In ricordo di Barbara Kistler

 Dal profilo Facebook di Paola Staccioli :

Barbara Kistler era una militante di Zurigo, l’ho conosciuta a Roma. E’ stata uccisa in Turchia fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 1993.

 

Fin da giovanissima partecipa con il movimento di resistenza ad azioni dimostrative contro obiettivi simbolici dello Stato o dell’economia capitalista. È poi inserita nel circuito della solidarietà nei confronti dei prigionieri politici. Nelle carceri tedesche fa colloqui con i detenuti della Raf, è presente nelle iniziative che riguardano i processi politici, ma anche nel dibattito sulle prospettive di potere in un paese a capitalismo avanzato. Sui temi della violenza, della lotta armata. Nel 1970 sono nate le Brigate rosse in Italia, sulla scia delle lotte operaie e studentesche, e la Raf nella Repubblica federale tedesca. Barbara è convinta della necessità di un’azione che vada oltre la resistenza, per una trasformazione rivoluzionaria in senso comunista della società.

Nel 1987 conosce i militanti comunisti turchi che hanno lasciato il paese dopo il colpo di stato dell’Ottanta. Sono insieme nelle contestazioni del Primo maggio, per le celebrazioni del cinquantenario della Pace del lavoro. Il patto fra padroni e sindacati, la fine del diritto di sciopero.

 

Nell’ottobre 1987, a dieci anni dalla morte nel carcere di Stammheim di tre prigionieri della RAF, i militanti della resistenza effettuano azioni antimperialiste. Barbara finisce in carcere. Non è la prima volta.

A Istanbul viene arrestata il 19 maggio 1991. Massacro di Hasanpaşa, viene definito. Diciotto arresti e due militanti, Ismail Oral e Hatice Dilek, uccisi a freddo.

 

Il clima è teso. Sono appena entrate in vigore le leggi speciali. Sono stati uccisi tre poliziotti ad opera del tikko, l’esercito operaio e contadino di liberazione della Turchia, braccio armato del Partito comunista turco marxista leninista.

 

Barbara è in un appartamento. Irrompono in casa. Passi pesanti, colpi. Una furia scatenata. E grida, grida contro Ismail. Urlano di volerlo ammazzare. Ismail non c’è. È uscito pochi minuti prima. Il telefono è sotto controllo. Possono catturarlo vivo. Invece lo vogliono uccidere.

Alle undici di sera otto agenti entrano nella casa in cui sono Ismail e Hatice. I compagni sono disarmati. Ismail tenta di fuggire. Il figlio di Hatice, un bambino otto anni, è l’unico testimone della cattura. Viene montata una messinscena per giustificare l’esecuzione.

 

Barbara rimane 15 giorni in una caserma. La protesta della Svizzera è formale. Per annebbiare l’opinione pubblica e mantenere buoni rapporti con la Turchia. Importante acquirente di armi, ottimo cliente per le banche svizzere, che ripuliscono i capitali del narcotraffico turco.

Barbara rimane sette mesi in carcere. È inserita in una Comune, i collettivi in cui i detenuti si uniscono per affinità politica.

Nel novembre del Novantuno viene espulsa dal paese e torna a Zurigo.

 

Cade armi in pugno alla fine di gennaio del 1993 per le ferite e il freddo sui monti del Kurdistan turco. Il suo gruppo, di circa cinquanta guerriglieri, viene attaccato dall’esercito. Le perdite sono pesanti, i superstiti seppelliscono frettolosamente i corpi dei caduti. Il governo della Turchia non ha mai riconosciuto la sua uccisione.

Dopo la morte Barbara viene nominata membro d’onore del Comitato centrale del Partito comunista turco marxista-leninista.

 

Il pensiero mi stritola il cuore. Immagino la sua vita che si spegne nell’agonia glaciale e inconsolata di un inverno montano. Un rivolo di sangue ferisce la neve candida fino a bagnare la terra forestiera che accoglie il suo corpo. Trentotto anni. Sufficienti per una scelta matura. Troppo pochi per volare via così, colpita da un nemico che nega la sua morte.

 

Ho i brividi ogni volta che ci penso. Una morte senza un corpo rimane una notizia sospesa. Vorrei andare fra quelle montagne. Toccare la terra, guardare il cielo che i suoi occhi hanno visto per l’ultima volta. Darle il saluto crudele ma necessario per il congedo definitivo. Quello che sua madre Rosemarie ha invano cercato fino alla morte, nel 2010. Vorrei andare fra quelle montagne, urlare al vento il suo nome e sentirne l’eco. Barbara Anna Kistler, militante del tikko. Nome di battaglia Kinem.

 

Stralci dal racconto del libro Non per odio ma per amore. Storie di donne internazionaliste. Di Paola Staccioli e Haidi Gaggio. Prefazione di Silvia Baraldini. Derive Approdi editore

 

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/in-ricordo-di-barbara-kistler/10151307567163264?pnref=story

In ricordo di Saverio Saltarelli. 12 dicembre 1970.

Di Paola Staccioli:

 

Originario di Pescasseroli, Saverio Saltarelli era iscritto al terzo anno di giurisprudenza a Milano quando la sua vita fu fermata, a ventitré anni, da un candelotto lacrimogeno che lo colpì in pieno petto. Il 12 dicembre 1970 ricorreva il primo anniversario della strage di piazza Fontana, drammatico esordio di quel sanguinoso disegno, poi definito “strategia della tensione”, volto a bloccare la trasformazione sociale e politica del paese. Era inoltre in corso a Burgos un processo nel quale il regime franchista si apprestava a condannare a morte alcuni militanti di Eta, organizzazione armata basca di liberazione nazionale. Le forti mobilitazioni popolari interne e internazionali fermarono le esecuzioni.

 

Delle quattro manifestazioni in programma per quel pomeriggio a Milano, il questore Ferruccio Allitto Bonanno autorizzò solo quella promossa dall’Anpi e da altre forze della sinistra istituzionale contro il processo di Burgos, vietando il corteo dei circoli anarchici per ricordare l’uccisione di Pinelli e denunciare l’estraneità di Valpreda e compagni nella “strage di Stato”, così come il presidio del Movimento studentesco in piazza Fontana, indetto per impedire un’adunata, anch’essa vietata, annunciata da gruppi neofascisti. Al termine del comizio gli anarchici danno vita a un corteo che viene caricato alle spalle dalla polizia agli ordini del vicequestore Vittoria e sospinto verso l’Università Statale presidiata dal Movimento studentesco. Nel frattempo alcuni squadristi lanciano molotov contro la sede dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi fascisti si muovono in direzione dell’Ateneo. Proseguono le cariche. Gli studenti difendono la loro postazione mentre la polizia cerca di rompere i cordoni di protezione. Durante gli scontri, un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo uccide Saverio Saltarelli, militante di Rivoluzione comunista, mentre il pubblicista Giuseppe Carpi riporta ferite da armi da fuoco.

 

Le prime versioni ufficiali parlarono di “malore” e poi di “collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, si ammise che il cuore di Saltarelli fu spaccato da un “artificio lacrimogeno”. Nonostante l’«ostruzionismo continuo e il sottile bizantinismo fondato su manipolazioni procedurali» da parte di organi giudiziari e di polizia, come si legge nell’ordinanza istruttoria, grazie all’impegno del movimento, insieme ad avvocati e giornalisti democratici, l’inchiesta si chiuse con l’emissione di sei avvisi di reato. Nel 1976 il capitano di ps Alberto Antonetto, comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la non menzione. Il capitano dei carabinieri Antonio Chirivì (divenuto poi comandante dei Vigili Urbani di Milano dal 1997 al 2006) e un sottufficiale furono indiziati di reato per il ferimento del pubblicista.

 

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/promemoria-in-ricordo-di-saverio-saltarelli-12-dicembre-1970/10151902189628264

 

 

Quando ricordate Carlo Alberto Dalla Chiesa non dimenticatevi di via Fracchia, di Giancarlo del Padrone e della strage al carcere di Alessandria

Oggi ricorreva il 32° anniversario dalla morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia. Come ogni anno si è tenuta a Palermo la commemorazione: http://www.ansa.it/sicilia/notizie/2014/09/03/dalla-chiesa-commemorazione-a-palermo_e3539c1e-e0d5-464c-ac80-64a6b8d798b4.html

Cerimonia commemorazione eccidio Dalla Chiesa (foto: ANSA)

La memoria è indispensabile per la ricerca della verità ma quando è a senso unico rischia di divenire fuorviante. Scrivo questo perchè forse molti non sanno o non ricordano una parte della storia. Premettendo che i delitti mafiosi vanno in tutti i casi condannati, c’è da aggiungere che il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa non è solo una vittima di un omicidio di mafia. Il suo nome è legato a alcuni episodi di lotta al terrorismo e di repressione di rivolte carcerarie finite in tragedie. Mi riferisco all’eccidio di via Fracchia a Genova in cui quattro militanti delle Brigate Rosse, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, Riccardo Dura e Annamaria Ludmann. furono uccisi nel sonno dai carabinieri del nucleo Antiterrorismo, guidati da Dalla Chiesa: qui un articolo di Paola Staccioli: https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/genova-1980-via-fracchia-non-lavate-questo-sangue/10151406445538264

33 anni fa il massacro di via Fracchia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel febbraio 1974 durante una rivolta nel carcere delle Murate, a Firenze, rimane ucciso dalla polizia il giovane Giancarlo del Padrone mentre nel maggio dello stesso anno, per fermare un sequestro da parte dei detenuti del carcere di Alessandria, un assalto giudato da Carlo Alberto Dalla Chiesa porta a sette morti.

Qui un articolo di Salvatore Ricciardi: http://contromaelstrom.com/2011/08/01/lo-stato-risponde-con-le-stragi-al-movimento-dei-detenuti-omicidi-e-affossamento-della-riforma-guidano-la-repressione-fanfani-e-moro/

 

Io credo che tutti, a prescindere da quali siano le nostre idee, quando pensiamo al generale Dalla Chiesa dovremmo ricordaci anche di queste stragi se non altro per riflettere sulle contraddizioni dello Stato.

 

D. Q.

 

 

Su Elena Angeloni, Carlo Giuliani, stragi di Stato e depistaggi

Ripropongo qui un mio vecchio articolo leggermente modificato.

 

 

Oggi è l’anniversario della morte di Elena Angeloni. Infoaut (che ha il merito di avere una sezione, denominata Storia di classe, dedicata alla memoria) ha pubblicato un articolo per ricordare il fallito attentato (dimenticando di dire che nelle intenzioni di chi lo aveva preparato doveva essere solo dimostrativo ma poi qualcosa è andato storto causando la morte dei due compagni, Angeloni e il giovane militante greco Giorgio Tsekouris) all’ambasciata Usa di Atene il 2 settembre 1970.
Qui potete leggere l’articolo di Infoaut: http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/2481-2-settembre-1970-fallito-attentato-del-superclan-allambasciata-usa-di-atene
Purtroppo sul web non si trovano informazioni soddisfacenti sulla storia di Elena Angeloni un pò perchè fu a lungo dimenticata o taciuta un pò perchè fu tirata in ballo solo qualche anno fa in un articolo del quotidiano Il giornale. L’articolo in questione arriva ad accennare alla storia di Angeloni partendo dall’analisi di alcune foto del giovane Carlo Giuliani durante le manifestazioni del g8 del 2001. Il giornalista, Gian Marco Chiocci, mette in relazione due eventi completamente diversi così come lontani nel tempo (la donna è morta otto anni prima che nascesse Carlo), perchè Angeloni era la zia di Giuliani. Così facendo l’autore tenta di dar credito alle sue analisi delle foto di Carlo – descritto come un black block – come se le vicende passate della zia (peraltro poco conosciute come lo stesso giornalista ammette), potessero fornire la prova mancante del profilo criminale del giovane Carlo Giuliani, qualora non bastassero il passamontagna e le barricate. Qui l’articolo: http://www.ilgiornale.it/news/ecco-foto-inedite-black-bloc-giuliani.html
Su questo articolo e su uno più recente sempre dello stesso autore sulle stragi di Bologna e di Piazza della Loggia (dove Gian Marco Chiocci parla di depistaggi e tenta di rispolverare l’ipotesi – da tempo dimostrata essere falsa – delle piste rosse, questa, sì, vero depistaggio: qui l’articolo di Chiocci sulle stragi: http://www.ilgiornale.it/news/interni/stragi-e-br-quei-depistaggi-bologna-e-brescia-854592.html), ha scritto qualche tempo fa, sul suo blog, Francesco “baro” Barilli. Barilli è autore, tra l’altro, del bellissimo libro Carlo Giuliani, il ribelle di Genova , edito da BeccoGiallo, con disegni di Manuel De Carli, in cui si racconta , anche attraverso il dialogo con i familiari del ragazzo, la vera storia di Carlo.

 

CARLO GIULIANI

Francesco Barilli vanta una vasta pubblicazione sui temi del g8 di Genova, sulle stragi di Stato e su diversi fatti di cronaca. Vale la pena dunque leggere la sua amara riflessione su un certo modo di fare giornalismo dove dà anche un accenno del contesto storico della vicenda in cui perse la vita Elena Angeloni. Per la vera storia di Angeloni, Barilli rimanda ad un testo molto interessante scritto da Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani e pubblicato nel 2012 da DeriveApprodi: il libro s’intitola Non per odio ma per amore. Storie di donne internazionaliste, nel quale si narrano, attraverso dei racconti, le storie di sei donne, tra cui Elena Angeloni, che hanno dedicato le loro vite a sostegno delle lotte di liberazione di altri popoli.

 

A questo link potete leggere la riflessione di Barilli: http://francescobarilli.blogspot.it/2013/01/da-piazza-della-loggia-carlo-giuliani.html
Concludo dicendo che il mio voleva essere un post per ricordare Elena Angeloni ma vi sono storie che si intrecciano con altre e la memoria è fatta anche di questo, di rimandi, di collegamenti perché non si spezzi il filo della storia e perché si cerchi di fare della verità il fine dell’informazione.

 

D.Q.

Carlo Giuliani

Il 20 luglio 2001, durante il G8 di Genova, a Piazza Alimonda, rimase ucciso il giovane Carlo Giuliani.
Questo è il sito del Comitato a lui dedicato:

http://www.piazzacarlogiuliani.org/

BREVE CRONOLOGIA DEI FATTI DEL 20 LUGLIO 2001:
PIAZZA ALIMONDA ORE 17.27

Venerdì 20 luglio
Il vicepresidente del Consiglio, on. Gianfranco Fini, con altri esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui l’on. Ascierto, si trovano nella Caserma dei Carabinieri di San Giuliano dove si trattengono per diverse ore. Le forze dell’ordine vengono dislocate nelle zone dove passeranno i cortei e nelle vicinanze delle piazze tematiche.
Sono stati rimossi i cestini della spazzatura ma molti cassonetti si trovano tuttora lungo i percorsi e nelle piazze dove si raccolgono i manifestanti.
Fin dalla mattina compare il Black block: gruppi di 10, 15, al massimo 20 persone alla volta, molte delle quali dall’accento straniero, si aggirano per la città distruggendo vetrine, incendiando cassonetti, auto, motorini.
Fanno incetta di sassi, spranghe e bastoni.
Diversi privati cittadini, da varie zone della città, denunciano il fatto alle autorità competenti. Un gruppo si concentra in piazza Paolo da Novi, la piazza tematica dei Cobas; inizia a smantellare la pavimentazione e a caricare i cassonetti con pietre.
Alcuni manifestanti tentano di fermarli.
Le forze dell’ordine, che si trovano a breve distanza, no.
Indietreggiano, sparando lacrimogeni. Li inseguono nelle vie adiacenti senza mai fermarli davvero.
(Alcuni filmati, anche del sabato, riprenderanno strani personaggi che prima parlano con le forze dell’ordine e poi si avvicinano ad alcuni Black block. Altri filmati riprendono dei personaggi che, in motorino, prima parlano con i Black block, poi con le forze dell’ordine, e così via).
Il black block passa sotto il tunnel della ferrovia all’altezza di corso Torino dividendosi quindi in due gruppi : uno si dirige verso il Carcere, l’altro sale la scalinata Montaldo verso piazza Manin.
Ore 15. Un filmato riprende alcuni blindati dei Carabinieri nella piazza antistante il Carcere di Marassi e gruppi di agenti a piedi.
Una ventina di Black block si avvicina al carcere lanciando sassi.
I Carabinieri si ritirano.
I Black block rompono alcuni vetri delle finestre del Carcere e incendiano un portone ed una finestra. Poi se ne vanno indisturbati.
Nel frattempo il corteo dei Disobbedienti, “armati” con scudi di plexiglass, imbottiture di polistirolo, gommapiuma e bottiglie di plastica, lasciato lo Stadio Carlini, si avvia lentamente lungo il tragitto autorizzato, incontrando sul suo cammino cassonetti rovesciati e auto bruciate.
A metà di via Tolemaide viene duramente e improvvisamente aggredito dai Carabinieri, sostenuti da 4 blindati. Ricordiamo che i portavoce dei Disobbidienti avevano precedentemente concordato con la Questura il percorso fino a piazza Verdi, (la piazza che si trova di fronte alla stazione Brignole). Ci sarebbero, quindi, ancora circa 500 metri di strada da percorrere. La zona rossa, protetta dalle grate in ferro, è ben più lontana.
L’attacco respinge per alcuni metri i manifestanti che, retrocedendo, si compattano verso corso Gastaldi. Non ci sono vie di fuga: alle spalle 10000 persone premono non comprendendo cosa stia accadendo; da un lato la massicciata della ferrovia, dall’altro file continue di palazzi.
Nel frattempo, i Black block saliti a piazza Manin, dove sono radunati Pax Christi, Mani Tese, Rete Lilliput, ecc., proseguono indisturbati verso piazza Marsala; dietro a loro sopraggiunge la Polizia che spara lacrimogeni e carica i pacifisti con le mani, pitturate di bianco, alzate; vengono picchiate e ferite soprattutto le donne.
Tornando a via Tolemaide, dopo ogni carica al corteo dei Disobbedienti, i blindati e i militari indietreggiano, ritirandosi fino all’angolo con corso Torino.
Alcuni ragazzi del corteo li inseguono, tirando sassi e cercando di rompere i vetri dei blindati.
Una camionetta, dopo aver percorso a velocità sostenuta, su e giù, quel tratto di strada, minacciando di travolgere i manifestanti, si blocca improvvisamente a marcia indietro contro un cassonetto. L’autista fugge lasciando soli i colleghi.
I carabinieri schierati poco più avanti non intervengono in loro aiuto.
I ragazzi assaltano il blindato, visibilmente infuriati, con sassi e spranghe; permettono comunque ai carabinieri che occupano il mezzo di allontanarsi. Quindi lo incendiano.
La Polizia respinge il corteo in via Tolemaide.
Ore 16.30 circa – Carlo si unisce al corteo dei Disobbedienti, che già da tempo, bloccato frontalmente, stremato dalle cariche ripetute, intossicato dai lacrimogeni, scottato dagli idranti urticanti, tenta di defluire per le vie laterali e di tornare al Carlini.
Carlo indossa un pantalone della tuta blu, una canottiera bianca e una giacca della tuta grigia legata in vita.
A questo punto le forze dell’ordine, carabinieri e polizia, attaccano nuovamente il fronte del corteo: blindati lanciati a 70Km/h sui ragazzi, idranti urticanti, colpi d’arma da fuoco, lacrimogeni al gas CS, manganelli Tonfa.
I ragazzi rispondono lanciando sassi, lanciando indietro alcuni lacrimogeni, facendo piccole barricate con i bidoni per la raccolta differenziata della carta e della plastica.
Carlo indossa il passamontagna blu.
Sul fianco di via Tolemaide si aprono 2 strade strette, che portano in piazza Alimonda.
Ore 17.15. Un drappello di una ventina di carabinieri appoggiato da 2 defender si posiziona in una di queste due stradine. Partono i lacrimogeni, che vengono lanciati in mezzo al corteo.
I manifestanti reagiscono.
I militari, improvvisamente, cominciano ad indietreggiare, fino a scappare disordinatamente verso via Caffa, attraverso piazza Alimonda.
Un gruppo di manifestanti li inseguono urlando.
I due defender proseguono in retromarcia, superano un primo cassonetto che si trova in mezzo alla strada di fronte alla Chiesa del Rimedio.
Un defender, raggiunto uno slargo, fa manovra e raggiunge i colleghi in via Caffa; l’altro si ferma contro un cassonetto di rifiuti mezzo vuoto che si trova sul lato destro della strada.
Un plotone di polizia, con defender e blindati, è schierato in via Caffa a pochi metri dal defender. Un ingente schieramento di forze di polizia e blindati si trova in piazza Tommaseo, la piazza in cui sfocia via Caffa, lunga 300 metri.
Alcuni manifestanti raggiungono il defender fermo in piazza Alimonda, alcuni di loro tornano indietro verso via Tolemaide, altri cominciano a tirare sassi contro le forze dell’ordine schierate in via Caffa, altri ancora lanciano pietre e tirano colpi con assi di legno al defender.
Una persona raccoglie da terra un estintore, comparso sulla scena in questo momento, e lo lancia da una distanza ravvicinata e nel senso della lunghezza, contro il defender; l’estintore colpisce il lunotto posteriore e cade fermandosi sulla ruota di scorta.
Uno scarpone spunta dal lunotto e lo scalcia facendolo rotolare a terra.
In questo momento attorno al defender ci sono 4 fotografi e 5 manifestanti.
Una pistola spunta dal lunotto posteriore.
Un ragazzo con la felpa grigia vede la pistola, si china e scappa.
Carlo, si avvicina, si china a raccogliere l’estintore, si alza in torsione per ritrovarsi quasi di fronte al retro del defender…
… Solleva l’estintore sopra la testa…

In questo momento, Carlo si trova a 3,37 metri di distanza dal lunotto posteriore del defender.
Sono le 17.27.
Parte il primo sparo.
Carlo cade a terra in avanti, trascinato dall’estintore che sta lanciando, e rotola sul fianco destro verso il defender.
I manifestanti presenti nella piazza scappano precipitosamente mentre parte un secondo colpo di pistola. I fanali della retromarcia del defender sono accesi.
Qualcuno grida “fermi, stop” al Defender che passa due volte sul corpo di Carlo, una prima volta in retromarcia sul bacino, la seconda in avanti sulle gambe.
Sono passati 5 secondi dal secondo sparo quando il defender è già in via Caffa, oltre lo schieramento della Polizia.
I giornalisti che si trovano vicino al defender cominciano a fotografare e riprendere Carlo a terra, che sta morendo.
Si avvicinano alcuni manifestanti che cercano di fermare lo zampillo di sangue che sgorga a ritmo cardiaco dallo zigomo sinistro di Carlo.
A questo punto, le forze di polizia avanzano, sparando lacrimogeni e disperdendo i pochi manifestanti ancora nei pressi.
Le forze di polizia circondano il corpo.
10 minuti dopo, un’infermiera del GSF che cerca di soccorrere Carlo sente ancora il suo cuore che batte. Arriva una seconda infermiera.
Le infermiere tolgono il passamontagna a Carlo e notano sulla fronte una grossa e profonda ferita che non sanguina, una ferita, dunque, che è stata provocata da un colpo in fronte inferto dopo l’uccisione. Sulla tempia destra di Carlo ci sono abrasioni e ferite.
Più di un testimone racconterà di aver visto rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno preso a calci in testa Carlo prima che arrivassero le infermiere del GSF.

Nella relazione del primo semestre 2002, i Servizi Segreti italiani hanno ammesso “infiltrazioni di elementi di estrema destra tra i black block a Genova durante le manifestazioni anti-G8”.

Tutto quanto raccontato è visibile dai numerosi filmati elencati in questo sito alla voce “Bibliografia”, o dalle numerose fotografie riportate nelle contro-inchieste.
Sul Black Block e l’assalto al Carcere di Marassi si veda in particolare “Le strade di Genova”, di Davide Ferrario.

» La ricostruzione e qualche domanda

 

 

Fonte:
http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/20lug.php

Nel sito del Comitato Piazza Carlo Giuliani è presente molto altro  materiale, tra cui videi di documentari che ricostruiscono l’omicidio. Rinvio alla visita del sito stesso.

Su Carlo Giuliani ho letto un paio di libri di cui consiglio la lettura. Si tratta di una raccolta di racconti  dedicati a Carlo e pubblicati a dieci anni dalla sua uccisione e di un grafic novel che ne racconta la vita.

Per sempre ragazzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CARLO GIULIANI

 

La famiglia Giuliani da quel giorno lotta per sapere la verità sull’omicidio del figlio, sui fatti del g8 di Genova 2001 e dà il suo sostegno anche per tutti gli altri casi di malapolizia. Costante è dunque l’impegno della madre Haidi Gaggio Giuliani , cofondatrice, insieme a Francesco Barilli, del sito http://www.reti-invisibili.net/, del padre Giuliano e della sorella Elena.

Qui gli ultimi articoli sull’omicidio di Carlo:

G8, "Giusto sparare a Giuliani" Sallusti a giudizio per diffamazione

 

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/23/APcfvxoF-giuliano_giuliani_voglio.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/06/26/APbPurpF-giuliano_giuliani_morto.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/10/09/AQhu73c-ritorna_morte_giuliani.shtml

http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/01/27/AQ0MALdB-credevo_colpito_giuliani.shtml

http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/03/27/news/g8_giusto_sparare_a_giuliani_sallusti_a_giudizio_per_diffamazione-82065957/

Segnalo il prossimo evento organizzato per ricordare Carlo:

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/?tribe_events=per-non-dimenticarlo-genova-19-20-luglio-2014

Genova 30 giugno 1960. No al governo Tambroni e al Congresso dell’MSI

30 giugno 2013 alle ore 11.53

La lotta paga!

A Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza, l’antifascismo è un valore ancora molto vivo nel 1960, quando il Msi (Movimento Sociale Italiano) annuncia che terrà nel capoluogo ligure il proprio Congresso nazionale a partire dal 2 luglio. La sede prescelta è il Teatro Margherita, a pochi passi dal ponte monumentale in ricordo dei Caduti per la libertà. Ad accendere ancor più gli animi la comunicazione che presiederà l’evento quel Carlo Emanuele Basile, ultimo prefetto della Repubblica di Salò, soprannominato il boia per le responsabilità nella morte e deportazione di antifascisti e comunisti. Fu subito chiaro che si trattava di un tentativo di reinserire il fascismo alla guida del paese, manovra resa possibile dalla costituzione ad opera di Ferdinando Tambroni, pochi mesi prima, di un monocolore democristiano eletto grazie ai voti determinanti del Msi, esecutivo che creò contrasti nella stessa Dc.

 

 

All’inizio di giugno prende avvio una mobilitazione che vede uniti operai e intellettuali, portuali e studenti, partigiani e giovani proletari con quelle “magliette a righe” che diverranno il simbolo della rivolta. In un susseguirsi di cortei, comizi, forme di boicottaggio individuale, si arriva allo sciopero provinciale proclamato dalla Cgil per il 30 giugno. La Cisl lascia i propri iscritti liberi di aderire, la Uil si schiera contro. Centomila persone attraversano in corteo la città. Al termine del comizio i sindacalisti invitano i presenti a tornare a casa. In molti non ubbidiscono, e in piazza De Ferrari, lanciando slogan e canti, circondano le camionette della polizia. Idranti, lacrimogeni e caroselli non bastano a sedare la rivolta. La piazza diviene un campo di battaglia. I poliziotti, colpiti da pietre, bottiglie, sedie, sparano colpi di arma da fuoco. Sorgono barricate, vari gipponi sono rovesciati e incendiati. Un ufficiale è gettato in una fontana, molti celerini vengono disarmati. Numerosi i feriti da entrambe le parti. I manifestanti si fanno inseguire nel dedalo dei carruggi, dove la polizia è bersagliata da pietre e vasi di fiori. I lavoratori sono padroni delle strade. L’invito alla calma dei dirigenti dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) viene accettato solo quando la Celere inizia a ritirarsi. Il processo contro i manifestanti si concluderà con 41 condanne fino a 4 anni e 5 mesi.

 

 

Il 1 luglio nuovi reparti di polizia e carabinieri affluiscono in una città blindata: zone bloccate da sbarramenti di filo spinato e cavalli di Frisia. Banche, stazioni, edifici pubblici sono presidiati. Tambroni conferma che il congresso si terrà. Nella notte il clima è pre-insurrezionale: trattori avanzano verso gli sbarramenti, nei quartieri del porto si confezionano molotov, le organizzazioni partigiane creano un comitato pronto a prendere il governo della città. Il congresso missino, inizialmente spostato a Nervi, viene annullato all’alba del 2. La città che nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, restò per due giorni in mano al popolo armato, era riuscita a impedire il congresso. Una grande manifestazione celebra la vittoria.

 

 

Lo scontro sociale e politico rimane però particolarmente aspro. Tambroni emana direttive per impedire con la forza le manifestazioni contro il governo. Il tributo di sangue pagato nei giorni successivi dalle masse popolari sarà molto alto. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, la polizia provoca il primo morto, Vincenzo Napoli. Il 6 luglio squadroni a cavallo caricano gli antifascisti a Roma, a Porta San Paolo, ferendo alcuni deputati di Pci e Psi. Il 7 luglio gli scontri si spostano a Reggio Emilia, dove muoiono cinque operai: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi e Afro Tondelli. L’8 luglio la Cgil indice uno sciopero generale in tutta Italia. A Palermo vengono uccisi Francesco Vella, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo e Andrea Cangitano, a Catania Salvatore Novembre. Centinaia i feriti. Il 19 luglio Tambroni si dimette, dando avvio alla stagione del centrosinistra.

 

 

Scheda di Paola Staccioli , in Piazza bella piazza.

Gli scontri in piazza de FerrariGli scontri in piazza de Ferrari

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/genova-30-giugno-1960-no-al-governo-tambroni-e-al-congresso-dellmsi/10151561303618264

Giorgiana Masi

 

Scheda a cura di Paola Staccioli
Il 12 maggio 1977, nell’anniversario della vittoria referendaria sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare in vigore a Roma dopo la morte, il 21 aprile, dell’agente Passamonti nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi della nuova sinistra aderiscono all’iniziativa, per protestare contro il restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima repressivo, favorito dall’appoggio esterno del PCI al cosiddetto “governo delle astensioni”, il monocolore democristiano guidato da Andreotti. Per far rispettare, a qualsiasi costo, il divieto, il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali, in alcuni casi travestiti da “autonomi”. Fin dal primo pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti, passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati. Con il passare delle ore la resistenza della piazza si fa più decisa, e vengono lanciate le prime molotov. Mentre nelle strade sono in corso gli scontri, i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, fra gli insulti di quasi tutte le forze politiche. Mancano pochi minuti alle 20 quando, durante una carica, due ragazze sono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti e carabinieri. Elena Ascione rimane ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studentessa del liceo Pasteur, viene centrata alla schiena. Muore durante il trasporto in ospedale.
Le chiare responsabilità emerse a carico di polizia, questore, Ministro dell’Interno, porteranno il governo a intessere una fitta trama di omertà e menzogne. Cossiga, dopo aver elogiato il 13 maggio in Parlamento “il grande senso di prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, modificherà più volte la propria versione dei fatti. Costretto dall’evidenza ad ammettere la presenza delle squadre speciali – tra gli uomini in borghese armati furono riconosciuti il commissario Gianni Carnevale e l’agente della squadra mobile Giovanni Santone – continuerà però a negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati. L’inchiesta per l’omicidio si concluse nel 1981 con una sentenza di archiviazione del giudice istruttore Claudio D’Angelo “per essere rimasti ignoti i responsabili del reato”. Successive indagini hanno tentato, senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo mortale in un “autonomo” deceduto da tempo, oppure nel latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il massacro del Circeo.

 

Fonte:

Mario Salvi

 
Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi
In occasione dell’esame, da parte della Cassazione, del caso dell’anarchico Giovanni Marini, la sinistra rivoluzionaria organizza un presidio davanti alla sede della corte, il Palazzaccio di piazza Cavour a Roma. Condannato in appello a 9 anni di reclusione, Marini era accusato di aver reagito a un assalto fascista, disarmando il giovane missino Carlo Falvella del proprio coltello e ferendolo a morte durante la colluttazione. Il fatto era avvenuto nel luglio 1972 a Salerno, in un clima di forte tensione creato nella città dalle numerose azioni squadriste: aggressioni a militanti della sinistra, devastazioni di sedi politiche e incursioni nelle redazioni di giornali. Marini, che nel 1975 vinse il Premio Viareggio per la poesia con il volume E noi folli e giusti, prima dell’arresto era impegnato in una controinchiesta su un anomalo incidente stradale che nel 1970 aveva provocato la morte di cinque anarchici calabresi, nei pressi di Roma, dove si stavano recando per consegnare alcuni loro documenti, mai ritrovati, sulle stragi che iniziavano a insanguinare l’Italia. Il “caso Marini” assurse in quegli anni a simbolo dell'”antifascismo militante”, producendo una mobilitazione molto sentita non solo nell’area anarchica e della sinistra rivoluzionaria, ma anche nel mondo della cultura.
Il 7 aprile 1976, dopo la conferma della condanna da parte della Cassazione, un gruppo di militanti dei Comitati Autonomi Operai decide di staccarsi dal presidio di piazza Cavour per effettuare un’azione contro il Ministero di Grazia e Giustizia. Vengono lanciate alcune bottiglie incendiarie, a puro scopo dimostrativo, verso il lato posteriore dell’edificio. L’agente di custodia Domenico Velluto, in servizio davanti al Ministero, si getta all’inseguimento dei giovani che fuggono. In via degli Specchi, ormai lontano dal luogo in cui erano state tirate le molotov, la guardia carceraria apre il fuoco uccidendo con un colpo alla nuca il giovane comunista Mario Salvi, 21 anni, militante del Comitato Proletario Zona Nord, struttura del quartiere di Primavalle legata all’Autonomia Operaia. Arrestato il 15 aprile su ordine del sostituto procuratore Gianfranco Viglietta con l’accusa di omicidio preterintenzionale, il secondino sarà scarcerato alla fine di agosto per motivi di salute e in virtù di un “sincero pentimento”. L’8 luglio 1977 la Corte d’Assise lo assolverà per aver fatto uso legittimo delle armi. La sera stessa della sentenza, verso le 22, un giovane irrompe nella trattoria Sora Assunta, nei pressi di Campo de’ Fiori, dove Velluto stava festeggiando, e spara contro di lui alcuni colpi di pistola. Il secondino ne esce indenne, ma i proiettili feriscono a morte un suo amico. Su questo episodio sono ancora in corso indagini giudiziarie da parte della magistratura.
Giovanni Marini, profondamente segnato dalla dura detenzione, è stato stroncato da un infarto nel dicembre 2001, a 59 anni.”
Fonte:

Lino Aldrovandi: «Federico era il fratello di Francesco Lorusso»

lunedì 10 marzo 2014 21:52

Il papà di Federico: «Se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli. Siamo fratelli». Corteo a Bologna per l’11 marzo.

 


 

L’intervento del papà di Federico al presidio dell’8 marzo in via Mascarella dove, nel 1977, venne ucciso Francesco Lorusso. Nell’anniversario sono previsti il tradizionale appuntamento alle 10 e un corteo alle 18

di Lino Aldrovandi

L’11 marzo 1977, quando qui in questo posto, fu ucciso Francesco Lorusso, ma potrei fare tantissimi altri nomi di ragazzi leggermente più grandi di me morti assurdamente per mano “amica” (amica tra virgolette ovviamente), io ero un studente di quinta Itis e di lì a poco mi sarei diplomato come perito elettrotecnico. Giorgiana Masi, Roberto Franceschi, studenti universitari, alcune delle vittime uccise, di una lista lunghissima di tanti giovani, con un futuro e una vita davanti. Fino a qualche anno fa non sapevo chi fossero. Il mio pensiero e la mia preoccupazione, e forse me ne vergogno un poco, erano quelli di avere una fidanzatina, di giocare a pallone, di dire stronzate, di divertirmi. Questi ragazzi, invece, hanno dato la vita per degli ideali e questo li rende in un certo senso immortali.

“Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente”

Penso che chi ha scritto queste parole, contenute in un libro, sia una persona sensibile, speciale e grandiosa, testimone di questi tempi o meglio di “altri tempi” che è poi appunto il titolo del suo libro: Stefano Tassinari. Testimone indimenticato di un passaggio storico che non è servito ad evitare altre morti, figlie di “quei tempi”. La cara Haidi, madre di Carlo Giuliani, un giorno diceva a Patrizia: “perdonami Patrizia non sono riuscita a salvare Federico”. Cara Haidi anche io e Patrizia non siamo riusciti a salvare altri figli. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e chissà quanti. Stefano Tassinari, scrittore e poeta, con città natale Ferrara e città adottiva Bologna, ci ha lasciato un messaggio forte e chiaro: “non arrendetevi mai alle ingiustizie”. La vita è lotta, è resistenza, e non si può né contrattare né vendere.

La storia di Federico penso che la conosciate un po’ tutti e ringrazio Mauro Collina, ragazzo rivoluzionario ma dal cuore grande e giusto, che quest’anno mi ha invitato a partecipare qui con voi, in una città che amo, per condividere la memoria di un’altra ingiustizia, perché ogni giovane che muore, ricordiamocelo tutti, è una sconfitta atroce per lo Stato, ma soprattutto per chi, questi giovani, avendoli conosciuti ed amati, è costretto a sopravvivere.

Cosa possiamo fare?

Stare uniti e non stancarci mai di chiedere che i diritti di “tutti” siano sempre rispettati, e mai calpestati, soffocati o uccisi come i nostri ragazzi.

C’è una frase famosa che credo ci accomuni tutti: “se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli”.

Siamo fratelli.

Ecco anche il comunicato che convoca le iniziative per l’anniversario dell’11 marzo:

“L’istruttoria svolta contro di noi ha avuto caratteri di inquisizione contro il movimento. Essa è una mostruosità giuridica prodotta da una mostruosità politica, ha avuto origine dal tentativo di trovare dei ‘responsabili’ cui attribuire la gravissima colpa di avere sconvolto la pace sociale regnante nella città ‘più democratica del mondo’…

Il nostro movimento è stato represso duramente perché ha rifiutato di integrarsi, perché si è posto come punto di riferimento alternativo per gli strati emarginati e sotto-occupati, per lottare contro le loro precarie condizioni materiali…

Ciò che si è dovuto colpire è quello che rappresentiamo, la nostra colpa gravissima è di essere tenuti responsabili delle autoriduzioni, delle occupazioni, della contestazione alla amministrazione comunale; affermiamo che quello che si vuole introdurre a livello giuridico è un vero e proprio concetto di rappresaglia”.

Queste parole furono lette dai compagni arrestati nelle giornate del marzo ’77 nell’aula del tribunale di Bologna, durante il processo. Andrebbero bene anche in questi giorni come risposta ai provvedimenti repressivi (i divieti di dimora) notificati il 6 marzo scorso a 12 compagni che nel maggio 2013, assieme ad altre centinaia di manifestanti, si opposero alla militarizzazione di Piazza Verdi.

Quella fu una giusta pratica di resistenza che studenti e precari attuarono per ribadire nel cuore della cittadella universitaria, come in qualsiasi altra piazza pubblica i propri spazi di libertà e autonomia.

Del resto, dal ’77 ad oggi, Piazza Verdi ha visto tante volte tentativi di normalizzazione ed ogni volta nuove generazione di movimento si sono contrapposte e battute contro questi tentativi.

Per queste ragioni, condividiamo la scelta di organizzare per il pomeriggio dell’11 marzo un corteo che ricordi l’assassinio di Francesco Lorusso da parte dei Carabinieri, avvenuto in via Mascarella 37 anni fa, e per esprimere la solidarietà incondizionata ai compagni colpiti dai provvedimenti di Polizia di questi giorni.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare alla manifestazione.

“Siamo colpevoli di avere professato pubblicamente le nostre idee, di appartenere al movimento 77, di non accettare alcun compromesso”, affermarono i compagni arrestati davanti al giudice. “Da quel giorno dell’11 marzo abbiamo cercato costantemente di spostare lo squilibrio dalla paura verso la libertà”. Oggi siamo ancora lì che ci stiamo provando.

Vag61 – Spazio libero autogestito

– alle 18 manifestazione @ piazza Verdi

– dalle 21 @ Vag61 mostra e proiezione “Le strade di marzo”

La mattina dell’11 marzo 1977 a Bologna, in seguito a un contrasto sorto nell’Istituto di Anatomia fra alcuni militanti del movimento e il servizio d’ordine di Comunione e Liberazione, i giovani del gruppo cattolico si barricano all’interno di un’aula, invocando l’intervento delle forze di polizia. Appena giunti sul posto, con mezzi spropositati, i carabinieri si scagliano contro gli studenti di sinistra intenti a lanciare slogan. La carica fa subito salire la tensione. Nel corso degli scontri successivi, che interessano tutta la zona universitaria, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua, viene raggiunto da un proiettile mentre sta correndo, insieme ai suoi compagni, per cercare riparo. Muore sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Alcuni testimoni riferiranno di aver visto un uomo, poi identificato nel carabiniere ausiliario Massimo Tramontani, esplodere vari colpi, in rapida successione, poggiando il braccio su un’auto per prendere meglio la mira. Lo sparatore, arrestato agli inizi di settembre e scarcerato dopo circa un mese e mezzo, sarà in seguito prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi.

Quando si diffonde la notizia dell’assassinio, migliaia di persone affluiscono all’Università. Dopo che il corteo, partito nel pomeriggio, viene disperso da violente cariche, una parte dei manifestanti occupa alcuni binari della stazione ferroviaria, scontrandosi con la polizia, mentre altri si dirigono verso il centro della città e sfogano la propria rabbia anche infrangendo le vetrine dei negozi. Le iniziative di protesta dei giorni successivi sono duramente represse. Numerosi i fermi e gli arresti. Finiscono in carcere, tra gli altri, i redattori di Radio Alice, emittente dell’area dell’Autonomia Operaia chiusa dalla polizia armi alla mano.

I fatti di Bologna caricano di tensione l’imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.

Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell’assassinio. In quell’occasione al fratello di Francesco fu vietato l’intervento dal palco.

[Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi]

 

Fonte:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99247&typeb=0&Lino-Aldrovandi-