L’ultima battaglia di Bianca la rossa. È mancata Bianca Guidetti Serra

Stamane Torino ha perso una grande donna, figura centrale della giustizia e della politica per molti anni. A darne notizia il figlio Fabrizio Salmoni.

la Redazione

Bianca Guidetti Serra è stata l’avvocato dei deboli, delle minoranze, degli sfruttati, ha difeso operai, studenti, e minorenni che hanno subito abusi, ha lavorato per ottenere leggi moderne sull’adozione. È mancata stamane, 24 giugno alle 8,30, dopo lunga malattia a 95 anni nella sua casa di Torino che era stata anche il suo studio legale. Lo comunica il figlio Fabrizio Salmoni con la moglie Cecilia e la figlia Loretta Lisa.

 

Al di là delle sue brevi esperienze istituzionali (consigliere comunale indipendente con Democrazia Proletaria 1985-87; deputata indipendente per DP 1987-90*; poi ancora con il Pds 1990-99), Bianca è stata un grande avvocato anche quando si è trattato di confrontarsi con i poteri forti: fu parte civile con i sindacati contro la Fiat per le schedature illegali dei dipendenti (unica, storica condanna penale della Fiat); fu difensore del Direttore del giornale Lotta continua Pio Baldelli contro il commissario Calabresi e fu parte civile nel processo contro i Frati Celestini di Prato, imputati di maltrattamenti nei confronti dei bambini a loro affidati. La ricordiamo anche per altri processi storici (banda Cavallero, banda XXII Ottobre, Brigate Rosse, Ipca di Ciriè, Eternit di Casale Monferrato) ma la gente la ricorderà soprattutto per la miriade di processi in difesa di militanti politici degli anni Sessanta-Settanta.

Alberto Salmoni (primo), Bianca Guidetti Serra (seconda). e Primo Levi (ultimo )

All’avvocatura era approdata nel 1947, dopo la Resistenza che l’aveva vista staffetta partigiana in Val di Susa e in Val Chisone; impegnata ad aiutare, con Ada Gobetti amici e conoscenti ebrei, considerati di “nazionalità nemica” dalla Repubblica Sociale italiana; e ancora come organizzatrice dei Gruppi di Difesa della Donna a Torino.

Quando sui muri di Torino apparvero i primi manifesti antisemiti, Bianca – con la più giovane sorella Carla (che avrebbe poi sposato Paolo Spriano), con Alberto Salmoni (che sarebbe, in seguito, diventato suo marito) e altri giovani – si mise metodicamente a strapparli. Forse in questa determinazione (che la polizia, per fortuna dei ragazzi, considerò soltanto un atto di vandalismo), giocò l’amicizia con Primo Levi. (Anpi)

Iscritta al Pci dal 1943, ne uscì nel 1956 a seguito dei fatti d’Ungheria e si dedicò quindi completamente all’attività professionale, pur sempre nell’ambito della più ampia sinistra italiana, da indipendente: si occupa con determinazione del diritto di famiglia e della tutela dei più deboli, dei minori e dei carcerati; è presente nelle fabbriche torinesi per assistere gli operai per conto della Camera del lavoro; negli anni Settanta combatte la battaglia contro le schedature politiche degli operai alla Fiat.

Nel maggio del 2009 intervistata dal  quotidiano «La Stampa» in occasione dei suoi 90 anni, le fu chiesto quale significato ebbe il processo, che la vide protagonista come parte civile, sulle schedature scoperte dall’allora pretore Guariniello – processo che si concluse con l’assoluzione degli imputati:

Io credo che un significato l’abbia avuto: quello di non accettare un sistema iniquo senza protestare. Era una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai. La Stampa»)

Bianca Guidetti Serra

Nel 1987 si dimise da consigliere per presentarsi, sempre come indipendente nelle fila di Dp, alle elezioni per la Camera dei Deputati. In Parlamento prese parte ai lavori delle Commissioni giustizia e antimafia. Nel 1990, insieme a Medicina Democratica e all’Associazione Esposti Amianto (AEA) partecipò alla presentazione, come prima firmataria, di una proposta di legge per la messa al bando dell’amianto, approvata poi nel 1992 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, Legge n. 257 del 27 marzo 1992).

Aveva smesso di esercitare nei primi anni Novanta per le prime difficoltà fisiche, poi nel 1997 il primo ictus ne aveva definitivamente interrotto l’attività.

Il suo impegno nel campo del diritto ci dice che, in coerenza con le sue scelte di sempre e con la sua indole combattiva, oggi la vedremmo certamente dare battaglia in Tribunale in difesa dei valsusini e di chiunque subisce gli abusi del Potere. Per questo, e in omaggio alla sua vita, siamo sicuri che saranno in molti a volerla andare a salutare per l’ultima volta. Si attendono nelle prossime ore informazioni più dettagliate sulle sue esequie.

La redazione di TG Vallesusa si stringe con affetto attorno all’amico e collega Fabrizio Salmoni in questo momento di dolore per la perdita della mamma Bianca.

* Diede le dimissioni da parlamentare dopo poco più di due anni per incompatibilità personale con quel tipo di lavoro

Bibliografia di Bianca Guidetti Serra:

Il paese dei celestini (con Francesco Santanera), Einaudi, Torino 1973

Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile (II vol.), Einaudi, Torino 1977

Le schedature Fiat, Rosenberg & Sellier, Torino 1984

Storie di giustizia, ingiustizia e galera, Linea d’Ombra 1994

Da segnalare la sua biografia autorizzata: Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, Torino 2009.

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Sull’ergastolo agli assassini di Rostagno e del suono di una sola mano

Risulterò odiosa a molti ma nel commentare la sentenza per il delitto Rostagno avvenuta ieri,  http://www.liberainformazione.org/2014/05/15/delitto-rostagno-ergastolo-per-vincenzo-virga-e-vito-mazzara/, – non mi sento di festeggiare quella che non ritengo comunque un’istituzione democratica. Da tempo mi dichiaro contraria all’ergastolo, una pena disumana perché in contrasto con l’idea stessa di pena carceraria che dovrebbe tendere, come dice la legge, alla rieducazione del condannato. Ma come potrà considerarsi rieducato un condannato al quale è tolta per sempre la libertà e quindi qualsivoglia speranza di una vita diversa? E se è vero che col passare del tempo una persona  non è la più la stessa perché si cambia continuamente, come potrà essere giusta una pena che colpisce un individuo divenuto diverso dal condannato?
La sentenza di ieri contribuisce ad affermare definitivamente una verità che si sapeva già da 26 anni e permette, sia pure tardivamente, di rimediare alla vergognosa girandola di accuse che colpirono prima esponenti di Lotta Continua, il movimento politico fondato da Rostagno e altri negli anni ’70, e poi persino la compagna di vita di Rostagno, Chicca Roveri, che fu incarcerata.
Mi piace ricordare Mauro Rostagno con l’immagine del libro , scritto da sua figlia Maddalena e da Andrea Gentile, con quella foto che ritrae padre e figlia in un’espressione che è la sintesi visiva della loro speciale vita. Tanto speciale da far dire che Mauro fu l’uomo capace di sentire il suono di una sola mano.

Donatella Quattrone

Annamaria Mantini

Dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro:

8 luglio 2009

ANNAMARIA MANTINI

-Nacque a Fiesole, l’11 aprile 1953
-Frequenta le scuole a Firenze e nel 1973 si iscrive a Lettere e Filosofia
– Nel 1975 si trasferisce a Roma
– Milita nei Nuclei Armati Proletari
– Viene uccisa dai carabinieri a Roma l’8 luglio 1975
Documenti prodotti da organizzazioni armate per la persona o per l’evento in cui ha incontrato la morte:
Nuclei Armati Proletari, Comunicato 9-7-75 in: Soccorso Rosso napoletano (a cura di), I nap, Milano 1976, Collettivo Editoriale Libri Rossi.
“9 luglio 1975: Ieri in un agguato teso dalla polizia, è stata uccisa a freddo la compagna Annamaria. La volontà del potere di chiudere la partita con i compagni che si organizzano clandestinamente, ha armato la mano del killer di turno, che con la precisa coscienza di uccidere, ci ha privato di una compagna eccezionale.
Il volto di Annamaria

Il volto di Annamaria
Annamaria era uno dei compagni che hanno dato vita al nucleo “29 ottobre”. Ha fatto parte del gruppo che ha sequestrato sotto casa il magistrato Di Gennaro, e il contributo che ha dato alla costruzione ed esecuzione di questa azione, dimostrando il livello politico militare che aveva raggiunto. E’ enorme l’abisso che separa una compagna rivoluzionaria da uno sbirro. Non basterebbero la vita di cento Tuzzolino per pagare la vita di Annamaria.
Questo non significa che dimenticheremo i Tuzzolino, i Barberis, così come non abbiamo dimenticato i Conti e i Romaniello.
La mano che uccide un proletario ci è nemica come i porci che la armano. Ma lo ripetiamo, non è uccidendo uno o più sbirri che i proletari si possono ripagare del prezzo che stanno pagando per liberarsi. E per questo prezzo altissimo, in noi come in tutti i rivoluzionari, non c’è solo la rabbia ma anche la coscienza che il movimento si sta arricchendo in maniera definitiva del patrimonio di importantissime esperienze che questi compagni ci lasciano.
Le giornate di aprile, le innumerevoli azioni armate, gli espropri per autofinanziamento, le azioni nelle carceri, dimostrano la crescita di una nuova generazione di combattenti, e non bastano gli omicidi e gli arresti per distruggerla.
La nostra esigenza di comunismo è indistruttibile.
Luca Mantini, Sergio Romeo, Bruno Valli, Vito Principe, Gianpiero Taras, Margherita Cagol, Annamaria Mantini.
Non siete i soli e non sarete gli ultimi, ma rappresentate per tutti i rivoluzionari una scelta irrinunciabile.
Lotta armata per il comunismo
Nucleo Armato 29 ottobre.
Documenti prodotti da gruppi sociali
Anna Maria Mantini, in: Nuclei Armati Proletari, Quaderno n.1 di Controinformazione, Milano 1976
“Comunista da sempre, ma solo a 17 anni inizia ad interessarsi attivamente di politica sull’onda della contestazione studentesca del ’68. Quando il fratello viene arrestato (’72) entra a far parte dell’allora Soccorso Rosso fiorentino. L’esperienza diretta, la grande sensibilità nei confronti delle esigenze del proletariato detenuto la portano alla spontanea scelta verso questo settore di intervento.
Vive dall’interno le contraddizioni dei “nuclei carceri” di Lotta Continua.

mostra milano 
Di sua iniziativa prende contatti con altri detenuti ed ex-detenuti, con i quali mantiene rapporti sempre più intensi: sono loro lo stimolo principale alla sua maturazione politica, il suo punto di riferimento ed è con loro che critica le posizioni attendeste di LC.
Dopo una breve militanza in Potere Operaio ne esce per dar vita insieme ad altri compagni al Collettivo G. Jackson.
Il radicalizzarsi delle posizioni all’interno e all’esterno del carcere la rendono cosciente della necessità di operare sui livelli più avanzati dello scontro, ciò la spinge ad approfondire i rapporti con i compagni dei NAP.
Con l’assassinio di due di loro durante un’azione di autofinanziamento viene a rompersi un legame politico e umano fortissimo. “E’ inutile che io nasconda dietro la mia fede politica la mutilazione grossissima che ho avuto” scrive ad un mese dalla morte del fratello.
Ma non per questo affretta o decelera una scelta che già da tempo aveva fatto. La maturità politica, la carica umana, l’odio profondo per l’istituzione carceraria la vedono fondatrice del nucleo 29 Ottobre. Verrà assassinata a 22 anni, ma come spesso ripeteva lei stessa: “E se la morte ci sorprende all’improvviso, che sia la benvenuta, purchè il nostro grido di guerra giunga ad un orecchio che lo raccolga, un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino ad intonare canti funebri con il crepito delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria.”
Fonte:

Alceste Campanile

 
 
 
 
 
Di
 
Sergio Sinigaglia 
Alceste Campanile viene ucciso la notte del 12 giugno del 1975. Il corpo senza vita viene ritrovato in un tratto di campagna vicino la strada provinciale Montecchio- Sant’Ilario, in prossimità di Reggio Emilia. Ad ucciderlo è stata una calibro 7,65. Alceste aveva 21 anni e militava in Lotta Continua. Era da tutti ben voluto e stimato per il suo carattere solare. Amava la chitarra e la musica rock, e madre natura gli aveva regalato una bellissima voce. Nonostante che il suo omicidio avvenga in un contesto nazionale caratterizzato da un continuo susseguirsi di violenze e agguati neofascisti, l’inchiesta prende una strana piega. Infatti gli inquirenti iniziano a interrogare i compagni di Alceste e numerose abitazioni di militanti di Lotta Continua subiscono accurate e pesanti perquisizioni. Il pretesto lo dà un biglietto con un numero telefonico di Napoli. Chi indaga fa filtrare che si tratta di un recapito di un noto esponente dei Nap, Nuclei Armati Proletari, una formazione clandestina fondata da fuoriusciti di LC. Ci vuole poco tempo per far cadere la montatura e verificare che il telefono è di Goffredo Fofi, compagno di Lotta Continua, noto intellettuale e animatore della “mensa dei bambini proletari”, esperienza verso la quale Alceste era fortemente interessato. Ma la “pista rossa” non cade. Anzi è alimentata da Vittorio Campanile, padre di Alceste, che, coerentemente con le sue idee di destra, avvia una forsennata campagna contro gli amici e le amiche del figlio, nonostante gli altri famigliari siano di opinioni molto diverse. Inizia così una lunga vicenda che si concluderà solo trent’anni dopo con la confessione di Paolo Bellini squadrista di allora che ammetterà le proprie colpe. In mezzo un zig zag giudiziario che arriva anche ad ipotizzare, sempre in nome della “pista rossa”, un collegamento con lo sciagurato sequestro dell’ingegnere Carlo Saronio, conclusosi tragicamente, attuato da un ex militante di Potere Operaio, Carlo Fioroni, in combutta con un gruppo della mala milanese. Si ipotizza che Alceste, tramite un’amicizia di adolescenza con un esponente reggiano dell’Autonomia possibile basista per il riciclo del denaro frutto del sequestro, non volendo, avrebbe visto ciò che non doveva. Invece la verità era quella che sin dall’inizio avevano denunciato chiaramente i compagni di Alceste. Gli assassini erano fascisti. Bellini confessa e chiama in causa altri due camerati Roberto Leoni, l’altro esecutore dell’assassinio, e Piero Firomani che avrebbe fato sparire l’arma. Entrambi, naturalmente, respingono ogni addebito, ma per la giustizia Paolo Bellini, reoconfesso, è sicuramente colpevole. Solo che la sua collaborazione per far emergere la verità, viene premiata e l’accusa da “omicidio premeditato” diventa “semplice”, in modo che così possa andare in prescrizione. Ancora una volta ingiustizia è fatta!

Fonte:

Luigi Di Rosa

 

 

 

 

 

di Andrea Barbera 

 

 

È il 28 maggio 1976. L’Italia è percorsa in lungo e largo dai molti comizi elettorali che precedono le imminenti elezioni politiche fissate per il successivo 20 giugno. A Sezze Romano, cittadina in provincia di Latina, è previsto il comizio di Sandro Saccucci, mportante esponente del Movimento Sociale Italiano. Ex paracadutista e sospettato di aver partecipato al tentato golpe orchestrato nel dicembre del 1970 dal principe Junio Valerio Borghese con l’aiuto di settori «deviati» di istituzioni e servizi segreti, il Saccucci giunge nel centro pontino con un manipolo di fedelissimi. La scelta della città è quanto mai provocatoria: Sezze è un centro tradizionalmente antifascista. L’adunata è prevista per il tardo pomeriggio e attorno alle 19,30 un corteo di sette o otto auto entra in paese. A bordo degli automezzi, tra gli altri, vi sono fascisti di dichiarata fede come: Pietro Allatta, suo figlio Benito e sua sorella Palma; Ida Veglianti, Mauro Camalieri, Sandro Grasselli, Massimo Gabrielli e un certo Russini, tutti provenienti da Aprilia; Filippo Alviti di Bassiano; Spagnolo e Mangani di Latina; il segretario locale della Cisnal Del Piano; Alessandro Petrianni, Virgilio Grassocci e Antonio Contento di Sezze; Calogero Aronica e Salvatore Trimarchi del Portuense; Gabliele Pirone, segretario della sezione missina della Magliana, Roma. Il manipolo si reca in piazza IV Novembre, luogo per il previsto raduno. Dal palco su cui sale Saccucci, vi sono molti camerati armati di bastoni e pistole. Le forze di polizia presenti non sembrano molto interessate e rimangono in disparte. La tensione è alta: i fascisti vogliono provocatoriamente portare avanti il comizio nonostante si trovino in netta minoranza. Ad un certo punto Saccucci dice: «Noi siamo un partito delle mani pulite!» e quando la piazza risponde con bordate di fischi e canti inneggianti il comunismo, l’ex parà, innervosito, aggiunge: «Non volete sentirmi con le buone, mi sentirete con queste» ed inizia a sparare. Saccucci si sarebbe poi dato alla fuga dirigendosi con il corteo delle altre auto fuori dal paese esplodendo numerosi colpi. Quando il seguito delle macchine giunge nella zona detta del «Ferro di cavallo», un proiettile, esploso da una «mano» che fuoriesce dall’auto di Saccucci, colpisce alla gamba sinistra il giovane Antonio Spirito, studente-lavoratore militante di Lotta continua. Un altro colpo centra quasi contemporaneamente Luigi Di Rosa. Il ragazzo morirà in ospedale dopo circa due ore di agonia. In realtà, come le indagini balistiche condotte dalla polizia scientifica dimostreranno, Luigi viene investito da due diverse pallottole: la prima, dello stesso calibro di quella che aveva colpito in precedenza Antonio Spirito, gli ferisce la mano; una seconda, di diverso calibro e quindi presumibilmente esplosa da una mano diversa, centrerà Luigi nella zona del basso ventre, causandone la ferita mortale. Di Rosa, padre muratore e madre casalinga, aveva ventuno anni e frequentava l’ultimo anno di un istituto tecnico di Latina. Era un militante, come suo padre, del Pci ed era iscritto alla Fgci.
L’iter giudiziario che ha tentato di fare luce sull’accaduto è stato lungo e tortuoso e a conclusione dei vari processi ha pagato solamente un «pesce piccolo»: Pietro Allatta, condannato in primo grado a tredici anni di cui otto effettivamente scontati in virtù di vari sconti di pena. L’Allatta è stato ritenuto colpevole di aver impugnato l’arma che ha colpito prima Spirito poi Di Rosa; non si è tuttavia tenuto conto delle prove balistiche e del referto medico secondo cui si afferma che Luigi era stato colpito da due pallottole di calibro diverso; ciò avvalora la tesi secondo la quale gli attentatori furono più di uno. Le indagini non hanno mai chiarito inoltre la presenza a Sezze di un ex maresciallo dei Carabinieri e agente del Sid, Francesco Troccia. Questi risulterà essere legato ad un altro personaggio avvistato quel giorno: Gabriele Pirone, segretario del Msi della Magliana, nonché proprietario dell’immobile in cui viveva lo stesso Troccia. Quest’ultimo, sospettato di essere presente al comizio in qualità di «agente provocatore», sarà arrestato per un breve periodo con l’accusa di favoreggiamento: avrebbe impedito l’arresto di Saccucci. Sulla figura del dirigente missino è invece sceso un fitto velo di ombra fatto di depistaggi, appoggi politici e interminabili processi dagli esiti contradditori. Rieletto nel Parlamento della Repubblica con il doppio dei voti che aveva ottenuto nella precedente legislatura, il 27 luglio 1976 la Camera dei Deputati ne autorizza l’arresto con le pesanti accuse di: «omicidio di Luigi Di Rosa, cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata per il cosiddetto golpe Borghese». In altre parole l’onorevole Saccucci, non è mai stato «uno stinco di santo»; ma questi, informato anticipatamente da «ignoti» del suo imminente arresto, si rende «irreperibile» trovando rifugio nel Regno Unito dove rimarrà fino al 1980. Divenuto successivamente persona non più gradita alle autorità inglesi, trova riparo in Francia dove però subisce un primo breve arresto. La scarcerazione, si legge in una rogatoria, avviene in tempi brevissimi e grazie agli interventi di don Sixto di Borbone, del prefetto di Parigi e di un tale Jacques Susini, amico di Stefano Delle Chiaie, altro personaggio controverso già coinvolto nella strage di Piazza Fontana e «collega» ai tempi del golpe Borghese dello stesso Saccucci. Successivamente il fascista prosegue la sua fuga in Spagna, dove evita un nuovo arresto grazie ad un depistaggio organizzato con il sostegno di settori dei servizi segreti spagnoli: alle autorità italiane che lo ricercano, si fa credere che Saccucci non si trovi più in Spagna ma che sia fuggito in un paese sudamericano. Effettivamente, qualche tempo dopo, il ricercato ripara prima in Cile, poi in Argentina dove, attualmente, vivrebbe nella città di Córdoba. A livello penale, l’ex deputato missino è stato assolto in ultima istanza per i reati relativi alla vicenda Borghese e all’omicidio di Di Rosa. Rimane processabile solo per piccoli reati marginali legati delitto di Sezze.
La memoria di Luigi è stata infangata non solo dal fatto che nessuno abbia mai veramente pagato per la sua uccisione, ma anche per i ripetuti attentati al monumento posto, ad un anno dal suo omicidio, dall’Amministrazione Comunale in ricordo di tutte le vittime dell’antifascismo e culminato con la spregevole profanazione della sua tomba avvenuta nel 1978. Anche per quelle vicende, gli autori sono rimasti nell’oscurità.
Noi lo ricordiamo con quelle stesse parole che vennero pronunciate in un comizio antifascista all’indomani della sua morte: «Luigi era giovane, ma non troppo giovane per capire e battersi per la strada giusta. Non troppo giovane per cadere dalla parte giusta, come i partigiani di trent’anni fa, che erano poco più che ragazzi, come i nuovi partigiani di questi anni: Saltarelli e Mario Lupo, Serantini, Argada, Franceschi, Zibecchi e Varalli e Micciché e Brasili e Pietro Bruno e Mario Salvi».

 

 

Fonte:

http://www.reti-invisibili.net/luigidirosa/

Franco Serantini

Franco Serantini (Cagliari, 16 Luglio 1951 – Pisa, 7 maggio 1972), é stato un anarchico pisano morto il 7 maggio 1972 dopo un violento pestaggio poliziesco avvenuto qualche giorno prima durante una manifestazione antifascista.
Biografia 
L’infanzia 
Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 Luglio del 1951. Abbandonato al brefotrofio di “Infanzia abbandonata” della sua città natale, deve forse il suo nome e cognome ad un qualche ufficiale di Stato civile o ad un qualche religioso che apprezzava uno scrittore romagnolo autore di romanzi pittoreschi ottocenteschi che all’epoca aveva una certa celebrità, Franco Serantini [1]. Nel brefetrofio vi resta sino al 16 maggio 1953, quando viene dato in affidamento a due coniugi siciliani: Giovanni Ciotta, figlio di braccianti e guardia di pubblica sicurezza che all’epoca lavorava nel capoluogo sardo, e Rosa Alaimo, figlia di un piccolo possidente terriero. I due sono genitori affettuosi col bambino, ma quando alla madre adottiva viene diagnosticato un tumore la famiglia fa rientro al paese natale, Campobello di Licata. Dopo la morte della madre, il piccolo Franco diviene motivo di tensione familiare; Giovanni Ciotta ottiene il trasferimento del bambino a Caltanisetta, vorrebbe che gli fosse concessa l’affiliazione del bambino e fa domanda all’Amministrazione provinciale di Cagliari, a cui Franco ufficialmente era affidato. La richiesta viene però rigettata a causa di un cavillo burocratico. Il bambino vorrebbe essere preso in affidamento anche dai nonni materni (Maria Bruscato e Giovanni Alaimo) ed allora, il 13 dicembre 1955, sentito anche il parere dei fratelli adottivi (Santo e Carmelina), l’Amministrazione affida ufficialmente Franco alla sua nuova famiglia. [2]
Quando Maria Bruscatto si ammala, tenendo conto anche del fatto che Giovanni Alaimo era ormai anziano e i loro figli erano emigrati al Nord o in America, viene chiesto di ricoverare Franco in un nuovo istituto, giacché nessuno della famiglia, pur essendo sinceramente affezionati, poteva più occuparsi di lui. L’Amministrazione provinciale, nell’aprile 1960, ordina che Franco Serantini venga affidato all’Istituto Buon Pastore di Cagliari. [3]
Nel capoluogo sardo frequenta le scuole medie con scarso profitto, viene bocciato in seconda media. È un ragazzo timido, chiuso e taciturno, desideroso di ricevere affetto, cosa che le suore evidentemente non riescono a dargli. A quindici anni il rapporto con le suore è insostenibile, i litigi sono continui e nei primi mesi del 1968 l’Istituto si rivolge al tribunale dei minorenni, esprimendo l’impossibilità ad ospitare ancora Franco Serantini nel loro istituto. Malgrado adducano motivazioni disciplinari, una delle ragioni dell’insofferenza delle suore potrebbe anche essere che a quell’età, all’epoca, le amministrazioni provinciali smettevano di pagare la retta. [4]
A Pisa: prima il marxismo e poi l’anarchismo
Franco ha diciassette anni, il Tribunale dei minori riconosce che il ragazzo «ha una assoluta carenza affettiva» e che dovrebbe essere aiutato «con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». L’incredibile contraddizione del Tribunale sta nel fatto che per curare questa carenza affettiva, la sentenza emessa dal giudice minorile stabilisce che Franco debba essere rinchiuso in un riformatorio [5](!!!!!).

Franco Serantini durante una manifestazione

Dopo essere stato psicoanalizzato per un mese intero a Firenze, Franco Serantini viene affidato all’istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa, in regime di semilibertà (è bene precisare che Franco Serantini era incensurato). Nella città toscana riprende gli studi, consegue la licenza media alla scuola statale Fibonacci e poi frequenta la scuola di contabilità aziendale. Con l’esplosione della contestazione, Franco si avvicina agli ambienti della sinistra, frequentando prima le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista e poi quella di Lotta continua (LC). Durante il periodo di questa militanza politica, insieme ad una ventina di ragazzi, Serantini è protagonista dell’esperienza del Mercato rosso, al CEP (quartiere popolare pisano). L’idea del gruppetto è quella di comprare merce ai mercati generali per poi rivenderla a prezzo di costo agli abitanti del quartiere. Il mercato, che si teneva nell’area del piazzale Giovanni XXIII, viene inteso dai giovani militanti di LC come un modo per aiutare la povera gente e, contemporaneamente, per entrare in contatto diretto con loro, invitandola poi a partecipare alle riunioni che Lotta continua teneva ogni domenica pomeriggio.
Il mercato però attira le ira di commercianti, di fascisti e della polizia, mentre il PCI pare più attento a non perdere l’appoggio dei commercianti che a sostenere il gruppo di giovani di cui faceva parte Serantini. Il 16 settembre 1971 la polizia irrompe al CEP, nel tentativo di sgomberare il mercatino abusivo carica violentemente i ragazzi e ne trattiene in stato di fermo alcuni. Finisce in questo modo l’avventura del mercato.
Dopo alcuni litigi con il gruppo dirigente pisano di LC, anche a causa della vicenda del mercato, l’intolleranza di Franco Serantini verso ogni forma di autoritarismo lo spinge su posizioni legate all’anarchismo. Nella seconda metà del 1970 comincia a frequentare la sede del Gruppo anarchico Giuseppe Pinelli, che ha la sede presso la Federazione Anarchica Pisana (aderente ai GIA) in via S. Martino n° 48, dove conosce anziani militanti come Cafiero Ciuti, il prof. Renzo Vanni e altri libertari, giovani e meno giovani, del luogo. Inizia anche a leggere libri anarchici di Kropotkin, Cafiero e Malatesta che gli presta il prof. Vanni. Franco è molto attivo, partecipa a diverse iniziative e quando Renzo Vanni trova il bando di Almirante (un documento controfirmato da Giorgio Almirante che il 17 maggio 1944 imponeva la condanna a morte per i renitenti alla leva), nel giugno 1971, è lui stesso ad annunciarlo a Luciano Della Mea, antifascista e militante storico della sinistra pisana del quale era divenuto amico tempo prima. Ed è sempre lui che si incarica di farne delle fotocopie.
La morte
Prima delle elezioni del 7 maggio 1972 si susseguono le iniziative dei vari partiti e movimenti politici. Sono giornate molto animate e “calde”. Franco e gli anarchici decidono di partecipare ad una contestazione, indetta a Pisa per il 5 maggio da Lotta Continua, contro un comizio fascista. Durante la protesta antifascista la polizia comincia a caricare pesantemente i militanti della sinistra extraparlamentare che contestavano il comizio, per consentire al fascista Giuseppe Niccolai di portare a termine il suo discorso, causando decine di feriti e procedendo a 20 arresti.

Umanità Nova annuncia la morte di Franco Serantini (n. 17 del 13 maggio 1972)

Franco, dopo essersi inspiegabilmente fermato di fronte ad una carica della polizia, viene raggiunto dai celerini del 2° e 3° plotone della Terza compagnia del I° raggruppamento celere di Roma, picchiato con una ferocia inaudita con i calci dei fucili, pugni e calci e quindi caricato su una camionetta in stato di arresto.
«Erano circa le 20. Io mi trovavo alla finestra di un appartamento[…] in lungArno Gambacorti […] Ho sentito le sirene delle camionette venire dalla parte del comune […] si son fermate sotto la casa mia dalla parte delle spallette dell’Arno […] sotto la mia finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto un cerchio sopra di lui […] si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i piedi, sia con i calci del fucile. Ad un tratto alcuni celerini […] sono intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano, dicendo frasi di questo tipo: Basta, lo ammazzate![…] poi uno che sembrava un graduato [6]è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su […] lo hanno poi trascinato verso le camionette…» (Testimonianza di Moreno Papini, Lungarno Gambacorti n°12) [7]
Nonostante le condizioni fisiche in cui è stato ridotto dal pestaggio (aveva evidenti ecchimosi in tutto il corpo), viene trattenuto nel carcere Don Bosco ed interrogato dal magistrato Giovanni Sellaroli, al quale rivendica la propria appartenenza al movimento anarchico:
«Ho partecipato alla manifestazione del 5 maggio, sono un anarchico e un antifascista militante, è forse un delitto?» (Ammazzato due volte di Laura Landi)
Completamente abbandonato al suo destino, ritorna nella sua cella nella completa indifferenza di tutt. Di lì a poche ore la morte lo raggiungerà: alle 9.45 del 7 maggio Franco Serantini muore. Il certificato medico del dottor Alberto Mammoli parla genericamente di «emorragia cerebrale». Nel tentativo di nascondere ogni prova dell’omicidio, il pomeriggio dello stesso giorno le autorità carcerarie cercano di ottenere dal comune l’autorizzazione al seppellimento del ragazzo. L’obiettivo è quello di occultare cadavere e prove connesse, ma il tentativo viene respinto da un funzionario dell’ufficio del Comune che riteneva illegale la procedura subdolamente portata avanti.
Intanto, Luciano Della Mea ed il professore Guido Bozzoni, sostenuti dagli avvocati Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, prendono l’iniziativa di costituirsi parte civile e danno vita ad un’intensa campagna di controinformazione. Nei giorni seguenti, in tuta Italia, si terranno numerose manifestazioni di protesta contro la violenza delle forze dell’ordine.
Il 9 maggio 1972 si svolgono i funerali dell’anarchico sardo. Migliaia di persone lo accompagnano in mezzo ad una marea di pugni chiusi e di bandiera nere con la rossa A cerchiata nel mezzo.
Indagini
Le indagini furono due: la prima contro gli arrestati (tra cui, oltre a Serantini, c’erano 4 studenti greci, di cui uno – Tsolinas Evangelos – fu brutalmente pestato nonostante fosse poliomelitico); la seconda contro ignoti per la morte dell’anarchico. La prima indagine si concluse con il proscioglimento di tutti gli imputati, Serantini fu prosciolto in quanto morto. Egli era stato accusato di oltraggio (avrebbe urlato alle forze di polizia: «Porci!» e «Fascisti»), resistenza e violenza contro le forze dell’ordine. Le brevi indagini non dimostrarono mai se Serantini avesse o meno partecipato agli scontri; sicuramente stava nel cuore degli scontri, ma non vi sono prove se egli abbia o meno effettivamente partecipato al lancio di molotov o sassi contro le forze dell’ordine (anche per gli altri imputati fu impossibile dimostrare la loro effettiva partecipazione agli scontri). Le indagini misero anche in luce che egli si era del tutto inspiegabilmente fermato di fronte alla carica della polizia e per questo fu raggiunto e pestato a morte dalla polizia.
La seconda indagine fu più complessa e si scontrò con i comportamenti omertosi delle forze di polizia e dei medici, degli infermieri e delle autorità del carcere Don Bosco. Ci fu inoltre un tentativo da parte del procuratore generale, Mario Calamari, di trasferire 3 magistrati di Magistratura democratica (l’associazione di sinistra dei magistrati dell’Associazione Nazionale Magistrati) per impedir loro di portare avanti alcune indagini, tra cui quella su Serantini, in cui venivano messe in luce gravi responsabilità ed illegalità delle forze dell’ordine e di uomini dello Stato.
Nel novembre 1972 il medico del carcere Alberto Mammoli ricevette comunque un avviso di procedimento per omicidio colposo, mentre il giudice istruttore Funaioli (uno dei magistrati che Calamari cercò di trasferire) si espresse in favore di un’azione penale contro Albini Amerigo e Lupo Vincenzo, capitano e maresciallo di PS del I° celere di Roma, e la guardia Colantoni Mario, per aver affermato il falso e taciuto «ciò che era a loro conoscenza […] per assicurare l’impunità agli agenti responsabili dell’omicidio di Franco Serantini».
Nella sentenza depositata nell’aprile 1975 il giudice Nicastro dichiarò «non doversi procedere in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori». Lupo e Mammoli vennero prosciolti. Albini e Colantoni, condannati per falsa testimonianza a 6 mesi e 10 giorni con la condizionale e la non iscrizione nel casellario giudiziale, furono assolti nel gennaio 1977. Nel marzo dello stesso anno il dottor Mammoli venne ferito alle gambe da militanti di Azione Rivoluzionaria.
Concludendo si può affermare che, nonostante formalmente non si siano trovati gli esecutori materiali dell’omicidio di Franco Serantini, a causa dei tanti “non ricordo” da parte degli uomini appartenenti ai vari apparati dello Stato (polizia, carceri e arte della magistratura), il procedimento ha dimostrato inequivocabilmente le responsabilità delle forze dell’ordine che si accanirono contro il giovane anarchico. Ha inoltre evidenziato la disumanità del magistrato (Sellaroli) che lo interrogò nonostante le varie ecchimosi che gli ricoprivano tutto il corpo (rilevati ufficialmente anche dall’autopsia) e la completa indifferenza di tutto il sistema carcerario di fronte all’agonia di Serantini, che fu ricoverato solo in punto di morte (un ricovero immediato gli avrebbe probabilmente salvato la vita). Ha scritto Corrado Stajano nel suo Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Franco Serantini:
«Lo Stato, stupito dalle reazioni dell’opinione pubblica democratica in difesa di un uomo senza valore, un rifiutato sociale privo di ogni forza di scambio politico, si è obiettivaamente confessato colpevole. Lo accusano i suoi comportamenti, i suoi continui e impudenti tentativi di mascherare e di insabbiare le responsabilità e di chiudere un caso che ha assunto un valore di simbolo del rapporto tra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà».

In ricordo di Serantini 
Il 13 maggio del 1972, durante una manifestazione, viene posta, senza alcuna autorizzazione, sul palazzo Touhar – sede del riformatorio che aveva “ospitato” Serantini in libertà vigilata, senza alcuna motivazione giuridica – una lapide sulla quale si poteva leggere:
«Un compagno di 20 anni \ morto tra le mani \ della giustizia borghese \ visse in questa \ che ora i proletari chiamano \ piazza \ Franco Serantini».

Monumento in ricordo di Franco Serantini

Nel 1974, per merito di Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, si costituisce a Pisa il “Comitato giustizia per Franco Serantini” che promuove la pubblicazione di Franco Serantini, un assassinio firmato (di Luciano Della Mea) e Giustizia per Franco Serantini (a cura dell’Amministrazione Provinciale di Pisa).
Queste sono solo alcune delle iniziative atte a promuovere la memoria di Franco Serantini: nel corso del tempo si susseguirono manifestazioni, articoli di giornali, circoli in suo ricordo (1982 nasce il “circolo Franco Serantini“), scuole a lui intitolate ecc.
Il monumento
Nel maggio del 1982, in piazza San Silvestro, a Pisa, fu collocato un monumento in sua memoria che riporta la seguente scritta: «Franco Serantini / 1951-72 / Anarchico ventenne / colpito a morte dalla polizia / mentre si opponeva / ad un comizio fascista».

Manifesto per l’inaugurazione della Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1979

La Biblioteca Franco Serantini
Nel 1979 nasce la biblioteca Franco Serantini per ricordare la figura dell’anarchico assassinato dalla polizia a Pisa.
La biblioteca è specializzata in storia del movimento anarchico dalle origini ai giorni nostri, del movimento operaio e sindacale, di quello antifascista e della Resistenza, dei movimenti studenteschi e di opposizione degli anni Sessanta e Settanta. [8]
Il libro
L’opera teatrale
Video
Audio
  • Wir, Franco Seratini (in tedesco) [11]
  • Ballata per Franco Serantini, di Ivan Della Mea, che ne compose due diverse versioni con diverse musica e parole ma dallo stesso titolo
Collegamenti esterni
Note
  1. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 2
  2. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 7
  3. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 9
  4. Corrado Stajano, Il sovversivo, , Einaudi, pag 13, 14
  5. Corrado Stajano, Il sovversivo, Einaudi, pag 15
  6. Si tratta di Giuseppe Piromonte, commissario di Polizia. In seguito si dimetterà dal suo incarico e abbandonerà la polizia.
  7. Corrado Stajano, Il sovversivo, pag 86, 87
  8. Sito web: Biblioteca Franco Serantini
  9. Una morte legale
  10. S’era tutti sovversivi
  11. Wir, Franco SeratiniFonte:

    http://ita.anarchopedia.org/Franco_Serantini

 

*
A questo link un omaggio del musicista Daniele Sepe  a Serantini:

https://soundcloud.com/mistergo/la-ballata-di-franco-serantini

Lino Aldrovandi: «Federico era il fratello di Francesco Lorusso»

lunedì 10 marzo 2014 21:52

Il papà di Federico: «Se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli. Siamo fratelli». Corteo a Bologna per l’11 marzo.

 


 

L’intervento del papà di Federico al presidio dell’8 marzo in via Mascarella dove, nel 1977, venne ucciso Francesco Lorusso. Nell’anniversario sono previsti il tradizionale appuntamento alle 10 e un corteo alle 18

di Lino Aldrovandi

L’11 marzo 1977, quando qui in questo posto, fu ucciso Francesco Lorusso, ma potrei fare tantissimi altri nomi di ragazzi leggermente più grandi di me morti assurdamente per mano “amica” (amica tra virgolette ovviamente), io ero un studente di quinta Itis e di lì a poco mi sarei diplomato come perito elettrotecnico. Giorgiana Masi, Roberto Franceschi, studenti universitari, alcune delle vittime uccise, di una lista lunghissima di tanti giovani, con un futuro e una vita davanti. Fino a qualche anno fa non sapevo chi fossero. Il mio pensiero e la mia preoccupazione, e forse me ne vergogno un poco, erano quelli di avere una fidanzatina, di giocare a pallone, di dire stronzate, di divertirmi. Questi ragazzi, invece, hanno dato la vita per degli ideali e questo li rende in un certo senso immortali.

“Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente”

Penso che chi ha scritto queste parole, contenute in un libro, sia una persona sensibile, speciale e grandiosa, testimone di questi tempi o meglio di “altri tempi” che è poi appunto il titolo del suo libro: Stefano Tassinari. Testimone indimenticato di un passaggio storico che non è servito ad evitare altre morti, figlie di “quei tempi”. La cara Haidi, madre di Carlo Giuliani, un giorno diceva a Patrizia: “perdonami Patrizia non sono riuscita a salvare Federico”. Cara Haidi anche io e Patrizia non siamo riusciti a salvare altri figli. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e chissà quanti. Stefano Tassinari, scrittore e poeta, con città natale Ferrara e città adottiva Bologna, ci ha lasciato un messaggio forte e chiaro: “non arrendetevi mai alle ingiustizie”. La vita è lotta, è resistenza, e non si può né contrattare né vendere.

La storia di Federico penso che la conosciate un po’ tutti e ringrazio Mauro Collina, ragazzo rivoluzionario ma dal cuore grande e giusto, che quest’anno mi ha invitato a partecipare qui con voi, in una città che amo, per condividere la memoria di un’altra ingiustizia, perché ogni giovane che muore, ricordiamocelo tutti, è una sconfitta atroce per lo Stato, ma soprattutto per chi, questi giovani, avendoli conosciuti ed amati, è costretto a sopravvivere.

Cosa possiamo fare?

Stare uniti e non stancarci mai di chiedere che i diritti di “tutti” siano sempre rispettati, e mai calpestati, soffocati o uccisi come i nostri ragazzi.

C’è una frase famosa che credo ci accomuni tutti: “se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli”.

Siamo fratelli.

Ecco anche il comunicato che convoca le iniziative per l’anniversario dell’11 marzo:

“L’istruttoria svolta contro di noi ha avuto caratteri di inquisizione contro il movimento. Essa è una mostruosità giuridica prodotta da una mostruosità politica, ha avuto origine dal tentativo di trovare dei ‘responsabili’ cui attribuire la gravissima colpa di avere sconvolto la pace sociale regnante nella città ‘più democratica del mondo’…

Il nostro movimento è stato represso duramente perché ha rifiutato di integrarsi, perché si è posto come punto di riferimento alternativo per gli strati emarginati e sotto-occupati, per lottare contro le loro precarie condizioni materiali…

Ciò che si è dovuto colpire è quello che rappresentiamo, la nostra colpa gravissima è di essere tenuti responsabili delle autoriduzioni, delle occupazioni, della contestazione alla amministrazione comunale; affermiamo che quello che si vuole introdurre a livello giuridico è un vero e proprio concetto di rappresaglia”.

Queste parole furono lette dai compagni arrestati nelle giornate del marzo ’77 nell’aula del tribunale di Bologna, durante il processo. Andrebbero bene anche in questi giorni come risposta ai provvedimenti repressivi (i divieti di dimora) notificati il 6 marzo scorso a 12 compagni che nel maggio 2013, assieme ad altre centinaia di manifestanti, si opposero alla militarizzazione di Piazza Verdi.

Quella fu una giusta pratica di resistenza che studenti e precari attuarono per ribadire nel cuore della cittadella universitaria, come in qualsiasi altra piazza pubblica i propri spazi di libertà e autonomia.

Del resto, dal ’77 ad oggi, Piazza Verdi ha visto tante volte tentativi di normalizzazione ed ogni volta nuove generazione di movimento si sono contrapposte e battute contro questi tentativi.

Per queste ragioni, condividiamo la scelta di organizzare per il pomeriggio dell’11 marzo un corteo che ricordi l’assassinio di Francesco Lorusso da parte dei Carabinieri, avvenuto in via Mascarella 37 anni fa, e per esprimere la solidarietà incondizionata ai compagni colpiti dai provvedimenti di Polizia di questi giorni.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare alla manifestazione.

“Siamo colpevoli di avere professato pubblicamente le nostre idee, di appartenere al movimento 77, di non accettare alcun compromesso”, affermarono i compagni arrestati davanti al giudice. “Da quel giorno dell’11 marzo abbiamo cercato costantemente di spostare lo squilibrio dalla paura verso la libertà”. Oggi siamo ancora lì che ci stiamo provando.

Vag61 – Spazio libero autogestito

– alle 18 manifestazione @ piazza Verdi

– dalle 21 @ Vag61 mostra e proiezione “Le strade di marzo”

La mattina dell’11 marzo 1977 a Bologna, in seguito a un contrasto sorto nell’Istituto di Anatomia fra alcuni militanti del movimento e il servizio d’ordine di Comunione e Liberazione, i giovani del gruppo cattolico si barricano all’interno di un’aula, invocando l’intervento delle forze di polizia. Appena giunti sul posto, con mezzi spropositati, i carabinieri si scagliano contro gli studenti di sinistra intenti a lanciare slogan. La carica fa subito salire la tensione. Nel corso degli scontri successivi, che interessano tutta la zona universitaria, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua, viene raggiunto da un proiettile mentre sta correndo, insieme ai suoi compagni, per cercare riparo. Muore sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Alcuni testimoni riferiranno di aver visto un uomo, poi identificato nel carabiniere ausiliario Massimo Tramontani, esplodere vari colpi, in rapida successione, poggiando il braccio su un’auto per prendere meglio la mira. Lo sparatore, arrestato agli inizi di settembre e scarcerato dopo circa un mese e mezzo, sarà in seguito prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi.

Quando si diffonde la notizia dell’assassinio, migliaia di persone affluiscono all’Università. Dopo che il corteo, partito nel pomeriggio, viene disperso da violente cariche, una parte dei manifestanti occupa alcuni binari della stazione ferroviaria, scontrandosi con la polizia, mentre altri si dirigono verso il centro della città e sfogano la propria rabbia anche infrangendo le vetrine dei negozi. Le iniziative di protesta dei giorni successivi sono duramente represse. Numerosi i fermi e gli arresti. Finiscono in carcere, tra gli altri, i redattori di Radio Alice, emittente dell’area dell’Autonomia Operaia chiusa dalla polizia armi alla mano.

I fatti di Bologna caricano di tensione l’imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.

Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell’assassinio. In quell’occasione al fratello di Francesco fu vietato l’intervento dal palco.

[Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi]

 

Fonte:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99247&typeb=0&Lino-Aldrovandi-