«A morsi le donne cercavano di vivere»

Arrestiamo umani. Medici senza Frontiere ha raccolto gli aggiaccianti racconti dei superstiti e dei soccorritori della strage di donne a bordo di uno dei due gommoni intercettati giovedì dalla nave Aquarius. Una testimonianza che pubblichiamo integralmente.

«Il fondo del gommone si è rotto, il peso delle persone lo ha lacerato e l’acqua ha cominciato a entrare. Quando l’acqua ha raggiunto l’altezza delle ginocchia, le ragazze che erano sedute al centro sono state prese dal panico, urlavano e gridavano. Alcune di loro hanno provato ad alzarsi ma scivolavano indietro nella pozza di acqua e benzina. Alcune mordevano gli uomini con i denti, perché erano intrappolate sul fondo del barcone».

È l’agghiacciante racconto di David, 30enne nigeriano sbarcato ieri a Trapani con altri 208 superstiti recuperati dalla nave di soccorso Aquarius. È una delle testimonianze raccolte da Msf.

La traversata del Mediterraneo per David è iniziata in Libia di notte. «Mi sono imbarcato sul gommone tre notti fa», inizia così il suo racconto. «È stata una notte orribile, alcuni uomini sparavano colpi in aria, hanno radunato le persone e le hanno spinte verso il mare. Hanno caricato troppe persone sulla nostra barca, troppe persone».

Ricorda il momento della tragedia, del panico assoluto, dopo giorni di navigazione in mare aperto, quando il gommone dove si trovava si è squarciato sul fondo: «Tutti nel gommone si muovevano in modo concitato. Non potevamo andare da nessuna parte ma si spostavano, cercavano di non scivolare, di non rimanere intrappolate nella pozza di benzina e acqua, ma quando si muovevano da un lato o dall’altro entrava sempre più acqua. Abbiamo cominciato a buttare fuori acqua, l’imbarcazione era completamente piena».

Poi i soccorsi: «Quando è arrivata la nave italiana, sono state portate via per prime tutte le donne ancora in vita. C’era una ragazza ancora viva sotto i corpi dei morti. È stata tirata fuori da sotto i corpi senza vita». «Sono salvo e penso che ringraziamo Dio – è la sua conclusione – . Salire sulla barca è davvero pericoloso. Questa è la verità. Non consiglio a nessuno di prendere la barca. Non posso dimenticare quello che ho visto con questi occhi».

Mary, violentata in Libia

La testimonianza di Mary, 24 anni, nigeriana anche lei, anche lei sul gommone sfondato insieme al marito, è persino più cruda. «Durante la traversata, l’acqua entrava nella barca. Stavo annegando – racconta – lottavo per sopravvivere. Invece di aiutarmi le persone mi calpestavano e mi usavano per cercare di stare a galla. Una donna incinta chiedeva aiuto, alcune persone erano già morte.

Continuavo a chiedere aiuto ma nessuno mi aiutava. Non respiravo, ho dovuto mordere per cercare di respirare. Ho detto a Dio che non volevo morire. Poi qualcuno ha urlato “tua moglie ti sta chiamando” e mio marito mi ha preso la mano e mi ha trascinato per farmi riuscire a respirare. Le persone mi camminavano addosso. Alcuni mordevano mio marito, il suo corpo era pieno di morsi. Ha usato tutta la forza che gli rimaneva, mi ha preso e mi ha stretto contro il bordo del gommone. Così l’acqua ha iniziato a uscire dalla mia bocca. Quando è passato un elicottero abbiamo cercato di farci vedere muovendo le mani chiedendo aiuto. Ho pensato che anche la polizia libica sarebbe andata bene. Sarei tornata in quella prigione piuttosto che morire in mare. Dio mi ha dato una seconda possibilità».

«Sulla nave che ci ha salvato ho visto un uomo che non mi aveva aiutato – continua Mary – Mi ha detto che non era colpa sua, stava lottando per la sua stessa vita». Mary ha passato due mesi in Libia. È stata in prigione là e racconta di essere stata violentata dai suoi carcerieri: «Non puoi dire di no. Loro hanno le pistole, urlano, parlano nella loro lingua. Speravo non mi guardassero, che mi vedessero come una donna adulta. Cercano giovani ragazze attraenti. Ti toccano il seno, fanno quello che vogliono, ti picchiano come animali.

Tutti i giorni le persone piangevano, svenivano, se chiedevi aiuto ti ridevano in faccia. Ogni tanto aprivano la prigione e dicevano di scappare, ma poi ti raggiungevano e ti riportavano dentro. Questa è la mia testimonianza – conclude – voglio usarla per dire alle persone quanto grande sia Dio».

Il silenzio dei sopravvissuti

La dottoressa Erna Rijnierse, è a capo dell’èquipe medica di Msf a bordo della Aquarius e racconta: «Quando siamo arrivati ci ha colpito subito il silenzio. Di solito quando ti avvicini a un barcone le persone agitano le braccia, urlano. Stavolta erano tutti in silenzio. Ho chiesto il permesso di salire a bordo.

L’acqua mi arrivava ai polpacci. C’era un odore fortissimo di carburante misto a urina e altro. Era difficilissimo non calpestare i corpi, ma volevo essere assolutamente certa che le donne fossero davvero oltre il punto di una possibile rianimazione. Alcune di loro erano già in rigor mortis. Era chiaro che non erano morte negli ultimi minuti e potevi vedere nei loro occhi che avevano lottato per sopravvivere. Dal punto di vista medico non c’era più niente da fare. Così sono tornata al nostro gommone per vedere i sopravvissuti. Molti avevano bruciore agli occhi dovuto ai gas o al carburante. Altri avevano graffi e morsi sulle gambe, sulla schiena e sulle braccia. Probabilmente glieli avevano procurati le ragazze schiacciate a terra mentre cercavano di liberarsi. Dev’essere stato un inferno».

«I sopravvissuti sono traumatizzati – aggiunge la dottoressa -, guardano nel vuoto, sguardi persi. Quanto hanno vissuto qui è oltre ogni immaginazione. Non riescono nemmeno a riconoscere i propri cari. Quello che davvero non posso sopportare è che queste ragazze siano morte di una morte orribile per l’unica ragione che non avevano altro modo di venire in Europa. Sono furiosa. Sono arrabbiata contro le politiche che tengono lontane queste persone, che non hanno per loro alcuna importanza. Queste ragazze avrebbero potuto comprare un biglietto aereo e fare un viaggio comodo e sicuro. E avrebbero pagato meno della metà di quanto hanno pagato per questa traversata maledetta. Allo stesso tempo sono estremamente triste perché queste persone non avevano commesso alcun crimine. Non erano malate. Erano persone normali con tutta la vita davanti».

Sotto il cumulo dei corpi

Ferry Schippers, coordinatore di Msf a bordo della Aquarius racconta a sua volta: «Dopo la chiamata di emergenza, ci è stato chiesto di dirigerci verso est il più velocemente possibile. Le prime informazioni parlavano di 15 morti su uno dei due gommoni. Il numero di corpi senza vita che abbiamo portato a bordo era poi ancora più alto: ventidue, 22 morti evitabili. I miei pensieri sono subito andati a chi era ancora a bordo del gommone in attesa di essere soccorso mentre fissava i propri cari o le persone conosciute senza vita ai propri piedi. Dovevamo portare queste persone a bordo il più velocemente possibile. Abbiamo soccorso prima i 104 sopravvissuti, poi le 105 persone a bordo dell’altra imbarcazione. Infine, abbiamo recuperato i corpi, forse l’azione più impegnativa».

«Le persone che salivano a bordo – riferisce ancora Schippers – guardavano nel vuoto, verso un punto lontano. La maggior parte di loro non rispondeva nemmeno quando gli chiedevamo che lingua parlassero. Abbiamo dato loro una piccola borsa con una coperta, biscotti energetici, dell’acqua che bevevano d’un fiato, calze e un asciugamano. Un uomo, in francese, mi ha detto: “Mia moglie è morta ed è ancora sul gommone, non so cosa fare…”».

L’ultima parte dell’operazione è stata recuperare i corpi senza vita. «Tre uomini sono scesi sul gommone, pieno di corpi che galleggiavano in una pozza di acqua e carburante – spiega il coordinatore -. Con una barella e una carrucola li abbiamo tirati a bordo uno a uno, nel massimo rispetto. Non importa quanti corpi prendessimo, il gommone sembrava non svuotarsi mai. Nella mia mente c’erano moltissimi pensieri. Ero arrabbiato e pieno di tristezza per quelle persone sfortunate, soprattutto donne, che avevano sofferto così tanto. Non avevano commesso alcun crimine tranne quello di cercare una vita migliore in Europa».

La morte avrà i tuoi occhi

Ablaygalo Diallo è il mediatore culturale dell’équipe di Msf che ha partecipato al Pfa (Psychological First Aid), il supporto psicologico allo sbarco sul molo di Trapani. Ha soccorso tra gli altri l’uomo nigeriano che ha visto la moglie morire davanti ai suoi occhi. «Sono rimasto a lungo vicino a lui – dice – all’interno della tenda di Msf dove garantiamo privacy e senso di sicurezza ai più vulnerabili.

Mi ha raccontato di come insieme alla moglie sono fuggiti dalla Nigeria, hanno attraversato il deserto. La donna, incinta, durante il viaggio ha perso il bambino. Nonostante le enormi difficoltà, sono riusciti a partire insieme, imbarcandosi per una traversata pericolosissima. Il gommone stracarico su cui viaggiavano ha ceduto sotto il peso delle persone, più di cento, creando una falla. Le donne che stavano al centro sono morte asfissiate e affogate, mi ha spiegato lui in lacrime. Non ha più visto sua moglie e si è reso conto solo a bordo dell’Aquarius che era tra i cadaveri, riconoscendola dalla maglietta che indossava».

Diallo è riuscito a farlo sfogare e a calmarlo, convincendolo a chiamare la famiglia a casa, «per dire alla madre che era ancora vivo». «Quando ha sentito la voce della madre dopo mesi, ho visto un sorriso spuntare sul suo viso». «È stato difficilissimo per me – dice il mediatore – spiegargli quale sarà il suo futuro ora che è arrivato qui».

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/a-morsi-le-donne-cercavano-di-vivere/

Fermo, Emmanuel sta morendo. L’ha ucciso la violenza razzista

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche.

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Nigeriano picchiato a sangue a Fermo da un giovane, che secondo le ricostruzioni avrebbe insultato pesantemente e strattonato la compagna. I due giovani sono accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi. Che afferma: “Ci costituiremo parte civile. Sono gli stessi che hanno messo le bombe davanti alle nostre chiese”

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche. Emmanuel, insieme, alla compagna Chimiary, sono ospiti da otto mesi del seminario arcivescovile di Fermo, nel progetto gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Vinicio Albanesi. Accolti dopo esser sfuggiti a Boko Haram, dopo aver attraversato il Niger, superato le terribili violenze della Libia e sbarcati nel nostro paese.
Nel gennaio scorso era stato lo stesso don Albanesi ad unirli informalmente in matrimonio, presso la Chiesa di San marco alle Paludi. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.

Scrive Massimo Rossi, ex presidente della Provincia di Ascoli, esponente molto conosciuto di Rifondazione comunista

Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista che cresce nell’indifferenza, nell’indulgenza e nella compiacenza di larghi settori della comunità, della politica, delle istituzioni. L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia, due picchiatori, figli della città, cresciuti nell’umus del fascistume infiltrato ampiamente nella tifoseria ultras. Loro, che paragonarli alle bestie offende l’intera specie animale. Le mie lacrime, le nostre lacrime e la nostra vergogna per questo orrore che si é nutrito della putrefazione della nostra insensibilità, del nostro egoismo e delle nostre paure non basta affatto. Cosa dobbiamo attendere ancora per mettere al bando con ogni mezzo, tutti noi, cittadini e Istituzioni, il razzismo e fascismo che si annida nella nostra vita sociale e politica?

Da sinistra: Letizia Astori, Don Vinicio Albanesi, Suor Rita Pimpinicchi. Foto Zeppilli
Conferenza stampa 06 luglio 2016 2

La vicenda. Era il primissimo pomeriggio di ieri quando Emmanuel e Chimiary stavano passeggiando in centro città, diretti verso la piazza principale per acquistare una crema. I due si sono imbattuti in due giovani italiani, già conosciuti per la loro appartenenza al tifo organizzato della locale squadra di calcio. Secondo la ricostruzione della compagna di Emanuel, uno dei due avrebbe iniziato a insultare con epiteti razzisti la giovane, cominciando a strattonarla, tanto da suscitare la reazione di Emmanuel. Ne sarebbe scaturita una rissa, con un paletto della segnaletica estratto dalla strada, violenti fendenti e un colpo probbailmente decisivo che ha raggiunto il giovane Nigeriano alla nuca. Una volta a terra, sempre secondo il racconto di Chimiary, il giovane sarebbe stato colpito ripetutamente. Soccorso dai vigili, dagli agenti di polizia e dai sanitari, dopo lunga attesa, le condizioni del giovane sono sembrate disperate. Alla ragazza, invece, sono stati concessi cinque giorni di prognosi.

Chimiary ed Emmanuel
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi

La Fondazione si costituisce parte civile. “Una provocazione gratuita, a freddo – ha ricostruito oggi in conferenza stampa don Vinicio Albanesi -. Ci costituiremo parte civile, nella veste di realtà a cui i due ragazzi sono stati affidati”. Sono 124 i profughi accolti nella struttura del seminario di Fermo, tra cui 19 nigeriani. Non solo: “Per questa sera abbiamo già organizzato una veglia di preghiera. Vogliamo pregare e chiedere perdono per non aver saputo proteggere e accogliere una giovane vita, sfuggita al terrore per trovare poi la morte in Italia”. Ora il pericolo da scongiurare è una escalation di nervosismo tra i profughi o in città: “Non accettiamo vendette. C’è un ragazzo in condizioni disperate e un altro che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia”.
Di certo, la Comunità di Capodarco – di cui don Albanesi è presidente – accoglierà Emanuel per sempre. La volontà è quella di mettere a disposizione uno dei loculi che la comunità ha nel vicino cimitero.

Linciaggio e bombe: stessa mano? Nel corso della conferenza stampa, don Albanesi ha anche lasciato trapelare una indiscrezione importante: “Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana! Fanno capo anche alla tifoseria locale e secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione…”. Una dichiarazione che sembra imprimere una svolta importante anche alle indagini sui diversi attentati di cui sono stati fatte oggetto quattro chiese fermane nei primi mesi dell’anno.

Chimiary ed Emmanuel nel giorno del matrimonio
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi 2

Una storia d’amore finita tragicamente. Quella di Chimiary ed Emmanuel è una storia d’amore iniziata in Nigeria, che aveva superato le terribili violenze in Libia (per le botte ricevute, la giovane in stato di gravidanza si era sentita male durante il viaggio in mare, tanto da abortire al suo arrivo in Italia), le difficoltà nel nostro Paese. Emanuel aveva avuto problemi di salute, tanto che per lui la Commissione territoriale aveva chiesto un supplemento di istruttoria nella richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Ci sono ottime possibilità che il permesso venga concesso”, ha sottolineato l’avvocato Letizia Astorri. Lo scorso mese di gennaio, come ricordato, era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, seppur in maniera “non regolare” vista la mancanza di documenti dei due giovani. La liturgia cristiana, celebrata da don Albanesi nella veste di parroco e di presidente della Fondazione che li ha accolti, è stato infatti un matrimonio privo di effetti civili poiche i due ragazzi non avevano i documenti necessari. Questo però non aveva impedito ai due di realizzare il sogno maturato nella terra di origine.

© Copyright Redattore Sociale

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/07/06/fermo-emmanuel-sta-morendo-lha-ucciso-la-violenza-razzista/

La satira perdona…O forse no.

E’ passata una settimana dalla strage alla redazione del Charlie Hebdo. Nei giorni a seguire purtroppo la violenza è continuata con altri attentati e altre vittime a Parigi: morti quattro ostaggi e due degli attentatori del Charlie. In questa settimana molte cose sono state scritte: si sono sollevati polveroni su chi fosse Charlie e chi no, se fosse giusto esserlo o no, sul silenzio di tanti su altre stragi come quella di Boko Haram in Nigeria con 2000 vittime, sui palestinesi e i siriani che stanno morendo di freddo oltre che di assedio, sui giornalisti palestinesi uccisi , su chi si sarebbe dimenticato del vignettista Naji al-Ali, il padre di Handala.

© Khalil Bendib

(Fonte: https://www.facebook.com/syrilution/photos/a.1424991651072486.1073741827.1424980901073561/1556075241297459/?type=1&theater

 
Per me, che nelle pagine di questo blog cerco di parlare dei diritti umani in ogni parte del mondo e di argomenti simili non ho mai taciuto, una cosa non esclude l’altra. Così oggi ho acquistato e sfogliato il nuovo numero del giornale satirico Charlie Hebdo, diffuso in Italia in allegato con Il Fatto Quotidiano. Ancora una volta la satira è irriverente, anche stavolta in copertina è raffigurato il profeta Maometto. Però c’è qualcosa di diverso: nella vignetta di Luz il profeta è triste, gli scende una lacrima mentre tiene in mano un cartello con il famoso slogan coniato in questi giorni, sotto una scritta che recita “Tutto è perdonato”. In questo misto di tristezza e irriverenza, la satira, nei panni di un insolito Maometto, sembra voler perdonare quella strage e con essa quella assurda confusione tra fede e intolleranza. Per questo il profeta prende il nome di chi apparentemente lo denigra, per far capire che in realtà non è lui che viene sbeffeggiato ma l’intolleranza e sembra voler dire: “Quello che è successo non doveva succedere. Adesso andiamo avanti.”

 

Ma aprendo e sfogliando il giornale si vede come la stessa satira ha già spostato il velo di tristezza della vignetta in copertina e si fa nuovamente pungente. Si prendono in giro i preti, papa Francesco, suor Emmanuelle. Andando più avanti si vede perfino un simpatico crocifisso sdraiato su una spiaggia che chiede ai bagnanti se possono girarlo, sotto una scritta che dice “ Attenti alle scottature”. All’interno delle pagine ci sono, per ricordarli,  vignette di Wolinski, Charb, Tignous e Cabu. In una vignetta di Tignous tre salafiti dicono: “Non bisogna toccare quelli di Charlie Hebdo. Altrimenti passeranno per martiri e una volta in paradiso ci fregheranno tutte le vergini”. In una vignetta di Cabu si prendono in giro jihadisti armati immaginati in fila all’ufficio di collocamento per un posto di cassiere al Carrefour. Non mancano vignette sullo Stato Islamico e al-Baghdadi. Si prendono in giro politici internazionali. In parole povere non si risparmia nessuno com’è nella satira più irriverente.

 

D. Q.

 

10 Novembre 1995: muore il poeta Ken Saro Wiwa

Lunedì 10 Novembre 2014 08:42

altKenule ”Ken” Beeson Saro Wiwa, scrittore, poeta e attivista nigeriano, nacque il 10 ottobre 1941 a Bori, una cittadina nel delta del fiume Niger.

Membro dell’etnia degli Ogoni, fin dagli anni ottanta Saro Wiwa ne diventò il portavoce, conducendo una feroce e determinata campagna contro le multinazionali (Shell in primo luogo) responsabili di continue perdite di petrolio e conseguenti danni alle colture e all’ecosistema della zona.

Wiwa fu inoltre molto critico nei confronti del governo nigeriano che vedeva riluttante ad avvalorare delle regolamentazioni ambientali per le compagnie petrolifere operanti nell’aerea del delta del fiume.

Presidente del movimento per la sopravvivenza della popolazione Ogoni (MOSOP), Saro Wiwa continuò la sua battaglia per i diritti culturali, ambientali e per dare maggiore autonomia all’etnia della sua famiglia e dei suoi concittadini: nel gennaio 1993, a seguito della sua scarcerazione ottenuta dopo l’arresto e la detenzione avvenuti senza che si fosse svolto alcun processo, il MOSOP organizzò infatti una grandissima manifestazione a cui parteciparono 300.000 Ogoni – più di metà degli abitanti di Ogoniland – attirando l’attenzione di tutto il mondo sull’impegno di questa popolazione.

Lo stesso anno il governo occupò e militarizzò l’intera regione.

Il 21 maggio 1994, quattro oppositori del MOSOP furono brutalmente assassinati; a Saro Wiwa fu negato l’accesso alla città di Ogoniland e venne arrestato e accusato di incitamento alla violenza: egli smentì le accuse che lo vedevano complice dell’omicidio, ma ciò nonostante venne imprigionato per più di un anno prima di essere dichiarato colpevole e condannato a morte da un tribunale speciale.

Il 10 novembre 1995, Ken Saro Wiwa venne impiccato insieme ad altri 8 attivisti del MOSOP.

Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Centre for Constitutional Rights di New York avviò una causa contro la Shell per dimostrare il coinvolgimento della multinazionale petrolifera nell’esecuzione di Saro-Wiwa.

Il processo ebbe poi inizio nel maggio 2009 e la Shell subito patteggiò accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari. La Shell però precisò che aveva accettato di pagare il risarcimento non perché colpevole del fatto ma per aiutare il “processo di riconciliazione”.

 

Non è il tetto che perde

Non sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.

Non è il rumore metallico della chiave

Mentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioni

Insufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giorno

Che sprofonda nel vuoto della notte

Non è

Non è

Non è.

Sono le bugie che ti hanno martellato

Le orecchie per un’intera generazione

È il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida

Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.

Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiusta

La decrepitezza morale

L’inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazione

La vigliaccheria travestita da obbedienza

In agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditi

Non osiamo eliminare la nostra urina

È questo

È questo

È questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero

In una cupa prigione.

 

La vera prigione” – Ken Saro Wiwa

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3153-10-novembre-1995-muore-il-poeta-ken-saro-wiwa

Nigeria: #BringBackOurGirls (Riportate a casa le ragazze)

Fonte: https://www.facebook.com/bringbackourgirls/photos/pb.218477488363292.-2207520000.1399839681./220820721462302/?type=3&theater

Dal blog di Bob Fabiani:

Il 14 aprile scorso, lo stesso giorno in cui un’autobomba nell’aerea della stazione degli autobus del Nyanya Motor Park di Abuja che, ha lasciato sul terreno e sul selciato nigeriano almeno 70 morti e ben 124 feriti, in contemporanea, un raid organizzato e attuato da “Boko Haram”, un movimento islamico nigeriano – attivo in una regione tra le più povere del mondo, con una mortalità infantile, bassa alfabetizzazione e disoccupazione giovanile di massa che concorre a reclutare facilmente reclute agli islamisti radicali – fanno irruzione nell’istituto secondario femminile di Chibok – paesino dello stato del Borno, nel Nord-Est della Nigeria –  mentre 230 ragazze  sono alle prese con gli esami di fine anno. 
Accade tutto in pochi minuti. Le ragazze , di età comprese tra i 15 e i 18 anni, di religione cristiana e musulmane, sono state caricate su un camion  e sparite lungo il confine con il Camerun.
Purtroppo ci sono ancora posti in Africa dove il diritto allo studio è messo in serio pericolo da terroristi pronti a tutto: le ragazze nigeriane erano consapevoli dei rischi che correvano per la loro intraprendenza e, per il solo fatto di aver deciso di aspirare a un futuro diverso, un futuro che non fosse quello privo di cultura di una parte delle donne nigeriane delle generazioni che le hanno precedute e, che hanno dovuto provare, sulla loro pelle, la tragedia della guerra civile, un tratto comune a tanti stati del Continente.
La scuola femminile del Chibok era la sola scuola che aveva riaperto i battenti per consentire così, alle migliori studentesse dei vari villaggi; di poter sostenere gli esami di fine anno.
-IL VIDEO DEI RAPITORI DI BOKO HARAM.
Alcuni giorni dopo il rapimento di massa delle ragazze nigeriane, mentre il mondo, almeno sul web e su i social network si mobilitava in soccorso per le ragazze rapite, lo sceicco Abubakar Shekau gira in video con un messaggio delirante:”Ho rapito io le vostre figlie, sono schiave e le venderò al mercato in nome di Allah a cui appartengono.
Il mondo con il fiato sospeso accusa il colpo. Mentre, man a mano che passano le ore si scoprono alcune conferme al messaggio dei terroristi. Sembrerebbe che le giovani siano state messe all’asta a 12 dollari l’una e comprate per diventare “mogli” dei miliziani.
-LA REAZIONE DEI SOCIAL NETWORK IN SOCCORSO DELLE REGAZZE DELLA NIGERIA.
Nove giorni dopo l’orrore del rapimento di massa delle 276 studentesse nigeriane, il 23 aprile, nel pomeriggio, in una città del Sud della Nigeria è partito il primo tweet con l’hastag “BringBackOurGirls” (“Riportate a casa le nostre ragazze”). Era l’149 del 23 aprile 2014 e, l’autore del tweet è un avvocato nigeriano, Ibrahim M.Abullahi che, ha tratto ispirazione dalla ex ministra dell’Istruzione del governo nigeriano, Oby Ezekwesili, in occasione di un suo intervento durante la cerimonia di Port Harcourt, capitale mondiale del libro per l’Unesco, ha chiesto il rilascio delle ragazze rapite. 
Nell’occasione scandendo bene le parole ha coniato l’hastag che poi ha permesso a 1,7 milioni di persone, in tutto il mondo, di ripetere quelle parole:”Bring back the girl!”

Immediato è stato il “tam tam virale”: da Lagos – capitale della Nigeria da più di 20 milioni di persone – a Londra è partita una “Marcia globale” per salvare le ragazze nigeriane al quale hanno partecipato Malala, la ragazza pakistana, ferita quasi a morte dai talebani per lo stesso motivo per cui sono state rapite le studentesse nigeriane: la loro colpa è quella di credere nella salvezza dell’istruzione e in un futuro lontano da orrori e guerre tribali. Insiema a Malala ha aderito anche la first lady americana, Michelle Obama.
Il movimento planetario con 1 milione e 700 mila tweet, è riuscito nell’impresa di mettere sotto pressione il governo nigeriano, annicchilito, sfibrato dalla lunga guerra con Boko Haram e, grazie alla mobilitazione dei social ha infine, “costretto” i grandi del mondo ad agire.
-LA REAZIONE DELL’INTELLIGENCE MONDIALE CONTRO BOKO HARAM
La grande mobilitazione di solidarietà rilanciata in rete #RIDATECI INDIETRO LE NOSTRE RAGAZZE ha smosso anche l’intelligence occidentale per aiutare la Nigeria. E’ stato approntato un supporto che prevede l’invio di team esperti, coadiuvati da immagini satellitari e l’immancabile uso dei droni, ma questa volta solo di sorveglianza.
La macchina è partita e ora tutti ne vogliono fare parte. L’occidente – nessuno escluso – e la Cina che anche attraverso l’impegno per riportare a casa le 276 ragazze rapite, vogliono in questo modo mantenere e, se possibile, migliorare i propri interessi nell’aerea del paese africano, il paese che sta vivendo un caotico boom, anche economico, tanto da far diventare la Nigeria, il Paese migliore dell’Africa. 
La Nigeria tuttavia mostra tutti insieme le tipiche contraddizioni del Continente: grande crescita annua  che si attesta intorno al 7% del Pil ma anche corruzione dilagante e, una terra ancora segnata dalla povertà, sopratutto al Nord-Est, dove impervarsa Boko Haram e, dove a farla da padrone è l’Islam radicale, quello duro e puro, tutte questo concorre a mostrare le due facce della Nigeria, di gran lunga il paese più ricco d’Africa: per capire la netta differenza tra la Nigeria e gran parte dell’Africa, basta un unico dato: la ricchezza della sola Lagos vale quanto tutta quella che riesce a produrre il Kenia.
-INFORMANDO PER L’HASTAG LANCIATO IN RETE A FAVORE DELLE RAGAZZE NIGERIANE.
Anche queste pagine virtuali sono a disposizione per la campagna mondiale #BringBackOurGirls.
La speranza è che tornino presto dai loro cari e che possano lasciarsi alle spalle questa brutta avventura. Dipenda dall’impegno di tutti noi non far calare il sipario su questo rapimento di massa e, che ci fa capire che il dramma dello schiavismo non è ancora del tutto debellato:#Ridateci Indietro Le Nostre Ragazze.
(Fonte:punchng;guardian;nytimes;lastampa;corrieredellasera,ilmanifesto;jeuneafrique)
Link
-http://www.punchng.com;
-http://english.cntv.cn;
-www.nytimes.com;
-www.jeuneafrique.com;
-malalafund.org;
-BringBackOurGirls-Facebook
-#BringBackOurGirls

Fonte:

http://bob-fabiani.blogspot.it/2014/05/africanland-attualitabringbackourgirlsr.html

 

 

Nota personale:

Su Facebook ho trovato anche la seguente foto che condivido qui contro l’ipocrisia dei grandi del mondo.

Fonte:

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=347312548767573&set=a.107979969367500.19060.100004664924363&type=1&theater