La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

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Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

Saline, blitz di Greenpeace contro la centrale a carbone

Iniziata questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali gli ambientalisti progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”

Venerdì, 07 Ottobre 2016 09:43 

L'ex Liquichimica dopo il blitz di Greenpeace (le foto nel servizio sono di Marco Costantino) L’ex Liquichimica dopo il blitz di Greenpeace (le foto nel servizio sono di Marco Costantino)

SALINE JONICHE Greenpeace si schiera contro il progetto di centrale a carbone che la multinazionale elvetica Sei-Repower progetta di costruire sulle ceneri della Liquichimica di Saline Joniche. Gli attivisti hanno iniziato questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”. «È un messaggio per la Sei come per Renzi-Repower – scrivono dal desk internazionale dell’organizzazione ambientalista –. Il governo deve fissare una data chiara per mettere fine alla produzione di energia da carbone in Italia».

Da anni, la multinazionale elvetica tenta di impiantare una fabbrica a carbone, nonostante l’opposizione della popolazione locale. Il progetto, che ha ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva dal governo Monti nonostante la presenza di una riserva naturale protetta nell’area di costruzione della centrale, è stato bloccato da una sentenza del Tar del Lazio, che ha accolto il ricorso presentato da Regione, Comuni e associazioni ambientaliste dell’Area grecanica. Una decisione ribaltata dal Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso avanzato dalla Sei (la multinazionale svizzera che intende realizzare la megaopera sul litorale jonico reggino) e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dando nuovamente il via libera alle autorizzazioni per la costruzione dell’impianto.

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La centrale dovrebbe nascere sui ruderi dell’ex Liquichimica, il mostro creato nel 1974 con i finanziamenti del pacchetto Colombo. Costata all’epoca 300 milioni, avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo industriale di una delle province più depresse d’Italia. Da più parti però, quell’investimento è stato interpretato come il prezzo che il governo è stato costretto a pagare per comprare la pace a Reggio Calabria, dove i Boia chi molla, guidati dal sindacalista della Cisnal e senatore missino, Ciccio Franco, si erano messi alla testa della rivolta popolare, scoppiata dopo l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro.

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La Liquichimica è figlia di quel baratto. Dopo avere speso quel fiume di denaro pubblico, le istituzioni hanno bollato la produzione – bioproteine per mangimi animali – come «altamente inquinante». E l’impianto è stato bloccato e chiuso due mesi dopo l’apertura dei battenti. Trecento milioni di lire dell’epoca andati in fumo, seicento lavoratori assunti, finiti in cassa integrazione.
 A Saline è rimasta solo una struttura divenuta simbolo delle cattedrali nel deserto.

Alessia Candito

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/50406-saline,-greenpeace-in-azione-contro-il-progetto-di-centrale-a-carbone

 

 

1970/ Cinque giovani anarchici calabresi. Morti.

rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014

Quando nel 2001 usciva il libro di Fabio Cuzzola Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, la vicenda legata alla morte di cinque compagni calabresi viveva solo nel dolore dei familiari e nel ricordo dei compagni che avevano vissuto l’irripetibile stagione del ’68. Da quel momento in poi si è aperto un cammino che, attraverso le più svariate forme di comunicazione e arte, ha contribuito a fare conoscere anche fuori dal movimento anarchico questa vicenda, che oggi è patrimonio della storiografia ufficiale. Basti pensare che questa storia ha ispirato vari spettacoli teatrali, un documentario, canzoni, una puntata di Blu Notte di Lucarelli.
Un altro importante tassello si aggiunge oggi con la pubblicazione del volume Il sangue politico (Editori Internazionali Riuniti, 2013, pp. 253, € 16,00) di Nicoletta Orlandi Posti, impreziosito dalla prefazione di Erri De Luca.
Ha ragione lo scrittore napoletano quando afferma che questo è “un caso che li riassume tutti”, perché in questa vicenda s’incrociano drammaticamente la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, il golpe Borghese, la rivolta di Reggio Calabria dei “Boia chi molla” e la strage di Gioia Tauro, che con la recente sentenza, passata in giudicato, si configura come la prima strage della storia ad opera della ‘ndrangheta. In questo gorgo di odio, lotta e misteri trovarono la morte, in un attentato camuffato da incidente, Angelo Casile, Gianni Aricò, Annalise Borth, Franco Scordo e Luigi Lo Celso, poco più di cento anni in cinque, ma con alle spalle una militanza già ricca di viaggi, manifestazioni, arresti e processi.
Il libro poggia su due pilastri che fanno di questo lavoro un’opera agile e indispensabile per capire e ricostruire un momento nevralgico per la storia contemporanea. Orlandi Posti si è giovata dell’immensa mole di documenti di tutti i processi di piazza Fontana, oggi finalmente disponibile in formato digitale, e sulle narrazioni dei militanti del gruppo 22 marzo, che hanno consentito alla giornalista e scrittrice, orgogliosamente originaria della Garbatella, di dare completezza storiografica a un quadro di eventi complesso.
La storia dei giovani anarchici, al tempo militanti della Fagi (Federazione anarchica giovanile italiana), s’incrocia con la macro storia, nella quale finiscono per imbattersi in “cose che faranno tremare l’Italia”. Trame oscure, più grandi della loro gioventù e che ancora aleggiano nella ricostruzione dell’incidente in quella maledetta notte fra il 26 e 27 settembre del 1970 lungo l’autostrada nei pressi di Ferentino.
Due elementi raccolti successivamente alle indagini rivelano la trama criminale ordita contro quei giovani mentre si dirigevano a Roma per consegnare ai compagni della Fai il frutto delle loro ricerche. In loco interviene la polizia stradale, quella sera comandata da Crescenzio Mezzina, uomo dei servizi, quattro anni dopo condannato per il tentato colpo di stato Fumagalli. La sua mano sottrarrà i preziosi documenti.
Il secondo elemento è legato alla diffusione della notizia. La prima informativa dei servizi segreti sull’incidente, telegrafata alle tre del mattino del 27 settembre, arriva da Palermo, molto strano per un normale incidente stradale, avvenuto a mille chilometri di distanza.
Una riflessione a parte merita la sperimentazione del metodo di scrittura utilizzato; la scrittrice dosa in maniera sapiente un doppio registro linguistico e narrativo, alternando passi romanzati, utili per fare capire a chi non ha vissuto quegli anni il clima e l’ambiente politico-culturale, a capitoli di vera e propria inchiesta “vecchio stile”, con documenti, articoli, stralci di interrogatori, fonti orali.
Il sangue politico è diventato anche un monologo teatrale e un blog, dove l’autrice raccoglie materiali delle varie presentazioni a testimoniare che ancora quella storia ha molto da raccontare ai vivi e a “quelli che passeranno”.

Fabio Cuzzola
[email protected]

Fonte:

http://www.arivista.org/?nr=386&pag=75.htm#5

I moti di Reggio Calabria

Di Fabio Cuzzola 
13 luglio 2008
Il tempo in provincia non ha peso. La storia, quella ufficiale, dei libri, delle celebrazioni, scorre altrove. L’orizzonte a Reggio sembra diventato un eterno presente, frutto di una vita ormai americanizzata nello stile e nei costumi; se non fosse per la “sacra pedata” ed il lungomare, la nostra città potrebbe essere uguale a quella di altre centinaia di piccole città di provincia, pronte a vedere la storia passargli davanti senza neanche accorgersene.
E stato così per il terremoto del 1908, che a pochi mesi dal suo centenario non ha ancora trovato un degno progetto memoria, e rischia di essere così per la storia della Rivolta, la cui vicinanza cronologica non deve ingannare sul rischio dell’oblio.
Mentre stavo svolgendo le mie ricerche, finalizzate alla pubblicazione di “Reggio 1970”, ho condotto insieme a Lillo Pontari, un collega del Liceo Campanella che mi ha trasmesso l’amore per l’insegnamento, un laboratorio storico per capire cosa era rimasto nei giovani di quelle giornate reggine.
I risultati sono stati sconfortanti. Pochi giovani accostavano il 14 luglio alla nostra città, meno ancora avevano ancora sentito parlare di capoluogo o barricate, e le notizie erano confuse e frammentarie.
Tuttavia la colpa di questa memoria cancellata non è attribuibile ai giovani.
La nostra storia, intendo la storia locale, non ha mai trovato spazio nei programmi scolastici, se non nell’ardimento di qualche docente coraggioso nel rompere le assurdità di programmi datati regio decreto.
Gli studiosi della nostra Terra, ad esclusione dei grandi Cingari e Placanica, hanno trattato gli avvenimenti storici da ottiche localistiche, restringendole ad una cronologia evenemenziale, senza inquadrarle in un rapporto causa-effetto.
Anche il “nostro 14 luglio” non può pertanto essere solo una bega Reggio-Catanzaro, ma deve essere riletto con un triplice sguardo che vi propongo.
Uno sguardo meridionalista, ovvero capire che quella di Reggio, come sosteneva Fortunato Seminara, fu “la somma di collera antica”, l’ultima occasione per risolvere una questione meridionale, che da quel momento in poi sparì dall’agenda politica nazionale.
Un secondo sguardo legato alla macrostoria. Reggio è stata un laboratorio per la destra eversiva nell’ambito della strategia della tensione, e questa non è un’invenzione romanzesca, ma testimonianza viva di migliaia di pagine di atti, processi, sentenze e deposizioni documentati dalla Commissione stragi e dalle operazioni Olimpia. Non fare i conti con questo approccio significa relegare la Rivolta ad esperienza da Via Pal e quindi consegnarla all’oblio richiudendola fra i confini dell’Annunziata e del Calopinace.
L’ultimo sguardo è quello delle vittime. Tutte! Da Labate fino a Malacaria, cittadino di Catanzaro ucciso durante una manifestazione contro la Rivolta nel febbraio del ’71, come giustamente sottolineato dalla giunta Scopelliti in un ordine del giorno votato nel 2005 a difendere la memoria della Rivolta.
Tutte le vittime, comprese i cinque anarchici, i morti della strage di Gioia Tauro, tutte vittime senza giustizia.
Ripenso alla famiglia di Angelo Campanella, onesto lavoratore, ucciso mentre si riposa sulla veranda di casa, da un colpo di moschetto esploso da un carabiniere. […]
A mio avviso, invece che litigare su nomi di vie o piazze, la giunta, il consiglio comunale dovrebbero sostenere questa lotta, dichiarandosi parte civile nel processo e patrocinare con i propri avvocati la causa di Angelo Campanella, perché la memoria non sia solo una corona posta in un angolo del rione Pescatori, ma storia viva di persone umili che in un caldo giorno di luglio decisero di fare la storia e non subirla.
Note:
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