Parigi, manifestante ferito da un lacrimogeno durante la manifestazione contro la Loi Travail

#‎FRANCIA‬
Ieri a Parigi, nella manifestazione nazionale contro la Loi Travail et son monde, un manifestante ha ricevuto una granata lacrimogena tirata ad altezza uomo. L’impatto gli ha danneggiato la nuca, le capsule gli si sono aperte addosso cospargendogli il corpo di gas lacrimogeno e bruciando il colletto della sua t-shirt. Adesso rischia di rimanere tetraplegico.
Questa foto è brutta da guardare ma riflette una realtà delle manifestazioni, in Francia, nel 2016.
Le violenze della polizia contro i manifestanti crescono di giorno in giorno – numerosi sono stati i feriti alla manifestazione di ieri e copioso era il sangue su Boulevard des Invalides – così come però la determinazione del movimento a non lasciarsi intimidire. Qui il video del momento della caduta del manifestante, con la polizia che inizialmente allontana e colpisce medici e giornalisti: http://bit.ly/1tqHq73.

foto di DINAMOpress.

Loi Travail (Francia – riforma del lavoro); Sciopero Sociale transnazionale

 

238° puntata: corrispondenza con la Francia; in collegamento un co-redattore di Corrispondenze Operaie, un compagno di Chroniques syndicales, trasmissione di Radio Libertaire (attiva a Parigi dal 1981) che parla di conflitti lavorativi, e una compagna francese che ci aiuta nella traduzione.

Parliamo della Loi El Khomry (la riforma del lavoro, anche conosciuta come Loi Travail) e delle mobilitazioni di protesta che da marzo infiammano tutta la Francia. Per il 14 giugno è prevista una nuova mobilitazione nazionale.

La seconda corrispondenza con una compagna, di stanza a Parigi, della piattaforma per lo Sciopero Sociale transnazionale, che ci informa di un incontro previsto per l’11 giugno in Place de la Republique, la piazza che è caratterizzata, da marzo, dalle Nuit Debout (Notti in piedi). Nello specifico, inoltre, per l’autunno si sta organizzando un incontro sulla convergenza delle lotte a livello europeo in cui cercare di coinvolgere i lavoratori di Amazon francesi, tedeschi e polacchi.

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Fonte:

http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/loi-travail-francia-riforma-del-lavoro-sciopero-sociale-transna

Corteo in ricordo di Clément Meric

Domenica 05 Giugno 2016 15:08

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Il 4 di giugno a Parigi si è reso omaggio con un corteo antifascista partecipato e determinato a Clément Méric, militante antifascista ucciso da estremisti di destra tre anni fa. La manifestazione di ieri arriva in pieno movimento sociale contro la Loi travail, in un momento di criminalizzazione dei gruppi militanti che vede un particolare accanimento nei confronti dei compagni dell’Antifa Paris Banlieue, in seguito al caso della macchina della polizia bruciata, per la quale alcuni di loro sono stati accusati. Proprio in questo senso va letta la decisione della prefettura di obbligare la manifestazione di ieri a percorrere il canale sul quai de Valmy, luogo ostile in termini di mobilità per la prossimità al canale e luogo in cui la famosa macchina della polizia è stata data alle fiamme qualche settimana fa. Molti slogan hanno infatti mostrato la solidarietà agli incolpati sottolineando la strategia della prefettura a colpire nel mucchio cercando di delegittimare e indebolire il movimento.

Arrivati dunque all’altezza di quai de Valmy la polizia ha deciso di bloccare il corteo che avrebbe dovuto proseguire il percorso fino a Menilmontant effettuando una sorta di vendetta a colpi di cariche violente, lacrimogeni, granate (le stesse che hanno ridotto in coma un giornalista due settimane fa) e flashball. Nonostante la volontà delle prime file di proteggere il corteo e di avanzare, la violenza del dispositivo poliziesco ha impedito alla manifestazione di continuare oltre, finendo per creare una “nassa” (modalità di accerchiamento dei manifestanti) sotto una pioggia di lacrimogeni. La situazione si è quindi cristallizzata per più di quattro ore, concludendosi con varie decine di persone portate in commissariato per un controllo di identità, dove all’uscita hanno trovato un presidio di solidarietà ad attenderle.

Il 4 giugno a Parigi è stata una giornata importante, densa di voci che all’unisono hanno scandito “Siamo tutt* antifascist*”, di solidarietà di fronte a chi tenta di dividere chi lotta, di ricordo a tutte le vittime del fascismo e della polizia. Ma anche difficile da affrontare in un contesto sempre più repressivo che ha il chiaro obiettivo di impedire con ogni arma, poliziesca o giuridica, l’espressione del conflitto.

Da Clement a Dax passando per Zyed e Bounna, un solo grido : on n’oubli pas on ne pardonne pas (non dimentichiamo e non perdoniamo).

Parigi 5 giugno 2016

Fonte:

Ottava giornata di scioperi in Francia

Dal blog di Bob Fabiani:

May

26

Ottava giornata di scioperi in Francia.

Oggi, 26 maggio, i lavoratori delle 19 centrali nucleari del paese hanno deciso di aderire allo sciopero per un giorno. La mobilitazione contro la #LoiTravail ha già coinvolto altri settori, tra cui l’aviazione civile, le ferrovie e i porti. Sei delle otto raffinerie sono chiuse e le autorità francesi sono state costrette a imporre il razionamento dei carburanti e ad attingere alle riserve strategiche. Il premier Manuel Valls – più arrogante che mai – ha ribadito ieri, 25 maggio, che il suo governo non è disposto a negoziare sulla riforma (sbagliata secondo i francesi).
(Fonte.:bbc)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/world-europe/french-labour-dispute-nuclear-power-plant-workers-to-joint-strike

Fonte:

A IDOMENI UNA CRISI UMANITARIA E’ AFFRONTATA CON LE RUSPE

 

 

 

 

Fonte:

 

http://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2016/05/25/idomeni-profughi-sgombero

La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

DOPO L’EXPO

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di Mario Vitiello

A qualche giorno dalla fine dell’Expo, è possibile iniziare a fare alcuni bilanci dell’evento che ha occupato la scena politica e sociale milanese (e a tratti anche nazionale) negli ultimi cinque anni. Expo è un evento complesso, che riguarda la città di Milano e probabilmente l’intera nazione, che interessa molti settori, e ancora oggi sono tante le domande aperte, molti i rischi incombenti – non tutti noti – e innumerevoli le ferite che si devono ancora rimarginare. Per questo è necessario premettere qualche informazione riguardo gli assetti delle società che governano Expo, per comprendere quali siano le criticità e le contraddizioni presenti sullo scenario milanese (ma non solo) per i prossimi anni.

La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si sta svolgendo l’evento. Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro). La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole.

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A meno che non intervenga un soggetto “forte”, sia sotto il profilo politico sia sotto quello finanziario, che garantisca la realizzazione di nuove opere, nuove infrastrutture Expo Spa è la società che ha costruito l’Expo e che sta gestendo lo show.

I compiti di Expo S.p.A. sono in sintesi: organizzare e gestire l’Evento; redigere il piano finanziario dettagliato delle opere essenziali; gestire i finanziamenti pubblici degli enti finanziatori; stipulare i contratti relativi alla gestione operativa dell’Evento ed acquisire i proventi, nel rispetto del dossier di candidatura e successive modificazioni; redigere alla chiusura dell’Evento un rendiconto finanziario generale, da sottoporre all’approvazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze; (da wikipedia).

Expo Spa ha realizzato il sito e ha gestito il processo costruttivo dei padiglioni “standard”, ha stipulato i contratto con i paesi ospiti, sta gestendo il management di tutto lo svolgimento, sta percependo proventi di vario tipo (pubblicità, merchandising, …) e sta incassando il denaro proveniente dalla vendita dei biglietti. Ad oggi non è chiaro a nessuno quale sia il bilancio definitivo di Expo Spa. Certo è che erano attesi 29 milioni di visitatori, e forse si arriverà a 20 milioni. Il masterplan prevedeva che l’accesso costasse 30-32 euro, mentre fin dal mese di aprile erano sul mercato biglietti a 20 euro, che diventavano 10 euro per le scuole. Dal mese di giugno i visitatori serali (comunque contati nel conto complessivo) entrano con 5 euro. Molti paesi non stanno pagando i creditori, tra cui gli Stati Uniti. Si può affermare, senza timore di grosse smentite, che Expo produrrà un importante passivo che dovrà essere ripagato dall’unico soggetto capace di una operazione di questo genere e portata: il ministero dell’Economia, cioè lo Stato tramite Cassa Depositi e Prestiti. Questa voragine inoltre avrà sicuramente ripercussioni sul bilancio del comune di Milano, sull’economia dell’intera regione ed in generale sul “sistema paese”.

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Sul piano politico (e delle politiche) Expo è una specie di buco nero. Tutti si sono improvvisamente scoperti “expottimisti”, a partire ovviamente dal Pd e dalla giunta del sindaco Pisapia, che ha ereditato l’Expo quando ne avrebbe volentieri fatto a meno ma che non a saputo dire l’unico “no” che avrebbe dato un senso al suo mandato. L’euforia da Expo è stata venduta con gran dispiegamento di forze, ed  alla fine il mantra che ripete ossessivamente “Expo è un successo” si è affermato con modalità orwelliane.

La saldatura tra Comunione e Liberazione e Pd nella gestione di tutta l’area metropolitana è oramai definitiva. Sotto i profilo culturale Expo si è rivelato essere esattamente quello che molti avevano sempre temuto:la materializzazione di una specie di Disneyland in versione padana, con una dose rilevante di kitch e una enorme capacità di imporre il pensiero unico dell’”Expo felice”. In questo ambito, occorre riconoscerlo, ha dato una grossa mano il contribuito di (pare) circa 50 milioni elargito da Expo alle maggiori testate e giustificato sotto la voce “comunicazione istituzionale”. Gli effetti sul turismo sono contraddittori, in città il flusso dei turisti è sicuramente aumentato e le statistiche dicono che i visitatori sono raddoppiati rispetto al 2014.

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Però Milano non è una città turistica, e raddoppiare un numero piccolo non è un gran risultato … È ormai chiaro però che Expo si è rivelato un competitore con la città. Expo ha funzionato da attrazione verso il sito espositivo, con grandi afflussi concentrati nei weekend e lunghe code agli accessi, e da dissuasione rispetto alla città: molti ristoratori lamentano un calo delle presenze in centro, molti esercizi commerciali fuori dalle rotte verso Expo non hanno registrato alcun incremento di clientela. Sul piano della legalità Expo ha avuto il pregio di far emergere il peggio del peggio della corruzione, della connivenza tra settori dello stato, con manager incaricati di gestire la cosa pubblica e criminalità organizzata. Soprattutto ha dimostrato, per quanto fosse già chiaro, che la macchina del “grande evento”, così come è pensata, genera un diffuso agire criminale. Ormai è chiaro che non esiste una “grande opera” sana e pulita, le grandi opere per definizione sono un precipitato di criminalità e di connivenza tra impresa, stato ed organizzazioni malavitose, tanto da rendere difficile distinguere i confini tre questi soggetti.

Il dopo Expo per ora assomiglia a un qualcosa a metà tra un film con Fantozzi e un film di Fellini. Sicuramente subiremo con violenza la narrazione del successo di Expo, e si userà il numero di visitatori per giustificarlo. Invece i numeri reali del bilancio verranno tenuti nascosti almeno per tutta la campagna elettorale, che si svolgerà nella prossima primavera.

L’unico soggetto che ne uscirà bene sarà, come al solito,Fondazione Fiera Milano (Ffm) che venderà la sua quota in Areepo allo Stato, incasserà le plusvalenze e non dovrà nemmeno preoccuparsi delle bonifiche, delle dismissioni e di qualsiasi cosa riserverà il dopo-sito. L’area di Expo rischia di rimanere abbandonata a se stessa per i prossimi mesi e forse per i prossimi anni. Tutti resteranno fermi in attesa che vengano definiti gli accordi tra i poteri forti, che per l’area milanese in questa fase significano l’intreccio tra Fondazione Fiera, Ferrovie dello Stato, che sta per trasformare gli ex scali ferroviari in nuove speculazioni edilizie, Aler, che procederà con la svendita del patrimonio immobiliare pubblico, l’Università, che tenterà di diventare l’ennesimo agente del Real Estate. Uno scenario ad elevato rischio di bolla speculativa, perché a Milano non esiste nessun bisogno reale, cioè capace di suscitare mercato, di nuove edificazioni o di nuovi interventi, che finiranno per moltiplicare i fallimenti di Santa Giulia o di City Life.

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Infine si devono considerare i progetti infrastrutturali, che trovano nuova forza dallo Sblocca Italia, e che incombono sull’area metropolitana e in particolare sul Parco Sud (trivelle, discariche e stoccaggi di idrocarburi). Questi progetti confermano la gigantesca menzogna di Expo rispetto al tema dell’esposizione: cibo, filiera corta, alimenti a km zero, agricoltura sostenibile e periurbana etc., e dimostrano l’inutilità della Carta di Milano, spacciata come “High Agreement” quando in realtà nessuno sa cosa ci sia scritto e finirà dimenticata. Expo è stato e sarà un furto alla collettività. È stato realizzato con risorse pubbliche che hanno drenato le casse del Comune, della Regione e domani anche dello Stato.

Expo inoltre non ha ridistribuito ricchezza. Al contrario ha generato limitatissimi ritorni economici diffusi, mentre invece haprodotto enormi plusvalenze per pochi soggetti collocati in posizione strategica. Expo infine è stata la vittoria della logica emergenziale, violenta e privatistica di concepire l’economia e più in generale i rapporti sociali in questa fase di crisi. L’unica risposta accettabile, che peraltro potrebbe solo in parte restituire quanto sottratto negli scorsi anni, consiste nel convertire il sito per restituirlo alla città ed al territorio.

Il dopo Expo deve diventare un luogo sociale, deve restituire alla città le aree e le infrastrutture, deve diventare bene comune e patrimonio di tutti i cittadini, deve sdebitarsi per tutto quello che è stato sottratto a Milano e al paese.Ma questo non è ancora sufficiente. È necessario che anche l’intero processo decisionale su cosa fare dell’Expo sia oggetto di una valutazione e di una decisione partecipata. Un dispositivo di partecipazione attiva in cui i cittadini possano esprimere un punto di vista che di sicuro sarebbe differente da quello di Fiera, Expo e Compagnia delle Opere

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*Comitato No Expo
Fonte il Granello di Sabbia

 

Citato in http://comune-info.net/2015/11/dopo-lexpo/

GRIDIAMO FORTE IL NOSTRO OXI EUROPEO

 

AD ATENE IL FRONTE DEL NO TORNA IN PIAZZA

A quanto pare, la Grecia, dopo aver vinto una battaglia, si prepara a perdere la guerra. A una settimana dalla vittoria referendaria, il governo greco di Alexis Tsipras cede al ricatto del gigante tedesco preparandosi a pesanti riforme in cambio di aiuti. Già da ieri il popolo greco è tornato a scendere in piazza per protestare contro questo accordo.  Forse il governo  greco sta tradendo il suo popolo o forse la Grecia è stata lasciata sola da parte di altri paesi europei che avrebbero potuto costituire una coalizione antitedesca, per esempio la Francia. Comunque sia il fronte del No all’austerity, del No alla troika si sta preparando per una mobilitazione europea prevista per domani, termine ultimo per l’approvazione delle riforme.
Staremo a vedere come il popolo greco e i solidali di tutta Europa faranno sentire la loro voce per un No alla resa.

D. Q.

 

  • 14 Lug 2015 12.34

Ad Atene il fronte del no torna in piazza

Il 13 luglio, dopo che Atene ha trovato un accordo con i creditori a Bruxelles, i cittadini sono tornati in piazza Syntagma per esprimere dissenso rispetto all’intesa. “L’Europa ci umilia”, hanno affermato i manifestanti che hanno criticato Alexis Tsipras per la sua decisione di firmare il piano.

Tra i partecipanti alla manifestazione il sindacato del pubblico impiego, Adedy, che ha indetto uno sciopero di 24 ore per il 15 luglio, quando il parlamento dovrà votare le nuove misure di austerità concordate con l’eurozona.

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/video/2015/07/14/atene-proteste

 

*

Cosa resta dell’Europa?

L’Eurosummit si chiude con la vendetta della Germania nei confronti di Atene. Entro mercoledì nuova tranche di riforme “lacrime e sangue” e poi via alle privatizzazioni in cambio degli aiuti economici. Dopo la trattativa di questa settimana molte cose non saranno più come prima

Dopo diciassette ore di trattative l’Eurosummit si è chiuso con un accordo che avrà probabilmente conseguenze devastanti. Un pacchetto di aiuti che si aggira tra gli 82 e gli 86 miliardi di euro verrà stanziato per un periodo di tre anni a favore della Grecia, se e solo se in questa settimana la Grecia approverà un pacchetto di riforme enormi. Perciò il parlamento di Atene è chiamato a votare entro il 15 luglio, cioè meno di tre giorni, su: la riforma delle pensioni, del fisco – comprensiva dell’innalzamento dell’IVA – l’autonomizzazione dell’istituto nazionale di statistica e la piena applicazione del Fiscal Compact, che prevede, tra le altre cose, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Entro il 22 luglio si dovrà riformare il codice civile e applicare pienamente la direttiva sulle crisi bancarie (Brrd).

Una volta approvate queste riforme e quindi ristabilita “la fiducia” dei creditori nei confronti del governo greco, l’Eurogruppo potrà dare il suo via libera per il Memorandum of Understanding, che dovrà essere votato in seguito, secondo le procedure dei singoli stati, da almeno sei parlamenti nazionali, tra cui – chiaramente – il parlamento tedesco. “Al fine di costituire la base per una conclusione di successo del protocollo d’intesa, l’offerta greca di misure di riforma deve essere seriamente rafforzata (…). Il governo greco deve formalmente impegnarsi a rafforzare le proprie proposte in un numero di aree identificate dalle Istituzioni”, con tempi chiari, obiettivi precisi, standard di riferimento e ispirandosi alle buone pratiche europee (traduzione nostra). Cosa bisogna “riformare”? E’ necessaria un’ “ambiziosa” riforma delle pensioni, una piena liberalizzazione del mercato dei beni e servizi (ex: farmacie, traghetti, aperture la domenica…), privatizzazione della compagnia elettrica, “una rigorosa revisione e modernizzazione del mercato del lavoro”, in particolare per ciò che riguarda la contrattazione collettiva e le misure industriali, rafforzare il sistema finanziario, eliminando qualsiasi possibilità di interferenza politica nel sistema bancario.

A queste riforme si aggiunge la costituzione di un fondo di 50 miliardi che si occuperà di gestire un massiccio processo di privatizzazione. Gli assets – o meglio i beni pubblici – considerati “valuables” verranno trasferiti a questo fondo che si occuperà di “monetizzarli” attraverso la loro vendita al migliore offerente. I fondi così ricavati verranno utilizzati per ripagare una parte del prestito triennale, per ammortizzare una parte del debito pubblico e per investimenti per far “ripartire l’economia”. Il fondo avrà sede in Grecia, e non in Lussemburgo come inizialmente previsto, e verrà gestito dalle istituzioni greche, sotto la supervisione delle Istituzioni europee. Ovviamente sono presenti minacciose clausole di salvaguardia, quali anche noi ben conosciamo.

Durante i negoziati la Grecia aveva costruito la propria linea di difesa attorno a quattro punti principali: il rifiuto della partecipazione dell’FMI al terzo programma di aiuti, l’opposizione al fondo per le privatizzazioni, la ristrutturazione del debito, la garanzia di liquidità alle banche. Soltanto sull’ultimo punto – stando al tenore delle dichiarazioni di queste ore – il governo greco sembra essere riuscito a strappare qualcosa, per il resto – a parte il trasferimento del fondo per le privatizzazioni dal Lussemburgo ad Atene – il governo Tsipras è stato costretto a capitolare. La stessa discussione attorno alla ristrutturazione del debito è presente nel testo dell’accordo in termini molto vaghi.

Durante il negoziato, come riporta questa infografica del Guardian di ieri, lo schieramento dei “falchi” dell’austerity, con a capo la Germania, ha portato fino in fondo il progetto ordoliberale europeo: o la Grexit o la capitolazione della Grecia. In entrambi i casi la Germania avrebbe vinto. I termini in cui si sono svolte le trattative e il contenuto stesso dell’accordo fanno emergere in piena luce un progetto di Europa costruito attorno a un blocco tedesco, forte di una maggioranza schiacciante all’interno dell’Eurosummit. La stessa proposta avanzata negli ultimi giorni dal ministro Schäuble sulla possibilità di una Grexit “a tempo” chiarisce la posizione della Grosse Koalition tedesca sul futuro dell’Europa. Se, come sosteneva Varoufakis nei scorsi giorni, l’eurozona è qualcosa di più di un’area a cambi fissi, ma è qualcosa di meno di uno entità statale, è altrettanto vero che il ricatto tedesco in questi giorni si è basato proprio sulla possibilità della Germania di aggredire i capitali ellenici in caso di uscita della Grecia dall’euro. Un’alternativa tra default e austerity che poteva essere rotta solo attraverso la costituzione di un fronte antitedesco al tavolo del negoziato, con la Francia in prima fila. Tutto ciò non è avvenuto e la scommessa di Tsipras sulla trattativa si è rivelata perdente.

Ora il parlamento greco dovrà votare questo pessimo accordo uscito dall’Eurosummit, lo scenario più probabile è che Syriza si divida e una parte voti contro, aprendo di fatto una crisi di governo cui potrebbe seguire la prospettiva di un governo di unità nazionale o addirittura le elezioni anticipate. In ogni caso, un’eventuale crisi di Syriza rappresenterebbe per la Merkel la ciliegina sulla torta. Diverso effetto, soprattutto in vista di elezioni anticipate e di un ricompattamento della sinistra radicale, potrebbe avere un clamoroso gesto di dimissioni di Tsipras al primo rilancio ricattatorio della trojka.

Di fatto sappiamo chi pagherà: i precari, i disoccupati, i lavoratori e un paese pauperizzato e umiliato. Non possiamo negarlo, questo accordo rappresenta una forte battuta di arresto alla possibilità di ridisegnare lo spazio europeo. Il potere economico tedesco ha utilizzato tutto il suo potere di ricatto, ma il più grande merito del governo greco è stato far emergere con forza esplosiva le contraddizioni dell’UE. La vittoria dell’#Oxi della scorsa domenica è stata innanzitutto l’apertura di uno spazio per riprendere in mano la decisione politica, ed è ancora questa la sfida che abbiamo di fronte: comprendere qual è lo spazio e la scala per poter tornare a decidere. In Grecia sono previste manifestazioni già oggi pomeriggio, mentre mercoledì è stato annunciato uno sciopero del settore pubblico, e sta circolando l’appello per una mobilitazione europea nei prossimi giorni. Lo spazio di mobilitazione sociale aperto dal referendum non è chiuso e chi ha votato “no” vuole rimanere in piedi. Su ciò che resta dell’Europa.

 

 

Fonte:

http://www.dinamopress.it/news/cosa-resta-delleuropa

Atene, the day before

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Ci sono luoghi nel mondo dove la Storia sembra scorrere a un ritmo lento e rilassato. Ci sono cittá che cambiano verso l’alto, nella skyline, o sotto la scorza di una monotonia che si ripete.

Poi c’é Atene. Atene che cambia dentro. Atene della crisi, che ogni volta ti regala un dettaglio inedito, dietro cui si nasconde un significato piú grande, che a volte sfugge, a volte é chiaro. I ragazzini con le divise addosso e le armi in mano ad ogni angolo di Exarcheia, dopo la rivolta di dicembre 2008. I marmi divelti dei palazzi delle strade che confluiscono a Syntagma, a partire dal 2010. Centinaia di tossici che assediano il perimetro di Exarcheia, a ridosso delle elezioni di giugno 2012. Criminali robusti e vestititi di nero che minacciano con lo sguardo e con le mani, che torturano e uccidono, dopo l’ingresso in Parlamento dei loro camerati. L’entusiasmo inquieto e l’attesa preoccupata dopo la caduta dell’ennesimo governo, poche ore prima che la speranza dell’alternativa diventi fatto concreto.

Oggi Atene regala l’immagine di una cittá sospesa e divisa. Le macchinette della metro sono coperte da un cartello: ‘I trasporti pubblici sono gratuiti fino a nuova comunicazione’. Gli OXI e i NAI si alternano a singhiozzo sui manifesti che coprono i pali e i muri del centro e sulle copertine dei giornali esposti in ogni Periptero [edicole a chiosco, nda]. Nei bar affollati si legge, la carta stampata o le schermate degli smartphone, e si discute.

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Questa é Atene, il giorno prima che la Storia si affacci di nuovo in cittá. Questa é Atene, il giorno dopo le piazze di chiusura della campagna referendaria. Piena quella per il sí. Strabordante, commovente, da brividi quella per il no.

Se gli ultimi giorni avevano segnato una tendenziale rimonta di chi si diceva disposto ad accettare un nuovo memorandum, l’impressione (forse, la speranza) é che la giornata di ieri possa aver invertito questa direzione. Certo é impossibile fare previsioni o avere il polso della situazione. Almeno ad Atene, peró, potrebbe essersi aperta una breccia nel muro di paura cementificato dalla Troika, dalle multinazionali, dai padroni. La capitale, dove vivono la metá degli elettori greci, ha dato una risposta impressionante circondando e inonando Syntagma, mentre Alexis Tsipras teneva il discorso conclusivo.

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Una prova non scontata. Una risposta a chi sta praticando un colpo di Stato non convenzionale. Non con i carrarmati e le armi spianate, senza colonnelli, ma con il blocco della liquiditá alle banche, con le minacce di non pagare gli stipendi e di licenziare in massa, con mille ricatti grandi e piccoli, degni solo dell’arroganza di chi ha affamato il Paese, lo ha costretto al suicidio, lo ha indebitato, ma non é ancora sazio. Ci vorrá grande coraggio e un’infinita dignitá per votare No domani. Non sará certo facile con la pistola alla testa puntata dal fronte pro-austerity.

Intanto, intorno al Greferendum i fronti che si scontrano oggi in Europa e per l’Europa stanno assumendo maggiore concretezza e diventano visibili a un largo pubblico. Da un lato, troviamo chi vuole cancellare qualsiasi prerogativa democratica e distruggere lo Stato sociale e i diritti conquistati dalle lotte. Chi lavora quotidianamente per trasformare il vecchio continente, e in particolare la sua area mediterranea, in una riserva di lavoro a basso costo o gratuito, senza potere contrattuale. Chi spende miliardi per escludere migranti e rifugiati, per costringerli a morire al di lá del mare e delle frontiere. Chi non puó tollerare che agli interessi dei mercati finanziari e delle élite globali si contrappongano politiche differenti, in fondo neanche troppo radicali e comunque legittimate formalmente da un mandato popolare.

Dall’altro lato, peró, c’é un popolo europeo che lentamente, a fatica, sta alzando la testa, cercando di consolidare ed espandere l’incompatibilitá con i diktat neoliberali, con il disprezzo della vita e della democrazia delle istituzioni finanziarie. Lo sciopero europeo del 14 novembre 2012, l’intenso percorso di Blockupy culminato nell’assedio all’Eurotower, l’emersione in diversi Paesi di partiti radicali e anti-austerity, l’esperienza greca in tutta la sua complessitá, gli scontri e i fuochi che dall’inizio della crisi sono scoppiati nelle principali metropoli, fino alle decine di piazze europee di ieri, riempite da migliaia di persone nel silenzio generalizzato dei media di regime.

Questa grande mobilitazione per il No merita un breve approfondimento. Innanzitutto bisogna sottolineare l’importanza della lettura europea di questa consultazione refendaria, che comunque rimane su base nazionale. Le piazze di ieri e le azioni di questi giorni raccontano una crescente capacitá di interpretazione della fase politica e della spazialitá che le é propria. La consapevolezza che il risultato del voto greco riguarda il futuro di tutti i cittadini europei ha travalicato i circoli dei militanti politici da piú tempo impegnati nella costruzione di dinamiche politiche transnazionali. Inoltre, un altro merito di queste piazze é quello di aver contribuito a smascherare la sistematica produzione di menzogne dei centri di potere finanziario e delle istituzioni europee. Stanno raccontando che il No é un voto contro l’Europa, eppure ieri é stata proprio l’Europa che in maniera compatta ha votato No nelle strade: neppure una piazza si é riempita a sostegno del Sí!

Allora diciamo le cose come stanno. La scelta non é pro o contro l’Europa. La scelta é pro o contro quest’Europa. L’Europa del debito, dei ricatti, dello schiavismo, del razzismo, oppure un’Europa in cui ci sia spazio per l’alternativa, per i diritti del lavoro e per i diritti sociali, per l’autodeterminazione, per i movimenti sociali e per una democrazia che va necessariamente radicalizzata. La questione dell’euro é solo una parte di questo tema piú ampio e decisamente piú importante. Di sicuro non si puó pensare di sacrificare la possibilitá dell’alternativa sull’altare della moneta unica e dei ricatti ad essa connessi!

Comunque vada, siamo alla resa dei conti: il nemico vuole colpire SYRIZA e il popolo greco per educare, scoraggiare, sfiancare tutti coloro che in questi anni si sono opposti all’austerity e al progetto di autoritarismo finanziario della Troika e delle istituzioni europee. Da domani, in ogni caso, niente sará come prima. Da domani, in ogni caso, ci sará maggiore bisogno di un movimento europeo reale e di rotture che dal basso e dall’alto facciano male al nemico.

di Giansandro Merli

 

Fonte:

http://atenecalling.org/atene-the-day-before/

 

Leggi anche qui:

Cosa succede, cosa succede in città? Impressioni dalle strade di Atene

supa-500x330Atene, in questi giorni è una città calviniana, invisibilmente presa nei suoi percorsi simbolici, nelle sue linee insieme concrete ed effimere, attraversata dal dubbio. Ma chi sono i protagonisti di questa storia, che non fanno che apparire confusi ai lettori…