Morire di fame a 22 anni in cella

a, fe la penna

Questa storia si consuma nel carcere romano di Regina Coeli, cinque anni fa.

Simone La Penna, 22 anni, doveva scontare una condanna di due anni e quattro mesi per stupefacenti.

In carcere Simone contrae una grave forma di anoressia, perde una quarantina di chili, alla fine muore. Per casi come questo dovrebbe essere ”naturale” che sia, d’ufficio, dichiarata l’incompatibilità con il carcere.

E invece no. Pur essendo presente una struttura sanitaria interna al penitenziario, e nonostante Simone sia stato, sia pur occasionalmente, visitato dai sanitari dell’ospedale Pertini, nessuno sembra si sia accorto delle sue condizioni; o seppure se n’è accorto, non ha ritenuto che il suo stato di salute fosse incompatibile con il carcere.  Nessun medico, nessuna autorità decide l’incompatibilità.

Così Simone è morto; e dopo cinque anni – cinque anni! – tre medici sono accusati di omicidio colposo. Il pubblico ministero di Roma Eugenio Albamonte ne chiede la condanna a 2 anni e 10 mesi.

Ora, a prescindere dal fatto che non può dirsi esattamente giustizia una giustizia che impiega oltre cinque anni per stabilire di chi sia la responsabilità della morte di una persona; a prescindere dal fatto che proprio quando ti priva della libertà non importa per quale motivo, lo Stato è il massimo garante e responsabile dell’incolumità fisica e psichica di un cittadino (e la cosa vale anche per Bernardo Provenzano, che viene lasciato morire in carcere e nessuno che dica un ”Fiat”, a parte i soliti Pannella, Bernardini e i radicali); a parte tutto ciò, quello di Simone è un ennesimo caso che dovrebbe molto inquietare il ministro della Giustizia Andrea Orlando.

Come Stefano Cucchi, Daniele Franceschi, Marcello Lonzi…uniti da un unico tragico destino, diventati l’emblema delle morti in carcere spesso avvolte nel mistero. Sono tanti, troppi, i detenuti che muoiono in silenzio, perché la loro storia non passa sotto i riflettori e non diventa il caso mediatico da raccontare.

Storie di chi si vede negare non solo la libertà, ma anche il diritto alla salute. Nessuno sa quanti siano i detenuti morti in carcere per malattia e quanti coloro che, usciti dal carcere in sospensione della pena per malattia, siano poi morti in ospedale o nelle proprie abitazioni.

E che non esistano dati certi in materia, è anche questo motivo di inquietudine, spia e segnale di un sostanziale disinteresse che è grave ci sia.

La salute nelle carceri italiane è a rischio, con il 60-80 per cento dei detenuti che ha qualche malattia a causa del sovraffollamento ma anche per una assistenza sanitaria di scarsa qualità. Lo denuncia tra gli altri la Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria (Simpse).

Secondo le stime degli esperti il 32% dei detenuti è tossicodipendente, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici.  Tra le malattie infettive è l’epatite C la piu’ frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%).

La salute dei detenuti presenti nei 206 istituti di pena italiani è messa a rischio da due principali problemi: il disagio psichico e le patologie infettive. Dagli ultimi dati che abbiamo, relativi al 2012, un detenuto su 3 è positivo all’epatite C, l’incidenza dell’Hiv e dell’epatite B è intorno al 5% (circa 1 detenuto su 20).

Mentre a soffrire di disturbi psichici, più o meno gravi, è il 25- 30% della popolazione carceraria.

Fino a quando, presidente Renzi, ministro Orlando? Sono ”piccole” questioni che elettoralmente forse non pagano. Ma il livello di civiltà di un Paese si misura anche da queste cose, non solo da un twitter.

 

 

Fonte:

http://ilgarantista.it/2014/10/18/morire-di-fame-a-22-anni-in-cella/

 

Poliziotti che abusano della divisa: la rotta è stata invertita

on 11 giugno 2014
poliziotti

I casi Gugliotta, Ferrulli e Androne e le condanne pesanti per gli agenti. I giudici non sono più disposti a coprire chi sbaglia.

 

Tutto si può cambiare. Qualsiasi cosa, basta semplicemente avere la volontà giusta per farlo. Ed il coraggio di andare ad intaccare e combattere anche quelli che sono diventati  malcostumi. Quelle pessime e vergognose abitudini che sembrano radicate ed impossibili da modificare. Perché non sempre i “buoni” si comportano da buoni ed i “cattivi” da cattivi. Questo non è un segreto. Troppe volte abbiamo assistito a casi in cui alcuni (non tutti ci mancherebbe, parliamo sempre di una minoranza) poliziotti hanno pestato le persone fermate,  riducendole spesso in fin di vita. Talvolta le hanno pure ammazzate. Spesso, storie di questo tipo, non sono nemmeno mai uscite fuori. Perché i “tutori dell’ordine”, sulla loro strada, hanno incontrato pubblici ministeri compiacenti che, di fronte al colore della divisa, hanno sempre chiuso un occhio. Anche due. E giudici disposti ad accettare tutto questo. Così facendo, gli agenti, che si sono macchiati del peccato di aver abusato del loro ruolo, spesso l’hanno fatta franca. Non sono stati puniti. Perché l’assenza di regole certe e di un diverso trattamento di fronte alla legge, nei confronti dei poliziotti, ha fatto cadere la paura delle sanzioni da parte di questi ultimi. Che avrebbero il compito di far rispettare quelle stesse leggi che hanno infranto. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine, richiede, necessariamente ed obbligatoriamente, norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata.

Ed esistono, purtroppo, molti casi in cui gli agenti, non sospesi dopo una condanna, sono tornati ad infrangere la legge. Altri non sono proprio mai stati proprio giudicati.

Questi abusi non sono semplicemente una questione di “mele marce”, bensì un problema strutturale nella gestione dell’ordine pubblico fermo al modello degli anni ’70. Ma gli anni di Piombo sono ormai un ricordo, doloroso ma lontano. E non si può rimanere ancorati ad un determinato modus operandi che viene usato ancora oggi. Facendo finta di nulla.

La rotta che il nostro paese (e non solo il nostro) ha intrapreso, sta però cambiando. Lentamente e a fatica, ma sta cambiando. Gli ultimi casi di Roma, Firenze, Milano, Frosinone, Napoli e Monza, ma anche le condanne dei poliziotti per gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi, lo dimostrano. Statistiche ufficiali non ce ne sono, ma solamente nell’ultimo anno 228 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta.

I giudici, alcuni, hanno trovato il coraggio di punire e di condannare, anche se non sempre finiscono in galera, tutti quei servitori dello Stato che hanno abusato della divisa. Massacrando manifestanti inermi, torturando detenuti, picchiando ragazzi dopo averli fermati per un controllo. Sparando e uccidendo. I pm no, ancora non sono entrati nell’ordine di idee di cambiarla quella rotta e non si capacitano che anche la polizia possa sbagliare. E cercano sempre di proteggere il suo operato.

Roma Quella di Stefano Gugliotta è la notizia più recente, probabilmente la più eclatante. La condanna di quattro anni di reclusione per i nove poliziotti che nel 2010 lo picchiarono a sangue,  rappresenta un passo in avanti importante. Che certifica come le cose stiano davvero cambiando.

Il pestaggio avvenne a Roma, nel dopo partita della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter, il 5 maggio di quattro anni fa. Gugliotta, quella notte, stava andando col motorino ad una festa e venne fermato al quartiere Flaminio, vicino allo stadio Olimpico. Scambiato per un ultras (come se poi bastasse questo per colpire una persona) fu picchiato violentemente in strada e sbattuto in carcere per una settimana. Riportando la perdita di un dente e ferite sul volto e sul corpo. La sentenza contro i nove agenti è andata ben oltre le richieste della Procura, che aveva sollecitato condanne tra i tre e i due anni per Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Adriano Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani e Michele Costanzo. Alla lettura del giudice, Gugliotta ed i familiari sono scoppiati in lacrime, mentre tra gli imputati non c’è stata alcuna reazione.

Mandato in ospedale senza un perché, preso a pugni, calci e manganellate e tenuto in carcere una settimana con una falsa accusa. Infine scagionato e preso a simbolo di uno scontro che va oltre il caso singolo. Stefano Gugliotta ha vinto la sua battaglia giudiziaria.

Firenze Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la  notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.

Milano Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto.

Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti,  intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.

Frosinone In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006.

I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di  Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.

Monza Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.

Napoli Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.

Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana.

Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale.

Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi

Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione.

La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi.

Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità.

Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più.

E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.

 

Fonte:

http://www.lultimaribattuta.it/4356_poliziotti-violenti-ora-si-cambia?fb_action_ids=1506833362883412&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=[246893735434316]&action_type_map=[%22og.likes%22]&action_ref_map=[]

Morte di Marcello Lonzi, la madre si oppone all’archiviazione