Roma, pestaggio in diretta e in divisa davanti a Magherini e Cucchi

30 luglio 2014

Tornavano dalla commemorazione di Dino Budroni, erano in auto con Fabio Anselmo, il loro legale, e Ilaria e Guido hanno visto tre agenti penitenziari in azione contro una persona ammanettata e sanguinante

di Checchino Antonini

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Perché tre agenti di polizia penitenziaria pestavano una persona, verosimilmente un migrante, già ammanettato e malconcio, di fronte al Verano, a Roma, all’altezza di Piazzale delle Crociate? Dall’altro lato della carreggiata, in direzione est, c’era una donna dello stesso corpo di polizia a bordo di un’auto. La segnalazione a Popoff arriva da Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, ed è stata confermata da diversi testimoni.

Erano le 18.50 quando i tre secondini si sono sentiti urlare «Lo sapete chi sono io? Sono di Firenze, mio figlio è stato ucciso in un intervento dei carabinieri!». L’uomo che urlava si è sentito dire più o meno di farsi i cazzi suoi ma quell’uomo è Guido Magherini, il padre di Riccardo, ucciso in uno dei casi più recenti di “malapolizia”. E storie come questa, purtroppo, sono proprio cavoli suoi.

Pochi istanti prima, Magherini aveva iniziato a urlare dentro l’auto che lo portava verso il centro di Roma: «Guardate che gli stanno facendo!». Con lui Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto sette giorni dopo essere rimasto in balia proprio del sistema pentitenziario (l’appello inizierà a settembre), e Fabio Anselmo, legale sia dei Cucchi, sia dei Magherini. Avvocato anche della famiglia Aldrovandi, e dei parenti di Michele Ferrulli, Giuseppe Uva (ha appena strappato dopo sei anni il rinvio a giudizio per chi lo arrestò) e di Dino Budroni.

I tre testimoni tornavano proprio dalla cerimonia per il terzo anniversario della morte di Budroni, freddato da un agente dopo un inseguimento quando l’auto era ormai ferma. Per il pm, solo un paio di settimane fa, quell’agente meritava due anni e mezzo di carcere ma un giudice l’ha assolto per uso legittimo delle armi. La cerimonia, non lontano dallo svincolo del Raccordo anulare di Roma dove si concluse la vita di Budroni, è stata ancora più straziante proprio per via della sensazione di una giustizia strabica, frettolosa e distratta nei confronti di storie come questa. Anche Acad ha preso parte alla ricorrenza, assieme alla famiglia di Dino e con iniziative a Firenze, Roma e sul web.

Domani, dopo che qualche giornale blasonato, parlerà di questa denuncia, sapremo forse anche la versione ufficiale della polizia penitenziaria.

Sul posto è arrivata un’ambulanza del 118. L’operatore telefonico si sarebbe perfino complimentato con la ragazza che li ha allertati e le avrebbe raccomandato di aver fiducia nella polizia penitenziaria. All’altro capo del filo (ma lui non lo sapeva), c’era Ilaria Cucchi.

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Fonte:
http://popoffquotidiano.it/2014/07/30/roma-pestaggio-in-diretta-e-in-divisa-davanti-a-magherini-e-cucchi/

Leggi anche qui: http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/07/31/news/_ammanettato_e_picchiato_da_agenti_ilaria_cucchi_assiste_alla_scena_e_presenta_denuncia-92821012/

Luciano Isidro Diaz

Scritto da Gilda. Posted in Luciano Isidro Diaz

19 Novembre 2012

Luciano Isidro Diaz è argentino di nascita. Alto uno e sessanta e scuro di carnagione. Un vero gaucho. Nacque 40 anni fa in un luogo talmente sperduto delle pampas che i suoi genitori lo registrarono all’anagrafe della città più vicina solo un mese più tardi.

Ama gli animali molto più degli esseri umani. Arriva in Italia negli anni novanta e nel 2000 si stabilisce in un vero paradiso sperduto situato nel comune di Primaluna, nelle montagne sopra Lecco. Proprio dal comune riceve in concessione alcuni terreni che gli servono per far pascolare i suoi cavalli. E’ abilissimo nel suo lavoro di addestratore ed eccelle in tutte le gare dove ci siano prove di abilità dove ci siano di mezzo i cavalli.

Ben presto verrà conosciuto per questo e diventa il punto di riferimento per tutti coloro che condividono la sua passione. Sempre più clienti gli portano il proprio cavallo per ferrarlo, accudirlo ed anche per tenerlo a pensione. Gli diventano amici, perché chi ama gli animali non può non voler bene a Luciano.

 

Pestarono Isidro Diaz. Rinviati a giudizio sei carabinieri

Scritto da Gilda. Posted in Luciano Isidro Diaz

3 Novembre 2012

 

Scampato a un brutale pestaggio e dopo una immeritata condanna per ‘resistenza a pubblico ufficiale’, l’immigrato argentino ha avuto il coraggio di denunciare i suoi aggressori. Un carabiniere condannato a 2 anni di carcere, altri sei rinviati a giudizio.

Sei carabinieri della compagnia di Voghera (Pavia) sono stati rinviati ieri a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sul pestaggio ai danni di un cittadino argentino fermato e portato in caserma tre anni fa.
Il 5 aprile del 2009 Luciano Isidro Diaz, all’epoca cittadino argentino di 40 anni e allevatore di cavalli, fu fermato durante un controllo stradale mentre tornava da un rodeo. Secondo la versione dei militari, l’uomo tentò la fuga con l’automobile tentando di investire un Carabiniere, e quando fu arrestato, dopo un lungo inseguimento, era ubriaco, aggressivo e brandiva un coltello con cui li minacciò prima di essere bloccato e condotto in caserma con l’accusa di resistenza, minacce e porto abusivo di armi.

Isidro Diaz, di origini argentine ma da 23 anni in Italia: timpani perforati e distacco della retina.

Scritto da Gilda. Posted in Luciano Isidro Diaz

24 giugno 2012

 

Vengo dall’Argentina dove la mia generazione è stata massacrata. Qui pensavo di vivere in un paese civile.

Invece mi sono ritrovato ammanettato, preso a calci e pugni in testa dai carabinieri, trascinato sull’asfalto, torturato e sbattuto contro i muri della caserma senza poter vedere un medico. Insultato, con i militari che mi puntavano la pistola addosso. E ancora non so perché”. Isidro Luciano Diaz ha 41 anni, dei quali 23 vissuti in Italia dove, nel lecchese, gestisce l’allevamento di cavalli “Dal Gaucho”. Da quando il 5 aprile dell’anno scorso è stato fermato dai carabinieri vicino a Voghera, è stato operato agli occhi 6 volte per distacco della retina e ha i timpani perforati. Ferite “compatibili” col suo racconto da incubo, scrive il medico legale nella relazione che riporta alla memoria le vicende di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi. Di giovani morti dopo essere stati malmenati da uomini in divisa, entrati vivi in caserma o in carcere e mai usciti, tragedie di cui si è occupato lo stesso studio legale, Anselmo di Ferrara, che ora difende Diaz.

 

 

Fonte:

http://www.abusodipolizia.it/index.php/i-sopravvissuti/53-luciano-isidro-diaz

 

 

Vedi anche qui:

https://www.facebook.com/AcadOnlus/posts/713303732064237

Poliziotti che abusano della divisa: la rotta è stata invertita

on 11 giugno 2014
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I casi Gugliotta, Ferrulli e Androne e le condanne pesanti per gli agenti. I giudici non sono più disposti a coprire chi sbaglia.

 

Tutto si può cambiare. Qualsiasi cosa, basta semplicemente avere la volontà giusta per farlo. Ed il coraggio di andare ad intaccare e combattere anche quelli che sono diventati  malcostumi. Quelle pessime e vergognose abitudini che sembrano radicate ed impossibili da modificare. Perché non sempre i “buoni” si comportano da buoni ed i “cattivi” da cattivi. Questo non è un segreto. Troppe volte abbiamo assistito a casi in cui alcuni (non tutti ci mancherebbe, parliamo sempre di una minoranza) poliziotti hanno pestato le persone fermate,  riducendole spesso in fin di vita. Talvolta le hanno pure ammazzate. Spesso, storie di questo tipo, non sono nemmeno mai uscite fuori. Perché i “tutori dell’ordine”, sulla loro strada, hanno incontrato pubblici ministeri compiacenti che, di fronte al colore della divisa, hanno sempre chiuso un occhio. Anche due. E giudici disposti ad accettare tutto questo. Così facendo, gli agenti, che si sono macchiati del peccato di aver abusato del loro ruolo, spesso l’hanno fatta franca. Non sono stati puniti. Perché l’assenza di regole certe e di un diverso trattamento di fronte alla legge, nei confronti dei poliziotti, ha fatto cadere la paura delle sanzioni da parte di questi ultimi. Che avrebbero il compito di far rispettare quelle stesse leggi che hanno infranto. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine, richiede, necessariamente ed obbligatoriamente, norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata.

Ed esistono, purtroppo, molti casi in cui gli agenti, non sospesi dopo una condanna, sono tornati ad infrangere la legge. Altri non sono proprio mai stati proprio giudicati.

Questi abusi non sono semplicemente una questione di “mele marce”, bensì un problema strutturale nella gestione dell’ordine pubblico fermo al modello degli anni ’70. Ma gli anni di Piombo sono ormai un ricordo, doloroso ma lontano. E non si può rimanere ancorati ad un determinato modus operandi che viene usato ancora oggi. Facendo finta di nulla.

La rotta che il nostro paese (e non solo il nostro) ha intrapreso, sta però cambiando. Lentamente e a fatica, ma sta cambiando. Gli ultimi casi di Roma, Firenze, Milano, Frosinone, Napoli e Monza, ma anche le condanne dei poliziotti per gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi, lo dimostrano. Statistiche ufficiali non ce ne sono, ma solamente nell’ultimo anno 228 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta.

I giudici, alcuni, hanno trovato il coraggio di punire e di condannare, anche se non sempre finiscono in galera, tutti quei servitori dello Stato che hanno abusato della divisa. Massacrando manifestanti inermi, torturando detenuti, picchiando ragazzi dopo averli fermati per un controllo. Sparando e uccidendo. I pm no, ancora non sono entrati nell’ordine di idee di cambiarla quella rotta e non si capacitano che anche la polizia possa sbagliare. E cercano sempre di proteggere il suo operato.

Roma Quella di Stefano Gugliotta è la notizia più recente, probabilmente la più eclatante. La condanna di quattro anni di reclusione per i nove poliziotti che nel 2010 lo picchiarono a sangue,  rappresenta un passo in avanti importante. Che certifica come le cose stiano davvero cambiando.

Il pestaggio avvenne a Roma, nel dopo partita della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter, il 5 maggio di quattro anni fa. Gugliotta, quella notte, stava andando col motorino ad una festa e venne fermato al quartiere Flaminio, vicino allo stadio Olimpico. Scambiato per un ultras (come se poi bastasse questo per colpire una persona) fu picchiato violentemente in strada e sbattuto in carcere per una settimana. Riportando la perdita di un dente e ferite sul volto e sul corpo. La sentenza contro i nove agenti è andata ben oltre le richieste della Procura, che aveva sollecitato condanne tra i tre e i due anni per Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Adriano Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani e Michele Costanzo. Alla lettura del giudice, Gugliotta ed i familiari sono scoppiati in lacrime, mentre tra gli imputati non c’è stata alcuna reazione.

Mandato in ospedale senza un perché, preso a pugni, calci e manganellate e tenuto in carcere una settimana con una falsa accusa. Infine scagionato e preso a simbolo di uno scontro che va oltre il caso singolo. Stefano Gugliotta ha vinto la sua battaglia giudiziaria.

Firenze Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la  notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.

Milano Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto.

Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti,  intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.

Frosinone In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006.

I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di  Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.

Monza Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.

Napoli Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.

Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana.

Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale.

Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi

Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione.

La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi.

Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità.

Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più.

E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.

 

Fonte:

http://www.lultimaribattuta.it/4356_poliziotti-violenti-ora-si-cambia?fb_action_ids=1506833362883412&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=[246893735434316]&action_type_map=[%22og.likes%22]&action_ref_map=[]

Lino Aldrovandi: «Federico era il fratello di Francesco Lorusso»

lunedì 10 marzo 2014 21:52

Il papà di Federico: «Se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli. Siamo fratelli». Corteo a Bologna per l’11 marzo.

 


 

L’intervento del papà di Federico al presidio dell’8 marzo in via Mascarella dove, nel 1977, venne ucciso Francesco Lorusso. Nell’anniversario sono previsti il tradizionale appuntamento alle 10 e un corteo alle 18

di Lino Aldrovandi

L’11 marzo 1977, quando qui in questo posto, fu ucciso Francesco Lorusso, ma potrei fare tantissimi altri nomi di ragazzi leggermente più grandi di me morti assurdamente per mano “amica” (amica tra virgolette ovviamente), io ero un studente di quinta Itis e di lì a poco mi sarei diplomato come perito elettrotecnico. Giorgiana Masi, Roberto Franceschi, studenti universitari, alcune delle vittime uccise, di una lista lunghissima di tanti giovani, con un futuro e una vita davanti. Fino a qualche anno fa non sapevo chi fossero. Il mio pensiero e la mia preoccupazione, e forse me ne vergogno un poco, erano quelli di avere una fidanzatina, di giocare a pallone, di dire stronzate, di divertirmi. Questi ragazzi, invece, hanno dato la vita per degli ideali e questo li rende in un certo senso immortali.

“Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente”

Penso che chi ha scritto queste parole, contenute in un libro, sia una persona sensibile, speciale e grandiosa, testimone di questi tempi o meglio di “altri tempi” che è poi appunto il titolo del suo libro: Stefano Tassinari. Testimone indimenticato di un passaggio storico che non è servito ad evitare altre morti, figlie di “quei tempi”. La cara Haidi, madre di Carlo Giuliani, un giorno diceva a Patrizia: “perdonami Patrizia non sono riuscita a salvare Federico”. Cara Haidi anche io e Patrizia non siamo riusciti a salvare altri figli. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e chissà quanti. Stefano Tassinari, scrittore e poeta, con città natale Ferrara e città adottiva Bologna, ci ha lasciato un messaggio forte e chiaro: “non arrendetevi mai alle ingiustizie”. La vita è lotta, è resistenza, e non si può né contrattare né vendere.

La storia di Federico penso che la conosciate un po’ tutti e ringrazio Mauro Collina, ragazzo rivoluzionario ma dal cuore grande e giusto, che quest’anno mi ha invitato a partecipare qui con voi, in una città che amo, per condividere la memoria di un’altra ingiustizia, perché ogni giovane che muore, ricordiamocelo tutti, è una sconfitta atroce per lo Stato, ma soprattutto per chi, questi giovani, avendoli conosciuti ed amati, è costretto a sopravvivere.

Cosa possiamo fare?

Stare uniti e non stancarci mai di chiedere che i diritti di “tutti” siano sempre rispettati, e mai calpestati, soffocati o uccisi come i nostri ragazzi.

C’è una frase famosa che credo ci accomuni tutti: “se tremiamo per l’indignazione davanti alle ingiustizie allora siamo fratelli”.

Siamo fratelli.

Ecco anche il comunicato che convoca le iniziative per l’anniversario dell’11 marzo:

“L’istruttoria svolta contro di noi ha avuto caratteri di inquisizione contro il movimento. Essa è una mostruosità giuridica prodotta da una mostruosità politica, ha avuto origine dal tentativo di trovare dei ‘responsabili’ cui attribuire la gravissima colpa di avere sconvolto la pace sociale regnante nella città ‘più democratica del mondo’…

Il nostro movimento è stato represso duramente perché ha rifiutato di integrarsi, perché si è posto come punto di riferimento alternativo per gli strati emarginati e sotto-occupati, per lottare contro le loro precarie condizioni materiali…

Ciò che si è dovuto colpire è quello che rappresentiamo, la nostra colpa gravissima è di essere tenuti responsabili delle autoriduzioni, delle occupazioni, della contestazione alla amministrazione comunale; affermiamo che quello che si vuole introdurre a livello giuridico è un vero e proprio concetto di rappresaglia”.

Queste parole furono lette dai compagni arrestati nelle giornate del marzo ’77 nell’aula del tribunale di Bologna, durante il processo. Andrebbero bene anche in questi giorni come risposta ai provvedimenti repressivi (i divieti di dimora) notificati il 6 marzo scorso a 12 compagni che nel maggio 2013, assieme ad altre centinaia di manifestanti, si opposero alla militarizzazione di Piazza Verdi.

Quella fu una giusta pratica di resistenza che studenti e precari attuarono per ribadire nel cuore della cittadella universitaria, come in qualsiasi altra piazza pubblica i propri spazi di libertà e autonomia.

Del resto, dal ’77 ad oggi, Piazza Verdi ha visto tante volte tentativi di normalizzazione ed ogni volta nuove generazione di movimento si sono contrapposte e battute contro questi tentativi.

Per queste ragioni, condividiamo la scelta di organizzare per il pomeriggio dell’11 marzo un corteo che ricordi l’assassinio di Francesco Lorusso da parte dei Carabinieri, avvenuto in via Mascarella 37 anni fa, e per esprimere la solidarietà incondizionata ai compagni colpiti dai provvedimenti di Polizia di questi giorni.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare alla manifestazione.

“Siamo colpevoli di avere professato pubblicamente le nostre idee, di appartenere al movimento 77, di non accettare alcun compromesso”, affermarono i compagni arrestati davanti al giudice. “Da quel giorno dell’11 marzo abbiamo cercato costantemente di spostare lo squilibrio dalla paura verso la libertà”. Oggi siamo ancora lì che ci stiamo provando.

Vag61 – Spazio libero autogestito

– alle 18 manifestazione @ piazza Verdi

– dalle 21 @ Vag61 mostra e proiezione “Le strade di marzo”

La mattina dell’11 marzo 1977 a Bologna, in seguito a un contrasto sorto nell’Istituto di Anatomia fra alcuni militanti del movimento e il servizio d’ordine di Comunione e Liberazione, i giovani del gruppo cattolico si barricano all’interno di un’aula, invocando l’intervento delle forze di polizia. Appena giunti sul posto, con mezzi spropositati, i carabinieri si scagliano contro gli studenti di sinistra intenti a lanciare slogan. La carica fa subito salire la tensione. Nel corso degli scontri successivi, che interessano tutta la zona universitaria, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua, viene raggiunto da un proiettile mentre sta correndo, insieme ai suoi compagni, per cercare riparo. Muore sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Alcuni testimoni riferiranno di aver visto un uomo, poi identificato nel carabiniere ausiliario Massimo Tramontani, esplodere vari colpi, in rapida successione, poggiando il braccio su un’auto per prendere meglio la mira. Lo sparatore, arrestato agli inizi di settembre e scarcerato dopo circa un mese e mezzo, sarà in seguito prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi.

Quando si diffonde la notizia dell’assassinio, migliaia di persone affluiscono all’Università. Dopo che il corteo, partito nel pomeriggio, viene disperso da violente cariche, una parte dei manifestanti occupa alcuni binari della stazione ferroviaria, scontrandosi con la polizia, mentre altri si dirigono verso il centro della città e sfogano la propria rabbia anche infrangendo le vetrine dei negozi. Le iniziative di protesta dei giorni successivi sono duramente represse. Numerosi i fermi e gli arresti. Finiscono in carcere, tra gli altri, i redattori di Radio Alice, emittente dell’area dell’Autonomia Operaia chiusa dalla polizia armi alla mano.

I fatti di Bologna caricano di tensione l’imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.

Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell’assassinio. In quell’occasione al fratello di Francesco fu vietato l’intervento dal palco.

[Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli – Editore Associazione Walter Rossi]

 

Fonte:

http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=99247&typeb=0&Lino-Aldrovandi-

Gianni Liani: storia di un massacro in caserma

Gianni Liani: storia del mio massacro in caserma (video): 

http://www.youtube.com/watch?v=FTJZjC4dcL4

24 Febbraio 2014

Gianni Liani non si arrende e continua la sua lotta nei confronti di uno Stato che definisce “omertoso” nei suoi confronti. “Ho subito un’ingiustizia e pretendo, da semplice cittadino, che i responsabili paghino per ciò che mi hanno fatto” spiega Liani. E i colpevoli sarebbero, secondo Liani, i carabinieri che lo hanno picchiato e, in secondo luogo, il procuratore della Repubblica di Chieti, Pietro Mennini.  

La storia di Liani è molto particolare e, per certi versi, è assimilabile ai tanti casi nazionali che hanno suscitato sdegno e indignazione nei confronti delle forze dell’ordine per i casi Cucchi e Aldrovandi. Anche lui è stato preso, condotto in caserma, malmenato e, dopo una notte in carcere, è stato rilasciato. Alla base di questo comportamento dei carabinieri ci sarebbero state delle minacce che lo stesso Liani avrebbe fatto nei confronti della sua ragazza con la quale tuttora condivide la sua vita.

Il giovane abruzzese ha partecipato anche alla manifestazione del 15 febbraio a Ferrara in cui si sono riuniti tutti i familiari vittime dello Stato: dalla famiglia Cucchi alla famiglia Uva. Tutti a Ferrara a manifestare per chiedere che i quattro poliziotti condannati in via definitiva per l’omicidio colposo di Federico Aldrovandi non indossino più la divisa della Polizia di Stato. Nell’intervista, in cui Liani fa il punto della situazione sull’inchiesta che lo vede coinvolto, stralci di una telefonata con il difensore dei carabinieri Luca Sarodi.

ZdO

 

Fonte:

http://www.zonedombratv.it/news/1466-gianni-liani-storia-del-mio-massacro-in-caserma