1970/ Cinque giovani anarchici calabresi. Morti.

rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014

Quando nel 2001 usciva il libro di Fabio Cuzzola Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, la vicenda legata alla morte di cinque compagni calabresi viveva solo nel dolore dei familiari e nel ricordo dei compagni che avevano vissuto l’irripetibile stagione del ’68. Da quel momento in poi si è aperto un cammino che, attraverso le più svariate forme di comunicazione e arte, ha contribuito a fare conoscere anche fuori dal movimento anarchico questa vicenda, che oggi è patrimonio della storiografia ufficiale. Basti pensare che questa storia ha ispirato vari spettacoli teatrali, un documentario, canzoni, una puntata di Blu Notte di Lucarelli.
Un altro importante tassello si aggiunge oggi con la pubblicazione del volume Il sangue politico (Editori Internazionali Riuniti, 2013, pp. 253, € 16,00) di Nicoletta Orlandi Posti, impreziosito dalla prefazione di Erri De Luca.
Ha ragione lo scrittore napoletano quando afferma che questo è “un caso che li riassume tutti”, perché in questa vicenda s’incrociano drammaticamente la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, il golpe Borghese, la rivolta di Reggio Calabria dei “Boia chi molla” e la strage di Gioia Tauro, che con la recente sentenza, passata in giudicato, si configura come la prima strage della storia ad opera della ‘ndrangheta. In questo gorgo di odio, lotta e misteri trovarono la morte, in un attentato camuffato da incidente, Angelo Casile, Gianni Aricò, Annalise Borth, Franco Scordo e Luigi Lo Celso, poco più di cento anni in cinque, ma con alle spalle una militanza già ricca di viaggi, manifestazioni, arresti e processi.
Il libro poggia su due pilastri che fanno di questo lavoro un’opera agile e indispensabile per capire e ricostruire un momento nevralgico per la storia contemporanea. Orlandi Posti si è giovata dell’immensa mole di documenti di tutti i processi di piazza Fontana, oggi finalmente disponibile in formato digitale, e sulle narrazioni dei militanti del gruppo 22 marzo, che hanno consentito alla giornalista e scrittrice, orgogliosamente originaria della Garbatella, di dare completezza storiografica a un quadro di eventi complesso.
La storia dei giovani anarchici, al tempo militanti della Fagi (Federazione anarchica giovanile italiana), s’incrocia con la macro storia, nella quale finiscono per imbattersi in “cose che faranno tremare l’Italia”. Trame oscure, più grandi della loro gioventù e che ancora aleggiano nella ricostruzione dell’incidente in quella maledetta notte fra il 26 e 27 settembre del 1970 lungo l’autostrada nei pressi di Ferentino.
Due elementi raccolti successivamente alle indagini rivelano la trama criminale ordita contro quei giovani mentre si dirigevano a Roma per consegnare ai compagni della Fai il frutto delle loro ricerche. In loco interviene la polizia stradale, quella sera comandata da Crescenzio Mezzina, uomo dei servizi, quattro anni dopo condannato per il tentato colpo di stato Fumagalli. La sua mano sottrarrà i preziosi documenti.
Il secondo elemento è legato alla diffusione della notizia. La prima informativa dei servizi segreti sull’incidente, telegrafata alle tre del mattino del 27 settembre, arriva da Palermo, molto strano per un normale incidente stradale, avvenuto a mille chilometri di distanza.
Una riflessione a parte merita la sperimentazione del metodo di scrittura utilizzato; la scrittrice dosa in maniera sapiente un doppio registro linguistico e narrativo, alternando passi romanzati, utili per fare capire a chi non ha vissuto quegli anni il clima e l’ambiente politico-culturale, a capitoli di vera e propria inchiesta “vecchio stile”, con documenti, articoli, stralci di interrogatori, fonti orali.
Il sangue politico è diventato anche un monologo teatrale e un blog, dove l’autrice raccoglie materiali delle varie presentazioni a testimoniare che ancora quella storia ha molto da raccontare ai vivi e a “quelli che passeranno”.

Fabio Cuzzola
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Fonte:

http://www.arivista.org/?nr=386&pag=75.htm#5

I moti di Reggio Calabria

Di Fabio Cuzzola 
13 luglio 2008
Il tempo in provincia non ha peso. La storia, quella ufficiale, dei libri, delle celebrazioni, scorre altrove. L’orizzonte a Reggio sembra diventato un eterno presente, frutto di una vita ormai americanizzata nello stile e nei costumi; se non fosse per la “sacra pedata” ed il lungomare, la nostra città potrebbe essere uguale a quella di altre centinaia di piccole città di provincia, pronte a vedere la storia passargli davanti senza neanche accorgersene.
E stato così per il terremoto del 1908, che a pochi mesi dal suo centenario non ha ancora trovato un degno progetto memoria, e rischia di essere così per la storia della Rivolta, la cui vicinanza cronologica non deve ingannare sul rischio dell’oblio.
Mentre stavo svolgendo le mie ricerche, finalizzate alla pubblicazione di “Reggio 1970”, ho condotto insieme a Lillo Pontari, un collega del Liceo Campanella che mi ha trasmesso l’amore per l’insegnamento, un laboratorio storico per capire cosa era rimasto nei giovani di quelle giornate reggine.
I risultati sono stati sconfortanti. Pochi giovani accostavano il 14 luglio alla nostra città, meno ancora avevano ancora sentito parlare di capoluogo o barricate, e le notizie erano confuse e frammentarie.
Tuttavia la colpa di questa memoria cancellata non è attribuibile ai giovani.
La nostra storia, intendo la storia locale, non ha mai trovato spazio nei programmi scolastici, se non nell’ardimento di qualche docente coraggioso nel rompere le assurdità di programmi datati regio decreto.
Gli studiosi della nostra Terra, ad esclusione dei grandi Cingari e Placanica, hanno trattato gli avvenimenti storici da ottiche localistiche, restringendole ad una cronologia evenemenziale, senza inquadrarle in un rapporto causa-effetto.
Anche il “nostro 14 luglio” non può pertanto essere solo una bega Reggio-Catanzaro, ma deve essere riletto con un triplice sguardo che vi propongo.
Uno sguardo meridionalista, ovvero capire che quella di Reggio, come sosteneva Fortunato Seminara, fu “la somma di collera antica”, l’ultima occasione per risolvere una questione meridionale, che da quel momento in poi sparì dall’agenda politica nazionale.
Un secondo sguardo legato alla macrostoria. Reggio è stata un laboratorio per la destra eversiva nell’ambito della strategia della tensione, e questa non è un’invenzione romanzesca, ma testimonianza viva di migliaia di pagine di atti, processi, sentenze e deposizioni documentati dalla Commissione stragi e dalle operazioni Olimpia. Non fare i conti con questo approccio significa relegare la Rivolta ad esperienza da Via Pal e quindi consegnarla all’oblio richiudendola fra i confini dell’Annunziata e del Calopinace.
L’ultimo sguardo è quello delle vittime. Tutte! Da Labate fino a Malacaria, cittadino di Catanzaro ucciso durante una manifestazione contro la Rivolta nel febbraio del ’71, come giustamente sottolineato dalla giunta Scopelliti in un ordine del giorno votato nel 2005 a difendere la memoria della Rivolta.
Tutte le vittime, comprese i cinque anarchici, i morti della strage di Gioia Tauro, tutte vittime senza giustizia.
Ripenso alla famiglia di Angelo Campanella, onesto lavoratore, ucciso mentre si riposa sulla veranda di casa, da un colpo di moschetto esploso da un carabiniere. […]
A mio avviso, invece che litigare su nomi di vie o piazze, la giunta, il consiglio comunale dovrebbero sostenere questa lotta, dichiarandosi parte civile nel processo e patrocinare con i propri avvocati la causa di Angelo Campanella, perché la memoria non sia solo una corona posta in un angolo del rione Pescatori, ma storia viva di persone umili che in un caldo giorno di luglio decisero di fare la storia e non subirla.
Note:
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