Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire

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La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna».
Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare».

Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia.

Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati.
Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”.

L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti.

Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.

Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere.

La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/15/asinara-cosi-gratteri-lo-vuole-riaprire/

Fabrizio Pelli

Dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro:
 
FABRIZIO PELLI
– Nasce a Reggio Emilia, l’11 luglio 1952
– Lavora come cameriere
– Milita nelle Brigate Rosse
– Viene arrestato a Pavia nel dicembre 1975
– Muore di leucemia nel carcere di San Vittore, Milano, l’8 agosto 1979


Documenti prodotti da organizzazioni armate
– Non ne sono stati prodotti, ma a Fabrizio Pelli vengono intitolate una Brigata e un’organizzazione armata a Salerno
Documenti prodotti da gruppi sociali
Comitato di lotta del Campo dell’Asinara, “Onore al compagno Fabrizio Pelli” in: Controinformazione 16, Milano 1979
“Per ogni comunista la morte è un evento naturale e Fabrizio Pelli era comunista combattente.
Anche il mare più incurabile per un rivoluzionario è occasione di lotta e Fabrizio, con il suo comportamento, lo ha dimostrato a tutta la sua classe e ai suoi  nemici, in quest’ultima, solitaria battaglia.
Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_

Invano i corvi borghesi hanno atteso un suo cenno di debolezza per piegarlo, per ricondurlo al compromesso dentro l’ordine dell’oppressione. A nulla è servito tenerlo isolato fino all’ultimo istante, privato della posta e della vicinanza dei suoi compagni, negargli – come neppure il fascismo osava fare – di trascorrere le ultime ore di visita in compagnia dei suoi familiari, a casa sua.
La speranza delle iene è andata delusa di fronte ad un comunista che aveva maturato a fondo un principio essenziale: uomini che si rifiutano di interrompere la loro lotta, o vincono o muoiono, invece di perdere o morire!
Il Tribunale di Milano, così sollecito a concedere la libertà provvisoria per motivi di salute ai fascisti assassini di proletari come Braggion, non è che l’ultimo anello di una catena di infamie, cominciata proprio qui, all’Asinara, dove il medico Silvetti si guardò bene dal rilevare il reale stato di salute del compagno Fabrizio, quando nell’estate dello scorso anno cominciò ad accusare i sintomi della malattia.
I Campi di Trani, Fossombrone e Milano sono altrettanti anelli del suo progressivo annientamento che medici e direttori hanno perseguito con lucida e spietata determinazione in occulta armonia con i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia. E non vogliamo dimenticare, in questo elenco di canaglie ancora viventi, carabinieri e poliziotti che hanno sottoposto i familiari di Fabrizio alle perquisizioni più vili e che in ogni modo hanno tramato per interrompere il proseguimento delle cure.
Noi proletari prigionieri del Campo dell’Asinara, che con Fabrizio abbiamo lottato e che, anche per il suo contributo, abbiamo rafforzato la nostra identità e la nostra organizzazione, oggi diciamo, senza alcuna retorica, che i suoi nemici sono anche i nostri, che i suoi assassini non resteranno impuniti!
Onore al compagno Fabrizio Pelli!
Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”
Testimonianza al Progetto Memoria
– Renato Curcio, Roma 1994
“Ho conosciuto Fabrizio, Bicio per gli amici, nel 1969.
Aveva 17 anni ma, a Reggio Emilia, già da tempo aveva fatto parlare di sé. “Per un colpo di flobert indirizzato ai glutei di un politico del partito liberale”, mi dissero, tra l’ammirato e l’ironico i suoi compagni di allora.
Non aveva ancora 18 anni quando venne a Milano con tutte le sue curiosità per la metropoli. Ma ciò che veramente lo spingeva, in verità era una cosa sola: l’impegno militante a fianco di studenti e operai, di chiunque in qualsiasi modo lottasse, per cambiare le cose.
Si sentiva un po’ anarchico ma il fascino della rivoluzione bolscevica era su di lui così potente che trascorreva infinite notti a leggere, oltre ai testi canonici, qualsiasi saggio, opuscolo, libello che in qualche modo potesse arricchire le sue conoscenze. E se qualcuno per caso citava un’opera che gli era sfuggita, s’infuriava, non sembrandogli lì per lì possibile che quell’opera esistesse veramente. Se non era a volantinare, in qualche manifestazione o a organizzare qualche azione di lotta potevi star sicure che il suo tempo era speso in letture.
Politiche, s’intende. Una dedizione totale, senza mezze misure. Senza concedere a se stesso nemmeno gli spazi dell’esplorazione della vita.
Quando entrò nella lotta armata, nel 1971, se non era il più giovane certo si contendeva il primato. Proprio in relazione alla sua giovanissima età, con altri due compagni ci chiedemmo se fosse il caso di accoglierlo nella vita clandestina che, per ovvie ragioni, non è tra le più permissive. Ma a Bicio il carattere non faceva difetto e non ne volle sapere di tutti gli argomenti che gli mettevamo davanti per dissuaderlo.
Era molto orgoglioso e un po’ testardo. Capitava così che non accettasse di buon grado che altri gli insegnassero qualcosa. Ricordo che una volta si infuriò con un militante: non ritenendolo adeguatamente colto in dottrina marxista, gli negava il diritto di insegnarli a guidare l’automobile. L’altro, naturalmente, lo mollò giù dalla macchina, in piena campagna, dicendogli “Beh, ora vado a studiare, tu raggiungimi a piedi!”
Quando, nel 1975, dopo l’evasione da Casale, lo incontrai di nuovo, a Milano, Fabrizio si era innamorato. Nella sua vita era la prima volta. E  il calore di questa nuova e magnifica esperienza scioglieva tumultuosamente tutte le sue rigidezze. Della sua proverbiale rigorosità, in quei giorni non rimase traccia. A metà della riunione più delicata, lui si alzava e borbottava “Scusate…”, in pieno candore se ne andava a telefonare. Alla vita clandestina il suo stato di grazia causò qualche problema, ma alla sua vita personale certo fece un gran bene.
Ho appreso la notizia del suo arresto alla radio, pochi giorni prima di essere a mia volta arrestato. L’ultimo nostro incontro, dunque, avvenne in carcere, all’Asinara. Alcune divergenze politiche che poco prima del suo arresto lo avevano portato a distaccarsi dalle Brigate Rosse non avevano in alcun modo intaccato il nostro affetto. I giorni trascorsi nella stessa cella, al bunker dell’isola, furono così pieni di confidenze sulla nostra vita privata. Giocammo a scacchi –costruiti con la mollica di pane – ridendocela a più non posso sul nostro incontro qualche anno prima, con quel gioco. Nel tempo della clandestinità, a Torino. Sull’onda del duello tra Carpov e Fisher Bicio aveva deciso di “sapere tutto” sugli scacchi, proprio come qualche anno prima aveva fatto con la rivoluzione bolscevica. S’era quindi comperato una scacchiera , tanti libri, riviste e s’era sprofondato nello studio. Venne finalmente il giorno della prima prova. Si sentiva pronto e col sorriso diceva: adesso ti faccio vedere… Ci provai col fatidico “scacco del barbiere”: scacco matto in pochissime mosse. E la sua inesperienza ebbe la peggio. Come al solito andò su tutte le furie e per un bel po’ di tempo di scacchi preferimmo non parlarne più.
All’Asinara mi disse anche dei malori che poco dopo lo portarono, rapidamente, alla morte. Ma di cosa effettivamente si trattasse, in quel carcere senza alcuna servizio medico, non fu possibile stabilirlo. Non si lamentò mai delle mancate cure: per lui era scontato. E anche questo, ricordando Bicio, non può essere più dimenticato”.
Cartello Fabrizio 1-1
Fonte:

http://baruda.net/2009/08/08/a-fabrizio-pelli-lasciato-morire-in-carcere-30-anni-fa/