Video intervista a Samantha Comizzoli, sequestrata ed espulsa dalla Palestina dall’esercito israeliano, rientrata il 18 giugno a Fiumicino dopo una settimana di detenzione

Rapita dai soldati israeliani e rinchiusa per ore in una cella di due metri per uno, Samantha Comizzoli non ha risposto alle domande ed ha dichiarato: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”. La trascrizione completa della videointervista rilasciata a poche ore dal suo rientro in Italia, dopo una settimana di detenzione nelle carceri israeliane e sotto pesanti torture psicologiche.

Il video completo dell’intervista

 

<<Venerdì 12 giugno 2015 stavo uscendo con un taxi dalla città di Nablus, a pochi km dalla città di Nablus, una strada principale, il taxi era in corsa , è uscita un jeep dei soldati israeliani che era nascosta in mezzo agli ulivi, ha affiancato dapprima il taxi, poi si è posizionata davanti al taxi, tutto questo in corsa, il taxi ha iniziato a rallentare, la jeep ha iniziato a rallentare, e mentre erano in corsa i soldati israeliani sono scesi dalle porte del retro della jeep e hanno assaltato il taxi puntando le armi.
Mi hanno aperto la portiera urlando e hanno iniziato a farmi domande, domande generiche, non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo e… continuavano a insistere che stavo andando ad una manifestazione, le domande sono diventate sempre più pressanti nei miei confronti e nel frattempo facevano domande al taxista e ad un ragazzo seduto nel posto davanti, nel taxi.

Il tempo passava, dopo un po’ mi hanno preso la borsa e preciso che nella prima frangia di domande non ho dato i documenti, non ho voluto dare i documenti, l’unica cosa che continuavo a dire è “voglio chiamare il consolato italiano”, e mi è stato negato, ovviamente. Gli ho ricordato che non potevano trattenermi più di due ore, perché conosco i miei diritti, e mi hanno risposto: “facciamo quello che vogliamo perché siamo soldati”. Dopo di che, appunto, mi hanno preso la borsa, mi hanno tirato fuori quello che c’era nella borsa, quindi un giubbino giallo fosforescente con la scritta “PRESS”, la kefiah, il portafoglio, hanno guardato dentro il portafoglio e poi hanno trovato il passaporto e quindi hanno detto “qui c’è il tuo passaporto e non ce l’hai dato prima, e poi hanno tirato fuori, io purtroppo come molte donne non pulisco mai la borsa (e quindi c’era molta spazzatura), oltre a fazzoletti di carta e cose varie c’erano molte carte, e c’era anche una cosa che io ho fatto con Photoshop mettendomi l’hijab musulmano e mettendo le generalità così, false, ma fatta da me in Photoshop e nemmeno in grandezza naturale e hanno detto “Questo è un documento falso?” , ho risposto “beh, no, lo vedete benissimo che questa è una cosa che non posso presentare”, mi hanno detto “Si, certo, ma perché l’hai fatto?” e ho detto “Ma perché è uno scherzo”, l’ho fatto io, così, l’ho fatto io con Photoshop, è una cosa che non posso assolutamente usare”. Sono passate quattro ore, durante queste quattro ore sono arrivati gli shabak israeliani, eh… quindi i servizi segreti, e poi la polizia israeliana. Sia gli shabak che la polizia israeliana sorridevano, quindi erano molto contenti di avermi trovata lì. Anche loro non mi hanno mai chiesto come mi chiamavo, chi ero, cosa facevo, eh… anche se all’inizio i soldati mi hanno chiesto “cosa fai a Nablus” e gli ho risposto “Niente.”.

Dopo un po’ mi hanno detto: “OK, non sei in stato di arresto ma devi venire con noi perché ti dobbiamo interrogare”. Eh… non ho opposto resistenza, perché per me ormai era andata, quello era un chiaro rapimento, e comunque questo momento non poteva che esserci prima o poi, non me l’aspettavo con queste modalità ma sapevo che sarebbe arrivato, e nel taxi c’era una maschera antigas che il ragazzo palestinese ha detto “E’ mia”, ma nonostante questo loro hanno messo la maschera antigas dentro la mia borsa. Ironicamente hanno trovato una bandiera di Fatah e… essere presa con una bandiera di Fatah non mi entusiasmava sinceramente, ma sembrava che sapessero che non fosse mia perché non l’hanno messa né nella mia borsa, e nè l’hanno requisita addebitandola ad altre persone. Se la sono semplicemente messa in tasca, ed è sparita.

Eh… dopo di che hanno mandato via il taxi con il ragazzo palestinese e io sono rimasta seduta sulla strada, erano passate quattro ore e mezza sotto il sole, senz’acqua, con un soldato che mi puntava un fucile e la jeep della polizia israeliana. Dopo un po’ ho detto al soldato di spostare la canna del fucile e smetterla di puntarmi il fucile addosso, e lui l’ha spostata. E poi mi hanno fatto salire sulla jeep israeliana e mi hanno detto: “Ti ricordiamo che non sei in stato di arresto, al momento sei sotto investigazione, devi venire con noi”. Da lì mi hanno portato all’insediamento illegale di Ariel, dove mi hanno fatto aspettare per l’interrogatorio e gli shabak mi hanno interrogata. Ho risposto alle prime due domande, la prima è stata “a noi risulta che tu sei nel nostro paese, in Israele, in modo illegale da un anno e quattro mesi, ce lo puoi confermare?”, ho detto “Non posso confermarvi nulla e comunque i computer ce li avete voi, siete voi gli investigatori, fate il vostro lavoro”. Poi mi hanno chiesto appunto che cosa fosse quella… loro avevano una fotocopia di questa cosa fatta con Photoshop, e mi hanno detto “Che cos’è questa cosa?”, ho detto “E’ una cosa che ho fatto io con photoshop, vedete non è nemmeno nella grandezza naturale di un documento palestinese e mi hanno detto “Perché i soldati hanno dichiarato che tu non hai dato i documenti e dopo nello stesso verbale hanno dichiarato che tu l’hai dato come documento?”, ho detto “sinceramente io non l’ho dato come documento, non ho dato niente ai soldati perché io non dò nulla ai soldati, soprattutto se mi puntano addosso un’arma, quindi parlate con chi ha fatto il verbale.” . E da quel momento in poi ho detto “Mi state interrogando senza avvisare il consolato, senza un avvocato, quindi mi rifiuto di rispondere a tutte le domande che seguono, mi hanno preso le impronte digitali, il DNA [ prelievo salivare, ndr], fatto le fotografie, e mi hanno fatto aspettare ancora. Verso le dieci di sera mi hanno trasferita nella prigione di Ben Gurion, quando sono arrivata mi hanno fatto aspettare, mentre aspettavo ho chiesto ancora una volta di chiamare il Consolato italiano ma non mi hanno risposto, ho chiesto dell’acqua e non mi è stata data l’acqua nonostante fossero le 22:00, quindi ricordo che mi hanno presa alle 11:00 del mattino, quando sono arrivata all’interrogatorio ho riformulato nuovamente le stesse risposte “Non rispondo alle vostre domande perché non mi fate chiamare il consolato e non è in mia presenza e non c’è un avvocato quindi non rispondo a nessuna domanda” e  mi hanno chiesto: “A noi risulta che sei qua senza visto, questa è l’accusa che ti hanno fatto”, quindi era già sparito il discorso del documento fatto con photoshop, e mi hanno detto “Perché se eri qua senza visto non hai rinnovato il visto e sei stata qua in modo illegale?”, io ho risposto “Beh, perché per quanto mi riguarda se dovessi rinnovare un visto non lo vengo a chiedere a voi in un insediamento illegale, in un posto illegale, perché voi siete illegali, questa è la Palestina, non è Israele, quindi non vengo da voi a chiedere nulla”.

Dopo di che ho smesso di rispondere a tutte le domande e ho fatto questa dichiarazione: “Mi ritengo un prigioniero politico, questo è un rapimento, entro in sciopero della fame e rimango in questa prigione fino a quando non rilasciate i trecento bambini palestinesi che voi detenete nelle prigioni israeliane”.

MaherAbu

Da quel momento mi hanno messo in cella d’isolamento, in sciopero della fame. Sono ritornati di notte, io stavo dormendo, e mi hanno detto: “Ti sei dimenticata di firmare questi fogli”, erano tutti in ebraico, e ho detto, nonostante stessi dormendo, “questi fogli sono in ebraico e io non firmo nulla perché non ho dichiarato nulla”. Ho cercato di continuare a dormire e mi hanno acceso la luce.

Sono stata nella prigione di Ben Gurion due giorni e mezzo in sciopero della fame e in isolamento, mi facevano uscire 5 minuti la mattina e 5 minuti al pomeriggio per fumare una sigaretta. Mi hanno tolto l’unico libro che avevo, nonostante fosse un libro di José Saramago, “Il vangelo secondo Gesù Cristo”. Gli altri prigionieri non erano trattati come me, i prigionieri presenti erano tutti con problemi di immigrazione, potevano stare fuori, potevano fumare, nei miei confronti è partita una serie di punizioni psicologiche. La luce accesa di notte, hanno messo l’aria condizionata facendo raggiungere una temperatura glaciale alla cella, io stavo con due coperte ma ero comunque congelata. Ero in sciopero della fame e lì per resistere ho cercato di pensare non a quello che mi mancava ma a quello che avevo: quello che avevo era il mio corpo e quello spazio, e quindi a quello che potevo fare per resistere. Continuavo a camminare dalla porta alla fine del muro, avanti e indietro. A volte cantavo, ho fatto molti addominali, molte flessioni. Era un posto dove le persone continuavano a picchiare sulle porte di ferro giorno e notte chiedendo acqua, chiedendo di poter uscire, chiedendo di poter telefonare. Io non ho mai picchiato una volta perché non volevo chiedergli nulla. Non volevo chiedere nulla a loro, quello che mi davano mi davano, ma io non chiedevo nulla. Dopo due giorni e mezzo mi hanno trasferita nella prigione di Givon, quando sono arrivata lì avevo una maglietta della Palestina, che raffigurava la Palestina, e ho capito che hanno detto “portala, portala dentro, nella prigione”. Mi hanno fatto camminare in un’ala della prigione dove c’erano quattro o cinque prigionieri fuori che lavoravano e ho capito di essere in una prigione per israeliani, per coloni. I prigionieri mi hanno guardato, quando sono arrivata, con tutto l’odio che avevano e c’è stato un altro interrogatorio, sempre con le stesse domande alle quali io mi sono rifiutata per l’ennesima volta di rispondere e di firmare e ho detto: “Continuo lo sciopero della fame e rimango qua per i trecento bambini palestinesi che voi state detenendo e non esco fino a quando loro non raggiungono prima la libertà. Non posso dargli la mia schiena e uscire da qua pensando che loro rimangono dentro”.

Mi hanno detto: “Va bene, ti portiamo in cella, ti mettiamo in isolamento”. Mi hanno messo in una… non si può definire cella, era una gabbia di due metri per uno dove il soffitto potevo toccarlo con la mano, era un container con un water, e nessuna apertura, solamente una piccola feritoia sulla porta di dieci centimetri, e quindi non c’era luce. Sono rimasta lì un po’ di ore, durante queste ore dall’altra parte della parete del container ho capito che stavano torturando una persona, un uomo, molto probabilmente era su una sedia di quelle tipo da studio, con le rotelle, lo buttavano ripetute volte contro il muro, molto probabilmente con o delle secchiellate d’acqua o con un getto d’acqua e lo sentivo rantolare, era come se fosse nella mia cella perché erano pareti di un container, non erano pareti di muro o di legno, e lo sentivo rantolare… e poi l’acqua ha iniziato ad entrare anche dalla feritoia della mia cella.

Sono venuti a richiamarmi e mi hanno detto: “Questa sarà la tua cella, dovrai continuare a stare qui, se non smetti di rimanere in sciopero della fame, perché sei un problema di sicurezza per noi.” Ho detto: “Che problema di sicurezza sono? Io ho solo il mio corpo, qual è il problema della sicurezza?”, “Se smetti di essere in sciopero della fame” [hanno risposto, ndr] “ti mettiamo con le altre”. Ho capito che non potevo più continuare, che non avrei resistito per giorni, per me la priorità non era la protesta per il mio arresto, ma resistere in prigione per i bambini. E quindi ho terminato lo sciopero della fame in quel momento perché il mio obiettivo era resistere il più possibile in prigione per smuovere sul rilascio dei bambini. Quindi in quel momento mi hanno dato da mangiare, hanno fatto l’ispezione al mio bagaglio, mi hanno tolto ancora il libro, mi hanno tolto tutte le magliette che riguardavano la Palestina, mi hanno tolto anche una maglietta che era per la libertà degli animali nello zoo [ Samantha ha condotto una lunga battaglia per la chiusura dello zoo di Ravenna ndr] ma nell’incertezza, siccome era scritto in italiano e non capivano bene che cosa fosse mi hanno tolto anche quella, e mi hanno tolto un maglione, forse perché se volevano ancora usare il discorso dell’aria condizionata avere un maglione sarebbe stato un problema, e poi mi hanno tolto il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette, mi hanno detto “No, non puoi averla”, e ho detto “Perché? Perché non posso avere il tabacco con la macchinetta per fare le sigarette?” [le hanno risposto, ndr] “Perché puoi metterci dentro della droga”, e ho detto : “dove ce l’ho la droga?” e [le hanno risposto, ndr] “No, la puoi trovare in prigione, però puoi comprare le sigarette qua”, ho detto: “Va bene”.

Poi mi hanno fatto un’ispezione corporale, completamente nuda, facendomi abbassare, aprendomi le chiappe e infilando una mano dentro, mi hanno fatto girare, alzare il seno, dopo che hanno fatto questo mi hanno guardato e mi hanno detto: “Hai una pistola?”…..

OK, poi mi hanno dato una maglietta bianca, perché io, appunto, avevo indosso questa maglietta della Palestina, i vestiti che avevo addosso e mi hanno portato nella cella con le altre donne. Era nel braccio dell’immigrazione e mi hanno messo in una cella dove c’erano due donne, che ho capito subito …due donne della Costa d’Avorio, dove tutta la prigione delle donne non parlava con queste due donne perché avevano un carattere terribile… però siccome anch’io ho un carattere terribile, io sono stata… difendendo quello che avevo di mio, cioé il mio corpo, la mia mente, il mio cuore, e loro difendevano quello che avevano perché erano lì da due anni e sei mesi, e difendevano quella cella che per loro era tutto quello che avevano, come se fosse la loro casa, non uscivano neanche quando aprivano le porte. Dopo di che abbiano iniziato a fare amicizia, quindi ho un ricordo di loro bellissimo, di queste due donne, di grande rispetto, perché facevano resistenza all’interno della prigione per poter diventare rifugiati politici, quindi dovevano passare cinque anni in prigione, con i figli fuori, ho detto loro che non condividevo il posto che avevano scelto per diventare rifugiati politici ma potevano camminare sopra la mia testa e tutto il mio rispetto per la resistenza che avevano a stare lì dentro. Ovviamente con tutti i problemi loro mentali che portava come conseguenza vivere… avere questo tipo di vita. Dunque, la prigione di Givon ovviamente toglie la libertà alle persone, è un cimitero per i vivi come tutte le prigioni. Porte che venivano sbattute ripetutamente, ispezioni di giorno e di notte, non puoi mai alzare la voce verso la polizia, cosa che invece io ho fatto subito per una donna che si era sentita male e ho chiesto l’intervento del dottore [una donna ha perso i sensi, Samantha ha chiesto a gran voce che venisse chiamato un medico, ma sono passati circa 20 minuti prima che le guardie, che osservavano la scena, reagissero chiamando un sanitario, ndr] .

Sono riuscita a contattare il consolato di Tel Aviv, il console Nicola Orlando è stato molto umano, è venuto a trovarmi diverse volte in prigione, ci siamo sentiti molte volte al telefono. Il mio telefono miracolosamente ha iniziato a funzionare dopo un giorno nella prigione di Givon in modalità roaming nonostante Jawal non potesse funzionare lì [operatore di telefonia mobile palestinese attivo a Gaza e in WestBank ma che utilizza l’infrastruttura di rete israeliana al di fuori di quei territori, per tanto il roaming è normalmente interdetto ai numeri Jawal o con costi in accessibili e, in ogni caso, passa direttamente sotto il controllo delle compagnie telefoniche israeliane ndr]. Arrivavano a me e ad altri contatti che avevo sul telefono telefonate strane, ovviamente, quindi mi stavano facendo telefonare i servizi segreti, gli shabak, forse… non lo so, pensavano di scoprire chissà che cosa, io non ho niente da nascondere, quindi… Ero assolutamente tranquilla e facevo le mie telefonate e ricevevo le mie telefonate.
OK, dopo questa parentesi nella prigione di Givon, da quando è intervenuto il consolato devo dire che hanno iniziato ad avere un metodo un po’ più soft nei miei confronti, non più come quello di prima, sebbene continuassero nei miei confronti ad avere questa procedura di “prigioniero politico” e non di problemi con l’immigrazione. Una mattina mi son venuti a chiamare, non mi hanno detto nulla, mi hanno portato in uno stanzino molto piccolo. C’era una persona a un tavolo e poi c’era un traduttore in italiano e un soldato, hanno iniziato a farmi delle domande, ho capito che quello aveva la veste più o meno di un giudice, anche se quello non era un tribunale, non c’era un avvocato, era dentro uno stanzino di un container. Mi hanno chiesto “sei pronta a firmare i fogli che ti abbiamo dato e a lasciare il nostro paese?”, gli ho detto “No”, “Va bene puoi andare”, ho detto “Posso andare cosa, cosa vuol dire, che cos’è questo?”Ci rivediamo tra un mese, se trovi un avvocato che ti rappresenta possiamo dialogare, al momento ci rivediamo fra un mese”.
Ho riferito tutto quello che è stato al consolato, fino a quando appunto non è arrivato il messaggio l’altro ieri del console e in simultanea me lo stavano comunicando a voce, che avevano disposto la mia deportazione da Israele, così come lo chiamano loro, il giorno dopo con volo El Al, volo israeliano. Ho detto che avrei fatto resistenza passiva per non farmi portare via ma sempre con l’obiettivo dei trecento bambini.

Hanno disposto il mio trasferimento appunto al mattino presto, avevo detto che avrei fatto resistenza passiva, quindi che mi prendessero con la forza, ricordando loro che gli uomini non mi potevano toccare perché era molestia sessuale, che dovevano esserci le donne. Mi hanno fatto stare ancora una volta in quello stanzino da due metri per uno dove mi avevano messo la prima volta nella prigione di Givon insieme alle altre donne senza chiudere la porta, dopo di che mi hanno ridato tutto il materiale, quasi tutto, il materiale che mi avevano confiscato all’ingresso. Quando è arrivato il momento del trasferimento io ho detto: “Non posso, non posso uscire con le mie gambe, mi sono seduta per terra e hanno fatto salire tutti nell’autobus, compresa la mia telecamera, e mi hanno detto “va bene, noi abbiamo deciso di non usare la forza con te”, sono entrati tutti e mi hanno detto: “Tu resterai qua, in cella d’isolamento, fino al prossimo volo” e in quel momento, primo sapevo che non avrei saputo resistere nella cella d’isolamento ancora, e la mia telecamera era andata; ma, secondo, ho pensato che diventava una scelta irresponsabile per delle persone che mi stavano aspettando in Italia, che si erano trasferite a Roma per venirmi a prendere. E comunque era andata, oramai, ho visto che il consolato non aveva preso posizione sui bambini, che non era partita nessuna trattativa, che se n’erano fottuti dei diritti umani e che, comunque anche il console di Tel Aviv mi aveva confermato, “non sei stata per noi del consolato e della Farnesina presa in considerazione come prigioniero politico ma solamente con problemi d’immigrazione”, quindi per quanto riguarda essere un ago della bilancia per la liberazione dei bambini e per una battaglia dei diritti umani il consolato italiano, ma soprattutto la Farnesina, e questo lo dico io, se n’è sbattuta il cazzo, quindi lascia in prigione trecento bambini, nonostante avesse avuto la possibilità magari di trattare e usare me come ago della bilancia. Quindi in quel momento sono salita sull’autobus e mi hanno poi trasferita con una… jeep israeliana blindata fino all’aereo, io non ho mai visto l’aeroporto Ben Gurion. Quando sono salita sull’aereo è partita una protesta da parte delle persone nell’aereo perché erano tutti israeliani e mi hanno visto arrivare con la kefiah e accompagnata dalla polizia. Sono arrivata a Roma, sono stata accolta in un primo tempo dalla polizia italiana che ha dovuto formulare un report su quello che era successo e poi sono stata accolta dai miei amici e questo è stato un momento di felicità… per me. Nella jeep israeliana che mi ha portata all’aereo sono stata chiusa nella parte del retro, in un posto completamente chiuso e mi hanno messo l’aria calda, bollente, quindi non potevo respirare e quindi ho dovuto bussare dopo un po’ sul vetro e chiedere di poter respirare…e mi hanno detto “scusa, ci siamo dimenticati” e mi hanno dato l’aria.

Dunque, le considerazioni: so che in Italia sono usciti subito sulla stampa, sui media [ es. LA STAMPA, ANSA ndr ] , una dichiarazione ufficiale di questo documento falso che io avrei fornito ai soldati. Ho verificato questa cosa tramite il Consolato e la Farnesina per capire chi aveva rilasciato questa dichiarazione, questo è quello che è successo: mentre mi stavano trasferendo da Ariel alla prima prigione io ero nella jeep con due poliziotti, il poliziotto ha ricevuto una telefonata e ha parlato in inglese, e quindi ho capito che cos’ha detto, ha detto “la signora al momento non è in arresto, è in detenzione amministrativa, perché è priva di visto, quindi è in posizione illegale in Israele, e ha un documento falso palestinese ma è sotto indagine.” Poi, quando ha chiuso la telefonata il poliziotto mi ha detto: “Era il consolato di Gerusalemme, hanno chiesto, appunto, perché eri stata presa”. In quel momento mi sono meravigliata, anche la sera stessa, fino a quando poi non ho parlato con Tel Aviv, perché ho detto: “Caspita, il consolato finalmente ha la possibilità di mettersi in contatto e di sapere come sto e di poter parlare con me, non l’ha fatto, il Consolato di Gerusalemme, ma ha solamente verificato quali erano in quel momento le accuse, accuse che poi sono cadute, e l’ha comunicato alla stampa. Questo comportamento poi non c’è stato dal Consolato di Tel Aviv e dalla Farnesina, quindi io ho ritenuto veramente grave il comportamento del Consolato di Gerusalemme che parrebbe aver avuto un atto di diffamazione di una cittadina italiana che stava vivendo un atto di violenza, che io definisco rapimento perché non c’è nulla di legale, non c’è nessun foglio che mi accusa di qualcosa, non c’è nessun foglio che dice che io sono stata arrestata, che sono stata detenuta, nulla, non c’è nulla, quindi io sono stata a tutti gli effetti rapita da Israele… Quindi in quel momento il Consolato di Gerusalemme ha diffamato una cittadina italiana che era in queste condizioni, non ha cercato di mettersi in contatto e parlare con me per chiedere come stavo, che cosa mi stava accadendo, se mi avevano fatto qualcosa, cioè per chiedere qual erano le mie condizioni di cittadina italiana. [ il Consolato di Gerusalemme è lo stesso che di recente ha negato i visti ai due palestinesi, tra i protagonisti dell’ultimo docufilm “israele, il cancro”, per il tour italiano del film, nel mese di maggio]

Questa è una cosa molto grave, credo che la Farnesina dovrebbe prendere provvedimenti, non per me ma per i futuri cittadini italiani che, io non gli auguro possa capitare questo ma ai quali potrebbe capitare, perché il Consolato deve lavorare, appunto, per la Farnesina e per il governo italiano, non per il governo di Israele o per i media. Altresì dico che i pennivendoli che si affidano veramente alla prima scoreggia di un piccione per pubblicare notizie in questo modo, ecco a loro ricordo che in Palestina i giornalisti per documentare la verità sul posto si fanno sparare, si fanno sparare negli occhi, in faccia, al petto, nelle braccia, perdono le gambe, per documentare sul posto quello che è la verità. Ecco, voi siete la vergogna dei diritti umani,così come è Israele, cioè chi vi paga.

GiornalistiPalestina

Io in questo momento sono ovviamente provata, non ho mai parlato, non ho mai bussato su quelle porte per chiedere qualcosa loro, ho resistito perché avevo una missione in testa, che non era per me, era per i diritti umani e per i bambini e… continuerò a supportare la resistenza palestinese e a lavorare per i diritti umani. Adesso ho solo bisogno di un po’ di tempo per cercare di svuotare la mia mente dalla merda che Israele ha infilato dentro e fare entrare nuove idee. Grazie a tutti quelli che mi hanno supportato, so che siete stati in tanti, ma non avete supportato me, avete supportato i diritti umani quindi, visto che è responsabilità di tutti io vi ringrazio.

Ho chiesto di fornirmi documentazione di quello che è accaduto, di avere uno stralcio di qualcosa, del mio stato, a voce mi  hanno detto che sono stata deportata per 10 anni dalla Palestina, che non potrò più rientrare, ma che è tutto nei loro computer e che quindi non rilasciano nulla, nulla di cartaceo, di nero su bianco. Ovviamente quello che mi fa soffrire è il pensiero di non tornare più in Palestina e di non poter riabbracciare più i miei amici, e che loro sono là e che non posso più aiutarli sul posto, non posso più fare da scudo umano per tanti mini-shebab, tanti shebab , questa è la cosa che mi fa più male..

Non sono mai stata sola, ho sempre avuto i diritti umani con me, ma soprattutto ho sempre avuto, con me, anche quando non riuscivo a mettermi in contatto perché ero in isolamento, ho sempre avuto con me Simone, Simonetta e Sauro. E dire grazie è troppo poco, mi stanno accogliendo anche ora che non ho più nulla, perché quando sono partita per la Palestina io ho venduto tutto quello che avevo perché ho perso la residenza, e quindi  i problemi sono parecchi in questo momento ma, insomma, sono con loro… sono la mia famiglia in questo momento e lo saranno sempre.

Samantha Comizzoli>>

Per supportare e diffondere il preciso e puntuale lavoro d’informazione di Samantha Comizzoli:

Il BLOG di SAMANTHA COMIZZOLI

Il primo documentario sulla resistenza palestinese (2014), SHOOT (qui il video in streaming)

Il blog del documentario presentato in un tour italiano lo scorso mese, “israele, il cancro”

TGMaddalena, nel condividere e sostenere la battaglia di Samantha per la liberazione di tutti i bambini palestinesi, detenuti e torturati nelle carceri israeliane, ha aperto una campagna per supportare le prossime iniziative e consentire a Samantha di proseguire nel suo impegno per i diritti umani, per la Palestina e per la Libertà.

 

Trascrizione completa della videointervista, a cura di Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/intervista-samantha-comizzoli-sequestrata-ed-espulsa-da-israele/

 

SAMANTHA E’ LIBERA

La nostra sorella e compagna Samantha Comizzoli è appena arrivata all’aeroporto di Fiumicino.
Dopo un anno e 4 mesi passati a Nablus, documentando quotidianamente ed appassionatamente l’oppressione sionista e la corruzione della polizia palestinese dalla sua pagina FB e dal suo blog (http://samanthacomizzoli.blogspot.it/ ), è stata fermata il 12 giugno dall’esercito nazisionista mentre da Nablus andava a Kuffr Qaddum per la mobilitazione settimanale. Il motivo dell’arresto è stato, ufficialmente, il visto scaduto.

E’ stata condotta prima in un carcere sionista dell’insediamento di Ariel, e poi al centro di identificazione ed espulsione dell’aeroporto Ben Gurion, a tel aviv. Messa in ISOLAMENTO, ha rifiutato la difesa di un avvocato procuratole di rito da israele, ha rifiutato l’espulsione a meno che non fossero liberati le centinaia di bambini Palestinesi detenuti, ed ha lottato strenuamente per non lasciare la Palestina.
I media hanno dapprima taciuto, poi il tamtam sui socials li ha costretti a dare qualche notizia, comunque omissiva o distorta, se non infamante.

Le sigle “pro Pal”, dopo averla ignorata per mesi, ne hanno dato notizia in termini del tutto diplomatici.

Samantha ha guardato il mostro nazisionista negli occhi da molto vicino, e ne è uscita più Umana di prima. E’ stata ed E’ un’attivista LIBERA, al di sopra delle ideologie di comodo. E per questo, obiettiva.
I suoi due film-documentari su israele, “SHOOT” e “israele, IL CANCRO”, sono una coraggiosa denuncia della brutalità e della pervasività dell’occupazione.

israele ha riservato anche a lei una Nakba, l’allontanamento forzato dalla sua gente.

Sapendo quanto amaro è per lei questo rientro forzato, la abbracciamo dal profondo del nostro cuore, ed ora la nostra voce deve diventare più forte, a sostegno della sua e di chi, laggiù, si ritroverà un po’ più solo.
Ha lasciato la terra ed il popolo che erano diventati praticamente la sua vita e la sua gente.
Qui, ora ha tutti noi che l’abbiamo conosciuta ed amata.
In ogni caso, bentornata, Samantha!
FREE PALESTINE!!!

(grazie a Simonetta Zandiri e Sauro Trombini per le foto e la cura con cui hanno aggiornato)

foto di ‎Ogni popolo è Palestina - كل شعب فى العالم هو فلسطين‎.
foto di ‎Ogni popolo è Palestina - كل شعب فى العالم هو فلسطين‎.
foto di ‎Ogni popolo è Palestina - كل شعب فى العالم هو فلسطين‎.

SAMANTHA COMIZZOLI RIFIUTA DECRETO DI ESPULSIONE E DIFESA LEGALE: ” SE C’E’ UN AVVOCATO PRONTO A BATTERSI CON ME PER LA LIBERAZIONE DEI BAMBINI DETENUTI NELLE CARCERI ISRAELIANE ALLORA LO ACCETTO”

15/06/2015 ore 19:30
FreeSam6Arrestata il 12 giugno mentre da Nablus si stava recando ad una manifestazione a Kufr Qaddum in quello che sembra essere stato più un blitz mirato che non un fermo casuale, è stata detenuta prima nella prigione dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in ISOLAMENTO (per non meglio precisati “motivi di sicurezza”), e poi trasferita nel carcere di GIVON, dove è stata costretta sotto pesanti torture psicologiche ad interrompere il digiuno intrapreso dal momento dell’arresto, come unica forma possibile per proseguire la sua battaglia per la liberazione di tutti i bambini detenuti nelle carceri israeliane.
Samantha è stata arrestata in detenzione amministrativa perché il visto con il quale era entrata nel febbraio 2014 era scaduto da oltre un anno. Ha rifiutato l’assegnazione di un legale perché consapevole che non esiste alcuna possibilità di difesa in casi come questo: il visto è scaduto ed è quindi stata attivata la procedura di espulsione dopo una rapida udienza che si è svolta oggi nel carcere di Givon, alla presenza di un giudice, agenti di polizia, e nessun difensore. In realtà Samantha avrebbe anche accettato di buon grado un avvocato, se ne avesse trovato uno disposto ad affiancarla nella sua lotta per la liberazione dei bambini detenuti da Israele. Dal 1967 ad oggi secondo l’ong Military Court Watch sono 95.000 i bambini arrestati dal governo israeliano in Cisgiordania. Nel rapporto presentato a Ramallah sono documentate le testimonianze degli abusi perpetrati sui bambini, che Sam aveva già documentato nel suo primo film, Shoot, e nel documentario presentato di recente in un tour italiano “israele, il cancro”. Questo pomeriggio ha ricevuto la visita del console italiano, rientrato oggi da una vacanza. Proprio il console le ha spiegato che nella sua situazione potrebbero tenerla in carcere anche per un mese, ma pare che israele sia intenzionato ad attivare la sua espulsione entro le prossime 24, 48 ore e, poiché Samantha si è rifiutata di firmare l’accettazione di questa misura, è probabile che utilizzino la forza per assicurarsi il suo rientro in Italia (detenzione e viaggio di rientro saranno a carico del governo israeliano, precisazione utile per prevenire tormentoni del tipo “cos’è andata a fare in Palestina, era meglio se stava a casa sua” con tanto di “e ora le paghiamo pure il volo”).

Ieri il suo avvocato in Italia, Luca Bauccio, ha emesso un comunicato a seguito di alcuni articoli usciti su media nazionali che riferivano informazioni non veritiere, articoli che rischiavano di alimentare una diffamazione della quale Samantha è più volte stata vittima. “La vita e la storia di Samantha sono alla luce del sole: lei vive e opera per la libertà dei palestinesi e perché la giustizia e il diritto vengano ripristinati in quei territori.Questo è già noto.”, ha scritto ieri il legale, ed ha aggiunto “Nessuna mistificazione verrà accettata e subita come il prezzo da pagare per avere avuto la passione e il coraggio di dedicare la propria vita per la causa di vittime innocenti del più intollerabile e prolungato esproprio della storia. Samantha vive e opera per questo da sempre nel segno della sua convinzione democratica e del suo rifiuto di qualunque forma di persecuzione di razzismo, di antisemitismo e di odio religioso.”
A proposito di odio religioso, sarà questo che ha spinto i carcerieri a sequestrare a Samantha il libro di José Saramago “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”?

Sabato 13 giugno sotto la RAI di Torino si è tenuto un presidio per richiedere la liberazione di Samantha ed in solidarietà con i prigionieri palestinesi; attualmente sono circa 7000, di essi 450 in detenzione amministrativa, cioè senza capi d’accusa. Per il loro numero e la loro condizione essi sono un elemento cardine della Resistenza palestinese. E proprio in questi giorni tra i prigionieri ci sono forti avvisaglie di un nuovo sciopero della fame di massa. Sarà anche per questo, probabilmente, che oggi il Consiglio dei Ministri israeliano ha approvato un disegno di legge per contrastare la “minaccia” per il paese (da non credere!) costituita dai “detenuti che effettuano lo sciopero della fame”.

Il gruppo di solidali ha chiesto alla redazione del TGR Piemonte di diffondere la notizia dell’arresto e dell’anomala detenzione in isolamento, ma la risposta è stata chiara e senza spazi di discussione: c’erano notizie più importanti, un incidente, il salone dell’auto, etc.  Le informazioni vengono diffuse principalmente tramite social network, Twitter, Facebook, il volo di rientro è previsto ormai nelle prossime 24-48 ore ma si presume che la notizia verrà data solo successivamente all’imbarco di Samantha sul volo di rientro, per le stesse non meglio note “ragioni di sicurezza” che hanno spinto israele a detenere Samantha in isolamento.
FreeSam2

Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

 

 

Fonte:

http://www.tgmaddalena.it/samantha-comizzoli-rifiuta-decreto-di-espulsione-e-difesa-legale-se-ce-un-avvocato-pronto-a-battersi-con-me-per-la-liberazione-dei-bambini-detenuti-nelle-carceri-israeliane-allora-lo-accetto/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAMANTHA COMIZZOLI COMINCIA LO SCIOPERO DELLA FAME IN SOLIDARIETA’ CON I BAMBINI RINCHIUSI NELLE CARCERI ISRAELIANE

Aggiorno sulla situazione di Samantha Comizzoli citando l’unico articolo di oggi che cita (rispetto a altri quotidiani che sono rimasti sul vago) le vere motivazioni per cui l’attivista ha iniziato lo sciopero della fame subito dopo il suo arresto da parte di Israele:

“È stata arrestata a Tel Aviv Samantha Comizzoli, attivista e blogger italiana. Si trovava sul territorio da un anno e attualmente è detenuta in isolamento nel carcere israeliano dell’aeroporto di Tel Aviv. Comizzoli stava manifestando alle porte del villaggio Kufr Qaddom contro la presenza dell’esercito di Israele negli insediamenti palestinesi. Le sarebbe scaduto da tempo il visto e potrebbe essere espulsa nel giro di qualche giorno. Nel frattempo si rifiuterebbe di rispondere alle domande della polizia in quanto ritiene di essere prigioniera politica e avrebbe cominciato lo sciopero della fame. Le sue intenzioni sono di farlo durare fino a che tutti i bambini nelle carceri israeliane non verranno liberati.”

Per continuare a leggere cliccare qui:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/13/israele-attivista-italiana-pro-palestina-arrestata-stava-manifestando/1774644/

Israele, attivista italiana pro Palestina arrestata: “Stava manifestando”

UN APPELLO ALLA SOLIDARIETA’ CON I RAGAZZI DI HARES PER DOMENICA 15 MARZO 2015

Quest’anno, precisamente domenica 15 Marzo, saranno 2 anni da quando 5 ragazzi adolescenti del villaggio di Hares, in Palestina, sono stati rapiti dalle loro case, maltrattati e interrogati ricorrendo alla violenza, e infine rinchiusi in una prigione israeliana. Tutto questo per qualcosa che non avevano fatto.
Tutto è iniziato il 14 Marzo 2013, in seguito ad un incidente d’auto nel quale i passeggeri sono rimasti seriamente feriti, incidente che si è presunto essere stato causato da alcuni giovani palestinesi che avrebbero lanciato pietre verso la vettura.
Quella stessa note, l’esercito Israeliano ha assalito i villaggi di Hares e Kifl Hares e ha arrestato 19 giovani palestinesi. Ottenuta la loro “confessione” attraverso interrogatori e maltrattamenti, alcuni di questi ragazzi sono stati rilasciati. Cinque di loro, però, sono in carcere ancora oggi. Ecco chi sono i Ragazzi di Hares.
Se il Tribunale Militare Israeliano andrà avanti per la sua strada, questi ragazzi dovranno affrontare lunghi anni di prigione per un “crimine” per il quale non si ha alcuna prova che dimostri la loro presunta colpevolezza e che tutti i ragazzi negano di aver compiuto.
Per rimarcare i due anni dalla loro incarcerazione, facciamo appello agli attivisti di tutto il mondo perché organizzino iniziative locali volte ad elevare il profilo del caso dei Ragazzi di Hares e, facendo questo, a fare pressione sull’ occupazione israeliana perché rispetti i princìpi della giustizia e rilasci questi ragazzini dal carcere. Vi invitiamo ad organizzare volantinaggi, veglie e proteste, azioni di boicottaggio, petizioni e lettere, dibattiti e proiezioni.
La lotta in corso contro l’aggressione militare israeliana si sta facendo più forte per ogni nuova atrocità che questo stato di apartheid commette; è importante dichiararsi contrari alle continue ingiustizie che i Ragazzi di Hares- e, per estensione, tutti i minori palestinesi nelle carceri militari israeliane- affrontano ogni giorno, in modo da impedire che questi pericolosi precedenti si verifichino
Aderisci alla lotta contro l’oppressione. Stai dalla parte della giustizia.
Per maggiori informazioni visita:

Website: https://haresboys.wordpress.com/

Facebook: Free the Hares Boys

Twitter: @HaresBoys

Antonio Salerno Piccinino

Dal blog http://nomortilavoro.noblogs.org/ dedicato ad Antonio Salerno Piccinino e a tutti i morti sul lavoro:
 
Le chiamano “Morti Bianche” come se il tutto fosse frutto della casualità e della sfortuna.
Le chiamano morti bianche quasi non ci fossero dei responsabili dietro gli omicidi che si compiono ogni giorno sui posti di lavoro e negli incidenti stradali mentre ci rechiamo al lavoro. Bianche come qualcosa di neutro, chiaro, puro.
Bianche come il ridicolo vitalizio che un figlio, una madre, una moglie, un marito ricevono dall’Inail come rimborso spese della violenza del lavoro.
Bianche, fredde ed inutili come le parole e le dichiarazioni d’intenti che si ripetono con costanza e ripetitività per celebrare i caduti sul lavoro, i martiri li chiamano.
Di una guerra si tratta… con i suoi feriti, mutilati, reduci, ma senza prigionieri.
Il giorno in cui è morto quel 17 Gennaio del 2006, Antonio Salerno Piccinino stava lavorando e faceva una consegna straordinaria, un favore personale ad uno dei suoi dirigenti, un viaggio fino ad Ostia improvvisato probabilmente per la voglia di dimostrare affidabilità. Antonio è morto perchè andava troppo veloce a causa dei ritmi inarrestabili e delle  pressioni emotive costanti che ci vogliono disponibili, sorridenti e veloci, sempre.
Antonio era un pony exspress, il contratto di lavoro era scaduto a fine dicembre e formalmente, quando è morto sulla Cristoforo Colombo non gli era ancora stato rinnovato.
Antonio era in nero. Il suo lavoro di merda era quello di  corriere addetto ai ritiri presso gli ambulatori veterinari, percorreva sulle strade di Roma 130Km al giorno. 14 ritiri al giorno, 3 euro per ogni ritiro in città, 5 euro per ogni ritiro oltre il Grande Raccordo Anulare e 6 euro per ogni ritiro nella zona mare comprendente Ostia, Torvajanica e Fiumicino. E’ indispensabile andare veloce perché l’equazione è semplice: aumentare il numero di ritiri per aumentare la propria busta paga.
E’ così che è morto Antonio.
Fonte:


 
Qui invece, dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro, una vecchia intervista alla madre di Antonio, Franca Salerno, che lo partorì in carcere:

 

Il bimbo cresciuto a Sollicciano: «La sera mi chiudono a chiave»

Giacomo non ha colpe da espiare. Non ha commesso reati, eppure è un condannato senza che mai nessun giudice abbia scritto una sentenza. È il detenuto più piccolo del carcere di Sollicciano, appena sei anni e quattro mesi, ma anche il più grande tra quelli mai approdati nell’istituto fiorentino e forse anche nel resto d’Italia. A memoria, dicono quelli che conoscono la sua storia, un caso unico. Giacomo — il nome ovviamente è di fantasia — detiene un altro record: ha passato quasi tutta la sua «piccola» vita tra le sbarre: cinque anni e tre mesi, come dire un ergastolo.

L’ARRIVO IN CARCERE — È arrivato nella sezione femminile di Sollicciano come «ospite» insieme alla mamma arrestata a Bari nel 2009 per reati legati allo sfruttamento della prostituzione. La madre, oggi 42 anni, nel novembre 2010 è arrivata a Firenze. All’epoca Giacomo aveva un anno, non camminava ancora e diceva solo due parole. La casa per lui è sempre stata quella cella della sezione femminile, l’unica che ha conosciuto. Lì ha iniziato a camminare, a parlare e lì ha imparato anche a riconoscere il suono dell’unica porta di ferro che segna il confine tra i dannati di un girone e l’altro mondo di Sollicciano, quello per le mamme e i «bambini-detenuti-senza condanna» che lì non dovrebbero starci. Fino a qualche mese fa Giacomo non era da solo. C’erano altre mamme ed altri due bambini a vivere lì. Poi gli altri sono andati via, in case famiglie, e lui è rimasto. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, gli anni sono diventati cinque.

LA NUOVA «FAMIGLIA» — Dietro le quinte della «sezione mamme» c’è il lavoro di tante persone. I volontari delle associazioni fanno tutti i giorni qualcosa per farla somigliare meno a un carcere: hanno sostituito i portoni blindati con porte di legno, hanno tolto le brande in ferro e messo letti in legno, hanno dipinto le pareti, hanno arredato le stanze per renderle il più possibile casa e non cella, hanno realizzato un piccolo parco giochi ma «un carcere resta sempre un carcere, anche se lo rendi più bello e lo dipingi con i colori dell’oro — dice un’agente della polizia penitenziaria — soprattutto per un bambino di quasi sette anni che adesso comincia a capire che la sua vita non è come quella di tutti gli altri bambini». La famiglia di Giacomo sono la madre — che ha una pena da scontare fino al gennaio 2019 — le agenti di polizia penitenziaria e le volontarie che tutti i giorni vanno a prenderlo per accompagnarlo all’asilo, lo riportano a casa, fanno i colloqui con le insegnanti e lo seguono nell’attività pomeridiana quando rientra dalla madre. Giacomo ha cominciato ad andare all’asilo nido, alla materna e a settembre comincerà la prima elementare.

L’ESTATE DIVERSA — Quest’estate, grazie alla caparbietà di Silk Stegemann, psicologa e coordinatrice del progetto «Bambini e carcere» di Telefono Azzurro, Giacomo riuscirà anche a frequentare i centri estivi. Il che significa per lui una boccata di ossigeno per altri due mesi, dopo la fine della scuola. «È stata una grande conquista — spiega Silk Stegemann — Cerchiamo fargli avere una vita il più possibile normale visto che comunque i diritti di questi bambini che il destino ha portato in un carcere sono stati già compromessi». Un lavoro non facile quello dei volontari: «Dobbiamo stare attenti a non fare troppo — spiega ancora la psicologa — perché il nostro obiettivo è sempre quello di proteggere la relazione madre e figlio». Fino ad oggi Giacomo non si è reso conto di essere un bambino diverso. Ma adesso che è diventato più grande e si confronta con gli altri bambini diventa difficile rispondere alle sue domande. «Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?», ha chiesto un giorno alle educatrici. E alla domanda di un compagno di scuola — «tu dove abiti?» — con il candore che solo un bambino può avere ha risposto: «Casa mia è in carcere». E adesso, quando non arrivano i volontari a portarlo fuori, ad esempio la domenica, lui protesta perché vuole uscire, e la sera, quando sente che chiudono a chiave la porta, piange e protesta.

LA LEGGE — Ma perché un bambino è rimasto così tanto tempo a Sollicciano? La legge prevede che i bambini non vengano separati dalle madri detenute fino a tre anni. Una legge del 2011 ha aumentato fino a sei anni l’età dei bambini che possono stare con le madri a patto però che siano in un Icam, un istituto a custodia attenuata per le detenute madri, quello che Firenze aspetta da anni. Nel caso della madre di Giacomo qualsiasi percorso alternativo è stato impossibile: troppo alta la pena da scontare per reati gravi. E allora? «Allora Giacomo è rimasto qui, in questa specie di limbo, ad aspettare, colpa di una burocrazia che non guarda in faccia neppure un bambino», raccontano da Sollicciano. Hanno provato a cercare uno zio all’estero per affidarlo a lui quando anche il padre era in carcere ma dopo un anno di ricerche che non hanno dato alcun risultato sono stati costretti ad arrendersi. L’attaccamento della madre al bambino, e del bambino alla madre, ha fatto il resto. «Conosciamo questa vicenda e la stiamo seguendo da tempo — spiega Franco Corleone, garante regionale per i diritti dei detenuti — contiamo di arrivare a una soluzione entro settembre, quando il bambino comincerà ad andare a scuole». Adesso ai primi di luglio ci sarà un’udienza al tribunale dei minori nella speranza di arrivare prima possibile a un affidamento ad alcuni familiari del padre che si sono fatti avanti. «Se ci fosse stato a Firenze l’Icam questa storia avrebbe avuto una soluzione prima — spiega Grazia Sestini, garante per l’infanzia della Regione Toscana — speriamo che questa struttura veda la luce il prima possibile per evitare che un altro caso del genere si possa ripetere».

(modifica il 26 giugno 2014)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Antonella Mollica

SULLE TRACCE DELLA MAPPA DI VERONELLI SULL’ISOLA di SANTO STEFANO (VENTOTENE)

Dal blog http://liberidallergastolo.wordpress.com/:

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Abbiategrasso, 16 gennaio 2014

Il 23 giugno del 2012 siamo andati per la prima volta al Cimitero degli Ergastolani dell’isola di Santo Stefano (Ventotene).
Ci siamo andati per immaginare e chiedere un orrizonte liberato dalle carceri.
Per opporci alla tortura che viene praticata nelle carceri italiane
attraverso l’ergastolo, le sezioni del 41 bis, il sovraffollamento in molte sezioni penali e giudiziarie, il permanere degli ospedali psichiatrici giudiziari e le case di lavoro (sottoposte alla “pericolosità sociale” che può essere reiterata a vita), la presenza ancora di bambini e bambine con le loro madri in sezioni carcerarie, le numerose morti…
Ci siamo andati con un pensiero ai fratelli e ai compagni a cui è stata negata  e limitata la libertà.

Ci siamo andati per portare dei fiori sulle tombe e per ridare il nome alle persone sepolte. Abbiamo fatto questo aiutati da uno scritto di Lugi Veronelli,  che qualche tempo dopo la chiusura del carcere fece un viaggio sull’isola addentrandosi fin nel cimitero alla ricerca della tomba di Gaetano Bresci, ricostruendo anche la mappa nominale di gran parte delle 47 tombe. Poco prima di morire scrisse ancora di S. Stefano, un testamento.
Luigi Veronelli da cui abbiamo imparato molto. Luigi Veronelli: enologo, gastronomo, anarchico e scrittore.
Luigi Veronelli, l’ideatore di Critical Wine, insieme ai compagni e animatori di molti centri sociali italiani. Critical Wine che abbiamo attraversato e costruito anche noi e di cui La Terra Trema  è la nostra personale evoluzione.
Siamo andati a S. Stefano perchè c’è la tomba di Gaetano Bresci e altre tombe di altri esseri umani morti perchè ostili al sistema, ribelli ai dispositivi del potere, ribelli individuali o collettivi. Sepolti lì, prima da vivi e poi da morti.

Banditi.

Siamo tornati l’anno successivo, nel 2013,  e quest’anno ci siamo ritornati , con i compagni  con cui condividiamo questo pellegrinaggio e un legame fraterno da tre anni. Siamo tornati su quell’isola,  in quel carcere che racconta la storia d’Italia e in quel cimitero per ricordare, portando dei fiori, l’appartenenza alla comunità umana delle persone che lì sono sepolte, e di tutti coloro che si spengono socialmente e muoiono fisicamente all’ergastolo.

Folletto 25603, La Terra Trema

 

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Un incontro inatteso
di Luigi Veronelli  (da Rivista Anarchica Online)

Cronaca dell’“incontro” tra il celebre anarchenologo e Gaetano Bresci.

Molti dei miei lettori – molti? Pressoché tutti – si meravigliano delle mie cavalcate (cavalcate fuori argomento). “Ex Vinis” è il titolo; solo di vini dovrei scrivere e per estensione, di cibi e di turismo. Considero d’obbligo giustificarmi. Scrivo di vini, di cibi e di turismo, alla continua «presenza» dell’uomo. Non rimpiango affatto di aver abbandonato – 1956, o giù di lì – l’intrapresa via della speculazione filosofica. Non ho rimpianto da che so che non ne sarei stato capace; che mi sarei fermato – così come, alla fin fine, è avvenuto – al primo intoppo. (…). Mi sono occupato, di contro, nel modo più completo e professionale di editoria. I primi volumi furono di filosofia e di lettere; poi…poi mi accorsi che non ero imprenditore – economico, dico – e che mi sarebbe convenuto applicarmi a quel che mi riusciva meglio: l’assaggio dei cibi e dei vini e il loro racconto. Cibi e vini che riguardano in modo diretto, in modo più diretto che ogni altro argomento, l’uomo e la vita.
Credo – da quegli anni cinquanta – che vi sia una chiave reale, per una sorte felice dell’uomo, per una sua vita migliore. Quella chiave bene si esprime in due parole: la libertà dell’altro. Questa, solo questa, è la ragione per cui non mi sembra di staccarmi da quel mio titolo, “Ex Vinis”, quando non scrivo, puntuale, di vini di cibi e di turismo.
Ciascuno degli elementi di quel viaggio è sempre un gioco, sempre rispettato. Sì, anche ora che mi decido, finalmente, a raccontarti – amico lettor mio, amica mia paritaria – di una vicenda in Santo Stefano, uno scoglio più che un isolotto, pressoché sconosciuto, proprio di fronte a Ventotene, isola grande.

Luigi Veronelli

L’antica Pandataria

Stassentire.
Ventotene – per quelli della mia generazione, che uscivano dall’orrifico fascismo (all’inizio della seconda guerra mondiale avevo 14 anni) – non era il luogo di varie attrattive che è oggi. Isola del mar Tirreno che appartiene (con l’isolotto di Santo Stefano) al gruppo più orientale dell’arcipelago delle isole Pontine.
Anticamente era chiamata Pandataria e vi furono deportati molti illustri esponenti dell’aristocrazia romana e, addirittura, delle famiglie imperiali come Giulia, Ottavia e Agrippina Maggiore.
Settembre 1964. Mario D’Ambra, allora l’indiscutibile, reale promoter della vitivinicultura campana (i suoi vini d’Ischia – Biancolella, Forrastera e Per’e Palummo, erano i soli ad aver campo nei ristoranti d’Italia tutta), aveva invitato me e i miei familiari, Maria Teresa, moglie, Benedetta, Chiara e Lucia, figlie, per una vacanza in quello scoglio a lui caro per la sconvolgente bellezza dei luoghi, la solitudine e la caccia alle beccacce e ai beccaccini. Fossi saggio, avrei tenuto un diario. D’estremo interesse per le tante «avventure». Sì, s’era soli. Allo sbarco, in una cala minima e rocciosa, aperta al mare mosso (si saltò, letterale, dal barcone che ci aveva prelevati in Ventotene, su uno scoglio, bagnato viscido, noi e le valigie), ci accolse un contadino e la sua mula.
Lungo un viottolo, quasi sempre a picco sull’onde, carica, stracarica la mula, giungemmo all’unica costruzione – aveva un non so che di spagnolesco – ove ci accolse Mario. Era stata, ci disse, la casa fuori del Penitenziario che si ergeva sul culmine dello scoglio, imponente e tetro. Già allora il sinistro luogo di pena era stato spogliato di tutto, proprio tutto, sino a scardinare gli infissi, gli impianti igienici, le tubature, i cancelli, le barre, quant’altro. Era ancor più sinistro di quel che doveva già essere negli anni in cui ospitava gli sciagurati, sventurati, derelitti.
Penitenziario, per i condannati a vita. L’ergastolo. Nessuna volontà di redimere. Solo persecuzione e pena. Sì, quel mancato diario. Dell’avventure – tante, gioiose – ne racconto una sola, tristissima.
Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle «gabbie» di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva stare eretto. Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto Gaetano Bresci, il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. E oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato.
Oggi. Era venuto d’America, sdegnato per le repressioni vili e sanguinarie, fine 1800 e convinto, allora, che uccidere un re, colpevole verso l’umanità, fosse un atto risolutivo.
Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano.
Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire senza eguali della bellezza, appena ti estranei, senti voci non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo.

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Condanna a morte

Gaetano visse da uomo libero.
Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo. Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa, era l’Anima), dieci mesi dopo, 22 maggio 1901.
Maria Teresa e le figlie, in quel periodo tra i più belli della nostra vita, una volta sola si accorsero del mio turbamento.
Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e un po’ decentrata, l’isola di Ventotene), una frase all’ingresso: «Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio», minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci.
Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Sorprese le bimbe e ammutolite.

Trascrissi, a uno a uno i nomi dei cartigli:

entrando a sinistra:
Montalbano G. 15.4.1906/11.7.1959
De Roma Francesco 15.2.1945
Donatangelo Pasquale 13.9.1954
Durante Felice 14.3.1944
Lai Salvatore 28.9.1931
Entrelli Rocco 16.8.1950
Mediati o Mediali Rocco 26.2.1952
Imbrindo Domenico 9.7.1950
Iacono Lucio 21.2.1940
Forte Michele 24.9.1945
De Rocca Salvatore 26.5.1949
Toscailli o Roscailli Benedetto 6.12.1943
distrutta
Giorgi Luigi 27.6.1914
distrutta

entrando da destra:
distrutta
Lota Kasem 16.2.1945
Dosko o Posko Nazir 9.6.1945
Ussello Giuseppe 15.5.1945
Galdi Giuseppe 16.5.1938
Nangini Guido 28.10.1946
Saracco Natale 29.5.1926
distrutta
Di Benedetto Vincenzo 19.11.1918
Sacchi Luigi 20.9.1917
Carota Antonio 25.4.1915
Reda o Beda Giuseppe 9.10.1915
Si scendono 3 gradini a destra
Pilia Benigno 19.2.1923/22.7.1962
Di Santo Rufino 11.6.1888/12.5.1957
Bresci Gaetano 22.5.1901
Messina Pietro 27.8.1908/26.4.1962
Lizio Rossano 17.1.1904
De Cuzei Giuseppe 12.6.1904
Pannuccio Antonio 25.9.1904
Monte Gaetano 3.5.1904
Biase Donadio 18.2.1904
Gemina (?) Domenico 30.10.1904

si scendono 3 gradini a sinistra:
distrutta
Baetta Filadelfo 30.3.1909 ?
Rodessi Giovanni 14.6.1909
Fissore Giuseppe 31.1.1909
Tupponi Sebastiano 30.3.1908
Lai Antioco 29.6.1908
Baches Raffaele 7.11.1906

Quante volte mi sono chiesto: sarebbe stato giusto confidare prima questa mia scoperta? Come sarà, oggi, quel desolato luogo? Avrei dovuto – avrei voluto – divenisse meta di un pellegrinaggio mio – mio, solo mio – annuale.
Fare di quel luogo la mia Mecca. Non ci sono mai tornato. Questo non ritorno pesa, sull’animo mio, come un macigno.

Luigi Veronelli

tratto dal “Bollettino n. 16”, dicembre 2000, del Centro Studi Libertari di Milano

 

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S. STEFANO (da Carta, Ottobre 2004)

L’isolotto di Santo Stefano è il “resto” di una antica eruzione sottomarina, una successione di basalti e di tufi. Il più orientale e piccolo dell’arcipelago pontino, ha forma ellittica con un diametro massimo di 750 metri da est ad ovest, minimo 500 da nord a sud; la circonferenza è di 2 chilometri, l’altezza di 68 metri.
Gli è stato dato il nome in onore di Santo Stefano, martire del 35 d.C.. Un suo discorso ripercorreva la storia di Israele, da Abramo a Gesù, e metteva in evidenza il disegno di Dio e l’infedeltà del popolo. Gran scandalo. Gli oppositori, furibondi, lo condussero fuori città e lo lapidarono. All’esecuzione era presente Saulo, il futuro Paolo apostolo, che: “approvava e stava a guardia dei mantelli dei lapidatori”.
Sì, alla bellezza e alla serenità sconvolgenti dei panorami, lugubre la storia. Già dagli imperatori romani, fu luogo di deportazione. Augusto vi relegò la figlia Giulia; Tiberio, Agrippina; Nerone, la moglie Ottavia, e qui la fece uccidere. Qualche secolo dopo, Ferdinando IV eresse l’Ergastolo (la E, maiuscola, è voluta: millanta i santi e i martiri che vi furono rinchiusi). Penitenziario eretto nel 1794-95 a tre piani, 99 celle e un cortile per l’aria dei carcerati.
L’isolotto era stato acquistato, anni sessanta, da un vignaiolo mitico, Mario D’Ambra (meditava d’impiantarvi vigne di forrastera e di perèpalummo). Un suo contadino abitava quello che era stato – fuori dalle mura del carcere – una avanguardia. Grande sala con un camino e vari vani per gli ospiti, cacciatori, soprattutto da che l’isolotto ha fama per il passaggio di beccacce e beccaccini (il contadino, un genio, aveva provvisto ad una minima conigliera; ad ogni sacrificio ubriacava le bestiole di alcol, così che non avessero il rigor mortis).
Fui il solo ospite con le mie quattro donne: Maria Teresa, moglie, Bedi, Chiara e Lucia, figlie.
Dedicavo le ore familiari al mare (luogo migliore: una buca basaltica, prediletta, anni annorum, da Agrippina); le ore notturne, solo mie, all’Ergastolo, per “ricerche” sul santo martire, Gaetano Bresci.
Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle “gabbie” di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva stare eretto.
Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. Ed oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato. Oggi.
Era venuto dagli States ove collaborava a “La questione sociale”, inferocito per le repressioni vili e sanguinarie di Bava Beccaris, fine Ottocento. Si era convinti, allora, che uccidere un re, colpevole verso l’umanità, fosse un atto risolutivo. Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano.
Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire senza uguali della bellezza, appena appena ti estranei, senti voci, non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo. Visse da uomo libero. Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo.
Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa; era l’Anima), dieci mesi dopo la reclusione, 22 maggio 1901.
Maria Teresa e le figlie – in quel periodo tra i più belli della nostra vita – una volta sola si accorsero del mio turbamento. Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e, un po’ decentrata, l’Isola di Ventotène). Una frase all’ingresso: “Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio”, minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci.
Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Ammutolite le bimbe.
L’Anima è il rispetto dell’altro. La giustizia di Dio una palla. Quella degli uomini dovrebbe perseguire i criminali tipo Bush e Bin Laden. Dovrebbe colpire tutti coloro che schiavizzano l’umanità per diventare, giorno via giorno, più ricchi.
Leggi il documento emesso dall’Arci, Comitato regionale toscano, sulle ignominie della famiglia Bacardi.  Abbi il minimo, civile coraggio di sbattere in faccia il loro rhum che ti fosse offerto.
Avete capito, giovani lettori: questo è un testamento. Entro in clinica oggi pomeriggio per una operazione da cui, di solito, non si esce. Per la prima volta ho la gioia di essere stato il vostro Maestro.
Luigi Veronelli

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Fonte:

http://liberidallergastolo.wordpress.com/2014/06/16/sulle-tracce-della-mappa-di-veronelli-sullisola-di-santo-stefano-ventotene/

UNISCITI ALLA GIORNATA DEI PRIGIONIERI POLITICI PALESTINESI! DI’ A BILL GATES DI DISINVESTIRE DALLA G4S!

 

Ramallah occupata – Addameer e il Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni invitano gli attivisti e le persone di coscienza ad agire il 17 aprile in solidarietà con i prigionieri politici palestinesi.

La Fondazione Bill e Melinda Gates, la più grande fondazione di beneficenza in tutto il mondo, possiede partecipazioni in G4S per un valore di oltre $ 170 milioni. Firma per chiedere loro di disinvestire.

firma

Oltre 5.000 palestinesi sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane, tra cui 183 bambini, mentre 175 sono i detenuti in detenzione amministrativa, una forma di detenzione senza processo che Israele usa per trattenere a tempo indeterminato i palestinesi sulla base di informazioni segrete.

Ogni anno, le forze di occupazione israeliane (IOF) arrestano migliaia di palestinesi, nel tentativo di reprimere ogni azione di resistenza all’occupazione che prosegue. Tra questi ci sono centinaia di bambini anche di 12 anni. In troppi casi i bambini palestinesi vengono torturati, maltrattati e costretti a firmare una confessione in ebraico, lingua che la maggior parte dei bambini palestinesi non capisce, oltre ad essere messi in isolamento. Ogni anno circa 1.000 bambini sono condannati dai tribunali militari israeliane.

Il modo più comune in cui vengono condotti gli arresti sono i raid notturni, durante i quali l’IDF mette sottosopra la casa della persona, distrugge i beni personali e abusa fisicamente dei membri della famiglia. La persona arrestata viene quindi ammanettata e bendata prima di essere gettata a faccia in giù nella parte posteriore di una jeep militare israeliana, dove i pestaggi, insulti e umiliazioni continueranno.

Secondo la legge militare israeliana, i palestinesi possono essere interrogati per un periodo di 90 giorni e privati dell’accesso a un avvocato per i primi 60 giorni. Dal 1967, 73 detenuti palestinesi sono morti a causa delle torture subite sotto interrogatorio da parte degli israeliani. Il caso più recente è quello di Arafat Jaradat che è stato torturato a morte nel febbraio del 2013 in un centro per gli interrogatori dove la G4S fornisce i sistemi di sicurezza.

Invitiamo tutti ad agire in solidarietà con la lotta dei prigionieri politici palestinesi nella Giornata del Prigioniero Palestinese il 17 aprile.

STOP G4S – Dì a Bill Gates di disinvestire adesso!

Due anni fa, alla vigilia dello sciopero della fame di massa da più di 2.000 prigionieri politici palestinesi, Addameer e altre organizzazioni palestinesi hanno lanciato un appello per una campagna contro G4S, la società di sicurezza britannica che fornisce e attrezzature e gestisce servizi di sicurezza presso le carceri di Israele.

Nell’ambito del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), le campagne contro G4S ora sono in corso in più di una dozzina di paesi. Università, banche, enti di beneficenza e sindacati di tutto il mondo hanno tagliato i legami con G4S per il ruolo che riveste nell’aberrante sistema carcerario di Israele, il che è costato alla G4S milioni di dollari (link alla lista delle vittorie). Sentendo la pressione, G4S ha cercato, nelle sue dichiarazioni, di prendere le distanze dal sistema carcerario israeliano.

La Fondazione Bill e Melinda Gates, la più grande fondazione di beneficenza in tutto il mondo, possiede partecipazioni in G4S per un valore di oltre $ 170 milioni.

La Fondazione Gates dice che a guidarla è “la convinzione che ogni vita ha uguale valore” e che usa i suoi investimenti per finanziare progetti che “aiutano tutte le persone a condurre una vita sana e produttiva”.

Ma attraverso le sue partecipazioni in G4S, la Fondazione Gates legittima e trae profitti dall’uso che Israele fa della tortura e dell’incarcerazione di massa.

Per la Giornata dei prigionieri politici palestinesi, unisciti ad Addameer nel mettere pressione sulla Fondazione Gates perché disinvesta dalla G4S.

Agisci!

  • Firma e condividi ampiamente la petizione che invita la Fondazione Gates di disinvestire da G4S
  • Condividi e diffondi questo appello attraverso il link alla petizione utilizzando l’hashtag #StopG4S
  • Condividi le immagini dalla pagina Facebook di Addameer, che invitano la Fondazione Gates a disinvestire
  • Organizza una protesta presso la sede della G4S o della Fondazione Gates nella tua città
  • Organizza una protesta o una manifestazione in solidarietà con i prigionieri politici palestinesi

Per segnalare le iniziative, scrivete a   [email protected]

Fonte: Addameer e il Comitato Nazionale Palestinese BDS

Traduzione di BDS Italia

Aderiscono: (per le adesioni collettive, inviate a [email protected])

Abu Jihad Center for Prisoners Movement, Palestine
Al-Dameer Association for Human Rights, Palestine
Badil Resource Center for Palestinian Residency & Refugee Rights, Palestine
Center for Defense of Liberties and Civil Rights “Hurryyat”, Palestine
The Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem (Representing 25 member organizations), Palestine
Defence for Children International – Palestine Section, Palestine
Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center, Palestine
National & Islamic Parties in Ramallah & Al-Bireh, Palestine
Palestine Farmers Union, Palestine
Palestinian Grassroots Anti-Apartheid Wall Campaign “Stop The Wall”, Palestine
Palestine National Institute for NGOs (Representing 420 organizations), Palestine
Palestinian Non-Governmental Organizations Network (representing over 135 member organizations), Palestine
Ramallah Center for Human Rights Studies, Palestine
The Palestinian General Union of Charitable Societies (Representing 500 organizations), Palestine
Treatment & Rehabilitation Center for Victims of Torture (TRC), Palestine
The Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Palestine
Palestinian Non-Governmental Organizations Network, Palestine
The Palestinian General Union of Charitable Societies, Palestine
Palestine National Institute for NGOs, Palestine
International Solidarity Movement, Palestine
International Women’s Peace Service, Palestine

Palestine Human Rights Campaign, Aotearoa-New Zealand
Federation of Palestinian-Argentinian Entities, Argentina
Artists Against Apartheid AU, Australia
Australian Friends of Palestine Association, Australia
Australians for Palestine, Australia
Friends of Palestine (Western Australia), Australia
Just Peace Queensland, Australia
Justice for Palestine Brisbane, Australia
Justice for Palestine Matters, Australia
Women for Palestine, Australia
Women in Black, Austria
Association Belgo-Palestinienne, Belgium
ECCP – European Coordination of Committees and Associations for Palestine, Belgium
Palestina Solidariteit, Belgium
Ciranda Internacional da Comunicação Compartilhada, Brazil
Frente de defesa do Povo Palestino, Brazil
Boycott Israeli Apartheid Campaign, Canada
Coalition Against Israeli Apartheid (CAIA), Canada
Palestine House in Mississauga, Canada
Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network, Canada
Comité Chileno de Solidaridad con Palestina, Chile
BDS Colombia, Colombia
Finnish-Arab Friendship Society, Finland
AFPS, France
Campagne BDS France, France
CCIPPP, France
Collectif Judéo  Arabe et Citoyen pour la Palestine, France
Stop Apartheid Toulouse, France
UJFP, France
BDS Berlin, Germany
InCACBI, India
Ireland-Palestine Solidarity Campaign, Ireland
Boycott! Supporting the Palestinian BDS Call from Within, Israel
Associazione Senza Paura Genova, Italy
BDS Italia, Italy
Fellesutvalget fr Palestina, Norway
Polish Palestine Solidarity Campaign, Poland
Comité de Solidariedade com a Palestina, Portugal
Scottish Friends of Palestine, Scotland
Scottish Palestine Solidarity Campaign, Scotland
BDS Slovenija, Slovenija
BDS South Africa, South Africa
BDS Madrid, Spain
BDS Switzerland, Switzerland
Breed Platform Palestina, The Netherlands
Diensten en Onderzoekcentrum Palestina (docP), The Netherlands
Netherlands Palestine Committee, The Netherlands
Palestina Komitee Rotterdam, The Netherlands
WILPF Nederland, The Netherlands
Brighton & Hove Palestine Solidarity Campaign, UK
Football Against Apartheid, UK
Friends of Al-Aqsa, UK
ICAHD UK, UK
Inminds, UK
Jews for Boycotting Israeli Goods, UK
Jews for Justice for Palestinians, UK
Liverpool Friends of Palestine, UK
London BDS Group, UK
London Palestine Action, UK
Palestine Solidarity Campaign, UK
Stop G4S, UK
Trade Union Friends of Palestine, UK
Waltham Forest Palestine Solidarity Campaign, UK
War on Want, UK
Watford Friends of Salfeet – Palestine, UK
US Campaign to End the Israeli Occupation, US
14 Friends of Palestine, Marin, US
Adalah-NY: The New York Campaign for the Boycott of Israel, US
Al-Nakba Awareness Project, US
Bay Area Women in Black, US
Bryn Mawr Peace Coalition, US
Chico Palestine Action Group, US
Citizens for Palestinian Self Determination, US
Committee for Palestinian Rights (Howard County, MD), US
Culture and Conflict Forum, US
Episcopal Peace Fellowship Palestine Israel Network, US
Delaware Neighbors Against The Occupation, US
Friends of Palestine Wisconsin, US
Jewish Voice for Peace – SF Bay Area chapter, US
Justice First Foundation, US
Lutherans for Justice in the Holy Landf, US
Madison-Rafah Sister City Project, US
Methodist Federation for Social Action, US
Minnesota Break the Bonds Campaign, US
NH Veterans for Peace, US
Northwest BDS Coalition, US
Palestine Solidarity Group – Chicago, US
Palestinian Christian Alliance for Peace, US
Racine Coalition for Peace and Justice c, US
Students United for Palestinian Equal Rights, University of Washington, US
The Rachel Corrie Foundation, US
Tiffin Area Pax Christi, US
Unitarian Universalists for Justice in the Middle East, US
United Methodist Task Force on Peace with Justice in Palestine/Israel of Upper New York Conference, US
United Methodists’ Holy Land Task Force, US
US Peace Council, US
Vancouver for Peace, US
Vermonters for a Just Peace in Palestine/Israel, US
WI Middle East Lobby Group, US
WILPF Boulder, US

 

 

Fonte:

http://bdsitalia.org/index.php/comunicati-sul-bds/1200-gates-divest