“Il Cara e la Misericordia erano bancomat della ‘ndrangheta”

caracrotone“Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Così il comandante del Ros Giuseppe Governale ha sintetizzato l’operazione Jonny che ha portato in carcere il governatore della Misericordia di Isola Leonardo Sacco ed il parroco don Edoardo Scordio, sottoposti a fermo insieme ad altre 66 persone, perché accusate di avere collaborato con la cosca Arena a lucrare sui finanziamenti destinati all’assistenza dei migranti. “La ‘ndrangheta – ha detto Governale – presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i proprie interessi. E tra questi c’erano Sacco e Scordio. Quest’ultimo ha infangato la Misericordia che fa tanto bene. Sacco, a cui lo Stato affida la tutela di persone in difficoltà, nel 2020 denunciò un reddito di 800 euro al fisco. Stamani, nel corso della perquisizione a lui ed a persone a lui vicine, abbiamo trovato 200 mila euro”. “Edoardo Scordio – ha aggiunto il comandante del Ros – è un parroco di provincia antitesi di quello che il Santo Padre descrive come uno dei più grandi pericoli della Chiesa. La Chiesa, ha detto il Papa, ha bisogno di persone con una sola vita, di servire il prossimo e le persone in difficoltà. In questo caso questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra”. Un sacerdote, ha spiegato Governale, che nel 2007 risulta avere preso 650 mila euro dalla Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Il comandante del Ros ha anche spiegato il nome dato all’operazione, Jonny: “Era in nome di battaglia di un maresciallo del reparto morto per una grave malattia mentre stava indagando sul Cara di Isola”.

“In Calabria è mancato il controllo dello Stato sul gioco online. Un business milionario su cui la cosca Arena ha sbaragliato la concorrenza con una rete gestita da una società maltese”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina per illustrare i particolari dell’operazione Jonny. “Grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – ha aggiunto – abbiamo scoperto come la cosca potesse contare su un software neanche tanto sofisticato che consentiva di eludere il prelievo fiscale”. In un anno e mezzo, ha reso noto il colonnello Pantaleo Cozzoli comandante provinciale della Guardia di finanza di Crotone, il clan, grazie al gioco online, avrebbe “incamerato circa un milione e 300mila euro. Oggi abbiamo sequestrato beni per 12 milioni di euro e durante le perquisizioni abbiamo rinvenuto migliaia di euro in contanti”. Gli uomini del clan Arena avevano anche il monopolio sul traffico di reperti archeologici. “La cosca – ha spiegato il capo della Mobile di Crotone Nicola Lelario – aveva la prelazione sugli oggetti che se non interessavano agli uomini della ‘ndrina venivano venduti sul mercato nero grazie anche all’intermediazioni di consulenti ed esperti, anche molto conosciuti, del settore”. Ma, come spiegato dal direttore dello Sco Alessandro Giuliano, “la cosca aveva un alto grado di pervasività in ogni settore della vita economica della provincia di Crotone e Catanzaro”. Le indagini hanno svelato la penetrazione della cosca Arena nel capoluogo calabrese: “Catanzaro – ha sottolineato Luberto – non è una isola felice. Le cosche sono radicate e si impongono con intimidazioni violenti e drammaticamente simbolici”. Il questore di Catanzaro Amalia Di Ruocco e il comandante provinciale dei carabinieri Marco Pecci hanno rivolto un accorato appello ai cittadini affinché denuncino i loro aguzzini e facciano “squadra con le forze dell’ordine”.

Forse allertati da qualche articolo di giornale, alcuni degli indagati finiti nella rete tesa dalla Dda di Catanzaro con l’operazione “Jonny” sulla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto temevano di essere intercettati. Lo ha rivelato il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, riferendo il contenuto di alcune riprese video effettuate dagli inquirenti. “L’aspetto piu’ inquietante del centro di accoglienza – ha detto – e’ che abbiamo notato articoli che praticamente avvisavano gli interessati delle indagini. Ho visto Poerio e Sacco (due dei fermati), ndr mettere i cellulari su una siepe e allontanarsi e li’ ho capito che tutti sapevano e temevo che non saremmo riusciti a carpire i segreti piu’ intimi della cosca, come invece accaduto con fotogrammi della consegna del denaro”.

Creato Lunedì, 15 Maggio 2017 15:28

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/crotone/144610-il-cara-e-la-misericordia-erano-bancomat-della-ndrangheta

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JONNY | Poerio, recordman di voti e uomo del clan

Il ruolo del consigliere comunale di Isola nel meccanismo che allontanava i soldi dai servizi del Cara per portarli nelle casse della ‘ndrangheta Lunedì, 15 Maggio 2017 14:58 Pubblicato in Cronaca

CATANZARO Consigliere comunale, recordman di preferenze, sempre in prima fila nelle manifestazioni antindrangheta. In realtà, secondo le Dda, cosciente prestanome di uno dei principali ingranaggi societari che hanno permesso ai feroci clan di Isola Capo Rizzuto di mettere le mani sull’accoglienza. Un business per la ‘ndrangheta, un quotidiano inferno per gli ospiti del Cara, le cui condizioni sono finite più volte sotto i riflettori. È per questo che il consigliere comunale Pasquale Poerio è finito in carcere con la pesante accusa di essere uno dei partecipi all’associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico, con il compito precipuo di collaborare nella «distrazione dei capitali serventi la gestione del catering per il Cara, apprestando all’uopo falsi documenti contabili e utilizzando, quali soggetti contabili emittenti, le imprese commerciali dalle stesse gerite», ma anche di «acquisire quote sociali di imprese appositamente costituite per veicolare il danaro provento delle illecite condotte di distrazione, sì da ripulire lo stesso per essere destinato in parte ad incrementare la c.d. bacinella della cosca». Traduzione, il politico era uno degli ingranaggi del sistema di scatole cinesi che ha permesso al clan di rubare i soldi dell’accoglienza per finanziare nuove imprese criminali. Rubava ai poveri (e senza diritti) per dare ai ricchi (e presunti ‘ndranghetisti). E al parroco, don Scordio, che grazie al business dell’accoglienza ha incamerato milioni. Poerio – spiegano gli investigatori –  «non conduce alcuna strategia aziendale, sia essa di natura meramente amministrativa sia di natura organizzativa, che invece risulta condotta, per il tramite di Poerio Antonio, da quest’ultimo, da Poerio Fernando e da Sacco Leonardo». Lo conferma la segretaria della società, che interrogata dai finanzieri assicura di aver avuto a che fare con Pasquale Poerio, ma di essere stata assunta e di aver sempre trattato con Leonardo Sacco e Antonio Poerio. Ma lo ammette – intercettato – anche quest’ultimo, che a Salvatore De Furia raccomanda: «Tu evita di farti vedere, io qua manco li faccio entrare». E a maggior chiarezza spiega: «Io non mi trovo il nome mio qua, che è a nome di altri perché apposta, perché mi vedono con quello, mi vedono con quell’altro … non va bene!». “Qua” è la società Quadrifoglio. Ma di fortuna oggi sembra avergliene portata poca.

Alessia Candito

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/57822-jonny-poerio,-recordman-di-voti-e-uomo-del-clan

La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

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Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

Melito (RC) 13 anni, stuprata dal branco. La Collettiva AutonoMia scende in piazza: “Il silenzio è complicità. Troviamo soluzioni comuni”

Ecco che la storia si ripete, cambia la vittima, il luogo e gli auguzzini ma le componenti sono uguali: stupro, possesso, ndrangheta, dominio e soprattutto omertà. La stessa storia di Anna Maria Scarfò. La violenza maschile sulle donne nella nostra Calabria, continua ad essere alimentata dalla cultura patriarcale e dalla mentalità ‘ndranghetista con la complicità delle coscienze sopite, per paura o per indifferenza, da cui trae linfa vitale per imporsi, crescere e proliferare, nel silenzio e nell’immobilità della politica e delle istituzioni locali e nazionali.
Un territorio, che troppo spesso si gira dall’altra parte, sente ma diventa sordo, vede ma all’occorrenza diventa cieco.
Basta – urlano dalla Collettiva AutonoMia – Noi non siamo state e non saremo in silenzio: la nostra lotta continua.
Scendiamo in piazza tutte e tutti, confrontiamoci, troviamo soluzioni comuni. Lunedì 5 settembre, ore 18:00 a Piazza Italia (Reggio Calabria).

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/reggio-calabria/119929-melito-rc-13-anni-stuprata-dal-branco-la-collettiva-autonomia-scende-in-piazza-il-silenzio-e-complicita-troviamo-soluzioni-comuni

Violenza sessuale di gruppo, otto arresti a Reggio

L’incubo durava da anni. Fra gli arrestati anche un minore e il figlio di un boss. Il branco minacciava la vittima di divulgare le sue immagini intime. La spedizione punitiva contro il fidanzato della giovane sottoposta agli abusi

Venerdì, 02 Settembre 2016 08:12

REGGIO CALABRIA Violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale: sono questi i reati contestati a un vero e proprio branco di dieci persone, tutte arrestate questa mattina dai Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. Fra loro, c’è anche un minorenne, il cui arresto è stato disposto dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria presso il Tribunale dei Minorenni. Stando alle prime indiscrezioni, i dieci aguzzini avrebbero sottoposto per anni ad abusi e angherie una ragazzina di Melito Porto Salvo, appena tredicenne quando è finita nel mirino del branco. La vittima, la cui vita è stata caratterizzata da un perdurante e grave stato d’ansia che l’ha costretta anche a mutare le proprie abitudini, nel periodo degli abusi era completamente soggiogata al “branco”. I ragazzi, infatti, l’avrebbero minacciata di divulgare alcune sue foto intime e di rivelare le sue “nefandezze” ai genitori.

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(Benedetto, Iamonte, Nucera, Principato, Schimizzi, Tripodi e Verduci)

I NOMI DEGLI ARRESTATI Tra gli arrestati c’è Giovanni Iamonte, di 30 anni, figlio di Remingo, attualmente detenuto, ritenuto il capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta operante a Melito. Il gruppo si è anche reso protagonista di una spedizione punitiva nei confronti di un giovane con il quale la ragazza sottoposta alle violenze aveva allacciato una normale relazione sentimentale allo scopo di allontanarlo e “riappropriarsi” della ragazza. Al termine delle indagini, i carabinieri hanno arrestato e portato in carcere, oltre a Iamonte, Daniele Benedetto (21), già noto (come Iamonte) alle forze dell’ordine; Pasquale Principato (22), Michele Nucera (22), Davide Schimizzi (22), Lorenzo Tripodi (21) Antonio Verduci (22). Un diciottenne che all’epoca dei fatti era minorenne, G.G., è stato portato in una comunità. Domenico Mario Pitasi, infine, è stato raggiunto dalla misura dell’obbligo di presentazione quotidiano alla Pg essendo accusato solo di favoreggiamento personale.

a. c.

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/49338-violenza-sessuale,-dieci-in-manette-a-reggio

TERZO VALICO: ‘NDRANGHETA AD ALTA VELOCITA’

Fonte:

ORRORE AGLI OSPEDALI RIUNITI DI REGGIO CALABRIA. INCHIESTA “MALA SANITAS”

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate

ospedaliriunitiinterno

di Claudio Cordova – Il colore bianco del camice dovrebbe essere simbolo di pulizia, di purezza, di candore. Sotto il profilo materiale e morale. Chi lo indossa, invece, dovrebbe rappresentare un baluardo, una difesa contro i mali della vita: un’ancora di luce cui aggrapparsi nel dramma della malattia. L’ospedale dovrebbe essere un luogo in cui poter alleviare le proprie sofferenze, un presidio di diritti sanciti dalla Costituzione.

Tutto questo non esiste a Reggio Calabria.

Le condotte che l’indagine “Mala Sanitas” consegna alla popolazione fanno emergere uno spaccato agghiacciante degli Ospedali Riuniti, vero e proprio luogo di orrore, quasi di torture ai pazienti che, dopo i danni irreparabili causati dall’imperizia del personale medico venivano persino convinti della bontà del trattamento subito.

Oltre al danno la beffa.

Non c’è centimetro di Reggio Calabria che conservi ancora un che di buono, un che di puro. Dove non arriva (in maniera diretta) la ‘ndrangheta, arrivano corruzione, clientele e squallore. Una città priva di punti di riferimento, in cui sono ormai definitivamente spezzati quei vincoli fiduciari su cui una società dovrebbe fondarsi: dalla politica alla giustizia, arrivando ora alla sanità, non ci si può fidare più di nessuno.

Così una città muore. Resta da capire solo la velocità con cui verrà dichiarato il decesso.

La collocazione del dott. Alessandro Tripodi, uno dei personaggi principali dell’inchiesta curata dai pm Gaetano Paci, Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci, è l’emblema di come vanno le cose in città: Tripodi, nipote di Giorgio De Stefano, l’avvocato-eminenza grigia considerato uno delle menti più sopraffine che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, avrà per anni un peso assai significativo all’interno del reparto di Ginecologia dei “Riuniti”, fino a diventarne addirittura il primario. E’ ascoltando lui – partendo da un’indagine sulla cosca De Stefano – che agli uomini della Guardia di Finanza viene aperto un mondo fatto di imperizia medica, di falsità ideologica, di aborti obbligati e di indicibili sofferenze per moltissime famiglie, che subiranno danni irreparabili per i propri neonati e, talvolta, la morte degli stessi.

Ecco la sanità reggina, lottizzata da ‘ndrangheta e sistemi di potere che non lasciano alcuno spazio alla meritocrazia. Concorsi truffa in cui a vincere sono quasi sempre gli “amici degli amici” o le “amiche” dei potenti di turno. Perché la carriera ospedaliera, con la possibilità del primariato, rappresenta ancora un elemento di prestigio sociale e di potere.

Tutte caratteristiche che il “sistema” – che nelle sue varie articolazioni quali politica, imprenditoria, massoneria, ‘ndrangheta, ecc. – possiede per sua stessa caratteristica ontologica.

Proprio quel “sistema” che l’inchiesta ha svelato all’interno degli Ospedali Riuniti. Un mutuo, omertoso, silenzio, così granitico da far impallidire quello di matrice mafiosa. Tutto per celare all’esterno le malefatte compiute sicuramente nel 2010 e che – sospettano gli inquirenti – sarebbero potute certamente proseguire anche negli anni successivi.

Una melassa nauseabonda che tanto somiglia alla fluidità di rapporti che regolano la vita reggina.

E sconcerta che nessuno possa essersi accorto di nulla in tutti questi anni. Che la Direzione Sanitaria pro tempore non abbia assunto alcun tipo di decisione. Così come inimmaginabile credere che gli artifizi messi in atto dagli indagati siano potuti accadere all’oscuro del personale infermieristico. Ecco nuovamente la melassa in cui una mano lava l’altra e in cui nessuno vede alcunché.

E allora non può che diventare fondamentale l’indagine di natura tecnica.

Un’indagine che non avrebbe mai potuto portare a galla tali circostanze senza il preziosissimo strumento delle intercettazioni telefoniche. Quelle stesse intercettazioni telefoniche che qualcuno – evidentemente complice, almeno moralmente, del malaffare – vorrebbe limitare o, addirittura, in alcuni casi, vietare. Che vorrebbe, sicuramente, impedire ai giornalisti di pubblicare, perché vorrebbe il popolo all’oscuro di fatti così gravi e incapace, quindi, di indignarsi, di formare una coscienza sociale che è alla base di quei vincoli di cui si parlava poco fa e che per Reggio Calabria sono ormai solo un lontano ricordo del passato. Ed eccoli lì, con vicende così gravi sul piatto della bilancia a spaccare il capello in quattro, circa la rilevanza o meno della pubblicazione, all’insegna di un garantismo becero che puzza di mafiosità.

E invece noi saremo qui a pubblicare, ancora e ancora e ancora qualsiasi testo non coperto dal segreto istruttorio che possa contribuire a informare i cittadini e ricostruire una società disgregata e ormai alla mercé di ‘ndrangheta, politicanti, affaristi e professionisti inadeguati o piegati ad altre logiche.

L’inchiesta “Mala Sanitas” ha indignato la città. E attraverso la conoscenza delle squallide dinamiche scoperte dalla Procura di Reggio Calabria ora la cittadinanza conosce la strada verso la porta della denuncia. Un uscio che però deve essere varcato con convinzione per poter incidere su quelle sacche di malaffare che talvolta distruggono e impoveriscono, ma che, in molti casi, uccidono.

Al netto dei reati che la Procura contesta agli indagati, il tratto caratteristico dell’inchiesta è rappresentato dall’assoluta mancanza di professionalità e di empatia che il personale medico di reparti così significativi sotto il profilo morale e sociale – Ginecologia e Ostetricia – avrebbero dimostrato nel corso della propria attività lavorativa. Pazienti che non solo non venivano considerati esseri umani, ma che, probabilmente non assumevano nemmeno la dignità di “numeri” da salvaguardare nel proprio ordine. Bastava infatti falsificare le cartelle cliniche – diventate a tutti gli effetti carta straccia – per ricreare una realtà fittizia di quanto accaduto in quell’inferno degli Ospedali Riuniti, che non lascia spazio ad alcuna aspettativa positiva, ad alcuna speranza.

Ciò che annichilisce, infatti, è la naturalezza con cui i protagonisti dell’inchiesta “Mala Sanitas” avrebbero messo in atto alcuni dei comportamenti più squallidi di cui l’essere umano possa essere capace. Talvolta anche col sorriso sulle labbra. Tripodi – stando all’accusa – avrebbe sostanzialmente causato farmacologicamente un aborto alla sorella per il solo sospetto che dal parto potesse nascere un bambino con delle gravi patologie.

Fatti del 2010. I protagonisti sono riusciti a dormire ogni notte per circa sei anni, senza provare il minimo cenno di pentimento o rimorso.

Siamo umani, non può andare così.

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L’indagine: http://ildispaccio.it/primo-piano/106439-aborti-bimbi-morti-e-cartelle-cliniche-falsificate-orrore-infinito-ai-riuniti

I nomi delle persone coinvolte: http://ildispaccio.it/primo-piano/106411-operazione-mala-sanitas-agli-ospedali-riuniti-i-nomi-dei-soggetti-coinvolti

Il dottor Tripodi, il nipote di Giorgio De Stefano: http://ildispaccio.it/primo-piano/106484-orrore-ai-riuniti-il-dottor-tripodi-nipote-di-giorgio-de-stefano

Le intercettazioni: http://ildispaccio.it/primo-piano/106451-organizza-l-aborto-della-sorella-a-sua-insaputa-le-intercettazioni-agghiaccianti

 

 

Fonte:

http://ildispaccio.it/primo-piano/106541-lasciate-ogni-speranza-voi-ch-entrate

 

 

Leggi anche gli articoli di Alessia Candito:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/45497-un-colpo-di-bianchetto-contro-gli-orrori-in-corsia

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/45457-errori-in-ospedale,-arrestati-4-medici

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/04/21/news/reggio_calabria_aborti_senza_consenso_in_ospedale_11_misure_cautelari-138092702/

 

8 gennaio 2010 Rosarno (Reggio Calabria)

Uomini delle n’drine sparano contro i raccoglitori d’arance africani che non hanno pagato il pizzo di 5 euro preteso sul guadagno giornaliero: 20 euro in tutto per un lavoro massacrante e per terminare la giornata in capannoni dismessi e senza servizi. In duecento si ribellano alla schiavitù compiendo blocchi stradali ed appiccando fuoco ad auto e cassonetti, ma le n’drine mobilitano il popolino razzista in una caccia all’uomo e nell’assedio al municipio: “O li cacciate o ne ammazziamo uno per sera”. Il bilancio del pogrom è di 70 feriti, dei quali uno con la testa rotta, 3 gambizzati, altri feriti da colpi d’arma da fuoco o di ascia. La magistratura spicca 8 ordini di arresto, 3 di italiani, fra i quali Antonio Bellocco – nipote del boss Carmelo Bellocco- gli altri africani. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ordina 1.100 trasferimenti coatti in strutture per stranieri, premessa per l’espulsione: tranne “i feriti che non hanno reagito” al pestaggio, una decina in tutto. Diversi riescono a fuggire, senza avere un luogo dove andare.

 

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/8-gennaio-2010-rosarno-reggio-calabria/

 

 

In ricordo di Lea Garofalo

garofalo-lea-flag-liberaa cura di Valerio D’Ippolito e Valentino Marchiori** – 24 novembre 2014
La sera del 24 novembre di 5 anni fa Lea Garofalo, insieme a sua figlia Denise, avrebbe dovuto prendere il treno che da Milano l’avrebbe portata in Calabria al suo paese natale di Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro nella provincia di Crotone. Quel viaggio Lea non lo ha mai compiuto, quella stessa sera, infatti, i suoi carnefici l’hanno prima uccisa a Milano e poi l’hanno portata a Monza, in un prato di San Fruttuoso, dove, per farne scomparire il corpo, l’hanno bruciata in un grosso bidone. Questa estate dal 18 di maggio al 21 di luglio quel viaggio “mancato” lo abbiamo fatto noi collegando a piedi in 59 tappe e percorrendo 1580 Km, il luogo della macabra esecuzione a Monza con il paese che gli aveva dato i natali 35 anni prima : Pagliarelle.

La storia di Lea Garofalo

 

 

Fonte:

http://www.antimafiaduemila.com/2014112452519/mafia-flash/in-ricordo-di-lea-garofalo.html

I RIFIUTI TOSSICI INTERRATI E AFFONDATI IN CALABRIA

Originariamente pubblicato sul n. 1 – anno 1 del periodico di informazione giuridica Diritto21, a diffusione interna al dipartimento DiGiEC dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.

Di Giuseppe Chiodo:

 

I nuovi M(u)ostri che minacciano il Sud

Parte II: i rifiuti tossici interrati e affondati in Calabria

 

Le viscere della Calabria sono da tempo il cimitero di quantità sterminate di rifiuti tossici e radioattivi? Questo l’allarmante interrogativo che sembrerebbe emergere dal blocco di documenti recentemente declassificati dal Governo, su pressante richiesta dell’associazione ambientalista Greenpeace. Decine di dossier dei servizi segreti e verbali di audizioni di alcune commissioni parlamentari d’inchiesta, a fronte degli oltre 3000 ancora soccombenti alla “ragion di Stato”, sono dunque a disposizione dei cittadini. E descrivono un quadro inquietante.
Terra e mare sarebbero state infatti utilizzate come oscuri “pozzi” nei quali gettare, senza preoccuparsi delle conseguenze sanitarie, ambientali e penali, rifiuti di non meglio identificata natura, da parte di un’organizzazione senza scrupoli avente come terminale le cosche della ‘ndrangheta operanti sui singoli territori, sotto la “direzione”, forse, di apparati deviati dello Stato.
Il documento n. 488/03, facente parte del “patrimonio conoscitivo” della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti (della XVI legislatura), è probabilmente il più esaustivo e preoccupante. In questo stralcio di appunto originato dall’AISI (l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) molte pagine sono dedicate alla vicenda delle cd. “navi a perdere” e alle dichiarazioni del controverso collaboratore di giustizia Francesco Fonti, il quale “[…] ha riferito del coinvolgimento della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di scorie nucleari, realizzato attraverso […] l’affondamento pilotato di una serie di motonavi (circa una trentina) all’interno delle quali erano stivati rifiuti pericolosi”. Oltre al più noto caso del “Cunsky”, il cui relitto sarebbe stato identificato al largo di Cetraro (salvo poi rivelarsi invece quello di una nave passeggeri colata a picco nel 1917), l’ex malavitoso si sarebbe addossato la responsabilità dell’affondamento di almeno altri due natanti, di cui uno, il “Voriais Sporadais”, sarebbe stato inabissato al largo di Melito Porto Salvo. Con dentro 75 bidoni di sostanze tossiche.
Anche gli impervi territori della Calabria sarebbero stati oggetto di costanti sversamenti. Africo, Serrata, la zona aspromontana, le Serre e il vibonese sono alcune delle località ricorrenti nel dossier, zeppe di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, di scorie tossiche e radioattive arrivate dalla Germania, di non meglio identificate sostanze pericolose trasportate fin qui dall’Est Europeo. Dati che farebbero il paio, ad esempio, con alcune informative dei Carabinieri agli atti dell’inchiesta “Saggezza”, contenenti la trascrizione di intercettazioni in cui due presunti appartenenti all’organizzazione massonico – ‘ndranghetistica oggetto d’indagine confessano che “Ne hanno sotterrati di questi cosi tossici qui nella montagna, che glieli hanno portati i <<pianoti>>, che lì a Gioia Tauro dice che stanno scoppiando che Dio ce ne liberi”; nella cittadina da cui prende il nome la Piana, infatti, sempre secondo i soggetti inconsapevolmente ascoltati dalle forze dell’ordine, “dicono che a ogni albero di ulivo c’è un bidone”.
Ad occuparsi della verifica della fondatezza di queste copiose notizie di reato, tra gli altri, ci pensò all’epoca dei fatti (che le note dei servizi fanno risalire ai primissimi anni ’90) il dott. Francesco Neri, sostituto procuratore a Palmi; lo stesso magistrato che dispose il coraggioso sequestro dell’area che in quel medesimo periodo veniva deturpata per la costruzione del porto di Gioia Tauro, e l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di ben tredici differenti ipotesi che coinvolgevano il Consiglio di Amministrazione dell’Enel, principale investitore: dalla violazione delle norme urbanistiche e dell’ambiente, alla turbativa d’asta e delle norme sugli appalti. Inchieste, entrambe, poi risoltesi in un nulla di fatto. Così l’epilogo è forse lo stesso del profetico libro sull’argomento dei giornalisti Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, “Avvelenati”: “Un mare di <<ho sentito dire>>, <<ho saputo>>, <<ho notizia>>. Dal caso Alpi al traffico di armi, dalle scorie alle banche svizzere, dalla ‘ndrangheta ai servizi segreti. Mai una verità coincidente con un’altra, mai una prova vera. Solo tanti interrogativi sparsi su poche certezze. E tutti restiamo avvelenati”. Ma il procuratore Cafiero de Raho è già al lavoro per cambiarlo.

1970/ Cinque giovani anarchici calabresi. Morti.

rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014

Quando nel 2001 usciva il libro di Fabio Cuzzola Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, la vicenda legata alla morte di cinque compagni calabresi viveva solo nel dolore dei familiari e nel ricordo dei compagni che avevano vissuto l’irripetibile stagione del ’68. Da quel momento in poi si è aperto un cammino che, attraverso le più svariate forme di comunicazione e arte, ha contribuito a fare conoscere anche fuori dal movimento anarchico questa vicenda, che oggi è patrimonio della storiografia ufficiale. Basti pensare che questa storia ha ispirato vari spettacoli teatrali, un documentario, canzoni, una puntata di Blu Notte di Lucarelli.
Un altro importante tassello si aggiunge oggi con la pubblicazione del volume Il sangue politico (Editori Internazionali Riuniti, 2013, pp. 253, € 16,00) di Nicoletta Orlandi Posti, impreziosito dalla prefazione di Erri De Luca.
Ha ragione lo scrittore napoletano quando afferma che questo è “un caso che li riassume tutti”, perché in questa vicenda s’incrociano drammaticamente la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, il golpe Borghese, la rivolta di Reggio Calabria dei “Boia chi molla” e la strage di Gioia Tauro, che con la recente sentenza, passata in giudicato, si configura come la prima strage della storia ad opera della ‘ndrangheta. In questo gorgo di odio, lotta e misteri trovarono la morte, in un attentato camuffato da incidente, Angelo Casile, Gianni Aricò, Annalise Borth, Franco Scordo e Luigi Lo Celso, poco più di cento anni in cinque, ma con alle spalle una militanza già ricca di viaggi, manifestazioni, arresti e processi.
Il libro poggia su due pilastri che fanno di questo lavoro un’opera agile e indispensabile per capire e ricostruire un momento nevralgico per la storia contemporanea. Orlandi Posti si è giovata dell’immensa mole di documenti di tutti i processi di piazza Fontana, oggi finalmente disponibile in formato digitale, e sulle narrazioni dei militanti del gruppo 22 marzo, che hanno consentito alla giornalista e scrittrice, orgogliosamente originaria della Garbatella, di dare completezza storiografica a un quadro di eventi complesso.
La storia dei giovani anarchici, al tempo militanti della Fagi (Federazione anarchica giovanile italiana), s’incrocia con la macro storia, nella quale finiscono per imbattersi in “cose che faranno tremare l’Italia”. Trame oscure, più grandi della loro gioventù e che ancora aleggiano nella ricostruzione dell’incidente in quella maledetta notte fra il 26 e 27 settembre del 1970 lungo l’autostrada nei pressi di Ferentino.
Due elementi raccolti successivamente alle indagini rivelano la trama criminale ordita contro quei giovani mentre si dirigevano a Roma per consegnare ai compagni della Fai il frutto delle loro ricerche. In loco interviene la polizia stradale, quella sera comandata da Crescenzio Mezzina, uomo dei servizi, quattro anni dopo condannato per il tentato colpo di stato Fumagalli. La sua mano sottrarrà i preziosi documenti.
Il secondo elemento è legato alla diffusione della notizia. La prima informativa dei servizi segreti sull’incidente, telegrafata alle tre del mattino del 27 settembre, arriva da Palermo, molto strano per un normale incidente stradale, avvenuto a mille chilometri di distanza.
Una riflessione a parte merita la sperimentazione del metodo di scrittura utilizzato; la scrittrice dosa in maniera sapiente un doppio registro linguistico e narrativo, alternando passi romanzati, utili per fare capire a chi non ha vissuto quegli anni il clima e l’ambiente politico-culturale, a capitoli di vera e propria inchiesta “vecchio stile”, con documenti, articoli, stralci di interrogatori, fonti orali.
Il sangue politico è diventato anche un monologo teatrale e un blog, dove l’autrice raccoglie materiali delle varie presentazioni a testimoniare che ancora quella storia ha molto da raccontare ai vivi e a “quelli che passeranno”.

Fabio Cuzzola
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Fonte:

http://www.arivista.org/?nr=386&pag=75.htm#5