Buenaventura Durruti

 L’infanzia

Buenaventura Durruti nasce il 14 luglio 1896 in una numerosa e modesta famiglia proletaria (ha sette fratelli e una sorella) di León, «una cittadella dell’antica Spagna clericale e monarchica». [1]

Buenaventura Durruti

Il padre di Buenaventura è un ferroviere iscritto al sindacato dell’UGT che era stato arrestato nel 1903 per aver partecipato ad uno sciopero sindacale. Il piccolo Buenaventura cresce in un ambiente fortemente conservatore, León infatti ha «pochissime le imprese industriali […] Una forte guarnigione, diversi reparti della Guardia Civil, numerosi conventi, una cattedrale, un palazzo episcopale, un seminario per la formazione degli insegnanti, una scuola di veterinaria, una forte piccola borghesia, che voleva tranquillità e ordine […] non tollerava alcun pensiero divergente, alcun temperamento che gli si contrapponesse.» [2]

A cinque anni comunque inizia a frequentare la scuola e la porta avanti sino all’età di 14 anni, quando viene assunto nel laboratorio di un certo Melchor Martìnez. Secondo la testimonianza della sorella continua comunque a frequentare la scuola serale ed è un appassionato lettore. Viene assunto poi nelle fonderie Miaja fino al 1916, quando trova lavoro presso la Compagnia ferroviaria della Spagna del nord.

Attivismo sindacale e anarchico

Nel 1917 si impegna attivamente nello sciopero generale proclamato dall’UGT (Union general de trabajadores), in cui, a seguito degli scontri con le forze di polizia spagnole, 70 persone vengono uccise, 500 ferite e oltre 2000 arrestate.

«Quando venne lo sciopero del 1917, avevamo dicianove anni giusti giusti […] Non volevamo permettere che lo sciopero finisse in una bolla di sapone. Avevamo anche qualche arma, niente di speciale, ma abbastanza da fare un poco di paura ai soldati […] Già avevamo occupato la stazione […] Già era scuro, vedevamo brillare le divise dei soldati, e poi incominciò: “Bang! Bing-bang, bing-bang!” Era come una piccola guerra. Subito ci venne sopra la Guardia Civil. E qua con quei revolver piccoli non c’era da fare più niente. Ci cercammo qualche pilone dell’alta tensione al centro di Lèon, che erano altissimi, e in posizione buona, davanti ci stavano gli alberi. Ci arrampicammo lassopra e ci nascondemmo bene bene, e tutti avevamo cappelli e tasche pieni di pietre, e le buttammo in testa ai poliziotti […] I poliziotti caricarono coi cavalli sulla gente. Ma a noi non ci presero […] mano mano venne fuori un clima rivoluzionario, che poi è stato portato in tutto il paese dalla CNT. Naturalmente, quello che già allora era il capo in tutte queste lotte, era Durruti.»[3] (Florentino Monroy)

Émilienne Morin, compagna di Durruti

In seguito a questi avvenimenti perde il posto di lavoro ed è quindi costretto a trasferirsi a Gijon, nella regione delle Asturie, centro di notevole influenza legata all’anarco-sindacalismo. Qui conosce Manuel Buencasa, segretario generale della CNT, che gli fa conoscere il pensiero anarchico in maniera più profonda e matura.

Quando giunge il momento, viene chiamato alla leva militare obbligatoria, ma Buenaventura, che già era ostile ad ogni qualsivoglia autorità, decide di disertare ed è dichiarato renitente. In seguito a questi avvenimenti, per non finire in prigione, si sposta in Francia dove prendee contatto con gli anarchici francesi, tra cui Sébastien Faure, Louis Lecoin e Émile Cottin.

Nel 1920 rientra a Barcellona e diviene un militante influente all’interno delle due organizzazioni anarchiche più importanti di Spagna: la Confederación Nacional del Trabajo (CNT) e la Federazione Anarchica Iberica (FAI). Rifiuta sempre e comuqnue ogni tipo di incarico “dirigenziale” all’interno della CNT.

«L’importante non é il posto di responsabile. L’importante è la vigilianza della base per obbligare quelli in alto a fare il loro dovere senza morire nella burocrazia».

Contemporaneamente aderisce anche al gruppo “Los Justicieros“, partecipando alla progettazione, mai portata a termine, di un attentato contro il Re Alfonso XIII. Nel 1922, a Barcellona, Los Justicieros assume il nome di “Los Solidarios” (“I Solidali”), di cui fanno parte anche Juan Garcia Oliver e Francisco Ascaso, che si rende protagonista di numerose azioni dirette volte ad attaccare il sistema capitalistico spagnolo. Le più “significative” saranno: una rapina al Banco di Spagna di Gijon e l’implicazione nell’uccisione del cardinale Romero, colpito per ritorsione in seguito all’assassinio dell’anarchico Salvador Segui, nonché perché uno dei principali finanziatori dei “pistoleros” (gruppo paramilitare al servizio del padronato).

Buenaventura Durruti, braccato dalla “giustizia” spagnola, è costretto ad emigrare in SudAmerica, insieme a Francisco Ascaso e ad altri compagni de Los Solidarios con cui fonda il gruppo “Los Errantes” (Gli Erranti), che ricalcano le stesse orme di “espropriazione popolare”. Ricercato, insieme ai suoi compagni, da molte polizie del mondo, ritorna clandestinamente in Francia, dove viene fermato il 25 giugno 1926. A Durruti, Francisco Ascaso e Gregorio Jover viene loro imputata la progettazione di un attentato contro il re di Spagna, Alfonso XII, in visita a Parigi.

Grazie alla mobilitazione e alla strenua difesa operata da Louis Lecoin, Henri Torres e Sébastien Faure, tutto il gruppo anarchico è liberato il 14 luglio 1927 con l’obbligo di lasciare immediatamente il territorio della Francia. Ritornerà in Spagna solamente nel 1931. Lo stesso giorno fa la conoscenza di Emilienne Morin alla Libreria Internazionale anarchica di Parigi e diviene il suo compagno. Così, la stessa Morin, racconterà il loro incontro:

«Ci eravamo conosciuti a Parigi. Dev’essere stato il 1927. Lui usciva proprio allora di prigione. In tutta la Francia c’era stata un’enorme campagna, il governo aveva ceduto, i tre moschettieri [4] – era un nomignolo che aveva trovato la stampa – erano stati rilasciati. Durruti uscì, la sera stessa fece visita a qualche amico, io ero presente, ci vedemmo, ci innammoramo a rotta di collo e le cose rimasero così. [5]»

Nello stesso anno, Durruti entra a far parte della corrente faista (la faista era la corrente della CNT che propugnava un accordo con la Federazione Anarchica Iberica) della CNT. Ha un rapporto conflittuale con la cosiddetta II Repubblica (in cui la destra ha il controllo del governo), partecipando a numerose sollevazioni popolari, come quella dell’Alto Llobregat (gennaio 1932), che di fatto gli aprono la strada per un nuovo esilio forzato presso il carcere delle Canarie, in cui vi rimane fino al 1935.

 Durruti e la rivoluzione spagnola

Durruti in “divisa” da combattimento

Durante gli anni della Rivoluzione spagnola (1936-39) si conquista la fiducia degli anarchici spagnoli e non, soprattutto per il coraggio e l’instancabile attivismo non finalizzato ad obiettivi personali.

Il 1° maggio 1936, durante il 3° congresso della CNT, a Saragozza, viene denunciata l’inettitudine del governo e il pericolo del “golpe militare”. Gli anarchici si organizzano di conseguenza per armare il popolo e quando, il 19 luglio (data d’inizio della Guerra Civile), la guarnigione militare di Barcellona si solleva contro i repubblicani viene sconfitta dal popolo in armi, cancellando di fatto il potere statale. Erano la CNT e la FAI ad essere “padroni assoluti” della situazione.

Durruti è tra i protagonisti principali di quell’esaltante periodo storico. Promuove la creazione del Comitato centrale di Milizie antifasciste della Catalogna, che praticamente deteneva il “potere” (su basi libertarie) governativo. Il 23 luglio del 1936 si mette a capo di 10000 anarchici, chiamati poi Colonna Durruti, ottenendo numerose vittorie sul fronte Aragonese e successivamente si sposta verso la capitale Madrid, pesantemente minacciata dai fascisti franchisti. Quando la Colonna Durruti, «marciando verso il fronte, attraversava un villaggio, per prima cosa i suoi consiglieri politici deponevano il giudice. I problemi locali venivano risolti in base alle seguenti tre domande: “Dov’è il tribunale? Dov’è il catasto coi registri? Dov’è la prigione?”. Poi incendiavano gli atti giudiziari e i registri catastali e liberavano i prigionieri» [6]. In seguito venivano fatti riunire tutti gli abitanti del villaggio e si spiegavano loro i principi del comunismo libertario.

Talvolta i miliziani anarchici si lasciavano andare a violenze non sempre giustificabili (contro preti, persone ricche, presunti fascisti o addirittura che vestivano in maniera non conforme agli “standard” operai), frutto dell’odio covato da tempo o causa di miliziani dell’ultim’ora che ancora non avevano formato una coscienza tale da distinguere le violenze necessarie da quelle che potevano addirittura essere un boomerang per le sorti della rivoluzione. Durruti cercava in ogni occasione di impedire che si eccedesse nelle violenze, tant’è che diverrà una sorta di segretario della Colonna tale Jesus Arnal Pena, ovvero un prete cattolico che alcuni miliziani intendevano fucilare proprio in quanto prete, anche se nulla aveva a che fare con i fascisti, e che Durruti invece non solo salverà ma porrà addirittura sotto la sua protezione:

«Non ho mai avuto la minima inclinazione per l’anarchia, e Durruti non ha mai avuto un segretario. Ero semplicemente scrivano della cancelleria della colonna. Ma devo ammettere che Durruti era un uomo retto, e quando certa gente lo diffama come assassino e delinquente, ebbene si tratta di calunniatori, e difenderò il mio amico contro simili menzogne […] Una volta trascinarono davanti a noi un uomo che, ai suoi tempi, aveva detenuto a Saragozza una carica piuttosto importante. Preferirei non dirne il nome. Doveva essere fucilato. Durruti fece chiamare i suoi custodi e domandò loro: “Come si è comportato quest’uomo nella sua proprietà? Come ha trattato i contadini?” La risposta fu: “Non troppo male”.- “Allora, che volete? Si deve farlo fuori solo perché, un tempo, è stato ricco? Questa è idiozia”. Mi consegnò l’uomo e disse: “Bada che faccia il maestro nella scuola popolare del villaggio, e che lavori molto” […] Durante l’assedio di Huesca Durruti, con un piccolo Breguet, fece un volo di ricognizione sulla città. Era giorno di festa, e la gente usciva appunto dalla chiesa. Il pilota dell’aereo, il tenente Erguido, detto il Diavolo Rosso, domandò se dovesse buttare qualche bomba a mano. Durruti rifiutò di bombardare la popolazione civile» (Testimonianza di Jesus Arnal Pena [7]).

 La morte

A Madrid, il 20 novembre 1936, Buenaventura Durruti viene colpito mortalmente da un’arma da fuoco che lo raggiunge all’altezza della settima\ottava costola toracica.

Funerali di Durruti

Altro momento dei funerali di Durruti

La versione ufficiale, avallata anche dalla CNT, attribuì immediatamente la responsabilità ad un cecchino fascista della Guardia Civil, tuttavia, visto il diametro del foro provocato dal proiettile, sorse il sospetto che il colpo fosse stato esploso da molto vicino. Ciò ha fatto sorgere sospetti inquietanti: per aluni anarchici sarebbero essere stati i comunisti ad essere se non gli esecutori materiali quantomeno i mandanti (bisogna evidenziare che i fascisti alimentarono sicuramente questa versione per incrementare le divisioni del fronte repubblicano), per altri (es. Jaume Miravitlless [8] e inizialmente anche Emilienne Morin, compagna di Buenaventura) potrebbero essere stati addirittura alri compagni anarchici, che negli ultimi tempi lo avevano accusato di essere diventato eccessivamente autoritario e dispotico (secondo alcune voci, non del tutto confermate e attendibili, in quel periodo si sarebbe avvicinato agli ambienti comunisti). L’ultima versione, portata avanti per esempio dal testimone oculare Ramon Garcia Lopez, farebbe riferimento ad un drammatico incidente. Durruti sarebbe morto a causa di un colpo partito incidentalmente dalla sua stessa arma. (Se questo fosse vero, la CNT avrebbe preferito evitare di raccontare la verità dei fatti, ovvero che si sarebbe trattato di un incidente causato dall’imprudenza di Durruti, perché ciò avrebbe potuto comportare la demoralizzazione dei combattenti.).

L’unico fatto appurato senza alcun dubbio, al di là delle versioni discordanti [9], è che egli si trovasse in automobile insieme al suo autista Julio Estancio, a José Manzana, Antonio Bonilla e Ramon Garcia Lopez. Una volta giunti in Piazza Moncloa (quartiere universitario), dove erano in atto degli scontri a fuoco con dei fascisti che occupavano la clinica universitaria, Durruti sarebbe sceso ed in quel momento sarebbe stato colpito a morte [10].

 Il funerale

Al suo funerale, il 22 novembre a Barcellona, partecipa circa un milione persone, tutte desiderose di tributare il proprio omaggio ad un uomo protagonista di un pezzo importantissimo della storia di Spagna. Così le esequie di Durruti furono poi raccontate da Hanns-Erich Kaminski:

«I miliziani con il fucile al braccio, circondarono il catafalco… poi alcuni uomini della colonna Durruti che erano venuti da Madrid con la bara la portarono alla “casa” (l’ex-sede della Camera di Industria e commercio di Barcellona, N.d.R) […] Il coperchio della bara fu tolto e Durruti apparve, sotto vetro, coricato sulla seta bianca con una sciarpa bianca avvolta intorno alla testa; aveva l’aria di un arabo […] Migliaia e migliaia di persone sfilarono davanti a Durruti per tutta la notte. Il giorno dopo, la mattina, ebbero luogo i funerali … era grandioso, sublime e bizzarro, poiché tutta quella folla non era diretta, non c’era né ordine né organizzazione; nulla funzionava, il caos era indescrivibile …alle dieci e mezza, coperto di una bandiera rossa e nera, lascia la “casa degli anarchici” sulle spalle dei miliziani della sua colonna […] No, non erano funerali regali, erano funerali popolari…funerali anarchici… Ai piedi della colonna di Cristoforo Colombo…furono pronunciate le orazioni funebri […] Era previsto che il corteo si sarebbe sciolto dopo i discorsi…fu impossibile seguire il programma […] Scendeva la notte…all’ultimo momento si decise di rimandare l’inumazione…soltanto il giorno dopo Durruti fu sotterrato.» [11]
Fonte:
http://ita.anarchopedia.org/Buenaventura_Durruti

Un pensiero su “Buenaventura Durruti

  1. invio per conoscenza (anche se forse non è questa la “categoria” adeguata…)
    ciao
    GS

    Indipendentismo e anarchismo: una relazione impossibile?
    (Gianni Sartori)

    Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.
    Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
    Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: “Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre”.
    Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.
    In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che “lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare” 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
    Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).
    La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.
    Qualche esempio. Magari “non farà testo” (mille indizi non fanno una prova), ma sempre degno di nota.
    Il patriota italiano Carlo Pisacane era un seguace di Pierre-Joseph Proudhon e sua figlia intervenne a favore degli anarchici arrestati dopo i moti insurrezionali del Matese (1877) presso il ministro degli Interni, ex seguace di Pisacane.
    In Catalogna vanno ricordati i rapporti del MIL (Movimiento Iberico de Liberacion) dei consiliari libertari Puig Antich e Oriol Solé con gli indipendentisti dell’OLLA (Organitzaciò de La Lluita Armada) e il caso, tragicamente emblematico, di Monteagudo: dalla FAI (Federaciòn Anarquista Iberica) a Terra Lliure, fino alla morte in combattimento come militante di Eta.
    In alcuni movimenti indipendentisti catalani degli anni ottanta (Moviment d’esquerra nacionalista, Crida a la Solidaritat…) le istanze libertarie erano ancora ben presenti. Anche perché, come mi confermò in un’intervista Carles Riera, parecchi militanti erano figli o nipoti di membri della CNT e della FAI.
    Anche in Francia talvolta la solidarietà era diventata partecipazione attiva. L’anarchico George Fontenis, recentemente scomparso, aveva collaborato con il FLN algerino.
    Nell’Ucraina fresca di indipendenza, una cerimonia in memoria di Nestor Makhno rischiò di degenerare per colpa di alcuni nazionalisti (un amico presente li definì “cosacchi”, non so se correttamente) che non vedevano di buon occhio la presenza delle bandiere nere degli anarchici. In effetti pare che Nestor Makhno sia ormai diventato un eroe nazionale per aver combattuto, oltre che contro i reazionari “bianchi” (Denikin, Wrangel), contro gli invasori austro-tedeschi (dopo il trattato di Brest-Litovsk) e i bolscevichi, visti come espressione dell’occupazione russa. In realtà Makhno si era scontrato anche con alcuni gruppi nazionalisti ucraini che, da destra, si opponevano al modello sociale di Guliai-Pole.
    Già in precedenza la figura di questo rivoluzionario sociale si era sovrapposto alle aspirazioni indipendentiste (o comunque di autodeterminazione) del popolo ucraino. Nel 1981 un semisconosciuto gruppo della diaspora, intitolato a Makhno e fautore dell’indipendenza dell’Ucraina, compì alcuni azioni dirette in solidarietà con gli hunger strikers irlandesi (Bobby Sands, Patsy O’Hara…) 3). In questa duplice interpretazione della figura di Makhno una parte di responsabilità spetta ai bolscevichi che, per infamarlo, lo descrissero falsamente come una specie di “nazionalista ucraino alla Taras Bulba, bandito incolto e satrapo” (v. La via dei tormenti, di Alexis Tolstoj).
    Lo scultore anarchico basco Felix Likiniano nel luglio 1936 era sulle barricate di Donosti (San Sebastian) contro i franchisti. Fu lui l’ideatore del Bietan Jarrai 4), il serpente attorcigliato all’ascia, simbolo dell’Eta (Euskadi Ta Askatasuna). Racconta “Peixoto” (José Manuel Pagoaga) nel libro Felix Likiniano, miliziano de la Utopia di quando, mostrandogli per la prima volta il simbolo, gli spiegò il significato dell’ascia (l’arma, in bronzo, usata dai baschi nella battaglia di Roncisvalle contro i Franchi di Carlomagno che avevano saccheggiato Pamplona) e del serpente (“che si avvicina all’obiettivo con circospezione, silenziosamente…”).
    Altro anarchico basco degno di memoria quel Sebastian San Vicente ricordato da Paco Ignacio Taibo II in Arcangeli (“Un nome senza strada”) che dopo aver diffuso verbo e azioni libertari negli Stati Uniti, a Cuba e in Messico, concluse la sua vita nei dintorni di Bilbo (Bilbao) combattendo con la CNT contro i franchisti. A Donosti (San Sebastian) viene ricordato nel locale Museo della Marina dove il suo nome è stato dato a una lancia da pesca di circa dieci metri degli anni trenta e recuperata dai volontari del museo. “Forse non avrà il nome di una strada o di una piazza”, aveva spiegato allo scrittore la direttrice del museo, Soko, “però ha il nome di una barca in un museo basco”.
    Non vorrei poi allargarmi troppo, ma anche Durruti è un nome sicuramente basco (ereditato dal nonno paterno, pare) anche se il nostro era nato a Lèon.
    Sempre in Euskal Herria, alla fine degli anni settanta, era presente un gruppo indipendentista esplicitamente libertario denominato Askatasuna (Libertà) 5) di cui in seguito ho perso le tracce. “Alcuni si sono poi integrati in Herri Batasuna”, mi spiegava José Antonio Egido (“Takolo”, ex responsabile degli esteri di HB).
    La stessa Eva Forest, la compianta scrittrice di origini catalane e basca di adozione, incarcerata e torturata dopo l’attentato a Carrero Blanco nel 1973, mi raccontò di collaborare senza problemi, lei libertaria e figlia di un militante della FAI, con i movimenti indipendentisti baschi. A suo avviso il modello sociale che tentavano di costruire era di tipo “molto orizzontale”.
    Nel suo libro Anarchia e potere nella guerra civile spagnola 1936-1939 (Elèuthera, 2009) Claudio Venza ha spiegato quali furono i rapporti tra anarchici e catalani, baschi, galleghi. A Bilbo (Bilbao) la CNT, con Horacio Prieto, collaborò al Comisariado de Defensa de Vizcaya fino alla sua dissoluzione quando il PNV (Partito nazionalista basco), maggioritario, diede vita a una Junta de Defensa (più orientata in senso autonomista e anche indipendentista) con l’esclusione degli anarchici. Altri studiosi, come J.D. Reboredo Olivenza e M.Chiapuso, avevano trattato sui rapporti tra gli anarchici e il Governo basco 6) raccontando che il confronto a volte fu duro, ma comunque leale. In Euskal Herria non si registrarono fatti analoghi a quelli di Barcellona del maggio 1937 che videro anche dei nazionalisti catalani, oltre agli stalinisti del Psuc, combattere contro gli anarchici.
    Qualche modesto segnale perfino in Irlanda. Nel programma politico del Republican-Sinn Fein, un movimento minoritario, fuoriuscito dal Sinn Fein e fondato da un noto esponente dell’Ira-provisional, Ruari O’Bradaig, si parlava esplicitamente dei consigli operai e di Kronstadt come modello di liberazione sociale e nazionale.
    Tra i miei ricordi personali, Domhnall de Brun, un anarchico (figlio di un volontario della Brigata internazionale James Connolly) che insegnava gaelico nel centro sociale gestito dal Sinn Fein a Derry. A Belfast invece frequentavo una libreria-caffè (dalla inequivocabile porta rosso-nera) dove, insieme a testi anarchici, antimperialisti e di controcultura, si vendevano depliant e cartoline del Movimento repubblicano, IRA compresa.
    In Bretagna avevo conosciuto anche due rari esemplari di “anarco-nazionalisti bretoni” che provenivano dal movimento antifascista SCALP e da Emgann (divenuto nel frattempo Breizhistance). Nel 2001 Guillaume Bricaud e Maiwenn Salomon avevano partecipato alla fondazione della Coordination pour un Bretagne indépendant e libertaire (CBIL) a Gurunhuel. Da qualche parte conservo ancora un loro manifesto: “Bretagne Libre sans Etat ni Patrons” firmato CBIL, con la stella nera sovrapposta all’herminia stilizzata (l’ermellino, erminig in bretone). Il loro riferimento era il Chiapas dell’EZLN (LN: “Liberazione Nazionale”) dove entrambi avevano soggiornato a lungo. Fondarono anche una radio libera, HUCH! (dal bretone huchal, “gridare”), con l’herminia a pugno chiuso e stella nera sul petto.
    Si potrebbe continuare. Per esempio parlando della George Jackson Brigade (USA, anni settanta) che riuniva militanti anarchici e marxisti. Fortemente caratterizzata in senso antimperialista e per la difesa delle minoranze oppresse, somigliava più a un movimento di liberazione nazionale che a un gruppo della sinistra militarista. O anche del vivo interesse mostrato da “Apo” Ocalan per le teorie dell’anarchico statunitense Murray Bookchin ancora negli anni novanta. In seguito, anche se segregato in una cella, il Mandela curdo ha voluto approfondire le teorie dell’autore di L’ecologia della libertà e consigliarne la lettura e la messa in pratica ai militanti del PKK. La sua richiesta di un incontro con il pensatore libertario non si è, purtroppo, realizzata. Sia per gli ostacoli messi in campo dall’amministrazione carceraria turca sia per le precarie condizioni di salute di Bookchin (deceduto qualche tempo dopo) che aveva espresso pubblicamente la sua ammirazione per il leader curdo imprigionato.

    Popoli manovrati

    Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale. Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema etc.etc.) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
    Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
    Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
    Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
    Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.
    Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e Al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad Al Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
    Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

    Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

    Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
    Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
    Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese “a seconda di chi, del come e del quando”. Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.
    “Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico” e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno “strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente”.
    Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, PJAK, considerato il ramo iraniano del PKK attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
    Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip, fondata da Lelio Basso). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmao, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
    E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry. Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 7).
    La mia ipotesi è che negli anni novanta il “grande laboratorio a cielo aperto per la contro-insurrezione” dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.
    È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
    Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due ONLUS (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.
    Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del MAS, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
    E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo, grazie all’impegno di Verena Graf, segretaria generale e rappresentante permanente della Lidlip all’Onu. Ci mancherà.
    Gianni Sartori

    NOTE

    1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
    2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi Baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
    3) Ne aveva dato notizia il corrispondente da Londra della “Repubblica” Paolo Filo della Torre. Nel suo articolo definiva Makhno un “generale dei bianchi” (?!) e poche righe dopo Patsy O’Hara (un esponente dell’Irish National Liberation Army morto in sciopero della fame il 21 maggio 1981 a 24 anni) veniva scambiato per una donna. Se non ricordo male, fu in quella circostanza che presi la sciagurata decisione di darmi al giornalismo. Peggio di così non avrei mai potuto fare, neanche volendo.
    4) In euskara: ”Continuare con entrambi”, l’indipendenza e il socialismo.
    5) Da non confondere con l’omonima associazione di sostegno ai prigionieri politici che aveva sostituito le Gestoras pro Amnistia dopo che erano state illegalizzate, per esserlo poi a sua volta.
    6) Da segnalare: Los anarquistas y la guerra en Euskadi. La Comuna de de San Sebastian, di M. Chiapuso.
    7) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1 ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di ETA” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.
    GS

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