14 maggio 1977: Milano, una sparatoria “tranquilla”

 

Mercoledì 14 Maggio 2014 07:06

Milano, 12 maggio 1977; mentre a Roma le forze speciali infiltrate di Kossiga sparano ai manifestanti di Piazza Navona e uccidono 14 maggioGiorgiana Masi, il sostituto procuratore della Repupplica Luigi De Liguori ordina l’arresto di alcune persone, tra le quali due noti avvocati di Soccorso Rosso, Giovanni (Nanni) Cappelli e Sergio Spazzali. L’imputazione più grave nei loro confronti è quella di promozione di associazione sovversiva. I gruppi della sinistra extraparlamentare e i collettivi dell’area dell’autonomia indicono per il pomeriggio del 14 maggio una manifestazione contro la repressione.

 

La mattina del 14 maggio i quattro referenti dei servizi d’ordine delle diverse anime dell’Autonomia milanese si riuniscono alla Statale per valutare le azioni di piazza. Ci sono Pietro Mancini (Piero), Raffaele Ventura (Coz) e Maurizio Gibertini (Gibo) per il gruppo che si riuniva intorno alla rivista “Rosso”, Oreste Scalzone per i gruppi vicini a Potere Operaio, Andrea Bellini per il “Casoretto” e infine una delegazione del partito marxista-leninista. Si decide per un corteo duro, che ad un certo punto si stacchi dai gruppi della sinistra extraparlamentare (Democrazia Proletaria in testa) per proseguire intorno al carcere di San Vittore e portare la solidarietà agli avvocati arrestati due giorni prima. Un corteo “duro”, questo si, ma che non preordina in alcun modo uno scontro a fuoco con la polizia, né alcuna altra provocazione. Niente molotov, né spranghe, né fionde e neanche sassi, niente di niente. Ai primi disordini si abbandona il corteo, l’accordo è questo.

 

La sera prima però, anche la componente armata del collettivo Romana-Vittoria, composta da Marco Barbone, Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi, Luca Colombo e Giancarlo De Silvestri si riunisce per definire il piano per la manifestazione del giorno successivo. Bisogna provocare la polizia nei pressi di San Vittore, sciogliere il corteo per poi ricomporlo nella zona di Porta Genova, da presidiare militarmente il più a lungo possibile. Il Romana-Vittoria aprirà il corteo.

 

 

Il corteo parte alle 16,45 da piazza Santo Stefano, i partecipanti sono più di 10.000. All’incrocio via San Vittore-Via Olona lo spezzone dell’autonomia, composto da circa 1000 manifestanti, abbandona il troncone principale come previsto. Cominciano subito gli slogan: “Da San Vittore all’Ucciardone, un solo grido: evasione”, “Carabiniere, sbirro maledetto, te l’accendiamo noi la fiamma sul berretto”.

 

Ad un certo punto la colonna di polizia (fino a quel momento tenutasi molto distante dal corteo) del III° reparto Celere si schiera in assetto di ordine pubblico (un cordone di scudi e un secondo con i lancia-lacrimogeni) all’angolo tra via Olona e via De Amicis. Dopo un breve consulto, la squadra armata di Romana-Vittoria decide per l’attacco, e forza facilmente i cordoni di contenimento capeggiati da Bellini e Scalzone, accortisi di quanto stava per accadere.

 

 

S’alza un grido secco: “Romana fuori!” seguito da un successivo: “Sparare!”. Nel giro di un solo minuto Ferrandi, Memeo, Barbone, Pasini Gatti, De Silvestri e Colombo, accostati da alcuni studenti del Cattaneo armati di molotov, dal collettivo di Viale Puglie e dal collettivo Barona ingaggiano un violento scontro a fuoco con le forze dell’ordine, durante il quale rimane ferito a morte il vicebrigadiere Custra. Altri due agenti vengono lievemente feriti, mentre un passante, Marzio Golinelli, perde un occhio e un’altra passante, Patrizia Roveri, viene ferita in maniera non grave al capo.

 

Via De Amicis è oscurata dal fumo dei lacrimogeni, delle molotov e della carcassa del filobus 96 dato alle fiamme. Tutti coloro che si erano inoltrati nella strada raggiungono di corsa via Carducci dove alcuni manifestanti stanno improvvisando una barricata con del materiale edile di un cantiere.

 

 

La sera del 14 nell’abitazione di Colombo si riuniscono alcuni dirigenti di Rosso a confronto con Ferrandi, Barbone, Memeo, Pasini Gatti, Colombo e De Silvestri. La notizia che l’agente Custra è clinicamente morto è stata diffusa radiogiornali e dai telegiornali. I dirigenti di Rosso si rendono disponibili a fornire soldi e documenti falsi per il prudenziale allontanamento di Pasini Gatti, Ferrandi e di tre studenti del Cattaneo. Ne nasce poi un violento diverbio tra Mancini, molto critico rispetto all’azione della Romana-Vittoria, e Alunni, che invece ne prende la difesa. In seguito a questo e ad altri personali contrasti, nel mese di luglio Alunni, Marocco, Ricciardi, Barbone, Colombo, De Silvestri daranno vita, con altri e altre militanti, alle Formazioni Comuniste Combattenti. In seguito, Ferrandi aderirà a Prima Linea; Memeo ai Proletari armati per il comunismo; Pasini Gatti alla Brigata Antonio Lo Muscio.

 

Durante il processo per i fatti del 14 maggio, gli imputati Ferrandi, Barbone e Pasini Gatti si presenteranno col profilo, già assunto al momento dell’arresto, dei cosiddetti “pentiti”.

 

Pubblichiamo di seguito alcune fotografie del 14 maggio 1977 recentemente riscoperte nel volume “Storia di una foto” a cura di Sergio Bianchi, edito per Derive Approdi.

Giorgiana Masi

 

Scheda a cura di Paola Staccioli
Il 12 maggio 1977, nell’anniversario della vittoria referendaria sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare in vigore a Roma dopo la morte, il 21 aprile, dell’agente Passamonti nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi della nuova sinistra aderiscono all’iniziativa, per protestare contro il restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima repressivo, favorito dall’appoggio esterno del PCI al cosiddetto “governo delle astensioni”, il monocolore democristiano guidato da Andreotti. Per far rispettare, a qualsiasi costo, il divieto, il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali, in alcuni casi travestiti da “autonomi”. Fin dal primo pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti, passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati. Con il passare delle ore la resistenza della piazza si fa più decisa, e vengono lanciate le prime molotov. Mentre nelle strade sono in corso gli scontri, i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, fra gli insulti di quasi tutte le forze politiche. Mancano pochi minuti alle 20 quando, durante una carica, due ragazze sono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti e carabinieri. Elena Ascione rimane ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studentessa del liceo Pasteur, viene centrata alla schiena. Muore durante il trasporto in ospedale.
Le chiare responsabilità emerse a carico di polizia, questore, Ministro dell’Interno, porteranno il governo a intessere una fitta trama di omertà e menzogne. Cossiga, dopo aver elogiato il 13 maggio in Parlamento “il grande senso di prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, modificherà più volte la propria versione dei fatti. Costretto dall’evidenza ad ammettere la presenza delle squadre speciali – tra gli uomini in borghese armati furono riconosciuti il commissario Gianni Carnevale e l’agente della squadra mobile Giovanni Santone – continuerà però a negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati. L’inchiesta per l’omicidio si concluse nel 1981 con una sentenza di archiviazione del giudice istruttore Claudio D’Angelo “per essere rimasti ignoti i responsabili del reato”. Successive indagini hanno tentato, senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo mortale in un “autonomo” deceduto da tempo, oppure nel latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il massacro del Circeo.

 

Fonte:

Lino Aldrovandi: «Federico era il fratello di Francesco Lorusso»

lunedì 10 marzo 2014 21:52

Il papà di Federico: «Se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli. Siamo fratelli». Corteo a Bologna per l’11 marzo.

 


 

L’intervento del papà di Federico al presidio dell’8 marzo in via Mascarella dove, nel 1977, venne ucciso Francesco Lorusso. Nell’anniversario sono previsti il tradizionale appuntamento alle 10 e un corteo alle 18

di Lino Aldrovandi

L’11 marzo 1977, quando qui in questo posto, fu ucciso Francesco Lorusso, ma potrei fare tantissimi altri nomi di ragazzi leggermente più grandi di me morti assurdamente per mano “amica” (amica tra virgolette ovviamente), io ero un studente di quinta Itis e di lì a poco mi sarei diplomato come perito elettrotecnico. Giorgiana Masi, Roberto Franceschi, studenti universitari, alcune delle vittime uccise, di una lista lunghissima di tanti giovani, con un futuro e una vita davanti. Fino a qualche anno fa non sapevo chi fossero. Il mio pensiero e la mia preoccupazione, e forse me ne vergogno un poco, erano quelli di avere una fidanzatina, di giocare a pallone, di dire stronzate, di divertirmi. Questi ragazzi, invece, hanno dato la vita per degli ideali e questo li rende in un certo senso immortali.

“Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente”

Penso che chi ha scritto queste parole, contenute in un libro, sia una persona sensibile, speciale e grandiosa, testimone di questi tempi o meglio di “altri tempi” che è poi appunto il titolo del suo libro: Stefano Tassinari. Testimone indimenticato di un passaggio storico che non è servito ad evitare altre morti, figlie di “quei tempi”. La cara Haidi, madre di Carlo Giuliani, un giorno diceva a Patrizia: “perdonami Patrizia non sono riuscita a salvare Federico”. Cara Haidi anche io e Patrizia non siamo riusciti a salvare altri figli. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e chissà quanti. Stefano Tassinari, scrittore e poeta, con città natale Ferrara e città adottiva Bologna, ci ha lasciato un messaggio forte e chiaro: “non arrendetevi mai alle ingiustizie”. La vita è lotta, è resistenza, e non si può né contrattare né vendere.

La storia di Federico penso che la conosciate un po’ tutti e ringrazio Mauro Collina, ragazzo rivoluzionario ma dal cuore grande e giusto, che quest’anno mi ha invitato a partecipare qui con voi, in una città che amo, per condividere la memoria di un’altra ingiustizia, perché ogni giovane che muore, ricordiamocelo tutti, è una sconfitta atroce per lo Stato, ma soprattutto per chi, questi giovani, avendoli conosciuti ed amati, è costretto a sopravvivere.

Cosa possiamo fare?

Stare uniti e non stancarci mai di chiedere che i diritti di “tutti” siano sempre rispettati, e mai calpestati, soffocati o uccisi come i nostri ragazzi.

C’è una frase famosa che credo ci accomuni tutti: “se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli”.

Siamo fratelli.

Ecco anche il comunicato che convoca le iniziative per l’anniversario dell’11 marzo:

“L’istruttoria svolta contro di noi ha avuto caratteri di inquisizione contro il movimento. Essa è una mostruosità giuridica prodotta da una mostruosità politica, ha avuto origine dal tentativo di trovare dei ‘responsabili’ cui attribuire la gravissima colpa di avere sconvolto la pace sociale regnante nella città ‘più democratica del mondo’…

Il nostro movimento è stato represso duramente perché ha rifiutato di integrarsi, perché si è posto come punto di riferimento alternativo per gli strati emarginati e sotto-occupati, per lottare contro le loro precarie condizioni materiali…

Ciò che si è dovuto colpire è quello che rappresentiamo, la nostra colpa gravissima è di essere tenuti responsabili delle autoriduzioni, delle occupazioni, della contestazione alla amministrazione comunale; affermiamo che quello che si vuole introdurre a livello giuridico è un vero e proprio concetto di rappresaglia”.

Queste parole furono lette dai compagni arrestati nelle giornate del marzo ’77 nell’aula del tribunale di Bologna, durante il processo. Andrebbero bene anche in questi giorni come risposta ai provvedimenti repressivi (i divieti di dimora) notificati il 6 marzo scorso a 12 compagni che nel maggio 2013, assieme ad altre centinaia di manifestanti, si opposero alla militarizzazione di Piazza Verdi.

Quella fu una giusta pratica di resistenza che studenti e precari attuarono per ribadire nel cuore della cittadella universitaria, come in qualsiasi altra piazza pubblica i propri spazi di libertà e autonomia.

Del resto, dal ’77 ad oggi, Piazza Verdi ha visto tante volte tentativi di normalizzazione ed ogni volta nuove generazione di movimento si sono contrapposte e battute contro questi tentativi.

Per queste ragioni, condividiamo la scelta di organizzare per il pomeriggio dell’11 marzo un corteo che ricordi l’assassinio di Francesco Lorusso da parte dei Carabinieri, avvenuto in via Mascarella 37 anni fa, e per esprimere la solidarietà incondizionata ai compagni colpiti dai provvedimenti di Polizia di questi giorni.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare alla manifestazione.

“Siamo colpevoli di avere professato pubblicamente le nostre idee, di appartenere al movimento 77, di non accettare alcun compromesso”, affermarono i compagni arrestati davanti al giudice. “Da quel giorno dell’11 marzo abbiamo cercato costantemente di spostare lo squilibrio dalla paura verso la libertà”. Oggi siamo ancora lì che ci stiamo provando.

Vag61 – Spazio libero autogestito

– alle 18 manifestazione @ piazza Verdi

– dalle 21 @ Vag61 mostra e proiezione “Le strade di marzo”

La mattina dell’11 marzo 1977 a Bologna, in seguito a un contrasto sorto nell’Istituto di Anatomia fra alcuni militanti del movimento e il servizio d’ordine di Comunione e Liberazione, i giovani del gruppo cattolico si barricano all’interno di un’aula, invocando l’intervento delle forze di polizia. Appena giunti sul posto, con mezzi spropositati, i carabinieri si scagliano contro gli studenti di sinistra intenti a lanciare slogan. La carica fa subito salire la tensione. Nel corso degli scontri successivi, che interessano tutta la zona universitaria, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua, viene raggiunto da un proiettile mentre sta correndo, insieme ai suoi compagni, per cercare riparo. Muore sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Alcuni testimoni riferiranno di aver visto un uomo, poi identificato nel carabiniere ausiliario Massimo Tramontani, esplodere vari colpi, in rapida successione, poggiando il braccio su un’auto per prendere meglio la mira. Lo sparatore, arrestato agli inizi di settembre e scarcerato dopo circa un mese e mezzo, sarà in seguito prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi.

Quando si diffonde la notizia dell’assassinio, migliaia di persone affluiscono all’Università. Dopo che il corteo, partito nel pomeriggio, viene disperso da violente cariche, una parte dei manifestanti occupa alcuni binari della stazione ferroviaria, scontrandosi con la polizia, mentre altri si dirigono verso il centro della città e sfogano la propria rabbia anche infrangendo le vetrine dei negozi. Le iniziative di protesta dei giorni successivi sono duramente represse. Numerosi i fermi e gli arresti. Finiscono in carcere, tra gli altri, i redattori di Radio Alice, emittente dell’area dell’Autonomia Operaia chiusa dalla polizia armi alla mano.

I fatti di Bologna caricano di tensione l’imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.

Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell’assassinio. In quell’occasione al fratello di Francesco fu vietato l’intervento dal palco.

[Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi]

 

Fonte:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99247&typeb=0&Lino-Aldrovandi-