Guido Rossa: una tragedia operaia

Dal blog di Marco Clementi:

 


Il 24 gennaio 1979 il sindacalista Guido Rossa veniva ucciso dalle Brigate Rosse a Genova.
Rossa lavorava all’Italsider di Genova e pochi mesi prima aveva notato che un operaio, Francesco Berardi, si trovava spesso vicino a luoghi in cui venivano lasciati volantini delle Br. Alla fine di ottobre del 1978 Rossa segnalò Berardi alla vigilanza e nel suo armadietto fu ritrovato materiale propagandistico della formazione armata.
Berardi venne arrestato e condannato a quattro anni e sei mesi per partecipazione a banda armata e associazione sovversiva. La colonna genovese delle Br decise per una punizione esemplare e il 24 gennaio 1979 attese Rossa sotto casa, uccidendolo.
Era la prima volta che le Br sparavano contro un operaio, per di più iscritto al Pci.
Si trattò di un errore politico di estrema gravità. Non solo perché Rossa rimase ucciso. Anche il suo ferimento avrebbe provocato all’interno della classe operaia una reazione di indignazione.
Nonostante all’interno dell’esecutivo si comprese immediatamente la gravità del gesto, l’uccisione di Rossa venne rivendicata con queste parole:

Mercoledì 24 gennaio, alle ore 6,40 un nucleo armato delle Brigate Rosse ha giustiziato GUIDO ROSSA, spia e delatore all’interno dello stabilimento ITALSIDER di Cornigliano dove per svolgere meglio il suo miserabile compito, si era infiltrato tra gli operai camuffandosi da delegato. A tale scopo era passato da posizioni notorie di destra ai ranghi berlingueriani. Sebbene da sempre, per principio, il proletariato abbia giustiziato le spie annidate al suo interno, era intenzione del nucleo di limitarsi a invalidare la spia come prima ed unica mediazione nei confronti di questi miserabili: ma l’ottusa reazione opposta dalla spia ha reso inutile ogni mediazione e pertanto è stato giustiziato. Il suo tradimento di classe è ancora più squallido e ottuso in considerazione del fatto che, il potere ai servi prima li usa, ne incoraggia l’opera e poi li scarica.Compagni, da quando la guerriglia ha cominciato a radicarsi dentro la fabbrica, la direzione italsider con la preziosa collaborazione dei berlingueriani, si è posta il problema di ricostruire una rete di spionaggio, utilizzando insieme delatori vecchi e nuovi; da un lato ha riqualificato fascisti e democristiani, dall’altro ha moltiplicato le assunzioni di ex PS ed ex CC, dall’altro ancora ha cominciato a utilizzare quei berlingueriani che sono disponibili a concretizzare la loro linea controrivoluzionaria fino alle estreme conseguenze:FINO AL PUNTO CIOE’ DI TRADIRE LA PROPRIA CLASSE, MANDANDO IN GALERA A CUOR LEGGERO UN PROPRIO COMPAGNO DI LAVORO.

L’obiettivo che il potere vuol raggiungere attraverso questa rete di spionaggio, non è solo quello propagandato della “caccia al brigatista o ai cosiddetti fiancheggiatori” ma quello ben più ampio ed ambizioso di individuare ed annientare all’interno delle fabbriche qualsiasi strato operaio che esprima antagonismo di classe.

E’ l’intero movimento di resistenza proletario che oggi è nel mirino di questa campagna di terrore controrivoluzionario, scatenata dal potere e sostenuta a tamburo battente dai loro lacchè berlingueriani: questa caccia alle streghe non colpisce solo chi legge e fa circolare la propaganda delle organizzazioni comuniste combattenti, ma anche chi lotta contro la ristrutturazione, chiunque si ribelli alla linea neocorporativa dei sindacati, chiunque anche solo a parole si dialettizza con la lotta armata, senza unirsi al coro generale di “deprecazione o condanna”. Una riconferma di tutto ciò viene dall’Ansaldo dove, come già successo alla Fiat e alla Siemens, i berlingueriani hanno consegnato alla direzione una lista coi nomi di operai “presunti brigatisti”, compilata anche in base agli interventi fatti nelle assemblee precontrattuali.

QUESTA E’ L’ESSENZA DELLA POLITICA BERLINGUERIANA ALL’INTERNO DELLE FABBRICHE, IL TENTATIVO CIOE’ DI DIVIDERE LA CLASSE OPERAIA CREANDO UNO STRATO CORPORATIVO, FILOPADRONALE E PRIVILEGIATO DA CONTRAPPORRE AGLI ALTRI STRATI DI CLASSE E PROLETARI.

A chi si presta a questa lurida manovra ai vari Rossa e a tutti gli aspiranti spia, ricordiamo che, proletari si è non per diritto di nascita ma per gli interessi che si difendono e all’interno di questa discriminante sapremo distinguere, come sempre, chi è un proletario e chi è un nemico di classe.

All’interno di questo progetto, Rossa faceva parte della rete spionistica dell’Italsider, come membro dei gruppi di sorveglianza interna, istituiti dai vertici sindacali per affiancare i guardioni nei compiti di repressione antioperaia. ECCO QUAL’ERA IL SUO VERO LAVORO!! La sua grande occasione, nella quale ha raccolto i frutti di tanto costante e silenzioso lavoro è venuta il giorno in cui è riuscito a consegnare al potere un operaio che conosceva e assieme al quale lavorava da anni, il compagno Franco Berardi, “reo” di aver avuto per le mani propaganda della nostra organizzazione.

La conferma del rapporto diretto tra spioni e direzione si capisce dal fatto che Rossa, dopo aver pedinato per ore il compagno Berardi, insieme al suo degno compare Diego Contrino E’ ANDATO DIRETTAMENTE IN DIREZIONE a denunciarlo, mettendo di fronte al fatto compiuto lo stesso Consiglio di fabbrica che infatti si era spaccato quando i bonzi sindacali gli avevano imposto di coprire politicamente l’azione di spionaggio.

 

Era vero che il Pci, in collaborazione con i carabinieri di Dalla Chiesa, stesse organizzando un controllo nelle grandi fabbriche per individuare i brigatisti. Si trattava, però, di un conflitto all’interno della medesima classe sociale, che non poteva o doveva essere risolto con le armi.

Ai funerali di Rossa parteciparono decine di migliaia di persone mentre le Br persero consenso e credibilità.

La figlia Sabina, che all’epoca dell’uccisione del padre aveva solo 7 anni, avrebbe cercato i componenti del nucleo brigatista all’inizio degli anni duemila, riuscendo ad incontrarne alcuni.

Scritto un libro sulla vicenda, è divenuta senatrice dell’Ulivo nel 2006. Attualmente è deputata nel gruppo del PD.

Berardi si uccise nel carcere di Cuneo il 24 ottobre 1979. Da quel momento la colonna genovese assunse il suo nome, ma fu praticamente debellata nel marzo 1980 con la strage di via Fracchia, a pochi metri dalla casa di Rossa.

Postato 24th January 2013 da MC. Marconista

 

 

Fonte:

http://primadellapioggia.blogspot.it/2013/01/una-tragedia-operaia.html

Crollo palco Pausini: a giudizio persone e società per la morte di Matteo Armellini

crollopalcopausiniIl Gup di Reggio Calabria, Massimo Minniti, ha rinviato a giudizio tutte le persone coinvolte nell’indagine per far luce sulla morte del giovane Matteo Armellini, il ragazzo morto a Reggio Calabria il 5 marzo 2012 mentre svolgeva il suo lavoro di rigger nell’allestimento del concerto di Laura Pausini che era in programma in città al PalaCalafiore, impianto sportivo adibito per le competizioni sportive. Primo ok all’impianto accusatorio portato avanti dal sostituto procuratore di Reggio Calabria, Rosario Ferracane che, con il coordinamento dell’aggiunto Ottavio Sferlazza, aveva chiesto il rinvio a giudizio per le persone che avrebbero omesso di adottare tutti i controlli e le cautele doverose che avrebbero potuto impedire il collasso della struttura metallica di quasi 22mila chilogrammi e composta da sei pilastri reticolari, che ha causato la morte del giovane Matteo Armellini,

Il giovane Armellini morirà in seguito al cedimento di una parte della struttura del palco.

Sette i soggetti imputati: Sandro Scalise, Franco Faggiotto, Pasquale Aumenta, Ferdinando Salzano, Maurizio Senese, Gianfranco Perri (non indagato per omicidio colposo) e Marcello Cammera.

Adesso, però, arrivano le prime risposte, con un processo dibattimentale che avrà inizio il 26 febbraio. Salzano, in particolare, quale rappresentante della F & P Group, committente esclusiva dei lavori di allestimento del palco alla Italstage, non avrebbe proceduto alla nomina di un direttore dei lavori “che avrebbe – scrive il pm Ferracane nell’avviso di conclusione delle indagini – da un lato rilevato i gravi errori e le evidenti omissioni presenti nell’elaborato redatto dall’ingegnere Franco Faggiotto, dall’altro lato vigilato sulla corretta esecuzione dell’opera”. Faggiotto, anch’egli tra gli indagati, avrebbe redatto una progettazione errata e carente, priva di alcuna verifica: “Non teneva in considerazione la possibile presenza di forze orizzontali accidentali, l’eccessiva deformabilità della struttura metallica, non prevedeva che i piedi della struttura fossero zavorrati con blocchi di calcestruzzo, non teneva in considerazione la forte deformabilità elastica del piano di posa”. In particolare, la Procura contesta l’omessa verifica della consistenza del piano di posa su cui doveva insistere l’enorme struttura necessaria per il concerto. Inoltre si sarebbe delegato tutto a un eventuale direttore dei lavori che, però, non verrà mai nominato. Ancor più dure sono le parole che il pm Ferracane riserva alla Italstage, società costruttrice, parlando di una colpa “consistita in negligenza, imprudenza, ed imperizia, nonché sulla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni”.

Proprio la Italstage, assistita dall’avvocato Marco Panella, ha chiesto e ottenuto il patteggiamento con il pagamento di 70mila euro.

Ma il nome più noto, almeno per i reggini, è quello dell’architetto Marcello Cammera, dirigente del Comune di Reggio Calabria con riferimento al Settore Progettazione ed Esecuzione dei Lavori Pubblici. Anch’egli ha ricevuto l’avviso di conclusione indagini e anche per lui il pm Ferracane ha chiesto il giudizio perché avrebbe omesso di “adottare un provvedimento di inibizione all’inizio dei lavori di costruzione della struttura metallica all’interno del palazzetto, dopo la consegna dell’impianto, di immediata sospensione dei medesimi lavori, non segnalando inoltre il pericolo grave e imminente di un crollo (poi avvenuto) della costruenda struttura metallica ai soggetti a vario titolo nell’organizzazione e realizzazione dell’evento musicale e/o alle autorità amministrative competenti”. E questo, sempre secondo le indagini, pur non avendo la disponibilità degli elaborati tecnico-progettuali relativi all’impianto sportivo, in assenza di un nulla osta della Commissione Provinciale di Vigilanza sui locali di pubblico spettacolo e intrattenimento e avendo ricevuto il progetto pieno zeppo di irregolarità.

Un concerto, quello di Laura Pausini, organizzato dalla Esse Emme Musica, di Maurizio Senese, tra gli imputati nel procedimento. La sua società, infatti, era la committente dell’intero evento, proprio insieme alla F& P Group. Tra gli indagati anche Sandro Scalise, coordinatore della sicurezza per l’esecuzione dei lavori di costruzione della struttura e nominato dalla Esse Musica di Senese. Agli atti del pm Ferracane anche le annotazioni sulla F & P Group Srl (di Ferdinando Salzano) e la Italstage Company, di Pasquale Aumenta (che, come detto, ha patteggiato): dalle omissioni raccolte dalla Procura avrebbero tratto profitto, violando peraltro le norme antinfortunistiche che avrebbero potuto salvare la vita al giovane Armellini. Qualora dovesse essere accertata la responsabilità colposa, dovrebbero risarcire il danno sotto il profilo economico.

 

9 gennaio 1950 Modena

Processo Marlane: tutti assolti

marlaneTutti assolti, dal tribunale di Paola, 11 tra ex responsabili e dirigenti dello stabilimento Marlane di Praia a Mare, accusati, a vario titolo, di omicidio colposo per la morte di lavoratori dello stabilimento e di disastro ambientale. Tra gli imputati Pietro Marzotto. La Procura aveva chiesto condanne da 3 a 10 anni.

Al centro della causa giudiziaria, l’inquinamento di terreni e acque e l’avvelenamento degli operai a causa delle procedure adottate per la colorazione dei tessuti e per lo smaltimento dei rifiuti della lavorazione.

Sono servite circa 10 ore di camera di consiglio per far pronunciare il verdetto ai giudici di Paola. Finisce con un nulla di fatto un processo che negli anni ha suscitato grandi polemiche. Una perizia depositata nel corso del dibattimento avrebbe dimostrato il legame tra quelle morti e i fumi respirati all’interno dell’azienda. secondo i magistrati giudicanti, non ci sarebbe alcun nesso di responsabilità.

Secondo l’accusa Pietro Marzotto, i dirigenti e i responsabili di stabilimento avrebbero causato la morte di 107 operai uccisi dai tumori provocati dall’inalazione di vapori emessi nella lavorazione dei tessuti.

Gli affari della Marzotto in Calabria si sono chiusi dopo un ventennio nel 2007 quando la procura della repubblica di Paola ha messo i sigilli allo stabilimento. La fabbrica, infatti, era attiva dal 1990.

28 novembre 1977: Benedetto Petrone

Venerdì 28 Novembre 2014 07:07

altIl 28 novembre 1977 a Bari viene ucciso a coltellate Benedetto Petrone. Aveva 18 anni, faceva l’operaio ed era comunista (iscritto alla Fgci).

La sera del 28 una nutrita squadra di fascisti esce dalla sede Passaquindici del Msi, con in mano mazze ed in tasca alcuni coltelli.

L’agguato è premeditato: si dirigono verso Bari Vecchia con l’obiettivo di colpire alcuni capi del movimento studentesco. Il gruppo viene però avvistato da una ragazza che corre al bar del borgo vecchio dove si trovano i compagni. I fascisti tentano di avvicinarsi al locale ma vengono immediatamente messi in fuga per i vicoli della città.

Arrivati nella piazza della prefettura, nel pieno centro cittadino, i fascisti vedono tre ragazzi, tra cui c’è Benedetto Petrone. I tre ragazzi cercano di scappare, ma Petrone è più lento per colpa di una malattia che lo affligge che comporta problemi di deambulazione. L’amico torna indietro ma i fascisti ormai gli sono addosso. Benedetto Petrone viene colpito con mazze e coltelli. Sarà una coltellata ad ucciderlo. L’amico, Franco Intranò, viene ferito al torace.

Il 30 ottobre un corteo attraversa le strade di Bari. Più di 30’000 persone scendono in piazza per opporso alla violenza fascista e gridare che “Benny vive!”.

Davanti alla Prefettura, che è il luogo dove il ragazzo era stato ucciso, vengono fatte alcune barricate, rovesciando delle macchine parcheggiate. Le barricate permettono ai manifestanti di salire al primo piano della Cisnal e devastarla. Stessa fine farà poi la sede dell’Msi: i manifestanti entrano all’interno della sede da dove erano partiti i fascisti che viene distrutta e bruciata.

La verità processuale individuò un solo colpevole: solo un missino fu condannato per l’omicidio, nonostante furono in più di trenta a partecipare all’agguato. Il tentativo fu di far passare il tutto come una rissa tra teste calde di opposti estremismi.

Il coltello che colpì Benedetto Petrone fu ritrovato in una stanza della sede del Movimento Sociale Italiano, che divenne poi il quartiere generale di An ed oggi è motivo di contesa tra Pdl e Fli.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3327-28-novembre-1977-benedetto-petrone

Eternit, la regola dell’ingiustizia

La tutela contro gli attacchi portati alla vita e alla salute dei lavoratori e dei cittadini in genere da lavorazioni pericolose o produttive di inquinamento ambientale è, nel nostro Paese, totalmente ineffettiva. Il tutto nell’attesa che il Parlamento definisca un’accettabile ipotesi di disastro ambientale (da anni inutilmente in discussione in Parlamento…)

Trent’anni fa, agli ope­rai della Eter­nit di Casale che chie­de­vano spie­ga­zioni su quella pol­vere bianca e sot­tile che si depo­si­tava sulle loro tute, i capi reparto rispon­de­vano di non pre­oc­cu­parsi e di imma­gi­nare di essere sulle spiagge dei Caraibi rese incan­te­voli da una sab­bia simile a quella. Intanto i con­su­lenti in pub­bli­che rela­zioni del magnate sviz­zero Ste­phan Sch­mi­d­heiny, ammi­ni­stra­tore della Eter­nit, ter­ro­riz­zato dalla even­tua­lità che gli effetti deva­stanti dell’amianto venis­sero alla luce, si impe­gna­vano a depi­stare la stampa e scri­ve­vano: «Il con­ti­nuo aumento di atten­zione dei mezzi di comu­ni­ca­zione nazio­nale nei con­fronti dell’amianto è allar­mante. Nono­stante le vicende citate (soprat­tutto il “con­ti­nuo rumore” a Casale Mon­fer­rato) siano docu­men­tate super­fi­cial­mente e (i media) si inte­res­sino solo di spe­ci­fici sog­getti locali, aumenta l’attenzione sulla que­stione amianto in gene­rale. Non si può esclu­dere che qual­cuno, pre­sto o tardi, metta insieme i diversi pezzi del puzzle e sol­levi un ben docu­men­tato caso amianto a livello nazio­nale (o inter­na­zio­nale), di cui l’Eternit sarà ine­vi­ta­bil­mente uno dei pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali» (così L. Gaino. Falsi di stampa, Edi­zioni Gruppo Abele, 2014).

Poi sono arri­vati i morti. Migliaia di morti. E in migliaia con­ti­nuano a morire. E qual­cuno — un pro­cu­ra­tore aggiunto e due sosti­tuti della Pro­cura di Torino — «ha messo insieme i diversi pezzi del puzzle». Così è ini­ziato un pro­cesso per «disa­stro doloso» con­tro i ver­tici di Eter­nit, con­clu­sosi con pesanti con­danne sia in primo che in secondo grado (dove Sch­mi­d­heiny è stato con­dan­nato a 18 anni di car­cere). Ma ieri la Corte di cas­sa­zione ha can­cel­lato con un tratto di penna la con­danna, affer­mando che il reato è ormai pre­scritto, cioè non più per­se­gui­bile in con­si­de­ra­zione del tempo tra­scorso. Non per la durata del pro­cesso (che, pur nella sua enorme com­ples­sità, si è con­su­mato, dall’udienza pre­li­mi­nare alla Cas­sa­zione, in cin­que anni) ma per­ché — qui sta il para­dosso — è pas­sato troppo tempo tra i com­por­ta­menti dell’imputato e le morti a esso con­se­guenti. In sin­tesi: la chiu­sura degli impianti con­se­guente al fal­li­mento di Eter­nit e, dun­que, i com­por­ta­menti dell’imputato risal­gono al 1986 e quanto è acca­duto dopo (cioè la morte di 2.191 per­sone) è una con­se­guenza del reato e non un ele­mento che incide sulla sua strut­tura. Que­sto, almeno, secondo la Cassazione…

Non è la prima volta che un pro­cesso per un disa­stro con­se­guente a lavo­ra­zioni peri­co­lose, nocive o inqui­nanti si con­clude senza col­pe­voli. Anzi ciò è, nel nostro Paese (e non solo), la regola: basti pen­sare a Porto Marghera.

E — va aggiunto — nubi assai cupe si adden­sano sui pros­simi pro­cessi per fatti ana­lo­ghi: da Vado Ligure a Taranto. Ancora una volta, dopo la sen­tenza, al pianto e alla dispe­ra­zione dei parenti delle vit­time, si affian­cano rea­zioni poli­ti­che che lasciano sgo­menti per la loro stru­men­ta­lità, prive come sono di ogni ana­lisi sulle ragioni per cui tutto que­sto è acca­duto e accade. Eppure almeno due con­si­de­ra­zioni si impongono.

Primo. C’è anzi­tutto, alla base di que­sti esiti, una col­pe­vole carenza legi­sla­tiva. La tutela con­tro gli attac­chi por­tati alla vita e alla salute dei lavo­ra­tori e dei cit­ta­dini in genere da lavo­ra­zioni peri­co­lose o pro­dut­tive di inqui­na­mento ambien­tale è, nel nostro Paese, total­mente inef­fet­tiva, affi­data com’è a reati con­trav­ven­zio­nali di mode­sta entità o all’ipotesi di omi­ci­dio (per defi­ni­zione con­te­sta­bile solo dopo la morte e, in ogni caso, di dif­fi­cile prova in punto rap­porto cau­sale tra la lavo­ra­zione peri­co­losa e il sin­golo evento mor­tale). Di qui l’operazione giu­ri­spru­den­ziale di fare ricorso al reato di «disa­stro»: opzione indub­bia­mente fon­data ma non priva di pro­blemi inter­pre­ta­tivi essendo il reato, risa­lente al codice penale del 1930, costruito con imme­diato rife­ri­mento a diverse e più sem­plici fat­ti­spe­cie. Il tutto nell’attesa che il Par­la­mento defi­ni­sca un’accettabile ipo­tesi di disa­stro ambien­tale (da anni inu­til­mente in discus­sione in Parlamento…).

Secondo. La Corte d’appello di Torino, a dif­fe­renza della Cas­sa­zione, aveva rite­nuto che le morti con­se­guenti alle lavo­ra­zioni nocive (alcune delle quali recen­tis­sime) fos­sero ele­menti costi­tu­tivi del reato di disa­stro così esclu­dendo in radice l’operatività della pre­scri­zione. La domanda è ovvia: come è pos­si­bile che due diversi giu­dici abbiano dato una inter­pre­ta­zione così diversa? È pos­si­bile per­ché l’interpretazione non è un sil­lo­gi­smo auto­ma­tico ma un’operazione rico­strut­tiva com­plessa e deli­cata in cui entrano aspetti tec­nici e giu­dizi di valore. Una cosa è certa. Uso, per dirla, parole di un giu­ri­sta raf­fi­nato come V. Zagre­bel­sky: «Se non è pos­si­bile dire che le inter­pre­ta­zioni adot­tate dai primi giu­dici fos­sero “esatte” e sia “sba­gliata” quella della Cas­sa­zione, è però lecito chie­dersi se non c’era davanti ai giu­dici una scelta, ragio­nata e seria­mente argo­men­ta­bile, tra una inter­pre­ta­zione che met­teva d’accordo diritto e giu­sti­zia e un’altra che pro­cla­mava sum­mum jus, summa inju­ria». Non credo — non ho mai cre­duto — alle “scor­cia­toie” pro­ba­to­rie ma sono con­vinto che, alla luce delle dispo­si­zioni costi­tu­zio­nali a tutela della vita e della salute, una scelta inter­pre­ta­tiva diversa da quella dei giu­dici di legit­ti­mità fosse pos­si­bile e auspicabile.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/la-regola-dellingiustizia/

18 novembre 1943: Scioperi e Resistenza

Martedì 18 Novembre 2014 07:38

 

altIl 18 novembre 1943, a Torino, gli operai FIAT  danno vita ad un grande sciopero che blocca totalmente gli stabilimenti. Fin da subito la fiamma della protesta operaia sorpassa il confine torinese, e divampa in tutto il Piemonte la Lombardia e la Liguria.

Dall’8 settembre dello stesso anno iniziano i grandi scioperi operai che portano ad una grande destabilizzazione del regime oramai alle strette.

Le rivendicazioni degli operai, tutti antifascisti, sono tra le più importanti: la retribuzione dei periodi di interruzione forzata dal lavoro,  la fine del regime militare di produzione, la possibilità di non lavorare durante i bombardamenti e l’immediata liberazione di tutti i prigionieri politici.

Le risposte del regime fascista sono durissime e devastanti per la loro molteplice crudeltà.

Nei soli mesi autunnali del ’43 sono più di una decina gli operai giustiziati dalla polizia politica fascista, e diversi reparti delle fabbriche torinesi vengono deportati in Germania nei campi di lavoro.

Il tessuto della classe operaia torinese, nell’autunno ’43, ha ormai al suo interno strutturato quadri sia del PCI clandestino, del CLNAI, e dei comitati clandestini sindacali.

L’antifascismo diventa uno delle rivendicazioni portanti degli scioperi operai, e la lotta al regime viene caratterizzata da un forte protagonismo operaio.

Ciò che era partito il 2 novembre alla Breda di Milano, il 18 trova nella FIAT di Torino lo snodo fondamentale per estendere la lotta di classe al resto del Nord Italia.

La determinazione degli operai torinesi che, ormai da marzo, hanno inaugurato un ciclo di lotte nuovo, senza precedenti.

L’esplodere e la diffusione su tutta la classe operaia della lotta partigiana, non sarebbe stato possibile senza una presa di coscienza di forza e di prospettive degli operai. Sia nelle grandi che nelle piccole officine vengono messi in pratica i sabotaggi della produzione. E’ indicativo in questo senso una sorta di “libretto rosso del partigiano” che raccoglie le istruzioni per un sabotaggio, su larga scala e di massa, del sistema produttivo italiano. Questo manuale, curato da un gruppo  partigiano romano, veniva nascosto dentro le copertine del libretto degli orari ferroviari.

Dare il giusto peso di analisi alla stagione di lotte operaie nell’autunno-inverno 1943, vuol dire di riflesso considerare la Resistenza come espressione della lotta di classe.

 

 

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3236-18-novembre-1943-scioperi-e-resistenza

L’ultima battaglia di Bianca la rossa. È mancata Bianca Guidetti Serra

Stamane Torino ha perso una grande donna, figura centrale della giustizia e della politica per molti anni. A darne notizia il figlio Fabrizio Salmoni.

la Redazione

Bianca Guidetti Serra è stata l’avvocato dei deboli, delle minoranze, degli sfruttati, ha difeso operai, studenti, e minorenni che hanno subito abusi, ha lavorato per ottenere leggi moderne sull’adozione. È mancata stamane, 24 giugno alle 8,30, dopo lunga malattia a 95 anni nella sua casa di Torino che era stata anche il suo studio legale. Lo comunica il figlio Fabrizio Salmoni con la moglie Cecilia e la figlia Loretta Lisa.

 

Al di là delle sue brevi esperienze istituzionali (consigliere comunale indipendente con Democrazia Proletaria 1985-87; deputata indipendente per DP 1987-90*; poi ancora con il Pds 1990-99), Bianca è stata un grande avvocato anche quando si è trattato di confrontarsi con i poteri forti: fu parte civile con i sindacati contro la Fiat per le schedature illegali dei dipendenti (unica, storica condanna penale della Fiat); fu difensore del Direttore del giornale Lotta continua Pio Baldelli contro il commissario Calabresi e fu parte civile nel processo contro i Frati Celestini di Prato, imputati di maltrattamenti nei confronti dei bambini a loro affidati. La ricordiamo anche per altri processi storici (banda Cavallero, banda XXII Ottobre, Brigate Rosse, Ipca di Ciriè, Eternit di Casale Monferrato) ma la gente la ricorderà soprattutto per la miriade di processi in difesa di militanti politici degli anni Sessanta-Settanta.

Alberto Salmoni (primo), Bianca Guidetti Serra (seconda). e Primo Levi (ultimo )

All’avvocatura era approdata nel 1947, dopo la Resistenza che l’aveva vista staffetta partigiana in Val di Susa e in Val Chisone; impegnata ad aiutare, con Ada Gobetti amici e conoscenti ebrei, considerati di “nazionalità nemica” dalla Repubblica Sociale italiana; e ancora come organizzatrice dei Gruppi di Difesa della Donna a Torino.

Quando sui muri di Torino apparvero i primi manifesti antisemiti, Bianca – con la più giovane sorella Carla (che avrebbe poi sposato Paolo Spriano), con Alberto Salmoni (che sarebbe, in seguito, diventato suo marito) e altri giovani – si mise metodicamente a strapparli. Forse in questa determinazione (che la polizia, per fortuna dei ragazzi, considerò soltanto un atto di vandalismo), giocò l’amicizia con Primo Levi. (Anpi)

Iscritta al Pci dal 1943, ne uscì nel 1956 a seguito dei fatti d’Ungheria e si dedicò quindi completamente all’attività professionale, pur sempre nell’ambito della più ampia sinistra italiana, da indipendente: si occupa con determinazione del diritto di famiglia e della tutela dei più deboli, dei minori e dei carcerati; è presente nelle fabbriche torinesi per assistere gli operai per conto della Camera del lavoro; negli anni Settanta combatte la battaglia contro le schedature politiche degli operai alla Fiat.

Nel maggio del 2009 intervistata dal  quotidiano «La Stampa» in occasione dei suoi 90 anni, le fu chiesto quale significato ebbe il processo, che la vide protagonista come parte civile, sulle schedature scoperte dall’allora pretore Guariniello – processo che si concluse con l’assoluzione degli imputati:

Io credo che un significato l’abbia avuto: quello di non accettare un sistema iniquo senza protestare. Era una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai. La Stampa»)

Bianca Guidetti Serra

Nel 1987 si dimise da consigliere per presentarsi, sempre come indipendente nelle fila di Dp, alle elezioni per la Camera dei Deputati. In Parlamento prese parte ai lavori delle Commissioni giustizia e antimafia. Nel 1990, insieme a Medicina Democratica e all’Associazione Esposti Amianto (AEA) partecipò alla presentazione, come prima firmataria, di una proposta di legge per la messa al bando dell’amianto, approvata poi nel 1992 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, Legge n. 257 del 27 marzo 1992).

Aveva smesso di esercitare nei primi anni Novanta per le prime difficoltà fisiche, poi nel 1997 il primo ictus ne aveva definitivamente interrotto l’attività.

Il suo impegno nel campo del diritto ci dice che, in coerenza con le sue scelte di sempre e con la sua indole combattiva, oggi la vedremmo certamente dare battaglia in Tribunale in difesa dei valsusini e di chiunque subisce gli abusi del Potere. Per questo, e in omaggio alla sua vita, siamo sicuri che saranno in molti a volerla andare a salutare per l’ultima volta. Si attendono nelle prossime ore informazioni più dettagliate sulle sue esequie.

La redazione di TG Vallesusa si stringe con affetto attorno all’amico e collega Fabrizio Salmoni in questo momento di dolore per la perdita della mamma Bianca.

* Diede le dimissioni da parlamentare dopo poco più di due anni per incompatibilità personale con quel tipo di lavoro

Bibliografia di Bianca Guidetti Serra:

Il paese dei celestini (con Francesco Santanera), Einaudi, Torino 1973

Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile (II vol.), Einaudi, Torino 1977

Le schedature Fiat, Rosenberg & Sellier, Torino 1984

Storie di giustizia, ingiustizia e galera, Linea d’Ombra 1994

Da segnalare la sua biografia autorizzata: Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, Torino 2009.

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La Papa Panda

 

Papa Panda1

Sarà sfuggito ai più, visto il limitato spazio che a quest’ennesima buffonata della Fiat è stato dato, ma rimane il fatto in se stesso, pubblicizzato dall’azienda torinese come una “spontanea” iniziativa di alcuni operai di Pomigliano che avrebbero assemblato una Panda personalizzandola per Papa Francesco e, tutti assieme, come nel balletto girato su youtube sulle note di “Happy”, sono corsi a Roma a regalargliela a dimostrazione della loro gioia incontenibile di lavorare, a stipendi ridotti ed a diritti negati, per il Lingotto.

 

Per questi schiavi danzanti e gaudenti, tra cui infiltrati dirigenti della fabbrica di Pomigliano, in permesso aziendale per il “sacro” trasporto, non sembra avere alcun peso, né morale né coscienziale, la morte dei tre loro colleghi di appena qualche mese prima, non hanno alcuna importanza le disperazioni di quelli ancora rimasti in cassa integrazione e/o relegati a Nola, per la “colpa” di essere sindacalizzati o menomati dal loro lavoro, non destano alcun rigetto né ribellione le discriminazioni tra operai, i turni massacranti, le pause ridotte, la vera e propria riduzione a serventi del loro padrone, comandati a fare da marionette per uno “spettacolo” che ha visto il nostro paese perdere, grazie alla Fiat, decine di migliaia di posti di lavoro in cambio di centinaia di milioni di euro di finanziamenti regalati dai governi di centro sinistra e centro destra italici, tutti pagati dalla collettività.

 

Sono forse l’esempio, il peggior esempio, di quello che è diventato il popolo italiano, pronto ad applaudire, anche per un tozzo di pane, il suo padrone d’azienda, il potente del suo rione, il capetto del suo reparto, il sindaco del suo paese, il partito vincente…sempre con la mano tesa, a chiedere elemosine e non diritti, carezze e non rispetto.

 

Cosa ha fatto il Papa…quel Papa Francesco tuonante contro i corrotti, contro chi sfrutta il lavoro, contro chi schiavizza?…si è fatto la foto con loro, con gli schiavetti gaudenti…non una parola di condanna per le persone ancora in cassa integrazione, per i turni di lavoro indecenti, per stipendi non certo commisurati al lavoro ed alla fatica, per chi ha deciso di togliersi la vita perché non ne poteva più di quel silenzio che avvolge questa ingiustizia, questa offesa alla vita, alla nostra Costituzione ed ai valori che propugna la Chiesa.

 

Lo spot è passato, ed era quello che voleva Marchionne e la Fiat, gli schiavetti sono tornati alle loro catene di montaggio, felici nel farsi sfruttare, pessimi esempi per i loro figli e per un paese che è nato grazie a chi si è sacrificato per fare affermare quei diritti ora negati…e sui quali alcuni ci ballano pure !

 

Rimane la voce di quelle donne operaie, di quelle mogli, di quelle madri o figlie che traducono la parola vita con la parola rispetto, amore, dignità, che da donne non si fermano a difendere il proprio “poco” senza pensare al dopo, agli altri, ai loro ed altrui figli, a quel futuro di cui gli “schiavi danzanti” sono la negazione, il rigetto, il vero e proprio vomito del senso della vita. Il Comitato mogli operai di Pomigliano d’Arco, impegnato da anni nella battaglia in difesa dell’occupazione, ha  inviato un fax al Papa, presso l’ufficio del Protocollo della segreteria di Stato Vaticana, con questi toni:

 

Quelle tra noi credenti mercoledì scorso confidavano in una severa critica del Papa a Marchionne, all’uso delle discriminazioni e contro la svolta autoritaria in fabbrica realizzata tramite la divisione in tre ’fasce’ dei lavoratori di Pomigliano ed il collegato reparto confino di Nola dove sono stati  deportati in questi anni, ‘a far niente’, gli operai ‘scomodi’ proprio come ai tempi di Valletta. La sequenza dei suicidi operai, proprio a partire dal reparto WCL di Nola (due negli ultimi mesi ed un altro il 1° maggio 2010) è agghiacciante! Per questo, dopo aver assistito all’enfasi mediatico-pubblicitaria dei giorni scorsi e confezionata ad arte dalla Fiat col regalo della Panda al Papa, non ce la sentiamo di stare in silenzio!” 

 

Un urlo che chi, ogni giorno dal suo balcone, ci invita a non trattenere, non può e non deve ignorare…

 

Fonte:

 
http://www.ilpasquino.net/la-papa-panda/

16 giugno 1976: la rivolta di Soweto

Lunedì 16 Giugno 2014 06:52

E’ il 16 Giugno 1976 quando a Soweto in Sudafrica iniziano violenti scontri tra gli studenti neri e la polizia segregazionista del 16 giugnoNational Party, partito nazionalista al governo del paese.

Il motivo specifico della protesta studentesca di Soweto fu un decreto governativo che imponeva a tutte le scuole in cui erano segregati i neri, di utilizzare l’afrikaans come lingua paritetica all’inglese.
Quest’ ultimo episodio, preceduto da una lunga serie di imposizioni da parte degli afrikaner, fu percepito come direttamente associato alla logica generale dell’apartheid.
L’inglese era la lingua più diffusa presso la popolazione nera ed era stata scelta come lingua ufficiale da molti bantustan al contrario dell’afrikaans, la lingua degli oppressori.
Il Ministro per l’Istruzione Bantu, Punt Janson, incurante del volere della popolazione arrivò ad affermare «Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un “capo” che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue. »
Queste ultime dichiarazioni suscitarono numerose proteste da parte del corpo docenti e degli studenti neri delle scuole dov’erano segregati.
Il 30 aprile 1976, i bambini della “Orlando West Junior School” diedero inizio a uno sciopero, rifiutandosi di andare a scuola.
Gli studenti di Soweto intanto formarono un comitato d’azione, il “Soweto Students’ Representative Council” per organizzare la protesta, indicendo una manifestazione di massa per il 16 giugno.
Migliaia di studenti e docenti neri si riversarono nelle piazze e si diressero verso lo stadio di Orlando.
Si decise per la linea pacifica, pianificando in modo accurato il tutto, in modo tale che fosse chiaro: nelle prime file del corteo erano esposti cartelli con scritte come “Non sparateci – non siamo armati”.
Il corteo incontrò la polizia, che aveva preparato delle vere e proprie barricate.
Si optò per una deviazione del corteo su di un percorso alternativo: anziché andare allo stadio, giunsero presso la Orlando High School.
Qui, nuovamente trovarono la polizia ad attenderli che cercò subito di disperdere la folla con i gas lacrimogeni.
Dal corteo cominciarono a levarsi slogan di protesta ed i bambini esasperati dalla condizione di segregazione in cui si trovavano costretti a vivere sin dalla nascita e dal crescendo di angherie che erano costretti a subire, cominciarono a tirare pietre verso la polizia.
La polizia prontamente e senza alcuno scrupolo, aprì il fuoco uccidendo quattro bambini, fra cui il tredicenne Hector Pieterson di cui la fotografia del suo corpo martoriato divenne un simbolo della violenza della polizia sudafricana.
Negli scontri che seguirono durante la giornata morirono altre 23 persone.
Dopo il massacro del 16 giugno, la tensione fra gli studenti neri di Soweto e la polizia continuò a crescere.
Il giorno successivo, le forze dell’ordine sudafricane giunsero a Soweto armate di fucili automatici, inoltre furono dispiegate anche forze dell’esercito.
Soweto era pattugliata da elicotteri e automobili della polizia e diverse fonti riportarono di agenti in borghese che giravano in automobili civili e sparavano a vista sui dimostranti neri.
Le contestazioni durarono circa 10 giorni e si dovette arrivare alla morte di più di 500 manifestanti e il ferimento di oltre 1000, perchè il regime dell’apartheid crollasse.
La rivolta contribuì a consolidare il sentimento anti-afrikaner nelle masse nere e la posizione predominante dell’ANC come principale interprete di questo sentimento.
Molti dei cittadini bianchi sudafricani presero parte in modo deciso a favore dei dimostranti.
Alle manifestazioni di studenti neri si andarono ad aggiungere quelle degli studenti bianchi.
Dal mondo studentesco, inoltre, la protesta si allargò a diversi settori produttivi con una catena di scioperi da parte degli operai di molte fabbriche.
La rivoltà che si estese in tutto il Sudafrica pagò ed ebbe un ruolo fondamentale nella caduta del National Party e nella fine dell’apartheid, sancita definitivamente nel 1994.
Fonte: