TUTTA LA VERITA’ PER GIULIO REGENI

I seguenti articoli sono tratti da il manifesto

 

Editoriale

Il dolore e gli avvoltoi

Giulio Regeni

Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni.

Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione.

Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.

Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».

Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/il-dolore-e-gli-avvoltoi/

 

Editoriale

La famiglia Regeni: con il manifesto caso chiuso, «le priorità sono altre»

L’articolo. L’avvocato della famiglia Regeni stoppa le polemiche per la pubblicazione dell’ultimo articolo di Giulio. Che ci scriveva: «Il manifesto è il mio giornale di riferimento in Italia, è un piacere poter pubblicare». Averlo messo a disposizione di tutti è stato il primo strumento – l’unico che può avere un giornale – al servizio della verità e della giustizia

«Avevamo chiesto come forma di rispetto delle volontà di Giulio che non fosse pubblicato il suo articolo. Il manifesto non l’ha rispettato ma la famiglia non vuole fare polemiche, ha altre priorità». Alle 14.30 l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, conferma all’Ansa quanto ci aveva anticipato al telefono in mattinata. Per la famiglia dello studioso ucciso al Cairo il «caso manifesto» è chiuso.

Bene. Perché per tutto giovedì e ancora ieri, aveva destato enorme scalpore, soprattutto in rete, la diffida dei legali della famiglia Regeni in merito alla pubblicazione dell’ultimo articolo che ci aveva inviato il ricercatore friulano.

Regeni ci aveva scritto una mail lo scorso 9 gennaio con l’espressa richiesta di pubblicarlo in quanto il manifesto era, parole sue, il suo «giornale di riferimento in Italia, ed «è naturalmente sensibile» alle mobilitazioni dei lavoratori in Egitto. Del resto, non sono molti i quotidiani del nostro paese a interessarsi con regolarità delle vere condizioni sindacali e di lavoro in Tunisia, Egitto, India, Pakistan, solo per citare alcuni paesi di cui ci occupiamo frequentemente.

Le motivazioni della diffida, che ci è pervenuta via fax giovedì alle 19.25, erano essenzialmente due: la preoccupazione per la sicurezza di Giulio Regeni e della sua famiglia che era al Cairo, la preoccupazione per eventuali amici del ricercatore ancora presenti in Egitto.

Il testo, letto nella sua interezza, ci è apparso subito singolare. Vi si legge ad esempio che Giulio non era ancora morto e che avremmo rifiutato l’articolo perché l’avremmo voluto pubblicare solo con il suo vero nome.

Due circostanze con tutta evidenza false.

La prima, perché alle 19.25, purtroppo, i familiari accompagnati dall’ambasciatore italiano in Egitto avevano già riconosciuto il corpo del figlio e quindi la preoccupazione per la sua sicurezza – da noi condivisa a priori – era purtroppo tragicamente superata dall’avvenuto omicidio.

Nello scambio di email con Regeni tra il 9 e il 12 gennaio scorso, spiegavamo di non avere spazio in quei giorni ma ribadivamo che l’argomento era interessante e che ci saremmo risentiti. Il ricercatore era libero di pubblicarlo altrove.

Regeni, nell’ultima mail scambiata con la redazione, accettava questa decisione «un po’ a malincuore», e diceva di restare «a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto», perché «è comunque un piacere poter pubblicare sul manifesto».

A gennaio, e durante la sua scomparsa, l’articolo non è stato da noi pubblicato sotto nessuna forma.

La seconda circostanza anomala nella diffida riguardava l’uso dello pseudonimo che noi, secondo l’avvocato Ballerini, non avremmo voluto rispettare. Fatto non veritiero perché, in passato, abbiamo già usato lo strumento dello pseudonimo.

Non è infrequente, infatti, che molti freelance chiedano di non usare il proprio vero nome per evitare problemi con le autorità di sicurezza dei paesi in cui trovano a risiedere e lavorare. Esistono articoli scritti a 4 o 6 mani firmati da un unico nom de plume.

A maggior cautela, fin da giovedì mattina, ben prima della diffida e del caos della giornata, abbiamo rimosso tutti gli articoli di Regeni dal nostro sito, chiedendo di fare altrettanto ai motori di ricerca. Abbiamo cioè fatto il massimo prima, durante e dopo il sequestro per garantire la sicurezza di Giulio Regeni.

Per questo ieri abbiamo deciso di non tenere conto della diffida dell’avvocato Ballerini, rispettando la volontà del ricercatore, che li aveva inviati espressamente al manifesto al fine di vederli pubblicati.

A chi sui social network ci accusa a sproposito di «sciacallaggio» a fini di lucro, possiamo solo ricordare che gli articoli del manifesto si leggono (anche) gratis sul sito e senza pubblicità.

Senza sapere nulla di questi fatti, molti si sono espressi su tale diffida – inoltrata ormai alle agenzie di stampa, all’ordine dei giornalisti, al garante per la privacy -, sollevando un’ondata di telefonate di chiarimento in redazione, come se l’articolo in questione contenesse segreti di stato, accuse politiche o scoop inquietanti.

Si tratta, com’è oggi evidente dopo la sua pubblicazione, della semplice cronaca di un’assemblea di operai e operaie egiziani e dell’interpretazione di Regeni della situazione sociale in quel paese.

Abbiamo rispettato alla lettera e fino all’ultimo le volontà e le capacità professionali e culturali di questo brillante ricercatore, sollevando il velo sul suo vero nome solo dopo la conferma ufficiale del suo omicidio e il riconoscimento del corpo da parte dei genitori.

Se si vuole conoscere «tutta la verità» sulla sua morte, come abbiamo scritto anche nell’editoriale di ieri, bisogna iniziare da se stessi, e sgombrare il campo da eventuali illazioni, fango e sospetti sul suo lavoro.

Averlo messo a disposizione di tutti è stato il primo strumento – l’unico che può avere un giornale – al servizio della verità e della giustizia.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/la-famiglia-regeni-con-il-manifesto-caso-chiuso-le-priorita-sono-altre/

 

 

Tutta la verità

Temeva per la sua incolumità. Questa è la verità che per noi emerge e che vogliamo proporre e testimoniare sulla morte violenta al Cairo di Giulio Regeni, di fronte alle troppe reticenze ufficiose e ufficiali e alle gravi contraddizioni delle prime indagini tra la procura egiziana che conferma torture indicibili e il ministero degli interni del Cairo che le smentisce. E di fronte ad un governo italiano che ora chiede «verità», ma che si ritrova almeno contraddetto dal viaggio d’affari di una delegazione confindustriale guidata dalla ministra Guidi che al Cairo tesseva tranquilli rapporti economici con un regime militare responsabile di un colpo di stato definito dallo scrittore Orhan Pamuk «eguale a quello di Pinochet».

Affermiamo questo perché all’inizio di gennaio, dopo aver ricevuto un suo articolo – che riproponiamo oggi in edicola con la sua firma convinti di adempiere proprio alle sue volontà – sulla ripresa d’iniziativa dei sindacati egiziani, insisteva con noi e a più riprese sulla necessità di firmarlo solo con uno pseudonimo. Capivamo che era molto preoccupato da questa insistenza ripetuta più volte nelle sue mail, tantopiù che già altri suoi articoli erano usciti con pseudonimi ogni volta diversi.

Non siamo abituati come manifesto alle speculazioni sulla vita altrui o ai retroscena complottardi, tantomeno ad abusare stile «asso nella manica» delle persone.

Siamo solo un giornale di frontiera che ha subìto attentati, sequestri come quello di Giuliana Sgrena, uccisioni come per Vittorio Arrigoni.

Ma in queste ore si rincorrono interpretazioni a dir poco incredibili, ufficiali e di alcuni giornali che, accreditando perfino la versione dei servizi segreti egiziani che naturalmente negano ogni responsabilità su un suo possibile fermo o arresto, rivolgendo l’attenzione allora sul fatto criminale puro e semplice, se non addirittura alla tesi dell’incidente automobilistico.

Alcune puntualizzazioni dunque sono necessarie: Giulio Regeni (oltre che essere in contatto con questo giornale e con il nostro lavoro d’informazione sul Medio Oriente come tanti collaboratori), è scomparso non in un giorno di «Vacanze sul Nilo» ma il 25 gennaio, quinto anniversario della rivolta contro Mubarak di piazza Tahrir 2011, in un intenso clima di mobilitazione giovanile, sociale e politico non solo di memoria ma inevitabilmente contro l’attuale regime militare del golpista Al Sisi; mobilitazione contro la quale si è scatenata, come negli anni precedenti, la repressione e le retate della polizia, stavolta con centinaia di arresti preventivi.

Giulio Regeni non era né un violento né un nemico dell’Egitto, al contrario amava quel Paese ed era esperto di lotte sociali, in particolare del sindacato egiziano e, dottorando a Cambridge, di crisi dei modelli economici del Medio Oriente. È deceduto, a quanto sappiamo finora, secondo la procura egiziana dopo violenze inaudite.

Difficile davvero immaginare la malavita cairota accanirsi senza motivo e senza tornaconto su uno straniero qualsiasi; altrettanto incredibile – ma vedrete che arriveremo anche a questo espediente – far passare questa morte come un crimine dell’Isis che, com’è ormai risaputo, ha ben altre modalità teatrali di esecuzione.

Sia chiaro. Noi non sappiamo chi siano davvero stati i suoi assassini e perché abbiano commesso questo crimine. Possiamo solo sospettare e testimoniare.

Ma chiediamo verità, tutta la verità al governo egiziano, al ministro degli esteri Paolo Gentiloni e al presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Lo dobbiamo di fronte al dolore dei genitori e alla giovane vita così martoriata di Giulio Regeni.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/tutta-la-verita/

Reportage

In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti

L’articolo. L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per la libertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba

Proteste in Egitto

Pubblichiamo qui l’articolo inviatoci da Giulio Regeni, e sollecitato via e-mail a metà gennaio, sui sindacati indipendenti in Egitto. Ci aveva chiesto di pubblicarlo con uno pseudonimo così come accaduto altre volte in passato. Dopo la sua scomparsa, rispettando prudenza e opportunità, l’abbiamo tenuto nel cassetto sperando in un esito positivo della vicenda. Dopo il barbaro omicidio al Cairo del ricercatore friuliano abbiamo deciso di offrirlo ai lettori come testimonianza, con il vero nome del suo autore, adesso che quella cautela è stata tragicamente superata dai fatti.

–> Read the English version of this article at il manifesto global

Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.

Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese. L’occasione è una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale Etuf (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.

Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati.

Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria e il Cairo.

La circolare del governo rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere forma in iniziative concrete.

Movimento in crisi

Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertà politiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.

Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013.

Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza.

Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati, e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e decidere insieme il «cosa fare da domani mattina», un appello ripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine.

Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile. La grande assemblea si è poi conclusa con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali.

Conferenze regionali

L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («a Tahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta).

L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.

Nel frattempo, proprio in questi giorni, in diverse regioni del paese, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche.

Nuova ondata di scioperi

Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak.

Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.

Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito al Cairo.

Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan «Pane, Libertà, Giustizia Sociale» non sono riuscite sostanzialmente a intaccare.

L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.

Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra al terrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/in-egitto-la-seconda-vita-dei-sindacati-indipendenti/

 

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