RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SULL’EGITTO: CENTINAIA DI PERSONE SCOMPARSE E TORTURATE

Rapporto di Amnesty International sull’Egitto: centinaia di persone scomparse e torturate in un’ondata di repressione brutale

Un immagine delle forze speciali egiziane

In Egitto, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) si rende responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate nel tentativo di incutere paura agli oppositori e spazzare via il dissenso pacifico: è quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un drammatico nuovo rapporto, che mette in luce una scia senza precedenti di sparizioni forzate dai primi mesi del 2015.

Il rapporto, intitolato “Egitto: Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo“, rivela una vera e propria tendenza che vede centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, compresi 14enni, sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia.

Secondo le organizzazioni non governative locali, la media delle sparizioni forzate è di tre-quattro al giorno. Di solito, agenti dell’Nsa pesantemente armati fanno irruzione nelle abitazioni private, portano via le persone e le trattengono anche per mesi, spesso ammanettate e bendate per l’intero periodo.

Questo rapporto rivela le scioccanti e spietate tattiche cui le autorità egiziane ricorrono nel tentativo di terrorizzare e ridurre al silenzio manifestanti e dissidenti” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità” – ha aggiunto Luther.

Le autorità egiziane si ostinano a negare l’esistenza del fenomeno delle sparizioni forzate, ma i casi descritti nel nostro rapporto forniscono ampie prove del contrario. Denunciamo non solo le brutalità cui vanno incontro gli scomparsi ma anche la collusione esistente tra le forze di sicurezza e le autorità giudiziarie, il cui ruolo è quello di mentire per coprire l’operato della sicurezza o non indagare sulle denunce di tortura, e che in questo modo si rendono complici di gravi violazioni dei diritti umani” – ha sottolineato Luther.

FIRMA ORA L’APPELLO PER CHIEDERE AD ABDEL FATTAH AL-SISI DI FERMARE LE SPARIZIONI FORZATE IN EGITTO.

Sparizioni forzate e tortura 

Il rapporto descrive in dettaglio i casi di 17 persone sottoposte a sparizione forzata, detenute illegalmente per periodi varianti da diversi giorni a sette mesi, tagliate fuori dal mondo esterno e private di contatti con avvocati e familiari e di qualsiasi supervisione giudiziaria.

Il rapporto comprende inoltre drammatiche testimonianze delle torture praticate durante sessioni d’interrogatorio che possono durare fino a sette ore, allo scopo di estorcere “confessioni” che verranno poi usate come prova durante gli interrogatori ufficiali davanti al giudice e che condurranno alla condanna. In alcuni casi, sono stati torturati anche dei minorenni.

Uno dei casi più agghiaccianti è quello di Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa “confessione”.

Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, è stato vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, negli uffici dell’Nsa di Città 6 ottobre (nella Grande Cairo). Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la “confessione”.

I due 14enni sono tra i cinque minorenni vittime di sparizione forzata per fino a 50 giorni descritti nel rapporto di Amnesty International. Alcuni di loro, anche dopo che ne era stato disposto il rilascio, sono stati sottoposti nuovamente a sparizione forzata prima di venire raggiunti da nuove accuse.

In altri casi, sono stati arrestati i familiari di persone da cui si voleva ottenere una “confessione”. Nel luglio 2015 Atef Farag è stato arrestato insieme al figlio 22enne Yehia. I loro familiari sostengono che Atef è stato arrestato per aver preso parte a un sit-in mentre suo figlio, che è disabile, è stato preso per costringere il padre a “confessare” una serie di gravi reati. Dopo una sparizione forzata durata 159 giorni, padre e figlio sono stati rinviati a processo per appartenenza al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana.

L’evidente aumento delle sparizioni forzate risale al marzo 2015, ossia alla nomina a ministro dell’Interno di Magdy Abd el-Ghaffar, che in precedenza aveva fatto parte del Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato (Ssi), la famigerata polizia segreta dei tempi di Mubarak, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani: è stata smantellata dopo la rivolta del 2011 ma solo per essere rinominata Nsa.

Nel 2015 Islam Khalil, 26 anni, è stato sottoposto a sparizione forzata per 122 giorni. Tenuto bendato e ammanettato per l’intero periodo, è stato picchiato brutalmente e sottoposto a scariche elettriche anche sui genitali. Una volta, negli uffici dell’Nsa della città di Tanta (a nord del Cairo), è stato tenuto sospeso per i polsi e le caviglie per ore e ore fino a quando ha perso conoscenza.

Una volta, un agente che lo stava interrogando gli ha detto: “Pensi di avere qualche valore? Ti possiamo uccidere, arrotolarti in una coperta e buttarti in una discarica e nessuno chiederà di te“.

In un’altra occasione, un secondo agente lo ha sollecitato a dire le ultime preghiere mentre gli stava somministrando scariche elettriche.

Dopo 60 giorni Islam Khalil è stato trasferito in quello che ha chiamato “l’inferno”, ossia gli uffici dell’Nsa a Lazoughly, dove sono proseguite le torture.

A Lazoughly, a giudizio unanime il peggior centro di detenzione dell’Nsa, si stima si trovino centinaia di detenuti. Questa sede dell’Nsa si trova dentro il ministero dell’Interno, ironicamente a poca distanza da piazza Tahrir, dove cinque anni fa migliaia di persone avevano manifestato contro la tortura e le brutalità delle forze di sicurezza di Mubarak.

La sparizione forzata dello studente italiano Giulio Regeni, trovato morto al Cairo nel febbraio 2016 con segni di tortura, ha attratto l’attenzione dei mezzi d’informazione di ogni parte del mondo. Le autorità egiziane si ostinano a negare qualsiasi coinvolgimento nella sparizione e nell’uccisione di Giulio Regeni, ma il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Nsa e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese.

Le sparizioni forzate non solo aumentano il rischio di tortura e collocano i detenuti al di fuori della protezione della legge, ma hanno anche un impatto devastante sulle famiglie degli scomparsi, che sono lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari.

Tutto quello che voglio sapere è se mio figlio è vivo o morto” – dichiarava mesi fa Abd el-Moez Mohamed, padre di Karim, uno studente d’Ingegneria di 22 anni scomparso per quattro mesi dopo essere stato rapito nella sua abitazione del Cairo da agenti dell’Nsa pesantemente armati, nell’agosto 2015.

Alcuni familiari hanno denunciato la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura ma nella maggior parte dei casi non sono scattate le indagini. Nelle rare occasioni in cui ciò è accaduto, le indagini sono state chiuse dopo l’ammissione che lo scomparso era nelle mani dell’Nsa anche se questi ha continuato a vedersi negati i contatti con parenti e avvocati.

Il presidente Abdel Fattah al-Sisi deve ordinare a tutte le agenzie per la sicurezza dello stato di porre fine alle sparizioni forzate e alla tortura e dire chiaramente che chiunque ordinerà o commetterà queste violazioni dei diritti umani, o se ne renderà complice, sarà portato di fronte alla giustizia” – ha affermato Luther.

Tutte le persone detenute in tali condizioni devono avere accesso a familiari e avvocati e coloro che sono trattenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e alla libertà di riunione devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni” – ha aggiunto Luther.

Il rapporto chiede inoltre al presidente al-Sisi di istituire con urgenza una commissione indipendente d’inchiesta che indaghi su tutte le denunce di sparizione forzata e di tortura commesse dall’Nsa o da altre agenzie per la sicurezza dello stato e che abbia il potere di chiamare a deporre tutte le agenzie governative, comprese quelle militari, senza subire interferenze.

Collusione e inganno

Il rapporto di Amnesty International contiene forti accuse nei confronti della procura egiziana, colpevole di accettare prove dubbie ottenute dall’Nsa – che falsifica regolarmente le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata -, di emettere incriminazioni basate su “confessioni” estorte sotto coercizione e di non disporre indagini sulle denunce di tortura, evitando ad esempio di ordinare esami medici e di includerne i risultati negli atti ufficiali.

Nei rari casi in cui la procura autorizza esami medici indipendenti, gli avvocati dei detenuti non possono prendere visione dei risultati.

Siamo molto critici nei confronti della procura egiziana, che si rende complice di violazioni dei diritti umani e tradisce in modo crudele il dovere, assegnatole dalla legge, di proteggere le persone dalle sparizioni forzate, dagli arresti arbitrari e dalla tortura. Se l’istituto della procura non verrà riformato per garantire la sua indipendenza dal potere esecutivo, ciò sarà fatto di proposito” – ha chiarito Luther.

L’Egitto è considerato da molti paesi occidentali un partner chiave nella lotta al terrorismo a livello regionale e questa è la giustificazione usata per rifornirlo di armi e altro materiale nonostante le prove che tali forniture vengono usate per commettere gravi violazioni dei diritti umani. Molti paesi continuano a tenere strette relazioni diplomatiche, commerciali e di altra natura con l’Egitto senza dare priorità ai diritti umani.

Tutti gli stati, particolarmente quelli dell’Unione europea e gli Usa, devono usare la loro influenza per spingere l’Egitto a porre fine a queste terribili violazioni dei diritti umani, perpetrate col falso pretesto della sicurezza e del contrasto al terrorismo” – ha sottolineato Luther.

Invece di proseguire ciecamente a fornire equipaggiamento di sicurezza e di polizia all’Egitto, questi paesi dovranno annullare tutti i trasferimenti di armi e altro materiale che vengono usati per compiere gravi violazioni dei diritti umani fino a quando non saranno poste in essere garanzie efficaci contro il loro uso improprio, non saranno condotte indagini esaurienti e indipendenti sulle violazioni dei diritti umani e i responsabili di queste ultime non saranno portati di fronte alla giustizia” – ha concluso Luther.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 13 luglio 2016

Il rapporto “Egitto: ufficialmente tu non esisti’ Scomparsi e torturati nel nome della lotta al terrorismo” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e online a questo indirizzo.

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/Rapporto-Egitto-centinaia-persone-scomparse-torturate

Cinque mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo: Amnesty International Italia sollecita maggiore impegno da parte della Farnesina

Manifestazione “Verità per Giulio Regeni” a Milano © Giulio Tonincelli per Amnesty International

 21 giugno 2016

Alla vigilia del 25 giugno, quando saranno trascorsi cinque mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, Amnesty International Italia ha espresso in una lettera al ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni “preoccupazione per la mancanza di significativi progressi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità per la sua tragica uccisione”.

Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo, orrendamente torturato, di Giulio Regeni e di fronte a un obbligo internazionale di svolgere un’inchiesta approfondita e indipendente sulla vicenda e di portarne i responsabili di fronte alla giustizia, le autorità egiziane hanno offerto spiegazioni diverse e contraddittorie, tutte alquanto improbabili, alcune qualificabili come veri e propri depistaggi, e si sono dimostrate nel contempo poco propense a collaborare seriamente con gli organi investigativi e giudiziari italiani.

Negli ultimi mesi, sottolinea Amnesty International, il contesto di violazione dei diritti umani nel quale si colloca la vicenda specifica di Giulio Regeni ha visto un notevole peggioramento: il ricorso alla tortura e alle sparizioni resta pratica comune mentre risulta in aumento la persecuzione ai danni di attivisti e difensori dei diritti umani, tra i quali anche due consulenti dei legali della famiglia Regeni.

Amnesty International Italia ha apprezzato le iniziali prese di posizione del governo italiano, tra cui la scelta di richiamare l’ambasciatore al Cairo e la recente rassicurazione che, per il momento, il nuovo ambasciatore rimarrà in Italia.

Tuttavia, l’organizzazione per i diritti umani ritiene che, con il trascorrere dei mesi, siano maturati i tempi per integrare le risposte sul piano dei rapporti diplomatici con altre misure, indispensabili al fine di assicurare la dichiarata proporzionalità della risposta italiana ai mancati progressi da parte egiziana.

Tra queste, Amnesty International Italia ritiene che costituisca un passo necessario l’interruzione immediata di ogni ulteriore fornitura di armi e altri equipaggiamenti utilizzati per commettere o agevolare gravi violazioni dei diritti umani in Egitto. L’Italia è infatti tra i paesi europei che hanno continuato a esportare in Egitto, anche in tempi assai recenti, sia armi che tecnologie e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza, nonostante il rischio elevato che le une e le altre possano essere usate contro il dissenso pacifico.

Sarebbe inoltre opportuno, secondo Amnesty International, che il governo italiano compisse sforzi finalizzati a rafforzare la risposta dell’Unione europea e della comunità internazionale.

L’organizzazione per i diritti umani chiede in particolare al governo italiano di attivarsi affinché l’Unione europea assuma, in coerenza con la risoluzione del parlamento europeo del 10 marzo che definisce opportunamente Giulio Regeni “cittadino europeo”, tutte le iniziative necessarie, tenendo conto che l’accordo di associazione tra Unione europea ed Egitto prevede che il rispetto dei diritti umani sia parte integrante di quell’accordo.

Amnesty International Italia invita inoltre il governo a prendere in considerazione l’ipotesi di promuovere l’adozione di una dichiarazione sulla situazione dei diritti umani in Egitto, che faccia riferimento al caso Regeni, nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Un altro meccanismo che Amnesty International Italia invita la Farnesina a valutare, nell’ipotesi che continuassero a mancare progressi nell’accertamento della verità, si colloca nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, di cui Italia ed Egitto sono stati parte: l’articolo 30 prevede infatti che, a fronte di una controversia relativa all’applicazione della Convenzione, ogni stato parte possa promuovere, nell’ordine, un negoziato, un arbitrato internazionale e, infine, un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di giustizia.

Il 25 e 26 giugno, Amnesty International Italia promuoverà una twitter action rivolta al primo ministro Renzi e al ministro degli Affari esteri Gentiloni per chiedere verità per Giulio Regeni.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 21 giugno 2016

 

 

 

Fonte:

http://www.amnesty.it/cinque-mesi-dalla-scomparsa-di-giulio-regeni-al-cairo-amnesty-international-italia-sollecita-maggiore-impegno-da-parte-della-farnesina

 

VENTIMIGLIA, IL SINDACO ORDINA LO SGOMBERO DEI MIGRANTI

Sabato 28 Maggio 2016 13:25

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Sgombero imminente per i migranti in transito a Ventimiglia? Nella giornata di ieri è stato notificato un ultimatum alle persone bloccate nella cittadina ligure dalla polizia che impedisce loro di arrivare in Francia. L’ordinanza intima di lasciare l’accampamento di fortuna che si è creato qualche settimana fa sul fiume Roja.

Mentre centinaia di uomini, donne e bambini muoiono annegati alle porte dell’Europa, il sindaco Enrico Ioculano, giovane promessa del Partito democratico, continua la sua guerra ai migranti palesando una volta di più quali sono le priorità politiche delle amministrazioni di centro-sinistra. C’è poco da stupirsi, per rendersi conto del livello di questo piccolo uomo, Loculano era già saltato agli onori delle cronache qualche mesa fa per aver emanato un’ordinanza che vietava ai cittadini di Ventimiglia di offrire cibo ai migranti. Ordinanza ritirata pochi giorni fa grazie alla determinazione degli attivisti noborder che hanno continuato ad organizzare pubblicamente pasti di solidarietà con i tanti che chiedono semplicemente di poter lasciare l’Italia e proseguire il proprio viaggio.

Ieri le forze dell’ordine hanno quindi comunicato alle persone presenti all’accampamento di Via tenda di lasciare i propri ripari avanzando motivazioni di carattere igienico-sanitario descrivendo il campo come insalubre. Una scusa pretestuosa che fa ancora più rabbia visto che la situazione difficile del campo è stata scientemente voluta da un amministrazione che vuole creare “emergenza” per poi gridare al degrado e giustificare gli sgomberi. Già nei mesi scorsi a Ventimiglia è stato smantellato il campo della croce rossa rendendone di fatto impraticabile l’accesso senza dover lasciare le proprie impronte digitali, cosa che giustamente i migranti vogliono evitare perché ciò renderebbe loro ancora più difficile uscire dall’Italia. L’amministrazione comunale, dopo aver costretto i migranti in campi di fortuna, ha fatto inoltre di tutto per rendere la vita impossibile a solidali e volontari che provano ad organizzare con i migranti dei livelli minimi di servizi per garantire a chi è in transito una vita quotidiana decente. Una strategia infame, pensata per mettere contro residenti e migranti impedendo alle persone in transito di lavarsi, dormire e mangiare, creando “marginalità” e malessere per rendere Ventimiglia meno “attrattiva” per chi è in viaggio ignorando senza vergogna la geografia quanto la storia della città. Al di là della pagliacciata inscenata ieri da Ioculano, che si è dimesso dal PD per protesta contro l’operato del governo, lo spirito che anima il sindaco è lo stesso del piano Alfano. Annunciato il 7 maggio scorso dal ministro dell’interno, il piano prevede controlli capillari su treni e mezzi di trasporto con la ridicola pretesa d’impedire ai migranti di arrivare alla frontiera di Ventimiglia. Un’idea velleitaria che ha avuto come solo effetto quello di moltiplicare le torture della polizia italiana e francese sui migranti. Nei giorni scorsi le persone in transito hanno denunciato nell’indifferenza generale le minacce, le percosse, le pinze sui genitali per ottenere le impronte digitali e pochi giorni fa un ragazzo è rimasto quasi sordo per le botte ricevute dalle forze dell’ordine.
Aprire le frontiere e permettere a chi vuole di lasciare il nostro paese è la sola soluzione possibile, ma l’Italia continua ad essere schiva delle direttive UE accollandosi l’onere di fare il gendarme dell’Europa.

Ascolta l’aggiornamento registrato ieri con una compagna di No Border Ventimiglia

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/migranti/item/17146-ventimiglia-il-sindaco-ordina-lo-sgombero-dei-migranti

TUTTA LA VERITA’ PER GIULIO REGENI

I seguenti articoli sono tratti da il manifesto

 

Editoriale

Il dolore e gli avvoltoi

Giulio Regeni

Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni.

Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione.

Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.

Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».

Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/il-dolore-e-gli-avvoltoi/

 

Editoriale

La famiglia Regeni: con il manifesto caso chiuso, «le priorità sono altre»

L’articolo. L’avvocato della famiglia Regeni stoppa le polemiche per la pubblicazione dell’ultimo articolo di Giulio. Che ci scriveva: «Il manifesto è il mio giornale di riferimento in Italia, è un piacere poter pubblicare». Averlo messo a disposizione di tutti è stato il primo strumento – l’unico che può avere un giornale – al servizio della verità e della giustizia

«Avevamo chiesto come forma di rispetto delle volontà di Giulio che non fosse pubblicato il suo articolo. Il manifesto non l’ha rispettato ma la famiglia non vuole fare polemiche, ha altre priorità». Alle 14.30 l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, conferma all’Ansa quanto ci aveva anticipato al telefono in mattinata. Per la famiglia dello studioso ucciso al Cairo il «caso manifesto» è chiuso.

Bene. Perché per tutto giovedì e ancora ieri, aveva destato enorme scalpore, soprattutto in rete, la diffida dei legali della famiglia Regeni in merito alla pubblicazione dell’ultimo articolo che ci aveva inviato il ricercatore friulano.

Regeni ci aveva scritto una mail lo scorso 9 gennaio con l’espressa richiesta di pubblicarlo in quanto il manifesto era, parole sue, il suo «giornale di riferimento in Italia, ed «è naturalmente sensibile» alle mobilitazioni dei lavoratori in Egitto. Del resto, non sono molti i quotidiani del nostro paese a interessarsi con regolarità delle vere condizioni sindacali e di lavoro in Tunisia, Egitto, India, Pakistan, solo per citare alcuni paesi di cui ci occupiamo frequentemente.

Le motivazioni della diffida, che ci è pervenuta via fax giovedì alle 19.25, erano essenzialmente due: la preoccupazione per la sicurezza di Giulio Regeni e della sua famiglia che era al Cairo, la preoccupazione per eventuali amici del ricercatore ancora presenti in Egitto.

Il testo, letto nella sua interezza, ci è apparso subito singolare. Vi si legge ad esempio che Giulio non era ancora morto e che avremmo rifiutato l’articolo perché l’avremmo voluto pubblicare solo con il suo vero nome.

Due circostanze con tutta evidenza false.

La prima, perché alle 19.25, purtroppo, i familiari accompagnati dall’ambasciatore italiano in Egitto avevano già riconosciuto il corpo del figlio e quindi la preoccupazione per la sua sicurezza – da noi condivisa a priori – era purtroppo tragicamente superata dall’avvenuto omicidio.

Nello scambio di email con Regeni tra il 9 e il 12 gennaio scorso, spiegavamo di non avere spazio in quei giorni ma ribadivamo che l’argomento era interessante e che ci saremmo risentiti. Il ricercatore era libero di pubblicarlo altrove.

Regeni, nell’ultima mail scambiata con la redazione, accettava questa decisione «un po’ a malincuore», e diceva di restare «a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto», perché «è comunque un piacere poter pubblicare sul manifesto».

A gennaio, e durante la sua scomparsa, l’articolo non è stato da noi pubblicato sotto nessuna forma.

La seconda circostanza anomala nella diffida riguardava l’uso dello pseudonimo che noi, secondo l’avvocato Ballerini, non avremmo voluto rispettare. Fatto non veritiero perché, in passato, abbiamo già usato lo strumento dello pseudonimo.

Non è infrequente, infatti, che molti freelance chiedano di non usare il proprio vero nome per evitare problemi con le autorità di sicurezza dei paesi in cui trovano a risiedere e lavorare. Esistono articoli scritti a 4 o 6 mani firmati da un unico nom de plume.

A maggior cautela, fin da giovedì mattina, ben prima della diffida e del caos della giornata, abbiamo rimosso tutti gli articoli di Regeni dal nostro sito, chiedendo di fare altrettanto ai motori di ricerca. Abbiamo cioè fatto il massimo prima, durante e dopo il sequestro per garantire la sicurezza di Giulio Regeni.

Per questo ieri abbiamo deciso di non tenere conto della diffida dell’avvocato Ballerini, rispettando la volontà del ricercatore, che li aveva inviati espressamente al manifesto al fine di vederli pubblicati.

A chi sui social network ci accusa a sproposito di «sciacallaggio» a fini di lucro, possiamo solo ricordare che gli articoli del manifesto si leggono (anche) gratis sul sito e senza pubblicità.

Senza sapere nulla di questi fatti, molti si sono espressi su tale diffida – inoltrata ormai alle agenzie di stampa, all’ordine dei giornalisti, al garante per la privacy -, sollevando un’ondata di telefonate di chiarimento in redazione, come se l’articolo in questione contenesse segreti di stato, accuse politiche o scoop inquietanti.

Si tratta, com’è oggi evidente dopo la sua pubblicazione, della semplice cronaca di un’assemblea di operai e operaie egiziani e dell’interpretazione di Regeni della situazione sociale in quel paese.

Abbiamo rispettato alla lettera e fino all’ultimo le volontà e le capacità professionali e culturali di questo brillante ricercatore, sollevando il velo sul suo vero nome solo dopo la conferma ufficiale del suo omicidio e il riconoscimento del corpo da parte dei genitori.

Se si vuole conoscere «tutta la verità» sulla sua morte, come abbiamo scritto anche nell’editoriale di ieri, bisogna iniziare da se stessi, e sgombrare il campo da eventuali illazioni, fango e sospetti sul suo lavoro.

Averlo messo a disposizione di tutti è stato il primo strumento – l’unico che può avere un giornale – al servizio della verità e della giustizia.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/la-famiglia-regeni-con-il-manifesto-caso-chiuso-le-priorita-sono-altre/

 

 

Tutta la verità

Temeva per la sua incolumità. Questa è la verità che per noi emerge e che vogliamo proporre e testimoniare sulla morte violenta al Cairo di Giulio Regeni, di fronte alle troppe reticenze ufficiose e ufficiali e alle gravi contraddizioni delle prime indagini tra la procura egiziana che conferma torture indicibili e il ministero degli interni del Cairo che le smentisce. E di fronte ad un governo italiano che ora chiede «verità», ma che si ritrova almeno contraddetto dal viaggio d’affari di una delegazione confindustriale guidata dalla ministra Guidi che al Cairo tesseva tranquilli rapporti economici con un regime militare responsabile di un colpo di stato definito dallo scrittore Orhan Pamuk «eguale a quello di Pinochet».

Affermiamo questo perché all’inizio di gennaio, dopo aver ricevuto un suo articolo – che riproponiamo oggi in edicola con la sua firma convinti di adempiere proprio alle sue volontà – sulla ripresa d’iniziativa dei sindacati egiziani, insisteva con noi e a più riprese sulla necessità di firmarlo solo con uno pseudonimo. Capivamo che era molto preoccupato da questa insistenza ripetuta più volte nelle sue mail, tantopiù che già altri suoi articoli erano usciti con pseudonimi ogni volta diversi.

Non siamo abituati come manifesto alle speculazioni sulla vita altrui o ai retroscena complottardi, tantomeno ad abusare stile «asso nella manica» delle persone.

Siamo solo un giornale di frontiera che ha subìto attentati, sequestri come quello di Giuliana Sgrena, uccisioni come per Vittorio Arrigoni.

Ma in queste ore si rincorrono interpretazioni a dir poco incredibili, ufficiali e di alcuni giornali che, accreditando perfino la versione dei servizi segreti egiziani che naturalmente negano ogni responsabilità su un suo possibile fermo o arresto, rivolgendo l’attenzione allora sul fatto criminale puro e semplice, se non addirittura alla tesi dell’incidente automobilistico.

Alcune puntualizzazioni dunque sono necessarie: Giulio Regeni (oltre che essere in contatto con questo giornale e con il nostro lavoro d’informazione sul Medio Oriente come tanti collaboratori), è scomparso non in un giorno di «Vacanze sul Nilo» ma il 25 gennaio, quinto anniversario della rivolta contro Mubarak di piazza Tahrir 2011, in un intenso clima di mobilitazione giovanile, sociale e politico non solo di memoria ma inevitabilmente contro l’attuale regime militare del golpista Al Sisi; mobilitazione contro la quale si è scatenata, come negli anni precedenti, la repressione e le retate della polizia, stavolta con centinaia di arresti preventivi.

Giulio Regeni non era né un violento né un nemico dell’Egitto, al contrario amava quel Paese ed era esperto di lotte sociali, in particolare del sindacato egiziano e, dottorando a Cambridge, di crisi dei modelli economici del Medio Oriente. È deceduto, a quanto sappiamo finora, secondo la procura egiziana dopo violenze inaudite.

Difficile davvero immaginare la malavita cairota accanirsi senza motivo e senza tornaconto su uno straniero qualsiasi; altrettanto incredibile – ma vedrete che arriveremo anche a questo espediente – far passare questa morte come un crimine dell’Isis che, com’è ormai risaputo, ha ben altre modalità teatrali di esecuzione.

Sia chiaro. Noi non sappiamo chi siano davvero stati i suoi assassini e perché abbiano commesso questo crimine. Possiamo solo sospettare e testimoniare.

Ma chiediamo verità, tutta la verità al governo egiziano, al ministro degli esteri Paolo Gentiloni e al presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Lo dobbiamo di fronte al dolore dei genitori e alla giovane vita così martoriata di Giulio Regeni.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/tutta-la-verita/

Reportage

In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti

L’articolo. L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per la libertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba

Proteste in Egitto

Pubblichiamo qui l’articolo inviatoci da Giulio Regeni, e sollecitato via e-mail a metà gennaio, sui sindacati indipendenti in Egitto. Ci aveva chiesto di pubblicarlo con uno pseudonimo così come accaduto altre volte in passato. Dopo la sua scomparsa, rispettando prudenza e opportunità, l’abbiamo tenuto nel cassetto sperando in un esito positivo della vicenda. Dopo il barbaro omicidio al Cairo del ricercatore friuliano abbiamo deciso di offrirlo ai lettori come testimonianza, con il vero nome del suo autore, adesso che quella cautela è stata tragicamente superata dai fatti.

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Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.

Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese. L’occasione è una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale Etuf (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.

Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati.

Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria e il Cairo.

La circolare del governo rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere forma in iniziative concrete.

Movimento in crisi

Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertà politiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.

Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013.

Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza.

Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati, e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e decidere insieme il «cosa fare da domani mattina», un appello ripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine.

Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile. La grande assemblea si è poi conclusa con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali.

Conferenze regionali

L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («a Tahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta).

L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.

Nel frattempo, proprio in questi giorni, in diverse regioni del paese, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche.

Nuova ondata di scioperi

Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak.

Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.

Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito al Cairo.

Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan «Pane, Libertà, Giustizia Sociale» non sono riuscite sostanzialmente a intaccare.

L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.

Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra al terrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/in-egitto-la-seconda-vita-dei-sindacati-indipendenti/

 

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Torture di Stato: gennaio 1982, sevizie ai brigatisti

26 gennaio 1982 – Verona

torture di lenardo

La “squadra speciale” UCIGOS diretta da Umberto Improta e Gaspare De Francisci (e composta da Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano Di Gregorio) fa irruzione nella casa della militante di sinistra Elisabetta Arcangeli, il cui nome era stato fatto da Paolo Galati fermato e portato in Questura in quanto fratello di Michele Galati in carcere con la accusa di avere partecipato al sequestro Taliercio, e che l’aveva indicata come compagna di quel Nazareno Mantovani arrestato il 23 gennaio e “inutilmente” sottoposto a tortura dalla squadretta del Dottor De Tormentis alias Nicola Ciocia.

In casa della Arcangeli i militari trovano l’attuale compagno, Ruggero Volinia che viene brutalmente torturato per due giorni insieme alla compagna, finchè la notte del 27 crolla e ammette di fare parte delle BR con il nome di Federico e di avere guidato il furgone che il 17 dicembre 1981 aveva trasportato il sequestrato Dozier a Padova e conduce la squadra dei NOCS alla base di Via Pindemonte dove al mattino del 28 verrà liberato il generale americano. (ricostruzione tratta da “Colpo al cuore” di Nicola Rao ed. Sperling&Kupfer).

I militanti che hanno dichiarato all’epoca di essere stati torturati al momento dell’arresto dalle forze dell’ordine sono Alberto Buonoconto, Enrico Triaca, Luciano Farina, Nazareno Mantovani, Francesco Giordano, Maurizio Iannelli, Michele Galati, Elisabetta Arcangeli, Ruggero Volinia, Fernando Cesaroni, Gianfranco Fornoni, Armando Lanza, Ennio Di Rocco, Stefano Petrella, Anna Maria Sudati, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella, Antonio Savasta, Emilia Libera, Giovanni Ciucci, Alberta Biliato, Roberto Vezzà, Paola Maturi, Giovanni Di Biase, Annarita Marino, Lino Vai, Sandro Padula, Giustino Cortiana, Daniele Pifano, Arrigo Cavallina, Luciano Nieri, Giorgio Benfenati, Aldo Gnommi, Federico Ceccantini, Adriano Roccazzella, Sisinnio Bitti, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Gioacchino Vitrani, Annamaria e Michele Fatone.

Il 16 ottobre 2013 la Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della condanna per calunnia di Triaca, ha stabilito che in occasione del suo arresto a Roma del 1978 lo stesso fu sottoposto a reiterata tortura con il metodo del water-boarding dalla squadretta di Nicola Ciocia che in seguito, dimessosi dalla Polizia, farà fino al 2013 l’apprezzato  avvocato a Napoli.

Alle ripetute interpellanze dei radicali, ed in particolare dell’On. Sciascia, all’epoca il Ministro Rognoni aveva risposto “sdegnato” che “lo Stato usava solo metodi democratici” e che il solo metterlo in dubbio significava “fiancheggiare il terrorismo”. Per questi fatti nessun poliziotto è mai stato condannato, la denuncia di Alberto Buonoconto (in seguito morto suicida) fu archiviata dall’allora PM Lucio Di Pietro che in seguito si renderà protagonista del caso Tortora, quella di Di Lenardo vide la immunità a Salvatore Genova divenuto onorevole grazie al PSDI (della “fermezza” ai tempi di Moro) e la prescrizione degli altri, Cesare Di Lenardo si trova tuttora in carcere dal 1982 senza mai avere usufruito di un giorno di permesso. Oscar Fioriolli, che ebbe a torturare anche nelle parti intime Elisabetta Arcangeli per diretta testimonianza del presente Genova, verrà nominato dal Questore Manganelli direttore della nuova scuola di addestramento della polizia in risposta alle mattenze di Genova Diaz e Bolzaneto.

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/26-gennaio-1982-verona/

BRASILE. IL 1500, L’ANNO CHE NON È MAI FINITO

05.01.16

Chi ha pianto per Vitor, il bambino indigeno di due anni assassinato con un coltello conficcato nel collo?

di Eliane Brum*, pubblicato sul El Pais il 04.01.16

Foto: Gabriel Felipe/RBS TV

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NOTA DEL CIMI (Consiglio Indigenista Missionario) : VITOR, UN BAMBINO KAINGANG DI APPENA DUE ANNI ASSASSINATO MENTRE VENIVA ALLATTATO DALLA MADRE

Il CIMI (Conselho Indigenista Missionário) manifesta pubblicamente la sua indignazione per il crudele assassinio di Pedro Vitor, bambino Kaingang di due anni. Il crimine è avvenuto nella stazione degli autobus di Imbituba, comune di Santa Catarina. Vitor era allattato al seno della madre, Sonia da Siva, quando un uomo si è avvicinato, gli ha accarezzato il viso e, con un coltello, lo ha sgozzato. Mentre la madre e il padre – Arcelino Pinto – disperati tentavano di soccorrere il bambino, l’assassino ha continuato a camminare attraverso la stazione degli autobus, fino a sparire.

Vitor è morto in un posto che la sua famiglia immaginava fosse sicuro. Le stazioni degli autobus sono spazi scelti frequentemente dagli indigeni Kaingang per riposare, quando questi lasciano i loro villaggi alla ricerca di luoghi dove vendere i loro prodotti artigianali. La famiglia di Vitor è originaria dell’ Aldeia Kondá, situata nel municipio di Chapecó, regione occidentale di Santa Catarina. Vitor si trovava alla stazione degli autobus con i genitori ed altri due fratelli, uno di sei e l’altro di dodici.

Si tratta di un crimine brutale, un atto vigliacco, compiuto contro un bambino indifeso, che denota disumanità e odio verso gli altri esseri umani. Un tipo di delitto che si fonda nel desiderio di cancellare e sterminare i popoli indigeni.

La Polizia Militare della regione aveva dato per risolto il caso in pochi minuti, arrestando, in un quartiere povero, un giovane in libertà provvisoria perché beneficiato dall’indulto di Natale e Capodanno. Apparentemente era tutto risolto. Ma al posto di Polizia Civile di Imbuitiba sono stati ascoltati i genitori di Vitor ed un altro testimone, un taxista che si trovava sul luogo nell’ora del delitto. L’uomo indicato dalla Polizia Militare come autore dell’assassinio non è stato riconosciuto dai tre testimoni.

Le informazioni raccolte al posto di Polizia Civile da un avvocato che ha assistito la famiglia Kaingang, indicano che questo crudele delitto potrebbe essere messo in relazione con l’azione di gruppi neonazisti o di altre correnti segregazioniste, che diffondono odio e incitano alla violenza contro indios, neri, poveri, omosessuali e donne. Il CIMI è preoccupato per il clima di intolleranza che si sta diffondendo nella regione meridionale del paese contro le popolazioni indigene.

Un razzismo – a volte velato, a volte esplicito – diffuso attraverso mass media e social network. Occorrono con una certa frequenza manifestazioni pubbliche di parlamentari legati al latifondo e all’agribusiness contro i diritti degli indigeni e che aizzano la popolazione contro questi popoli. In tutto il paese si registrano casi di violenza e di intolleranza contro indigeni e quilombolas, concretamente messi in atto attraverso persecuzioni, discriminazione, espulsioni e assassini. In questi ultimi giorni almeno cinque indigeni sono stati assassinati negli stati del Maranhão, Tocantins, Paraná e Santa Catarina.

Il Conselho Indigenista Missionário spera che questo crimine odioso sia effettivamente indagato e che non si commetta l’errore di voler tentare di dare alla società una risposta immediata, imputando a un innocente un delitto che non ha commesso.

Chapecó, SC, 31 dicembre 2015.

Conselho Indigenista Missionário – Regional Sul

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Un bambino di due anni è stato assassinato. Un uomo gli ha accarezzato il volto. E poi gli ha piantato un coltello nella gola. Il bambino era un indio del popolo Kaingang. Si chiamava Vitor Pinto.

La sua famiglia, come altri del villaggio in cui viveva, era venuta in città per vendere oggetti d’artigianato poco prima di Natale. Sarebbero restati fino a Carnevale.

Dormivano nella stazione degli autobus a Imbituba, sulla costa di Santa Catarina. È stato lì che, mentre sua madre lo allattava, un uomo gli ha trafitto la gola. Era mezzogiorno del 30 dicembre. Il 2015 era molto vicino alla fine.

E il Brasile non si è fermato a piangere l’omicidio di un bambino di due anni. Le campane non hanno suonato per Vitor.

La sua morte non ha fatto notizia sulla stampa nazionale. Fosse stato mio figlio, o di qualsiasi donna bianca della classe media, ucciso in tali circostanze, ci sarebbero titoloni in prima pagina, ci sarebbero esperti ad analizzare la violenza, ci sarebbero pianti e solidarietà.

E forse ci sarebbero anche candele e fiori sul pavimento della stazione degli autobus, come per le vittime del terrorismo a Parigi. Ma Victor era un indio. Un bambino, ma indigeno. Piccolo ma indigeno. Vittima ma indigeno. Assassinato, ma indigeno. Trafitto, ma indigeno. Quel “ma” è l’assassino occulto. Quel “ma” è serial killer.

La fotografia che ha illustrato le poche notizie sulla morte del “curumim” (ndt. termine in lingua Tupi, che significa bambino in tenera età) mostra il pavimento di cemento e ghiaia della stazione degli autobus. Un paio di ciabattine infradito blu, con motivi per bambini. Una bottiglia di PET, una stellina giocattolo, di quelle con cui si fanno formine di sabbia, un coperchio di plastica, forse parte di un secchiello da bambini, un piccolo tubetto di plastica, un panno a fiori ammucchiato contro il muro, forse un lenzuolino. Viene presentata come “la scena del delitto” o come “gli effetti personali del bambino”.

Questa foto è un documento storico. Tanto per quello che in essa c’è quanto per quello che in essa non c’è. In essa resta ciò che è usa e getta, oggetti di plastica e PET, i resti delle ciabattine. In essa non c’è quello che è stato cancellato dalla vita. L’assenza è l’elemento principale del ritratto.

Gli indigeni possono esistere in Brasile solo come stampa. Apprezzati come illustrazione di un passato superato, i primi abitanti di questa terra, con la loro nudità e le loro corone di piume, una cosa bella da appendere su alcune pareti o da stampare su quei libri che adornano i tavolini da salotto.

Gli indigeni trovano posto solo se impagliati, o incorniciati. Allo stato attuale, la loro esistenza è considerata fuori luogo, di cattivo gusto.

Gli indios devono essere “falsi indios”

perché le loro terre

sono vere – e ricche

Come dice l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, gli indigeni sono specialisti in fine del mondo, visto che il loro mondo è finito nel 1500.

Hanno avuto, però, l’ardire di sopravvivere all’apocalisse promossa dalle divinità europee. Malgrado a centinaia di migliaia siano stati sterminati, sono sopravvissuti all’estinzione totale. E poihé sopravvissuti continuano ad essere uccisi. Quando non li si può uccidere, la strategia è quella di trasformarli in poveri nelle periferie delle città. Quando diventano poveri delle città, li chiamano “falsi indios”. Oppure “Paraguaiani”, altro pregiudizio verso il paese vicino. Nel passato, gli indios sono allegoria. “Guarda, figlio mio, come erano coraggiosi i primi abitanti di questa terra.” Nel presente, sono “ostacoli allo sviluppo”. “Guarda, figlio mio, come sono brutti, sporchi e pigri questi Indios fasulli”. Gli indios devono essere falsi perché le loro terre sono vere – e ricche.

La morte dei “curumins” non cambia nessuna politica,
le foto della loro assenza

non commuovono

milioni di persone

Se Victor era un ostacolo, questo ostacolo è stato rimosso. Ecco perché questa foto è un documento storico. Se ci fosse un briciolo di onestà, è questa che dovrebbe essere appesa alle pareti.

Sembra non sia abbastanza che Vitor, un bambino di due anni, passasse settimane sul pavimento di una stazione di autobus perché la violenza contro il suo popolo è stata tanta e per tanti secoli e continua ancora oggi, tanto che i suoi genitori, Sonia e Arcelino, sono costretti a lasciare il loro villaggio per vendere dell’artigianato. A prezzi bassi, perché svalutati sono gli artigiani.

È importante capire il livello di abbandono che porta alcuni a considerare una stazione degli autobus come un luogo sicuro e accogliente. I terminal degli autobus sono luoghi di passaggio, e la famiglia di Vitor, così come altre di indigeni, si rifugiano lì perché c’è movimento. Il terminal è una terra di nessuno. E così in essa trovano posto mendicanti, bambini di strada, ubriachi, puttane, pazzi, emarginati. E gli indios. O forse trovavano posto. E non lo trovano più.

Le stazioni degli autobus sono spazi di circolazione di estranei, ed essendo “gli altri”, gli stranieri nativi, gli indigeni credono che in questo non luogo hanno la possibilità di fuggire all’espulsione. Ma poi ne vengono espulsi. Parte della popolazione dei comuni in cui indigeni appaiono con i loro oggetti d’artigianato pensa che la stazione degli autobus sia troppo per gli indios. O per i “bugre”, come vengono chiamati in alcune zone del sud del paese.(ndt. “bugre” è una denominazione dispregiativa data agli indigeni per non essere considerati cristiani dagli europei. Deriva dal francese “bougre”, eretico.) “La stazione degli autobus è la cartolina della città, in un periodo in cui tante persone viaggiano, vengono qui. Che immagine resterà loro della città? “, ha spiegato un commerciante di São Miguel do Oeste, sempre nello Stato di Santa Catarina, per giustificare l’espulsione degli indigeni da quel posto prima di Natale. Vitor ormai non rovina più nessuna cartolina. Di lui non c’è nemmeno un volto. La foto della sua assenza non commuoverà milioni in tutto il mondo come è accaduto per il bambino siriano portato dalle onde del mare. La morte dei “curumins” non cambia nessuna politica.

Prima che mi accusino di essere precipitata, esagerata o ingiusta, va detto che: i “cittadini perbene” non vogliono che i bambini indigeni abbiano i loro colli trafitti. Assolutamente no. Vogliono solo che stiano lontani dalla vista. Altrove, in un altro posto dove non contaminino, sporchino o imbruttiscano. Ma che non sia nemmeno nelle loro terre, se queste sono ricche di minerali, fertili per la soia o buone per il pascolo del bestiame. Anche lì sono fuori posto. Che scompaiono, insomma. Ma uccidere, no, uccidere è male.

Il 2015 è stato l’anno in cui questo discorso ha fatto vincere il secondo campionato consecutivo al Brasile. Il deputato Fernando Furtado, del Partito Comunista del Brasile (PC do B), è stato riconosciuto come “razzista dell’anno” dall’organizzazione Survival International per la sua dichiarazione antologica, espressa in una udienza pubblica:

“Là a Brasilia, Arnaldo ha visto gli indios tutti con con le camicette, tutti ben vestiti, con le loro freccette, tutti un branco di frocetti, perché ce n’erano almeno tre che erano froci, sono sicuro, froci. Non sapevo che ci fossero indios froci, l’ho scoperto quel giorno a Brasilia … Tutti froci. Ecco, è così che stanno le cose, com’è che gli indios riescono già ad essere froci, finocchi, e non sono in grado di lavorare e produrre? Negativo!”

Per parte degli abitanti

delle città del sud del paese, 

gli indigeni “sporcano”

la “cartolina” della città

Il deputato si riferiva agli Awa-Guajá, considerati uno dei popoli più vulnerabili del pianeta. La conquista di Fernando Furtado, tuttavia, non è senza precedenti. Un altro deputato, Luis Carlos Heinze, questi deputato del Partito Progressista (PP) del Rio Grande do Sul, era già salito sul podio nel 2014, con la seguente dichiarazione: “Il governo … si è accasato con popolazioni quilombolas, indios, gay e lesbiche, tutto quello che fa schifo”.

Tutto indica che il Brasile è quasi imbattibile per la conquista del terzo campionato di fila. Si parla tanto di paese politicamente bi-polarizzato, ma la premiazione dimostra che i popoli indigeni sono un punto di rara unanimità tra una certa destra e una certa sinistra di questa grande nazione.

Vitor, il bambino assassinato, viveva nel villaggio Condá nel comune di Chapecó, nella parte occidentale di Santa Catarina.

I crimini commessi dallo Stato contro il popolo Kaingang del sud del Brasile sono registrati nel Rapporto Figueiredo, un documento storico che si credeva perduto ed è stato scoperto alla fine del 2012. Il rapporto, datato 1968, ha documentato il trattamento riservato ai popoli indigeni dall’ormai estinto SPI (Servizio di Protezione per gli Indios).

In totale, il procuratore Jader Figueiredo Correia ha dedicato 7.000 pagine per raccontare ciò che la sua equipe ha visto  e sentito. Chiunque voglia capire perché Vitor si era rifugiato sul pavimento della stazione degli autobus di Imbituba, invece di passare i mesi estivi sicuro, sano e felice nel suo villaggio, puo’ trovare una ricca fonte di informazioni nel documento disponibile su Internet. Scoprirà, tra le altre atrocità, come gli antenati di Vitor sono arrivati ad essere torturati e a vivere in condizioni analoghe a quelle della schiavitù in modo che le loro terre sono venissero disboscate e sfruttate da non indios, in pieno 20° secolo. È possibile che alcuni di questi “imprenditori” siano i nonni di coloro che oggi ritengono che gli indigeni come Vitor sporchino la “cartolina” della loro città.

Dopo l’omicidio del bambino, la polizia militare ha arrestato il solito sospettato di sempre. Un ragazzo povero, in libertà provvisoria, con “una piccola quantità di marijuana e cocaina nello zainetto.” Poiché non vi era alcuna prova contro di lui, è stato rilasciato. Successivamente è stato arrestato un altro giovane, oggi considerato il principale indiziato. La polizia cercava qualcuno dai connotati abbastanza generici: zainetto e cappellino e con una corporatura simile a quello che appare in un video registrato da una telecamera di sicurezza. La polizia militare sospetta che l’assassino fosse “infastidito dalla presenza di indigeni sul posto.” La Polizia Civile ha indicato come possibili moventi “il pregiudizio razziale”, “uno stato di crisi” e “problemi psicologici”.

In una nota (vedi nel riquadro in alto di quest’articolo) il CIMI (Consiglio Indigenista Missionario) ha dichiarato: “Il CIMI è preoccupato per il clima di intolleranza che si sta diffondendo nella regione meridionale del paese contro le popolazioni indigene. Un razzismo – a volte velato, a volte esplicito – che si sviluppa attraverso mass media e social network “

Abbiamo iniziato il 2016

come abbiamo

terminato il 2015: osceni.
I fuochi di Capodanno

hanno già fallito nell’artificio

Chi di fatto ha ucciso Vitor forse sarà indagato, processato e condannato, che è già una rarità nei casi di omicidio di indigeni in Brasile, segnati dall’impunità. Ma dobbiamo farci domande più complesse.

Chi ha armato questa mano? Quale crocevia storico ha fatto si che Vitor fosse scelto dal il bambino scelto dall’assassino, a prescindere dalla sua sanità mentale o meno – e non mio figlio o il tuo? Dove siamo noi in questa foto nella quale siamo senza essere?

Si è detto che il 2015, un anno di crisi in Brasile e di orrore ovunque, è l’anno che non è finito. Il 2016 sarebbe solo un looping. Ha un senso.

Alla vigilia di questo Natale, Antônio Isídio Pereira da Silva, leader contadino e ambientalista nello stato del Maranhão, è stato trovato morto. Si è trattato di un altro omicidio annunciato. Un anno fa è stata archiviata la domanda di inclusione dell’agricoltore nel programma federale di protezione ai difensori dei diritti umani. Si stava preparando a segnalare l’ennesimo disboscamento illegale in una regione con gravi conflitti per la terra quando è stato assassinato.

Sempre a Natale, cinque giovani hanno denunciato poliziotti militari di Rio per tortura e furto. Secondo il loro racconto, stavano tornando su tre moto da una festa quando sono stati fermati da poliziotti militari delle Unità di Polizia Pacificatrice (UPP) delle favelas Corona, Fallet e Fogueteiro. Oltre alle torture con coltello rovente, un accendino e pugni uno di loro sarebbe stato obbligato a fare sesso orale con il suo amico.

A San Paolo, ci sono voluti solo due giorni perché si verificasse il primo massacro del 2016, con quattro morti alla periferia di Guarulhos. Si sospetta la vendetta per la morte di un poliziotto militare avvenuta nella zona pochi giorni prima.

Abbiamo iniziato come abbiamo finito. Nulla, dunque, né è iniziato né è finito. Chi continua a morire assassinato in Brasile, in maggioranza, sono i neri, i poveri e gli indios. Il genocidio prosegue davanti all’indifferenza, quando non agli applausi, della cosiddetta società brasiliana.

Abbiamo iniziato il 2016 come abbiamo finito il 2015. Osceni. I fuochi di Capodanno hanno già fallito nell’artificio. Siamo nudi. E la nostra immagine è orrenda. Essa sporca di sangue il corpicino di Vitor per il quale hanno pianto in così pochi.

Dicono che il 2015 è l’anno che non finisce. O che è il 2013 che ancora non è terminato.

Per gli indios è molto più brutale: il 1500 non è ancora finito.

Eliane Brum* è scrittrice, reporter e documentarista. Tra le sue opere:

Coluna Prestes – o Avesso da Lenda, A Vida Que Ninguém vê, O Olho da Rua,

A Menina Quebrada, Meus Desacontecimentos e il romanzo Uma Duas.

Sito: desacontecimentos.com

Tratto da http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews#!il-1500-lanno-che-non–mai-finito/c1grm

SIRIA. #FreeBassel, PRIGIONIERO NELLE CARCERI DEL REGIME

Bassel Safadi è un attivista siriano che ha commesso un crimine imperdonabile per il regime di Damasco: diffondere informazioni, scrivere articoli, contribuire alla libera circolazione del sapere. Per salvargli la vita è stata lanciata una campagna internazionale. Che parla di lui, e di altre migliaia di detenuti nelle carceri siriane.

 

 

“Sono venuti a prendermi quelli della sicurezza militare, non so dove mi portano…”. E’ la mattina del 3 ottobre scorso quando Noura Ghazi Safadi, una giovane avvocatessa di Damasco, risponde al telefono.

Dall’altro capo c’è il marito Bassel Khartabil, meglio noto come Bassel Safadi. Informatico, attivista e ricercatore siriano, è stato prelevato insieme ad un compagno di cella dalla prigione di Adra dopo 1.296 giorni di prigionia.

Noura ha cercato di sentire altri prigionieri, i rumos che circolano parlano di un trasferimento verso l’area militare di Qaboun e Bassel avrebbe lasciato ad un compagno di prigionia la sua fede nuziale evidentemente per paura di non tornare più.

E’ un attivista nonviolento siro-palestinese Bassel, che ha preso parte alla rivoluzione siriana fin dai primi giorni, mettendo a disposizione le sue competenze di informatico specializzato nella libera circolazione dei saperi e dell’open source.

Ha collaborato con organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e scritto articoli, un crimine gravissimo agli occhi del regime.

Tra i più noti progetti a cui ha lavorato come informatico, oltre a promuovere in Siria il lavoro della Creative Commons Foundation, ci sono Wikipedia, Mozzilla e Global Voices. I suoi interessi spaziavano anche all’uso dell’informatica per valorizzare il patrimonio archeologico siriano e, con un software oper source da lui programmato, ha creato una rappresentazione in 3D dell’ area archeologica di Palmira dal realismo fotografico, divenuta particolarmente preziosa alla luce dei danni inferti da Daesh e visto il costante martellamento cui la cittadina è sottoposta.

Bassel è stato arrestato dal regime di Bashar Al-Asad il 15 marzo 2012, nel primo anniversario dell’inizio della rivoluzione siriana, pochi giorni prima della data prevista del suo matrimonio con Noura Ghazi, conosciuta durante le manifestazioni di piazza. Si sarebbero poi sposati dietro le sbarre della sua cella. 

Nei primi giorni di prigionia Bassel è stato torturato ed interrogato, poi è stato accusato di spionaggio per conto di uno Stato ostile e da allora fino a sabato scorso è rimasto imprigionato ad Adra, a nord-est di Damasco.

Probabilmente il suo destino sarebbe stato ancora peggiore se la sua cattura non avesse provocato una forte reazione della società civile siriana e non avesse attirato una grande attenzione mediatica.

Grazie agli sforzi della campagna #FreeBassel del suo caso si sono occupate numerose organizzazioni internazionali tra cui Amnesty International e persino l’allora Alta Rappresentante dell’ Unione Europea per la politica estera Caterine Ashton, che nel 2014 ne ha chiesto l’immediata scarcerazione

Il 21 aprile del 2015 il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulla Carcerazione Arbitraria ha riconosciuto come illegittima la detenzione di Bassel Safadi, che viola gli articoli 9, 14 e 19 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, sottoscritta dalla Siria nel 1969.

Con il trasferimento del 3 ottobre la vita di Bassel potrebbe essere di nuovo in pericolo, come denunciano gli attivisti della campagna #FreeBassel, che hanno lanciato una petizione urgente online per chiedere nuovamente al regime siriano l’immediato rilascio dell’ informatico.

“Questo trasferimento potrebbe essere un segnale positivo o far temere il peggio” ha detto Noura Ghazi a Osservatorio Iraq, che l’ha raggiunta telefonicamente. “Ma io ho una terribile sensazione, vi prego fate il possibile, bussate ad ogni porta per far pressione sul regime siriano”. 

Noura sta per pubblicare “In attesa”, un libro di poesie dedicate da diversi poeti siriani a Bassel e che potrebbe essere pubblicato presto anche in italiano.

“Noi non vogliamo assolutamente lasciare la Siria, ma se saremo costretti a farlo quando Bassel uscirà, sicuramente sceglieremo l’Italia, un paese che somiglia alla Siria per il calore umano e le abitudini della sua gente. Oltretutto Bassel ha una nonna italiana”.

In questi tre anni e mezzo a Bassel sono stati anche assegnati premi e riconoscimenti per i suoi sforzi per portare la libertà in Siria, uno dei paesi più repressivi del mondo e classificata come “nemico di Internet” da Reporters Senza Frontiere, e per il contributo dato alla libera circolazione delle idee e delle informazioni. 

Nel 2012 l’illustre rivista Foreign Affairs lo ha inserito al 19° posto nella sua classifica annuale dei “Top thinkers” per la perseveranza mostrata nel sostenere la necessità di una natura nonviolenta della rivoluzione siriana, nonostante tutte le difficoltà.

Ma il caso di Bassel non è isolato: erano decine di migliaia i prigionieri per reati d’opinione in Siria prima dello scoppio della rivoluzione, ed il loro numero è aumentato drammaticamente con l’inizio della crisi. 

Il regime siriano da sempre ricorre alla tortura e a trattamenti inumani e degradanti a danno dei suoi prigionieri, ma con l’inizio della rivoluzione questa pratica si è estesa a dismisura, come testimonia il “Rapporto Caesar”, con cui attraverso documenti trafugati da un disertore è stata documentata l’uccisione attraverso tortura o privazione del cibo di almeno 11mila detenuti nelle strutture carcerarie ufficiali e non ufficiali del regime di Damasco.

Secondo le stime sono oltre 3mila i siro-palestinesi uccisi dalle forze governative nelle carceri o nelle aree assediate del paese.

 

05 Ottobre 2015
di:
Fouad Roueiha

SIRIA: NESSUN HASHTAG PER CHI SPARISCE

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)

(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.

Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.

Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.

In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.

Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.

Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.

E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.

Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.

Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.

Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…

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Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.

In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.

In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.

Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.

In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.

Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.

Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.

Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.

Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.

Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.

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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.

Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.

Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/siria-il-massacro-che-non-avra-un-hashtag.html

ARABIA SAUDITA: ATTIVISTA RISCHIA DI ESSERE MESSO A MORTE PER DECAPITAZIONE E CROCIFISSIONE

Arabia Saudita: attivista rischia di essere messo a morte

La Corte penale speciale e la Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza capitale nei confronti di Ali Mohammed Baqir al-Nimr, giovane attivista sciita condannato a morte per reati presumibilmente commessi all’età di 17 anni.
È accusato di “partecipazione a manifestazioni antigovernative”, attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. La condanna sarebbe stata emessa sulla base di una confessione estorta con torture e  maltrattamenti.
Ali al-Nimr è nipote di un eminente religioso sciita – Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, anch’egli condannato a morte.
Ali al-Nimr ha esaurito ogni possibilità di appello e può essere messo a morte appena il re ratifica la condanna.
Chiedi con Amnesty l’annullamento della sentenza, indagini sulle torture e che l’Arabia Saudita rispetti i diritti umani.

 

Amnesty International Italia

FIRMA L’APPELLO

Approfondimento

IL CASO
Il 14 febbraio 2012, Ali Mohammed Baqir al-Nimr, 17 anni, viene arrestato e condotto presso la Direzione generale delle indagini (Gdi) del carcere di Dammam. Non può vedere il suo avvocato e, secondo quanto riferisce, viene torturato da ufficiali della Gdi affinché firmi una “confessione”.
Resta detenuto nel centro di riabilitazione giovanile Dar al-Mulahaza per un anno e, a 18 anni, riportato nella Gdi di Damman.
Il 27 maggio 2014, il tribunale penale speciale di Gedda lo condanna a morte per reati che comprendono la “partecipazione a manifestazioni antigovernative”, attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. Il tribunale si sarebbe basato sulla “confessione” estorta con la tortura e maltrattamenti e su cui si è rifiutato di indagare.
Ad agosto 2015 il caso viene inviato al ministro dell’Interno per dare attuazione alla sentenza.
A settembre la famiglia diffonde la notizia appresa: i giudici di appello presso la Corte penale speciale (Scc) e della Corte suprema confermano la sentenza.
Ali al-Nimr è un attivista scita e nipote dell’eminente religioso sciita Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, di al-Awamiyya in Qatif, nella zona orientale dell’Arabia Saudita, condannato a morte dal tribunale penale speciale il 15 ottobre 2014.

 

LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA
L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza  e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.
Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.
Fonte:
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Arabia Saudita: 21enne condannato a decapitazione e crocifissione

Arabia Saudita: 21enne condannato a decapitazione e crocifissione

(Agenzie). Un giovane saudita di 21 anni, Ali al-Nirm, è stato condannato a essere decapitato e poi crocifisso in pubblico. La condanna, emessa in maggio da un tribunale di Gedda, è stata confermata dalla Corte Suprema.

Il ragazzo, nipote di Nimr al-Nimr, è stato condannato per aver partecipato a una manifestazione contro il governo nel 2012, nonché per possesso di armi.

 

 

Fonte:

http://arabpress.eu/arabia-saudita-21enne-condannato-a-decapitazione-e-crocifissione/68728/

SIRIA: VIGNETTISTA AKRAM RASLAN MORTO SOTTO TORTURA IN CARCERE

Siria: vignettista Akram Raslan morto sotto tortura in carcere

(Elaph). Attivisti siriani hanno confermato la notizia della morte sotto tortura in un carcere dell’artista e fumettista Akram Raslan, 41 anni, da parte delle forze governative siriane.

Radif Mustafa, avvocato e attivista per i diritti umani ha affermato che “senza il minimo dubbio Akram Raslan è stato ucciso sotto tortura. Si tratta dunque di un nuovo crimine contro l’umanità”.

Ha poi aggiunto: “Questo crimine non è il primo e non sarà l’ultimo nel suo genere”. Radif Mustafa ha anche fatto appello alla comunità internazionale ad assumersi le proprie responsabilità e a ricorrere alla giustizia sancita dal diritto internazionale umanitario.

Anche il Centro per i Diritti Umani del Golfo ha riportato che Raslan è morto per le ferite a causa della tortura subita, poco dopo il suo arresto nel 2012 da parte delle forze di sicurezza siriane nella città di Hama, citando un testimone oculare che ha visto l’artista in un letto d’ospedale proprio di quella città.

I servizi di sicurezza lo avevano rinchiuso in una prigione dopo che l’artista aveva pubblicato vignette politiche critiche verso il regime di Assad, sulla sua pagina di Facebook. I suoi familiari, amici e colleghi non lo hanno più sentito da allora.

Fonte:

http://arabpress.eu/siria-vignettista-akram-raslan-morto-sotto-tortura-in-carcere/68795/