Morto in TSO a Sant’Arsenio in Cilento. 16 indagati per omicidio colposo

Mercoledì 23 novembre, nelle province di Caserta, Potenza e Salerno, i militari della compagnia carabinieri di Sala Consilina, coordinati dal tenente Davide Acquaviva, collaborati nella fase esecutiva dai comandi Arma territorialmente competenti, notificavano avviso di conclusione delle indagini preliminari emesso dalla procura di Lagonegro nei confronti di quattro dirigenti medici e dodici infermieri ritenuti responsabili, a vario titolo, di omicidio colposo.

L’indagine, condotta dal nucleo operativo della compagnia carabinieri di Sala Consilina e dalla stazione di Polla, è stata conseguente ad un caso di «morte sospetta» di un paziente, affetto da disturbi psichiatrici, deceduto a marzo presso il servizio Psichiatrico di diagnosi e cura di Sant’Arsenio dove era ricoverato. Le investigazioni hanno consentito di documentare, attraverso il sequestro delle cartelle cliniche e ai riscontri con i turni di servizio, le responsabilità delle condotte colpose e omissive di dirigenti medici ed infermieri, tenute dalla data del ricovero della vittima a quella dell’exitus.

Gli inquirenti hanno accertato l’inosservanza delle regole elaborate dalla scienza medica, consistita nel somministrare al paziente, su prescrizione dei citati medici, i farmaci sedativi Talofen e Serenase in misura rispettivamente superiore a venti e a quattro volte il range terapeutico, che determinavano l’intossicazione e la conseguente morte per arresto cardio-circolatorio. I carabinieri, inoltre, hanno collezionato indizi di colpevolezza, a carico dei citati infermieri, in ordine alle violazioni degli obblighi di garanzia sugli stessi gravanti e relativi alla verifica e alla richiesta di chiarimenti in merito alle terapie ed al dosaggio dei predetti farmaci, precedentemente alla loro somministrazione.

da il Giornale del Cilento

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/morto-tso-santarsenio-cilento-16-indagati-omicidio-colposo/

Morì come Soldi per un Tso nel Torinese: ora il tribunale vuole archiviare il caso

Storie che si somigliano, dettagli che ritornano, assonanze tra una drammatica e molto nota vicenda, quella di Andrea Soldi, il giovane morto l’estate scorsa durante un Tso, e una invece quasi dimenticata, che nei prossimi giorni però sarà in aula in Tribunale per una scelta decisiva del giudice. E soltanto adesso i familiari cercano un po’ di visibilità, per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica affinché si affrontino le problematiche delle famiglie con malati psichiatrici, e perché nessuno debba mai più morire durante un trattamento sanitario obbligatorio.

È successo anche a Bruno Combetto un anno fa esatto, il 24 settembre 2014. Lui aveva 64 anni, soffriva di schizofrenia, e quella mattina uscendo dal bar di Sant’Ambrogio dove trascorreva molto tempo delle sue giornate, in mezzo alla gente, ha avuto uno scatto d’ira e ha tagliato le gomme di un’auto parcheggiata lì davanti. Poi è tornato a casa. In poche ore l’intervento, prima dei carabinieri, poi anche dei medici dell’Asl che lo avevano in cura, hanno trasformato, secondo i familiari, quello che doveva essere un normale momento di assistenza in un brutale arresto. Tanto che, ammanettato e sdraiato a terra in posizione prona, sedato con un elevato dosaggio di farmaci, l’uomo è andato in arresto cardiaco e dopo poco è morto. Le assonanze con il caso più recente di Soldi sono moltissime. Entrambi erano persone pacifiche a detta di tutti. Entrambi sono stati ammanettati in quella posizione e, poco dopo, sono andati in arresto cardiaco. Solo che nel caso di Combetto, il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta, che ufficialmente non ha mai avuto indagati e che si è conclusa con la relazione di un consulente di parte, senza che nessuno, neppure i familiari venissero sentiti.

Dalla consulenza il pubblico ministero Laura Longo ha concluso che non c’è nesso tra l’intervento delle forze dell’ordine e la morte dell’uomo. La sorella Wanda, che è medico, e la figlia Sara hanno depositato, attraverso l’avvocato Luca Cassiani, una opposizione all’archiviazione e il 24 settembre ci sarà l’udienza decisiva davanti al giudice Potito Giorgio. Nel frattempo la sorella ha scritto a molti rappresentanti istituzionali, tra cui il senatore Luigi Manconi come presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani. “Vorrei sottoporre alla sua attenzione – scrive la donna – alcuni elementi critici che sicuramente potrebbero essere di spunto affinché casi di decesso dovuti a Tso e a uso costrittivo delle manette dietro la schiena e in posizione prona del soggetto, non debbano più riempire le pagine dei giornali”. Wanda Combetto spiega come le procedure italiane siano in evidente contrasto con le direttive di altri Paesi dove , per esempio, è vietata la costrizione fisica, tanto più l’ammanettamento dietro la schiena. “Le scrivo per far emergere la gravità di questi comportamenti – è nella lettera – che invece di tutelare la persona disagiata in troppi casi rivelano letali: non è forse giunto il momento di approvare delle leggi che impediscano abusi e l’uso sproporzionato della forza”.

Torino, donna egiziana denuncia tentato stupro della figlia, ricoverata in TSO, e il marito al CIE

Un momento della rimozione forzata del blocco stradale messo in atto da una donna egiziana, con i suoi 4 figli minorenni, per protestare contro il trattenimento del marito nel Cie, in quanto irregolare, in corso Massimo d'Azeglio a Torino, 29 agosto 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MARCOUn momento della rimozione forzata del blocco stradale messo in atto da una donna egiziana, con i suoi 4 figli minorenni, per protestare contro il trattenimento del marito nel Cie, in quanto irregolare, in corso Massimo d’Azeglio a Torino, 29 agosto 2015.
ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Basta morti in Tso

Nota bene:

nel pubblicare il seguente articolo non c’è da parte mia alcun intento di giudizio nei contronti della psichiatria in generale. Mi interessa solo raccogliere tragiche storie, che non voglio lasciare inascoltate, e diffonderle come faccio spesso tra le pagine di questo blog.

D. Q.

 

tso

Tre persone morte in TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in poco più di un mese.

Il 5 agosto scorso a Torino, un uomo di 45 anni, Andrea Soldi, è morto mentre i vigili urbani lo stavano sottoponendo a TSO. Si parla di arresto cardiocircolatorio, non è riuscito ad arrivare vivo in ospedale. Testimoni parlano di vigili che l’hanno preso e stretto per il collo, finché non è caduto a terra privo di vita.

Il 30 luglio 2015 a Carmignano Sant’Urbano, in provincia di Padova, un ragazzo di trentatré anni, Mauro Guerra, è stato ucciso da un carabiniere durante un TSO. Nessuno sembra conoscere le reali cause che stanno dietro al trattamento sanitario obbligatorio che l’ha ucciso, né la famiglia, né il sindaco, il quale afferma di non aver neanche autorizzato il provvedimento (nonostante la legge 180 prescriva la disposizione del trattamento previa autorizzazione del sindaco, in quanto massima autorità per la sanità locale). All’arrivo di alcuni carabinieri presso la propria abitazione, Mauro, colto di sorpresa e in preda allo spavento, ha tentato la fuga. Uno dei carabinieri ha sparato e l’ha ucciso. Il maresciallo dell’arma si è giustificato dicendo di aver mirato al braccio ma Mauro è stato colpito alla schiena a soli due metri e mezzo di distanza. Chi ha autorizzato il TSO? Perché sono intervenuti i carabinieri e non i sanitari del 118?

L’8 giugno è morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non gli sia mai stato concesso di vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno.

La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Comune anche lo psichiatra coinvolto; il medico che avvisa la sorella della morte di Massimiliano, infatti, è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato (il sequestro stesso) e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si sono svolte le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre 2015.

Il regime terapeutico imposto dal TSO ha una durata di 7 giorni e può essere effettuato solo all’interno di reparti psichiatrici di ospedali pubblici. Deve essere disposto con provvedimento del Sindaco del Comune di residenza su proposta motivata da un medico e convalidata da uno psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il Sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al Giudice Tutelare operante sul territorio, il quale deve notificare il provvedimento e decidere se convalidarlo o meno entro 48 ore. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO sia rinnovato oltre i 7 giorni.

La legge stabilisce che il ricovero coatto può essere eseguito solo se sussistono contemporaneamente tre condizioni: l’individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, l’individuo rifiuta la terapia psichiatrica, l’individuo non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero.

Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi determina lo “stato di necessità” e l’urgenza dell’intervento terapeutico? E in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l’unica soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione di un TSO rimandano, di fatto, al giudizio esclusivo ed arbitrario di uno psichiatra, giudizio al quale il Sindaco, che dovrebbe insieme al Giudice Tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone. Per la persona coinvolta l’unica possibilità di sottrarsi al TSO sta nell’accettazione della terapia al fine di far decadere una delle tre condizioni, ma è frequente che il provvedimento sia mantenuto anche se il paziente non rifiuta la terapia. Se, in teoria, la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti del ricoverato.
Molto spesso prima arriva l’ ambulanza per portare le persone in reparto psichiatrico e poi viene fatto partire il provvedimento. La funzione dell’ASO (Accertamento Sanitario Obbligatorio) è generalmente quella di portare la persona in reparto, dove sarà poi trattenuta in regime di TSV o TSO secondo la propria accondiscendenza agli psichiatri.
Il paziente talvolta non viene informato di poter lasciare il reparto dopo lo scadere dei sette giorni ed è trattenuto inconsapevolmente in regime di TSV (Trattamento Sanitario Volontario); oppure può accadere che persone che si recano in reparto in regime di TSV sono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. Diffusa è la pratica di far passare, tramite pressioni e ricatti, quelli che sarebbero ricoveri obbligati per ricoveri volontari: si spinge cioè l’individuo a ricoverarsi volontariamente minacciandolo di intervenire altrimenti con un TSO.

A volte vengono negate le visite all’interno del reparto e viene impedito di comunicare con l’esterno a chi è ricoverato nonostante la legge 180 preveda che chi è sottoposto a TSO “ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno”.

Il TSO è usato, presso i CIM o i Centri Diurni, anche come strumento di ricatto quando la persona chiede di interrompere il trattamento o sospendere/scalare la terapia; infatti oggi l’ obbligo di cura non si limita più alla reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità effettiva di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico per la costante minaccia di ricorso al ricovero coatto cui ci si avvale alla stregua di strumento di oppressione e punizione. Per questo ancora una volta diciamo NO ai TSO, perché i trattamenti sanitari non possono e non devono essere coercitivi e affinché nessuno più debba morire sotto le mani di forze dell’ordine al servizio degli psichiatri.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/basta-morti-in-tso/

 

 

 

Muore dopo Tso al Maria Vittoria, Palazzo Civico: “Vicini ai famigliari”

Sul corpo dell’uomo è stata disposta l’autopsia giudiziaria. L’esame autoptico e tossicologico sarà eseguito nella giornata di lunedì. Intanto Palazzo Civico esprime la sua vicinanza a famigliari e amici

 

Redazione 7 agosto 2015

“Non sembrano emergere fatti di particolare rilevanza nel comportamento degli operatori”. E’ quanto precisato – in comunicato stampa – dall’amministrazione comunale in merito alla morte di Andrea Soldi, l’uomo torinese di 45 anni, deceduto nel pomeriggio di mercoledì in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio.

Secondo quanto si legge nella nota di Palazzo Civico, infatti, gli agenti della polizia municipale avrebbero inviato tempestivamente al magistrato una relazione di servizio che descrive in modo dettagliato gli avvenimenti e dalla quale non emergerebbero fatti di particolare rilevanza per ciò che attiene all’operato degli stessi vigili.

Andrea Soldi, secondo quanto precisato dall’Asl 2 che aveva richiesto l’intervento dei civich in piazzale Umbria, sarebbe “giunto già in arresto cardiaco al pronto soccorso” dell’ospedale Maria Vittoria dove è deceduto un paio di ore dopo. L’uomo, infatti, era stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio su richiesta del personale medico intervenuto a seguito di un presunto stato di alterazione psico-fisica dello stesso, proprio in piazzale Umbria, dove – dicono alcuni residenti del posto – era solito sostare su una delle panchine dell’area quasi tutti i giorni.

Sul caso la procura ha aperto un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero Raffaele Guariniello per appurare quali siano state le cause che hanno determinato il decesso dell’uomo a seguito del trattamento sanitario obbligatorio e verificare presunte responsabilità. Intanto si attendono i risultati dell’autopsia che – dichiarano dall’Asl To2 – sarà “un’autopsia giudiziaria”. L’esame autoptico e tossicologico sarà eseguito nella giornata di lunedì.

“L’amministrazione Comunale segue con attenzione l’esito degli approfondimenti disposti dalla magistratura, ai quali collabora, e attende l’eventuale accertamento di responsabilità – conclude la nota di Palazzo Civico -. La Città esprime tutta la sua vicinanza ai familiari di Andrea Soldi, colpiti dal tragico lutto, e partecipa al loro dolore per l’accaduto”.

 

 

Fonte:

http://www.torinotoday.it/cronaca/morto-andrea-soldi-tso-maria-vittoria.html

 

Leggi anche qui:

http://m.repubblica.it/mobile/r/locali/torino/cronaca/2015/08/06/news/andrea_morto_di_tso_i_testimoni_raccontano_lo_hanno_preso_per_il_collo_finche_e_caduto_-120516475/?ref=HREC1-1

 

“Mentre camminava gli ha sparato alle spalle”. Così secondo i testimoni è morto Mauro Guerra

Mauro Guerra stava male. Ma i carabinieri che dovevano portarlo in ospedale lo uccidono.  I familiari denunciano ad Acad una storia di malapolizia

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“Tragedia nel padovano”, gridano le agenzie, ma è malapolizia, dove un uomo, Mauro Guerra, 33 anni, è morto colpito da un proiettile partito dalla pistola di un carabiniere, e un altro militare è rimasto gravemente ferito (ma non è in pericolo di vita) nella colluttazione con la vittima. “Ancora non chiare le fasi”, raccontano le agenzie, dicendo che “la stessa Arma sta svolgendo accertamenti”. Una prima versione riferiva di carabinieri che tentavano di convincerlo ad andare in ospedale per curarsi, da lì un colpo al torace o, in un’altra versiobe, una pistolettata su un fianco.

Ma i familiari, con una telefonata all’alba di stamattina, al numero verde di Acad, riferiscono una storia diversa: «Abbiamo la testimonianza di diverse persone che erano lì – racconta una parente – i carabinieri hanno la loro versione ma noi abbiamo i testimoni. Mauro era stato bloccato, già gli era stata infilata una delle manette ma il carabiniere lo avrebbe aggredito e lui ha reagito. Non so cosa gli abbia detto ma è vero che Mauro lo ha colpito, due-tre pugni, non so. Così si è divincolato, si è girato ed è andato via quasi camminando… camminava… ma gli ha sparato alle spalle. E gli altri carabinieri, che erano a cento metri, quando sono arrivati, hanno continuato a prenderlo a calci quando già era a terra!».

Guerra non stava bene. Abbatterlo era l’unica cosa da fare? E’ il solito inquietante interrogativo al cospetto di una storia che ricorda sinistramente altri casi che hanno visto protagonisti uomini in divisa e vittime persone che avevano bisogno di un medico anziché di piombo. E’ un nuovo caso di malapolizia? A fare i rilievi, appunto, i colleghi di chi lo ha ucciso. E’ una costante in casi del genere. «Nemmeno un cane si ammazza in questa maniera. Lo avete ucciso voi, vergognatevi!», sente dire il cronista di un giornale locale che riporta anche i dubbi degli amici della vittima: «Mauro non era pericoloso. Come si fa a uccidere un ragazzo in quella maniera così brutale? Vogliamo verità, per il nostro amico».

È accaduto a Carmignano Sant’Urbano, in un campo di sterpaglie, appena trebbiato. Secondo le agenzie, sono stati gli stessi familiari della vittima a chiamare il 112 e il 118, segnalando che il parente era fortemente esagitato. Prosegue il dispaccio: “Un fatto, questo, non nuovo alle forze dell’ordine e ai medici che più volte sono intervenuti in quanto Guerra, conosciuto come persona ‘disturbata’, quando andava in escandescenza offendeva, malmenava e minacciava la sorella e la madre. Giunti sul posto, i medici e i carabinieri hanno cercato di convincere l’uomo a seguirli per andare in ospedale per le cure del caso. Guerra, alto 1,90 e 130 kg di peso, piuttosto muscoloso, aveva gli occhi ‘spiritati’, parlava con difficoltà e farneticava. Sembrava che fosse d’accordo ad andare in ospedale, ma giunto all’ambulanza, d’improvviso, si è divincolato, scaraventando a terra alcuni militari e fuggendo verso i campi. Gli investigatori l’hanno rincorso, ma solo uno di essi è riuscito a raggiungerlo e a placcarlo a terra. La reazione di Guerra, ex carabiniere, a detta dei presenti, è stata abnorme: ha preso a calci e pugni il militare colpendolo poi alla testa con un corpo contundente. Un altro carabiniere, sopraggiunto nel frattempo, ha visto il collega a terra e pieno di sangue ed ha estratto la pistola d’ordinanza sparando due volte in aria. Ha poi premuto il grilletto una terza volta – non è stato ancora chiarito se ha puntato verso l’uomo o il colpo è partito accidentalmente – e il proiettile si è conficcato su un fianco di Guerra. A nulla è valso l’intervento dei medici dell’ambulanza che hanno tentato di salvare l’uomo che è morto quasi subito». Del fatto è stata informata l’autorità giudiziaria di Rovigo. Proseguono gli accertamenti da parte del Nucleo investigativo dei carabinieri per accertare la dinamica dei fatti. Il militare rimasto ferito – frattura al cranio, alla mandibola e a sei costole – è ricoverato in ospedale e le sue condizioni di salute sono state considerate serie dai medici, ma non è in pericolo di vita.

fonte:popoffquotidiano.it

 

Tratto da http://www.acaditalia.it/2015/07/mentre-camminava-gli-ha-sparato-alle-spalle-cosi-secondo-i-testimoni-e-morto-mauro-guerra/

Così hanno ucciso Mastrogiovanni

Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un’iniziativa dei parenti della vittima e della onlus “A Buon Diritto” di Luigi Manconi

di Gianfrancesco Turano

Così hanno ucciso Mastrogiovanni
Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell’ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla.Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all’atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un “noto anarchico”, sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d’aria dell’agonia.Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d’accusa di un processo che si avvicina alla sentenza.Martedì 2 ottobre, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de “l’Espresso”, in collaborazione con l’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi e con l’accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all’ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da “Mi manda RaiTre” quando il processo era appena iniziato.

Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l’isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L’uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell’ordine e da una decina di addetti dell’Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione.

Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l’associazione degli studenti missini.

Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato.

Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l’illustrazione attimo per attimo dell’abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione».

Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato.

A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l’assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula.

Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un’altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente.

Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell’udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell’Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l’elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all’estero sono state ignorate dal personale dell’ospedale San Luca.

Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l’esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell’accusa, secondo l’impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l’omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell’autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un’addetta alle pulizie.

L’avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell’Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella”. Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura.

Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l’omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l’imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all’obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto.

Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

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Fonte:
Vedi anche qui:

In morte del Sig. Giuseppe Casu

Fonte: Comitato Verità e Giustizia per la morte del signor Giuseppe Casu
9 ottobre 2006
“Coloro la cui vita rappresenta l’inferno della Società Opulenta sono tenuti a bada con una brutalità che fa rivivere pratiche in atto nel medioevo e all’inizio dell’età moderna. Per gli altri, meno sottoprivilegiati, la società prende cura del bisogno di liberazione soddisfacendo i bisogni che rendono la servitù ben accetta e fors’anche inosservata …”
Hebert Marcuse, da “L’uomo ad una dimensione”
Comitato Verità e Giustizia per la morte del signor Giuseppe Casu
Giovedì 15 Giugno 2006 in piazza IV Novembre a Quartu il signor Giuseppe Casu, accanto alla sua ape parcheggiata, come ogni giorno vendeva un poco della frutta e verdura contenuta nel cassone.
Nulla di notevole sino a quel momento in una giornata che sembra tranquilla. Poi, in tarda mattinata, il dramma. Tutto avviene molto rapidamente, intervengono i carabinieri con le guardie municipali, spunta fuori anche un’ambulanza. Gli agenti lo afferrano con la forza, di fronte a tutti, lo sbattono a terra, lo immobilizzano. Giuseppe Casu viene caricato, ammanettato, alla barella e portato via. È in atto un ricovero coatto in psichiatria.
“Sgombero Forzato: se ne va anche l’ultimo ambulante” titola trionfalmente l’Unione Sarda il giorno dopo, in un pezzo chiaramente ispirato dalla giunta comunale. È falso, Giuseppe Casu non è l’ultimo ambulante, ma è forse il più vulnerabile e viene colpito in maniera esemplare per ottenere il risultato di sgomberare finalmente la piazza dagli abusivi. Perché altrimenti tanta forza e tanta violenza è stata impiegata contro un individuo intento in una attività così pacifica?
Per completare il quadro di questa vicenda occorre fare qualche passo indietro.
Il fatto è che da qualche tempo la giunta comunale di Quartu ha intrapreso un’energica azione contro i venditori ambulanti privi di licenza, per il ripristino della “legalità”, dunque anche i venditori di piazza IV Novembre erano da tempo nel mirino della giunta.
Nell’ambito di questa “guerra agli ambulanti” però le guardie municipali di Quartu, per ragioni che andrebbero chiarite, si sono accanite, in maniera assurda e ingiustificabile, quasi esclusivamente contro il signor Giuseppe Casu. Questo accanimento selettivo viene ammesso anche dal vicesindaco di Quartu, Tonio Lai, che nel dibattito in giunta del 6 Settembre 2006 dice: “Siamo a conoscenza di un fatto certo, che la polizia municipale ha emesso numerosi verbali a carico del cittadino, signor Giuseppe Casu. Ne ha emesso soprattutto a partire da Maggio 2005, tantissimi …”. A questa persecuzione il signor Giuseppe Casu, benché preoccupato, ha reagito pagando le multe e continuando ad andare in piazza IV Novembre per vendere.
Ma torniamo al giorno prima dell’agguato, il 14 Giugno 2006. I vigili si presentano dal signor Casu. Come sempre gli elevano una contravvenzione, ma questa volta il verbale raggiunge la cifra stratosferica di 5000 euro per la vendita senza licenza di frutta e verdura in strada. Una cifra che, questa volta, il signor Giuseppe Casu non farà a tempo a pagare.
Evidentemente nelle stanze dell’amministrazione comunale qualcuno proprio non sopportava l’ostinazione del signor Casu. Pensando ai drammatici fatti dei giorni successivi l’imposizione di questa multa sproporzionata assume l’aspetto sinistro di un avvertimento e di una provocazione.
I medici psichiatri, che si son presi l’incarico di risolvere il problema dell’ultimo ambulante resistente di Quartu, sono stati dunque anche responsabili del destino del signor Giuseppe Casu, dalla mattina 15 Giugno sino alla sua morte. A pensarci è una ben strana cosa, visto che formalmente sono dei medici e, in teoria, il loro compito sarebbe quello di curare la gente e non quello di togliere le castagne dal fuoco al comune in lite con gli ambulanti.
Il ricovero coatto (Trattamento Sanitario Obbligatorio o TSO) viene giustificato da uno stato di agitazione psicomotoria: il signor Casu dava in escandescenze. Ma il semplice buonsenso ci dice che questo poteva essere casomai inteso come un segno di salute mentale. Vorrei sapere infatti chi di noi non darebbe in escandescenze dopo che, coloro che il giorno prima ti hanno messo 5000 euro di multa, si presentano, ti intimano di andartene, e, al tuo rifiuto, ti mettono altri 5000 euro di multa, poi ti saltano addosso e ti immobilizzano…
Cerchiamo di capire cosa hanno fatto davvero questi “medici” per la salute del signor Giuseppe Casu, all’interno del reparto di psichiatria dell’ospedale di Is Mirrionis a Cagliari, nella settimana in cui il paziente è riuscito a sopravvivere ai loro trattamenti.
Qualcuno si è preoccupato delle ferite che il signor Giuseppe Casu aveva subito durante le aggressioni di cui era stato vittima? Qualcuno si è preoccupato di quella mano gonfia? Della presenza di sangue nelle urine? O piuttosto la loro unica preoccupazione è stata quella di iniettargli un potente sedativo che spegnesse il suo cervello per qualche giorno, di legarlo al letto, di metterlo in condizioni di non rompere le scatole?
I familiari del signor Giuseppe Casu, quando vanno a visitarlo, lo trovano sempre legato al letto, sedato, col panno e privo di coscienza. Nei momenti in cui riprende coscienza chiede di essere slegato. Gli stessi familiari segnalano l’evidente gonfiore ed il colore violaceo della mano destra, ma nessuno si preoccupa del suo stato di salute.
Dopo una settimana il signor Giuseppe Casu muore, all’improvviso, sempre legato a quel letto da cui nessuno lo ha ancora liberato. Aveva 60 anni e non soffriva di nessuna malattia che lo potesse portare ad una fine così rapida ed improvvisa.
Anche dalla relazione della commissione d’inchiesta della ASL, istituita in seguito ad una denuncia dell’ASARP, risulta che il signor Casu è stato vittima di un ‘trattamento inaccettabile’: nel reparto di psichiatria lo hanno sedato e immobilizzato, legandolo al letto mani e piedi per sette giorni, dal suo arrivo al momento della sua morte e non gli hanno fatto nessun esame per verificare il suo stato di salute. Nonostante le gravi responsabilità accertate la ASL si rifiuta però di prendere qualsiasi provvedimento.
Per noi la morte del signor Casu è la diretta conseguenza di una politica precisa, della prassi violenta delle “forze dell’ordine” e del trattamento pseudo-medico che gli è stato riservato. Lo hanno ammazzato loro.
Morti come queste, di solito, sono presto dimenticate. Per la magistratura e gli investigatori non sono certo casi degni di interesse. Familiari ed amici, quando vogliono insistere per accertare la verità e le responsabilità, incontrano difficoltà di ogni tipo. Il più delle volte la gente finisce per rassegnarsi e lasciar perdere. Questo le guardie e gli psichiatri lo sanno bene, anche su questo contano per garantirsi l’impunità. Le loro vittime sono destinate a essere sepolte in fretta e dimenticate.
Questo sarebbe stato anche il destino del signor Giuseppe Casu, se non fosse stato per l’insistenza della sua famiglia che non si è rassegnata all’esito della frettolosa autopsia effettuata dai medici dello stesso ospedale il giorno dopo il decesso, e sta cercando di far riaprire il caso.
Diverse procedure amministrative e giudiziarie sono attualmente in corso, ma, come spesso accade, queste rischiano semplicemente di fare da anticamera all’oblio.
Per questo è assolutamente necessario che l’attenzione su questo terribile caso non venga meno nei prossimi tempi, non deve essere liquidato come normalità della vita di ogni giorno.
L’orrore della vicenda, suo malgrado esemplare, del signor Giuseppe Casu non può scivolare via dalla memoria. Verità e giustizia sono dovute a lui e a noi. Non dimentichiamolo, né dimentichiamo che verità e giustizia reali non coincidono con la versione ufficiale dei fatti.
Le ragioni del comitato.
Il comitato si propone di compiere ogni sforzo perché la terribile vicenda che ha portato alla morte del signor Giuseppe Casu non sia dimenticata ed insabbiata, ma, al contrario, perché possa emergere la verità e sia fatta giustizia. In questo vogliamo collaborare ed appoggiare sia la famiglia della vittima, sia tutti coloro che condividono con noi questo scopo.
Ci spinge a questo un naturale senso della solidarietà umana e della giustizia e un altrettanto spontaneo disgusto per lo spettacolo della violenza inflitta dai forti contro i deboli, dalle “istituzioni” contro i singoli, dai “pubblici ufficiali” contro i semplici cittadini. Ma le nostre motivazioni non si esauriscono qui.
Siamo infatti convinti che quanto accaduto al signor Giuseppe Casu non sia affatto un episodio isolato ed assolutamente eccezionale. Al contrario, pensiamo che si tratti di un caso in qualche modo esemplare.
Vi sono fasce della popolazione definite “marginali” che vengono costantemente sottoposte a forme di violenza brutale e frequentemente ne restano vittime. Parliamo di coloro che il potere definisce di volta in volta “pazzi”, “drogati”, “clandestini”, “vagabondi”, etc. . Di questi ferimenti, di queste morti, raramente si viene a sapere, difficilmente si sente parlare e mai viene fatta giustizia. Sono morti che vengono dimenticate in fretta.
Anche la morte del signor Giuseppe Casu viene già fatta passare per un errore, per un caso di “mala-sanità”, si parla di tragica fatalità, di un caso sfortunato, eccezionale, imprevedibile. Non è vero. La morte del signor Giuseppe Casu è invece la logica conseguenza, l’esito naturale, di una politica ben precisa. Oramai le politiche “securtarie” e “legalitarie” sono tanto di moda tra le amministrazioni pubbliche di destra e di “sinistra” (il comune di Bologna primo tra tutti), che anche Quartu Sant’Elena, un comune del meridione più povero e afflitto da problemi sociali, ha deciso di adottarle. Politiche che hanno un punto fermo, una costante: quella di mettere un astratto concetto di “legalità” avanti a tutto, e soprattutto avanti alle più elementari esigenze di giustizia sociale e di solidarietà umana. Così nascono tutte le varie “guerre” che le amministrazioni dichiarano contro settori di popolazione poveri e marginali. Il comune di Quartu, ad esempio, aveva già intrapreso la sua contro gli ambulanti, ed è di questi giorni la massiccia operazione di militarizzazione del territorio a Cagliari, con intere piazze assediate da polizia e carabinieri, centinaia di persone identificate,una cinquantina di schedature, denunce, fogli di via voluti dal prefetto Orrù e dal sindaco Floris, con la stampa ad agitare lo spettro di un improbabile quanto ridicolo “terrore” suscitato da punkabbestia ed ambulanti abusivi nel centro storico cittadino. Si dichiara guerra ai drogati, ai clandestini, agli imbrattatori, etc. . E che si tratti di guerre reali e non metaforiche, condotte con lo spirito ed i metodi della guerra, ce lo dicono le vittime che queste piccole guerre interne seminano nelle nostre strade.
Ne ricordiamo alcune:
– Federico Aldrovandi, viene pestato e soffocato in strada dalla polizia la notte del 25 Settembre 2005. Lo avevano preso per un “drogato” che stava in strada a far casino. Aveva 18 anni. Molti mesi dopo, grazie all’insistenza della madre si apre un’inchiesta della magistratura, è in corso un processo.
– Stefano Cabiddu, muratore di Samassi emigrato a Crema, assassinato da un carabiniere con un colpo di pistola il 20 Luglio 2003 nel parco di un centro commerciale a Roccadelle dove era andato per incontrarsi coi suoi fratelli, anche loro emigrati. Aveva 23 anni. Il carabiniere, a caccia di “spacciatori”, si giustifica prima dicendo che i tre sardi avevano un fare “sospetto”, poi ricorre alla classica risorsa del caramba dal grilletto facile: dirà di aver inciampato e che gli è partito un colpo. Un anno dopo il PM lo assolve e archivia l’inchiesta senza nemmeno un processo.
– Raigama Achrige Rumesh Ku, 19 anni, residente a Como, famiglia originaria dello Sri Lanka. Il 29 Marzo 2006 un vigile della squadra speciale “anti-graffittari” organizzata dal comune gli ha sparato in testa a freddo, trapassandogli il cranio dalla nuca alla fronte. Miracolosamente è sopravissuto, il vigile ha “chiesto scusa”, l’inchiesta è in corso.
– Mario Castellano, napoletano, 17 anni. Il 20 Luglio del 2000 era in motorino senza casco, una pattuglia della polizia gli ordina di fermarsi, lui non lo fa, un agente gli spara alla schiena e lo uccide. Grazie alla testimonianza di un driver del vicino ippodromo l’agente viene condannato in primo grado a 10 anni per omicidio volontario. L’agente è stato poi assolto in appello perché “il fatto non sussiste” (anche a lui “è partito un colpo”).
E si potrebbe continuare a lungo, ma comunque l’elenco sarebbe comunque troppo breve. Sappiamo che sono pochissimi i casi di cui veniamo a conoscenza e che vengono documentati, rispetto a quelli che realmente avvengono. Anche quei pochi poi rimangono per lo più relegati tra le notizie marginali della stampa locale.
Scorrendo l’elenco delle vittime di queste assurde guerre interne c’é una costante che impressiona, é lo stato di assoluta impunità nel quale agiscono le cosiddette “forze dell’ordine”. Qualunque abuso compiano non si trova giudice che alla fine non li copra, sino all’omicidio.
Questo è evidentemente uno dei motivi principali per cui, in casi come questi, è così difficile stabilire un minimo di verità e di giustizia.
La realtà è che queste “guerre”, dichiarate nel nome della “legalità” contro i soggetti marginali della società, condotte con metodi estremamente arroganti brutali e violenti, rappresentano di fatto un grave pericolo per i cittadini.
Il paradosso di questo mondo alla rovescia è che questa barbarie viene spacciata per una politica ispirata alle esigenze della “sicurezza”. Sicurezza per chi? viene da chiedersi.
A questo interrogativo ha dato una esemplare risposta l’assessore alle politiche sociali del comune di Quartu, che, chiamato a rispondere della sua politica di guerra all’abusivismo, costata la vita al signor Giuseppe Casu, spiega candidamente – La gente si lamenta, non si trovano parcheggi, i bottegai che vendono la verdura in negozio si lamentano della concorrenza… –
Ah legalità bottegaia, quanti delitti si commettono in tuo nome !
Cosa dire infine della psichiatria? Cosa dire di questa pratica che pretende ancora di essere considerata una scienza medica ma che si presta ad essere utilizzata come uno strumento della repressione più brutale?
La pretesa della psichiatria è quella di curare la “mente” e non il corpo, ma si sa, la mente è un’entità evanescente e difficile da individuare, e questo consente alla psichiatria di prendersi una serie di libertà e commettere i più gravi abusi sui corpi dei suoi “pazienti”.
La storia della psichiatria è una storia tragica e criminale, nel passato ha ammesso come metodi di “cura” pratiche quali le mutilazioni cerebrali (lobotomia), lo shock insulinico (stato di coma indotto da iniezioni di insulina), la distruzione fisica e psichica dei “pazienti” mediante segregazione a vita nei manicomi, etc. . Tutte queste pratiche sono state attuate contro la volontà dei pazienti e, a loro tempo, sono state definite “innocue” ed “efficaci contro la malattia mentale”.
Oggi viviamo in tempi apparentemente più civili. I manicomi sono stati chiusi e la lobotomia non si pratica più, l’elettroshock è invece ancora una pratica diffusa, benché attivamente contestata a causa dei gravi rischi (anche di morte) che comporta.
Tuttavia la psichiatria, unica tra le discipline mediche, non ha affatto rinunciato alla pretesa di “curare” i suoi “pazienti” contro la loro volontà mediante pratiche estremamente pericolose per la salute del loro corpo, quali la somministrazione massiccia di psicofarmaci e la “contenzione” a letto. Ancora oggi chi ha l’avventura di visitare un reparto psichiatrico, quello di Is Mirrionis a Cagliari ad esempio, lo troverà popolato di uomini e donne legati ai letti e/o ridotti dai farmaci in uno stato tale da non riuscire né a parlare né a stare in piedi. Buona parte di loro è stata trascinata là dentro contro la propria volontà.
La pratica del ricovero coatto (TSO) è infatti ancora consentita dalla legge, ma, data la delicatezza della cosa, vi sono una serie di garanzie formali per il cittadino: ci deve essere la richiesta di un medico, la convalida di un altro medico e del sindaco, la vigilanza di un giudice e il provvedimento deve essere formalmente comunicato all’interessato. Si può procedere al ricovero coatto solo se ricorrono tutte queste circostanze e se l’interessato rifiuta in assoluto di curarsi (se accetta di “curarsi” può invece scegliere dove e come) e solo se non vi sono altre possibilità. Il ricorso alla violenza non è ammesso se non in caso di assoluta necessità. Queste sono le garanzie formali. La pratica è ben altra cosa … .
I Sindaci, che dovrebbero garantire i cittadini dagli abusi degli psichiatri, nel migliore dei casi si limitano a firmare le carte senza nemmeno guardarle, nel peggiore dei casi chiedono essi stessi il ricovero di persone che creano fastidi.
La pratica del ricovero coatto (TSO) è estremamente violenta, viene effettuata da molti uomini (infermieri, poliziotti, carabinieri, guardie varie) che immobilizzano la loro vittima, spesso dopo una lotta accanita, e la legano alla barella. Succede naturalmente che in questa fase il ricoverato subisca percosse e lesioni. È successo anche che la polizia, sollecitata da vicini e colleghi, abbia fatto irruzione nella casa del “paziente” sfondando la porta.
I tentativi di chi ha subito un TSO di far valere le sue ragioni, chiedendone l’annullamento, non vengono quasi mai presi in considerazione (a Cagliari, ad esempio, non ci risulta sia mai accaduto).
Una delle cose che rimane più oscura è come una pratica estremamente violenta, pericolosa, lesiva ed umiliante come il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) possa essere ancora ritenuta valida e “curativa”. Una simile violenza non può evidentemente essere di aiuto a nessuno.
Evidentemente, al di là della questione della “malattia mentale” e della sua “cura” la realtà è ben diversa, infatti, guardandoci intorno, ci accorgiamo di come la psichiatria venga usata dai responsabili “dell’ordine pubblico” come un’arma flessibile ed efficace. Tante volte chi, per una ragione o per un’altra, da fastidio, ma non incorre in comportamenti criminali dei quali la giustizia ordinaria possa farsi carico, viene sbrigativamente tolto di mezzo facendo ricorso proprio alla psichiatria.
Le categorie di questa pseudo-scienza sono infatti talmente vaghe ed arbitrarie che ci si può far rientrare praticamente chiunque. Basta un po’ di “agitazione psicomotoria” (che tra l’altro è molto facile provocare), come nel caso del signor Giuseppe Casu.
Purtroppo, anche sotto questo aspetto la vicenda del signor Giuseppe Casu è stata esemplare. La sua storia non può essere liquidata come il solito caso di “mala sanità”, non è vero! Col signor Casu gli psichiatri si sono comportati come si comportano sempre, come esige la funzione sociale che svolgono. Certo ogni tanto qualcuno, a causa dei loro “trattamenti”, muore, ma è ben difficile che queste morti possano essere documentate e conosciute, di solito passano sotto silenzio.
Tutto ciò è pienamente conforme alla pratica della psichiatria, che ha per lo più una natura disciplinare e di controllo che poco ha a che fare con il concetto medico di “cura”. La funzione che la psichiatria svolge realmente è in buona parte quella di controllare le persone e non quello di “curarle”, e forse è proprio per questo che questa disciplina pseudo-scientifica è sopravvissuta ai suoi tragici insuccessi, ed è ancora attiva oggi.
In conclusione, come comitato sorto a partire dall’esigenza di fare chiarezza e giustizia su questa terribile vicenda, ci proponiamo anche di approfondire alcune delle tematiche politiche e sociali che hanno portato alla fine del signor Giuseppe Casu, quali:
– le politiche “legalitarie” e “securtarie” dei comuni che, in pratica, si traducono in vere e proprie guerre interne condotte per lo più contro fasce marginali della popolazione.
– L’impunità assoluta di cui godono sempre e comunque le “forze dell’ordine”, qualunque siano le brutalità di cui si rendono responsabili.
– Il ruolo della psichiatria come pratica di controllo e non di cura. La barbarie dei ricoveri coatti (TSO) e il loro uso come strumento repressivo interno.
Ci si propone inoltre di creare contatti e collegamenti con altri comitati sorti in tutta Italia in seguito ad altri episodi in qualche modo analoghi, e con organizzazioni antipsichiatriche, allo scopo di solidarizzare con le vittime, scambiare esperienze ed informazioni e possibilmente creare assieme occasioni di controinformazione, di dibattito e di lotta.