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto.

Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

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Stefano Frapporti

 

 

Dal blog http://frapportistefano.blogspot.it/:

 

sabato 12 dicembre 2009

 

I FAMILIARI DI STEFANO CONTESTANO LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DA PARTE DEL PROCURATORE DOTT. DE ANGELIS

 

Sin dall’inizio di questa tragica vicenda noi abbiamo espresso pubblicamente la nostra dubbiosità sull’operato della giustizia, ma in fondo un filo di speranza rimaneva comunque.

 

Ora anche quel filo è svanito.

 

Leggendo le motivazioni con le quali è stata richiesta l’archiviazione al caso da parte del dott. De Angelis ci sentiamo veramente delusi, sfiduciati, ma soprattutto offesi per quello che ci è stato accreditato. Così scrive il procuratore: “le considerazioni elencate nella memoria depositata nell’interesse dei fratelli di Frapporti Stefano in cui per un verso si sostiene in punto di diritto l’illegittimità dell’arresto e per altro verso, addirittura, si insinua, in punto di fatto la commissione di gravi delitti ad opera dei carabinieri, con allusioni che rasentano i limiti della calunnia”.

 

Riguardo a queste considerazioni, ci teniamo a precisare che il nostro comportamento è stato dall’inizio fin troppo corretto, ma rimane evidente che colpiti da un simile dolore nessuno potrà mai vietarci di pensare, dubitare, porci delle domande e di esprimere le nostre perplessità sui tanti lati oscuri che avvolgono questa tragedia.

 

Per noi la vita ha un valore inestimabile e la morte lascia un grande vuoto incolmabile.

 

Per questo motivo riteniamo incomprensibile che il dott. De Angelis chieda l’archiviazione, senza aver svolto alcuna indagine sulla parte iniziale di questa vicenda, ossia la più importante: l’arresto di Stefano, sentendo almeno la versione dei testimoni oculari che peraltro danno una versione, sull’operato dei carabinieri, completamente diversa da quella che gli stessi hanno stilato nei verbali.

 

E’ invece documentato che le uniche indagini sono state effettuate sull’operato delle guardie carcerarie. Ed anche qui apprendiamo versioni che si contraddicono con quelle dichiarateci verbalmente dalle stesse il giorno seguente l’accaduto.

 

Sarebbero ancora tante le domande senza risposta e non certo di meno importanza ma per il momento ci sembra che bastino…

 

 

I fratelli: Ida, Marco e Claudio

 

 

Fonte:

sabato 5 settembre 2009

 Giustizia: morte in carcere di un incensurato, nessuno ne parla 
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni di Rovereto. È morto circa un mese fa, nel carcere di quella città, suicidatosi tramite impiccagione con il cordino elastico del pantalone di una tuta. Era stato fermato, al ritorno dal lavoro, da due agenti in borghese con il pretesto di una sua infrazione in bicicletta; pare che i due, invero, stessero indagando sul presunto spaccio di hashish in un bar lì vicino.Frapporti, perquisito senza esito, avrebbe confessato spontaneamente di detenere nella sua abitazione una certa quantità della stessa sostanza; e dunque sarebbe stato lì condotto, senza testimoni e, con tutta probabilità, senza un mandato di perquisizione. La casa, poi, non sarebbe stata “perquisita” dal momento che al mattino seguente non vi era segno alcuno della ricerca che gli agenti vi avrebbero svolto, come se Frapporti avesse indicato loro dove fossero i 99 grammi di hashish ritrovati.Egli avrebbe firmato un modulo con cui rinunciava ad avvertire i suoi famigliari dell’arresto; in seguito la sua richiesta di un contatto con sua sorella sarebbe stata rifiutata a causa di quel brogliaccio. Alcuni poliziotti penitenziari lo descrivono ancora tranquillo e pronto alla battuta alle 23.30, l’ora in cui avrebbe fatto ingresso in cella. Poco dopo veniva rinvenuto cadavere. I familiari, avvertiti il giorno seguente, hanno potuto vedere il suo corpo solo 48 ore dopo.Di questa storia si sono occupate le “solite” testate giornalistiche e i “soliti” ambienti: ovvero è stata raccontata nel mondo antiproibizionista e tra chi si occupa di carcere. Questa storia, che pure ha suscitato molta emozione tra i concittadini del Frapporti, è rimbalzata in questo microcosmo e non più oltre: ovvero non la conosce quasi nessuno.Non è la prima volta che ci occupiamo di morti in carcere avvenute in circostanze poco chiare. Ma questa vicenda chiama in causa, ancor prima, una legge (la Fini-Giovanardi) irrazionale e criminogena, ottusa e crudele, che finisce col penalizzare indiscriminatamente comportamenti diversi, assimilando consumo e spaccio. E chiama in causa, poi, una amministrazione penitenziaria sempre più incapace di custodire in sicurezza i detenuti, specie chi varca la soglia del carcere per la prima volta (è qui che è maggiore la percentuale dei suicidi). Infine. Se la ricostruzione dei fatti fosse davvero quella indicata all’inizio di questo articolo, chiediamo: qualcuno è in grado di motivarne la totale assurdità? Perché in assenza di una spiegazione diversa, il dubbio di un carcere incapace di garantire l’incolumità di quanti vi sono reclusi, senza tutela e senza diritti, si fa sempre più incalzante. E temibile.
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
L’Unità, 4 settembre 2009
Fonte:
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Tortura, se è così meglio nessuna legge

29 aprile 2014

Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di ille­ga­lità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tun­nel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Per­ché non abbiamo fatto dav­vero i conti con quella tra­gica vicenda. Non abbiamo tratto gli inse­gna­menti dovuti da quella ter­ri­bile lezione. Non ci sono stati cam­bia­menti veri, è man­cato un ripu­dio da parte delle isti­tu­zioni di quei com­por­ta­menti, sono rima­ste let­tera morta le riforme neces­sa­rie per uscire a testa alta da quel tun­nel di pro­ter­via e auto­ri­ta­ri­smo. E dire che sul piano giu­di­zia­rio abbiamo otte­nuto risul­tati senza pre­ce­denti, con un ampio rico­no­sci­mento delle verità rac­con­tate da cen­ti­naia di cit­ta­dini e le con­danne di decine di agenti, fun­zio­nari e altis­simi diri­genti di poli­zia per le vicende Diaz, Bol­za­neto e una lunga di serie di epi­sodi avve­nuti in piazza — pestaggi, arre­sti arbi­trari — impro­pria­mente defi­niti minori.

Ci sono almeno tre riforme essen­ziali che sca­tu­ri­scono dall’esperienza geno­vese e che in un paese “nor­male” sareb­bero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tor­tura. La seconda, una rivo­lu­zione nei cri­teri di for­ma­zione degli agenti e nei rap­porti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in ser­vi­zio di ordine pub­blico di avere codici iden­ti­fi­ca­tivi sulle divise.

Voglio sof­fer­marmi sul primo punto. Ciò che inten­diamo per tor­tura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tor­tura vìola i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino nei suoi rap­porti con le isti­tu­zioni. Si mani­fe­sta quando una per­sona è sot­to­po­sta a una limi­ta­zione della sua libertà per­so­nale ad opera del pub­blico uffi­ciale. È una vio­lenza, fisica o psi­co­lo­gica, che umi­lia chi la subi­sce ma anche chi la com­mette, per­ché lede gra­ve­mente la dignità e la cre­di­bi­lità dell’istituzione che rap­pre­senta. È quindi una vio­la­zione della dignità di tutti i cit­ta­dini, e per­ciò ci indi­gna. Ora, la legge appro­vata al Senato, su que­sto punto fon­da­men­tale, essen­ziale, irri­nun­cia­bile, è del tutto inac­cet­ta­bile. Qua­li­fica la tor­tura come reato comune, che può essere com­messo da chiun­que nella sua dimen­sione pri­vata, nei rap­porti con altre per­sone, e si limita a sta­bi­lire un’aggravante se quell’atto è com­messo da un pub­blico uffi­ciale. La tor­tura non può essere un reato comune, se vogliamo che que­sta riforma sia uno stru­mento di rico­stru­zione di un’etica demo­cra­tica all’interno delle forze dell’ordine. Sap­piamo tutti che un testo di legge sulla tor­tura è appena stato appro­vato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pres­sione esterna per arri­vare a una rapida appro­va­zione della legge, in modo da rispet­tare l’impegno preso dall’Italia con le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali oltre vent’anni fa. Que­sto testo di legge, che è frutto di una media­zione più esterna che interna alle aule par­la­men­tari, poi­ché rece­pi­sce una pre­cisa richie­sta arri­vata dai ver­tici delle forze dell’ordine, qua­li­fica la tor­tura come reato comune e non come reato spe­ci­fico del pub­blico uffi­ciale. Si disco­sta cioè dagli stan­dard inter­na­zio­nali e anche dal buon senso.

Dev’essere chiaro che intro­durre que­sta figura di reato nei codici serve prin­ci­pal­mente a fini di pre­ven­zione. Appro­van­dola, il par­la­mento manda un chiaro mes­sag­gio alle forze dell’odine: dice che abu­sare dei dete­nuti, vio­lare l’integrità di cit­ta­dini sot­to­po­sti a limi­ta­zioni legit­time della libertà, è un’infamia insop­por­ta­bile. Dev’essere un mes­sag­gio forte e chiaro, visto che l’Italia in mate­ria di abusi sui dete­nuti ha un cur­ri­cu­lum pre­oc­cu­pante, prima e dopo Genova G8. Bol­za­neto è stato la punta di un ice­berg. Non può essere inviato un mes­sag­gio ambi­guo, depo­ten­ziato nella sua portata.

Sap­piamo bene che i ver­tici delle forze dell’ordine, con il soste­gno – pur­troppo – dei sin­da­cati di poli­zia, sono i prin­ci­pali avver­sari dell’introduzione del reato di tor­tura. Hanno sem­pre inter­pre­tato que­sto pro­getto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla cre­di­bi­lità delle forze dell’ordine. Finora sono riu­sciti a bloc­care tutti i ten­ta­tivi di appro­vare una legge. Ma l’inadempienza degli obbli­ghi inter­na­zio­nali, dal punto di vista del par­la­mento, dev’essere supe­rata, per­ciò durante ogni legi­sla­tura il tema è stato ripro­po­sto. In que­sta legi­sla­tura il sena­tore Man­coni ha pre­sen­tato un testo di legge che rical­cava la for­mula stan­dard pre­vi­sta dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cam­biato e stra­volto nella discus­sione par­la­men­tare e si è atte­stato sul piano B matu­rato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no asso­luto alla qua­li­fi­ca­zione della tor­tura come reato del pub­blico ufficiale.

Ho ben pre­sente la discus­sione in corso, le posi­zioni assunte dal sena­tore Man­coni e da altri sog­getti che in que­sti anni si sono spesi su que­sto ter­reno: c’è una spinta affin­ché que­sta legge sia appro­vata comun­que, in modo che la lacuna nor­ma­tiva sia col­mata. Ho ben pre­sente però anche un’altra rifles­sione, svolta in seno al nostro comi­tato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società. Che fun­zione hanno comi­tati come il nostro, com­po­sti da poche per­sone, vit­time di abusi o fami­liari di per­sone ferite, umi­liate, spesso uccise in stragi, atten­tati ecce­tera? Ebbene, la rispo­sta che ci siamo dati è che que­sti comi­tati sono impor­tanti per­ché hanno la voca­zione a dire la verità. Pos­sono dirla più e meglio di altri per­ché sono liberi da con­di­zio­na­menti di qual­siasi tipo, non hanno ruoli poli­tici da svol­gere, né pro­getti di qual­si­vo­glia natura da por­tare avanti. Si occu­pano di que­stioni spe­ci­fi­che e su quelle con­cen­trano tutta la loro attenzione.

Allora la mia verità oggi è che que­sta legge sulla tor­tura è una legge sba­gliata e non va appro­vata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle con­di­zioni di intro­durre nor­ma­tive sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali, spe­cie con riguardo alla con­dotta e al fun­zio­na­mento delle forze dell’ordine, che si pon­gano al di sotto degli stan­dard inter­na­zio­nali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dob­biamo aiu­tarle a diven­tarlo. Le nostre forze dell’ordine non hanno biso­gno d’essere blan­dite e asse­con­date nei loro mec­ca­ni­smi di chiu­sura verso il resto della società; devono essere aiu­tate ad aprirsi. Il reato di tor­tura, in ogni Paese demo­cra­tico, è uno stru­mento for­ma­tivo, un punto di rife­ri­mento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una men­ta­lità distorta, una cul­tura demo­cra­tica debole e invo­luta, può inter­pre­tare l’introduzione del reato di tor­tura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro cre­di­bi­lità. Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evi­denti biso­gni del nostro paese.

Si dirà: ma una legge non per­fetta è meglio di nes­suna legge. Non credo che sia così. Stiamo par­lando di un prin­ci­pio fon­da­men­tale che non può essere oggetto di trat­ta­tive al ribasso. Il par­la­mento deve assu­mersi le sue respon­sa­bi­lità e appli­care gli stan­dard inter­na­zio­nali: la ricerca di una solu­zione gra­dita ai ver­tici delle forze dell’ordine – atte­stati su posi­zioni retro­grade e cor­po­ra­tive, molto distanti dai valori demo­cra­tici e costi­tu­zio­nali – non è su que­sto punto accet­ta­bile. Meglio nes­suna legge che una legge così, per­ché una volta appro­vata una nuova nor­ma­tiva, il discorso sarebbe chiuso defi­ni­ti­va­mente. Sarebbe un errore poli­tico irri­me­dia­bile. E poi­ché l’introduzione del reato di tor­tura serve a pre­ve­nire gli abusi, meglio tenere aperta la discus­sione, ren­dere evi­dente il cedi­mento in corso, e rinun­ciare a que­sta corsa ad appro­vare una legge pur­ches­sia, come se si trat­tasse di segnare un punto in ter­mini di pro­dut­ti­vità legi­sla­tiva. Non è di que­sto che ha biso­gno un Paese pau­ro­sa­mente incam­mi­nato sulla strada dell’autoritarismo.

Lorenzo Guadagnucci, Comi­tato Verità e Giu­sti­zia per Genova

 

 

 

Fonte:

http://lorenzoguadagnucci.wordpress.com/2014/04/29/tortura-se-e-cosi-meglio-nessuna-legge/

Le foto strazianti di Riccardo Magherini vittima di malapolizia

bastaomicidi

Di nuovo le foto di un corpo straziato sbattute sulla grande rete, sulle pagine dei giornali, ad affiorare dai tablet dei pendolari, sugli schermi dei tg di prima serata. La decisione estrema di una famiglia di fronte all’atroce incredulità di chi dovrebbe indagare sulle ragioni di quella morte. Come furono costrette a fare Ilaria Cucchi, Patrizia Adrovandi, Lucia Uva, e altre donne, oggi è Andrea Magherini, fratello di Riccardo, a mostrare le immagini dell’ex calciatore morto il 3 marzo a Borgo San Frediano, a Firenze, dopo essere stato bloccato dai carabinieri in seguito a una crisi di panico, secondo la procura provocata dall’assunzione di cocaina. Secondo alcune testimonianze, due dei quattro carabinieri intervenuti avrebbero dato dei calci a Magherini mentre era a terra, ammanettato a faccia in giù, con le braccia dietro la schiena e a torso nudo. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato in una conferenza con Luigi Manconi e Fabio Anselmo, appena nominato legale della famiglia. Sono le immagini e le voci di un fermo violento in una strada di Firenze. La vittima che grida ripetutamente aiuto. I carabinieri su di lui, le manette ai polsi, l’ambulanza senza un medico.

 

 

 

Riccardo Magherini, è morto il 3 marzo a Borgo San Frediano, a Firenze, dopo essere stato bloccato dai carabinieri in seguito a una crisi di panico, secondo la procura provocata dall’assunzione di cocaina. Secondo alcune testimonianze, due dei quattro carabinieri intervenuti avrebbero dato dei calci a Magherini mentre era a terra, ammanettato a faccia in giù, con le braccia dietro la schiena e a torso nudo. I video e le foto, anche stavolta, lascerebbero poco spazio all’immaginazione. I segni e i rumori del trattamento riservato dai carabinieri a una persona che chiedeva aiuto. Oggi pomeriggio, giovedì 24, in una sala del Senato, verranno mostrate alla stampa da Luigi Manconi, Fabio Anselmo e da Andrea Magherini, fratello della vittima. Le immagini e le voci di un fermo violento in una strada di Firenze. La vittima che grida ripetutamente aiuto. I carabinieri su di lui, le manette ai polsi, l’ambulanza senza un medico.

 

«Ho visto che lo picchiavano mentre era a terra, già immobilizzato, che gli arrivavano i calci al fianco. E lui gridava… – racconta Sara, una ragazza che lavora in zona e quella notte stava tornando a casa – Riccardo quella sera era una persona sconvolta, quando i carabinieri sono arrivati gli hanno detto”stai calmo”e poi hanno iniziato a cercare di immobilizzarlo. Durante tutta l’operazione, che è stata molto difficoltosa, non gli hanno più rivolto parola, neanche quando era ormai a terra ammanettato, non hanno provato a chiedergli cosa fosse accaduto, da chi scappava, a stabilire un rapporto per calmarlo. Ma chi va in giro la notte sulle gazzelle e sulle volanti?! Queste persone sono in grado di riconoscere attacchi di panico, fobie, o altri sintomi? Sono formate per fare un lavoro di strada che inevitabilmente ti porta a contatto con tutta una serie di problematiche? Magherini aveva tutti i sensi allertati, gli occhi enormi, la bava alla bocca… anche un bambino se ne sarebbe accorto che non era un aggressore, era un fuggiasco che chiedeva aiuto. E’ una cosa che ci resta addosso, non la vorresti mai vedere. No, non è giusto morire così».

 

L’audio è agghiacciante: «Ahia!.. aiuto! aiutatemi!… aiuto! sto morendo… sto morendo… sto morendo! – e, sempre più flebile – ahia, aaaaaah, ahia!…». Magherini era già stato bloccato a terra, in Borgo San Frediano tra l’ex cinema Eolo e la Chiesa del Cestello, da quattro carabinieri intervenuti, sullo sfondo tra i rumori dell’audio, la sirena dell’ambulanza. «A un certo punto smette di urlare, uno dei carabinieri chiede “perche sta zitto?”, si accerta se respira…». Questo passaggio è sbagliato, sono io che ho chiesto: perchè si è zittito all’improvviso? E un altro ragazzo ha chiesto “respira?” e un carabiniere a risposto “Si”Da almeno mezz’ora era in piena crisi di panico e gridava nelle strade del quartiere che qualcuno lo voleva ammazzare. Dall’altra parte dell’Arno l’ambasciata degli Usa aveva segnalato la presenza di un uomo che urlava. C’è un ponte a separare quel palazzo da Borgo San Frediano dove, pochissimi minuti prima del violento “fermo”, Magherini era entrato in una pizzeria chiedendo a un addetto di poter usare il suo telefonino per chiamare la polizia perché qualcuno voleva ammazzarlo.

 

 

«Quella scena ci ha turbato, Riccardo aveva bisogno di essere aiutato, non di essere arrestato, ci sarebbe voluta la presenza di un medico da subito, di un approccio anche psicologico che avrebbe potuto cercare di calmarlo». «Basta calci! – diceva la gente quella notte (la procura ha sentito una settantina di testimoni oculari) – chiamiamo un’ambulanza». Era l’ora in cui chiudono i locali. Tutto s’è svolto sotto lo sguardo incredulo di parecchie persone. Continua la ragazza: «A fermarlo in quel modo, con quella crisi di panico, aggiungi paura alla paura». «Urlava, si divincolava, non riuscivano a bloccarlo e, dopo averlo ammanettato quei calci gratis…….». Dal video sembra di sentire l’anfibio schiantarsi sulle ossa della faccia. Le foto potrebbero essere eloquenti. «La gente urlava», ripete la ragazza e ricorda che l’ambulanza, la prima non aveva un medico a bordo, lo trova «col petto a terra. L’infermiere disse che respirava. Nessuno dei carabinieri gli ha mai rivolto la parola. Ma chi va in giro la notte sulle gazzelle e sulle volanti?! Magherini aveva tutti i sensi allertati, gli occhi enormi, la bava alla bocca… anche un bambino se ne sarebbe accorto che non era un aggressore, era un fuggiasco che chiedeva aiuto. E’ una cosa che ci resta addosso, non la vorresti mai vedere. No, non è giusto morire così».

Gli occupanti del Malborghetto e dello squat anarchico Panico, alcuni giorni dopo i fatti, di comune accordo con i familiari hanno organizzato un momento di ricordo nel parco di Piazza Tasso, nel quartiere di San Frediano dove Magherini viveva ed era conosciuto da tutti. Il primo avvocato della famiglia ha dichiarato pubblicamente di non voler procedere a indagini parallele, ribandendo la fiducia nelle indagini ufficiali. Ma tutto questo è accaduto a Firenze, città che vanta due migranti morti nella cella di sicurezza della questura, spiegano ad Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, un pestaggio ad opera della squadra antidegrado della municipale ai danni di due senegalesi, l’insabbiamento dell’inchiesta sulla strage di piazza Dalmazia, il pestaggio di richiedenti asilo ad opera di due agenti in borghese nell’albergo dove vivono per sei mesi coloro che hanno ottenuto l’asilo politico. E ora la vicenda di Magherini. Un infermiere che era in servizio la sera in cui hanno portato Magherini al pronto soccorso sarebbe certo che i segni del soffocamento fossero evidenti.

Come nei casi Aldrovandi, Ferrulli e Rasman, anche stavolta c’è un arresto o presunto tale posto in essere da più agenti, in questo caso carabinieri, con modalità violente e con compressione a terra in posizione prona che si protrae molto probabilmente oltre i limiti del lecito. La sequenza filmata, inedita finora, è davvero inquietante. «No, non sono casi isolati e non lo dico io, ma gli organismi di controllo pubblico europeo e internazionale. Esiste una mentalità e una cultura che fa sì che i protagonisti – che sono sempre più numerosi – di queste vicende non vengano lasciati soli davanti alle loro responsabilità, ma godono di una solidarietà ferma, forte e vibrante da parte di istituzioni e sindacati. Un esempio? Lo scorso febbraio il sindacato di polizia Sap ha chiesto la revisione del processo Aldrovandi e ha invitato a Ferrara i quattro agenti condannati per il loro congresso».

“Spirito di corpo”, come alla Diaz, e ritrosia da parte di alcuni pubblici ministeri a mettere in discussione il loro rapporto con gli organismi con i quali collaborano quotidianamente. Ma questi due elementi, spesso, incrociano la rabbia di legali come Anselmo e dei comitati spontanei che si raccolgono attorno ai parenti delle vittime, che stanno imparando a mettersi in rete, che fanno controinformazione e gettano semi perché in futuro non debbano più accadere cose del genere.

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?p=5788